Il
male dentro di noi
Confido
in percorsi possibili di rieducazione per spezzare la catena del male, agendo
sulle biografie del carnefice e della vittima per variare, ancora una volta, il
loro punto di vista. Non vedo altra via se non quella di portare l’uno a
contemplare l’universo dell’altro
di
Adriana Lorenzi, Docente
a contratto presso l’Università degli Studi di Bergamo
di Tecniche di scrittura, conduce
laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri, e non solo
Impossibile
non aderire anche quest’anno al richiamo da sirena del convegno di Ristretti
Orizzonti, perché questo è per me l’appuntamento annuale di maggio al Due
Palazzi di Padova. Un richiamo a essere presente per ascoltare e annotare i
discorsi dei tanti relatori e dei redattori della rivista per ripensarci poi con
calma e trasformarli in attività di scrittura e riflessione nel carcere dove
lavoro a Bergamo.
Quest’anno
la suggestione era ancora più forte a partire dal titolo del convegno Il
male che si nasconde dentro di noi che mi ha evocato immediatamente una
delle mie maestre, delle mie guide, delle amiche di carta che mi accompagnano
con i loro scritti. È Hannah Arendt che ha parlato del male e della sua banalità,
che si annidano nell’incapacità umana di vedere le cose dal punto di vista di
un altro. Il male fiorisce come edera, quando ciascuno si trincera nel suo
piccolo mondo e proietta sulla realtà il suo sguardo come luce di faro che
tanto, troppo, lascia nell’ombra e getta la sua rete di parole stereotipate
che si lascia sfuggire molte verità. In Italia, come ha affermato Riccardo
Iacona il giornalista del programma televisivo Presadiretta, “Sappiamo
tutto e non facciamo niente”. Accade quando ci si sente schiacciati dai
discorsi generali, respinti dal pessimismo dell’ideologia, ciechi e sordi agli
echi delle contingenze perché, come ha detto il criminologo Alfredo Verde “il
livello della riflessione scientifica molto spesso perde la freschezza del
contatto con le emozioni”.
Ogni
relatore del convegno è invitato a usare una modalità narrativa e poco
dottorale, a offrire la sua testimonianza di esperienza vissuta e ripensata per
poter essere utile, efficace nel momento in cui passa dalla dimensione privata e
personale a quella pubblica.
Le
relazioni più coinvolgenti sono state quelle che sono partite con tono
emozionato e sommesso. Le voci più ascoltate in un silenzio rispettoso sono
state quelle, all’inizio, più incerte, quelle che hanno ammesso di non sapere
quale definizione dare al male, ma hanno continuato a cercare le parole per
dirlo con pause e riprese, senza adottare specialismi e toni da comizio. Degli
uni e degli altri sono ormai stanca, poiché ribadiscono quello che si dovrebbe
fare, ma non si fa, l’ottimale che non concede alcuno spazio al possibile,
piuttosto allarga pozzanghere di impotenza di fronte alle quali ci si arrende o
nelle quali si rischia di annegare. Ho ascoltato invece con trepidazione quelle
che potrei chiamare voci di controcanto che non hanno raccontato
attraverso esempi dimostrativi, ma riflettenti che, direbbe la Arendt, indicano
e non generalizzano.
Sono
state le voci dei redattori di Ristretti Orizzonti che aprendo la sezione
dedicata di volta in volta a un tema specifico hanno offerto spesso dubbi più
che certezze, hanno aperto domande senza chiudere con risposte.
Penso
a Dritan che ha parlato del tempo vissuto all’insegna di coraggio, onore e
orgoglio, quelle parole che lo hanno portato ad aderire alle faide e quindi
all’uccisione di un ragazzo prima di ricevere il perdono dal papà della sua
vittima. È stato il perdono ad avviare il suo processo di ripensamento e
cambiamento.
Penso
invece a Marina Valcarenghi che mi ha ipnotizzato con la sua testimonianza e
anche con la sua postura. Gomiti appoggiati sul tavolo dei relatori, mani
abbarbicate al microfono avvicinato alla bocca e occhi grandi puntati su di noi,
il suo pubblico: tutta la sua postura significava che quello che aveva da dire
era davvero cruciale. Una questione di vita e di morte e non c’è stato
margine per la distrazione e il nostro ascolto si è fatto attento oltre che
rispettoso. Si è chiesta da subito cosa diavolo fosse il male. Il male è
sfuggente, perché cambia forma nel tempo e anche nei diversi contesti. È però
circoscrivibile a quei comportamenti considerati intollerabili dentro quel tempo
e quel contesto. Il male è necessario perché c’è e ci dà la misura del
bene. È nel carcere di Opera che Marina ha introdotto la psicoanalisi per le
sezioni protette dove ci sono uomini che incarnano il male, quei ‘mostri’,
così come vengono dipinti dalla peggiore informazione mediatica, che hanno
agito la violenza sui corpi delle donne e dei minori. Lei ha lavorato con loro
per aiutarli a liberarsi dei fantasmi che li abitano e accendono la miccia della
violenza, della furia distruttiva che si abbatte sulle donne e altre persone che
li circondano. Marina ha vissuto la sua esperienza in carcere come un
appuntamento impossibile da rimandare per comprendere la sua vita oltre che
quella degli altri.
Mi
sono sentita molto in sintonia con Marina, attesa anch’io dal carcere perché
la vita mi aveva già fatto incontrare il male e io avevo avuto paura
dell’uomo che lo aveva causato. Ed è stato il carcere a insegnarmi a non
avere paura del male che esiste e si rivela in quegli atti che un essere umano
compie contro un suo simile, ma a vivergli accanto per riconoscere i suoi
agguati e i suoi trabocchetti. È al suo cospetto che si nutre la fiducia in
quel margine di bene che ciascuno può sempre scegliere di far fiorire.
Come
afferma Hannah Arendt “il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e
non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e
devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo.
Esso “sfida” il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la
profondità, di andare alle radici e, nel momento in cui cerca il male, è
frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è
profondo e può essere radicale”.
Concentrarsi
sul bene che si può coltivare, come si coltiva un giardino, un orto, ma anche
come si cura una casa e gli spazi che abitiamo, aiuta forse a non concentrarsi
sull’ardua impresa, il poco margine di recupero di uomini violenti, così come
ha sottolineato la regista Francesca Archibugi, autrice di un film/documentario Giulia
ha picchiato Filippo. Ho apprezzato Adolfo Ceretti che ha puntato piuttosto
sulle cesure da provocare dentro le narrazioni degli uomini violenti, dentro i
loro pentimenti manipolatori. Come lui, anche io, confido in percorsi possibili
di rieducazione per spezzare la catena del male, agendo sulle biografie del
carnefice e della vittima per variare, ancora una volta, il loro punto di vista.
Non vedo altra via se non quella di portare l’uno a contemplare l’universo
dell’altro.
Il
male esiste, è ontologico, come ha detto lo psicologo Marco Grimoldi, viene
fatto dagli uomini e se nessuno può disfare le azioni compiute – restano le
lapidi a ricordare i nomi delle vittime, resta il dolore dei familiari che
diventano a loro volta nuove vittime del male che perdura – può però essere
introdotta un’ortopedia morale per dirla con Foucault citato sempre da
Grimoldi. Si tratta di una sorta di riparazione, di ‘aggiustamento’ di
valori e prospettive degli uomini non in punizione, ma impegnati in un processo
di rieducazione.
È
sempre la Arendt a scrivere: “Condannare e perdonare sono in realtà due
aspetti della stessa cosa che rappresentano, però, principi opposti. La maestà
della legge esige che tutti siamo uguali dinanzi ad essa, quanto a dire che
conta l’azione, e non la persona che l’ha commessa. L’atto di grazia, al
contrario, valuta la persona: c’è condono per l’assassino o il rapinatore,
ma non per l’assassinio o la rapina. Chi ha commesso il fatto, ma non il fatto
in sé, può sperare nella grazia: per questo si pensa generalmente che solo
l’amore abbia il potere di perdonare. Comunque sia, noi perdoniamo la persona,
mentre la giustizia esige che tutti siamo uguali davanti alla legge, la grazia,
invece, si basa sull’ineguaglianza degli uomini, e ciò fa sì che ogni uomo
conti più delle sue azioni”.
A
Padova si vede quanto contino più gli uomini delle loro azioni e quanto ogni
detenuto non sia soltanto ‘un reato che cammina’, ma un uomo che ha lavorato
per far funzionare la complicata “macchina” di un convegno aperto a tanti
ospiti.
Quest’anno
io avevo accanto a me un punto di vista completamente diverso, quello della
figlia di Dritan ed è stato sicuramente un privilegio assistere al convegno
accompagnata dal suo sguardo. Da anni conosco Dritan e sono stati i suoi scritti
prodotti durante il mio laboratorio di scrittura a Padova che mi hanno permesso
di conoscere non solo lui, ma la figlia della quale non ha mai smesso di
raccontare. La ferita più dolente quella di non averla potuta crescere.
L’orgoglio più grande quello di presentarmela in occasione del convegno.
Stavo
seduta nella mia solita sedia in prima fila per non perdere nulla sul piano
della vista e dell’udito dei diversi interventi e Dritan si è diretto verso
di me e mi ha ‘ordinato’ – è il verbo più corretto per dire del suo tono
– di tenere un posto per sua figlia che stava arrivando. Tenendole il braccio
attorno alle spalle l’ha accompagnata da me per presentarmela e mostrarle il
suo posto. Quello e non un altro, anche lei davanti a tutti gli altri perché
sentisse bene, perché sapesse del lavoro suo e di tutta la redazione di
Ristretti. Forse perché fosse fiera di lui in quella situazione così diversa
dal tempo e dallo spazio dei colloqui.
Suela
si è accomodata dopo avermi salutato con una stretta di mano timida e avermi
allungato un cioccolatino. Mi ha intenerito il gesto, la sua giovinezza e il suo
sorriso lieto e imbarazzato a un tempo. Non aveva un foglio e neppure una penna,
così Dritan mi ha pregato di dargliene una, mentre lui recuperava il foglio.
Era preoccupato che lei seguisse con attenzione e, come gli anni di redazione
gli hanno insegnato, non si può stare attenti senza prendere appunti, senza
afferrare delle parole al volo e trattenerle sul foglio bianco affinché
inneschino nuovi ragionamenti e altre suggestioni. A un certo punto si è
accorto di quanto Suela patisse il freddo della palestra e così le ha fatto
arrivare da un compagno il suo giubbino, affinché lei smettesse di rabbrividire.
Piccoli gesti di cura possibili anche in galera, nonostante la galera.
Suela
si è commossa quando il padre nel suo intervento l’ha citata e ha dichiarato
la felicità di averla finalmente lì ad ascoltarlo mentre parlava della sua
esperienza, della sua trasformazione. Suela è arrossita quando lui ha
comunicato a tutti di essere orgoglioso della sua bellezza e di quello che lei
era diventata, crescendo nonostante la sua assenza.
Sono
i figli e le figlie come Suela che aspettano con speranza a diventare
l’ancoraggio ai tanti ‘mai più’ pronunciati dai loro genitori in
detenzione. Quando ci si sente aspettati da qualcuno, è più facile muoversi
verso qualcosa di diverso. Una vita altra rispetto a quella già vissuta.
Infine
è toccato a Suela parlare al pubblico di cosa ha significato, nella sua vita di
bambina, adolescente e ora giovane donna, avere un padre in carcere. Come
Ornella Favero si è sempre posta alle spalle dei redattori chiamati a parlare
dal microfono per incoraggiarli e sostenerli, così Dritan è stato accanto alla
figlia che non parlava al pubblico ma a lui, a Ornella, a Silvia Giralucci, alle
persone al tavolo dei relatori che hanno lavorato negli anni per non farla
sentire sola e diversa perché marchiata quale figlia di un omicida, di un
detenuto.
È
riuscita a raccontare il bisogno di nascondere alle compagne di scuola, alla sua
migliore amica la vergogna di avere un padre in galera con delle bugie... mio
padre è via per lavoro… finché non è riuscita a raccontare la verità al
suo ragazzo e si è sentita meglio, più leggera e il rapporto con il suo
ragazzo si è fatto più autentico.
Si
può avere paura di raccontare. Si può anche non avere alcuna forza di farlo.
Eppure non smetto di credere che le parole – smozzicate, incerte, balbuzienti
– siano il nostro antidoto alla vergogna, al rancore, al senso di impotenza,
all’approssimazione, all’ingiustizia avvertita nei confronti della vita, del
destino che ci è toccato in sorte.
Ogni
volta che esco dal convegno di Ristretti Orizzonti mi accorgo che nella mia
mente rimbalzano i tanti discorsi ascoltati e, mentre guido, penso a nuovi
progetti, catalogo mentalmente i libri citati e che devo assolutamente leggere.
Allora mi ritrovo sempre a pensare che in gioco non c’è solo l’informazione
sul carcere dal carcere, neppure soltanto i detenuti, ma la vita tutta che
chiede di essere compresa, che implora di essere vissuta pensando e capendo. Non
si può finire così come si è cominciato: inconsapevoli di sé e del mondo
circostante.
Questa
volta, però, mi sono portata via anche il sorriso di Suela e quello di suo
padre e l’immagine di lui che la tiene sulle ginocchia nonostante non sia più
una bambina.
Il
carcere ferma sempre il tempo quando non arriva purtroppo a spezzarlo, eppure
almeno in qualche caso le stagioni da vivere possono essere un po’ recuperate
e rilanciate in nuove forme di relazione.
La
forza di un confronto fatto all’interno di un carcere
Un’opportunità
straordinaria di pensare, riflettere,esaminare con scrupolosa attenzione la
propria vita
di
Lorenzo Sciacca,
Ristretti Orizzonti
Oggi,
nella redazione di Ristretti Orizzonti, ho avuto il mio primo incontro con le
scuole.
È
un’opportunità straordinaria confrontarsi con ragazzi che, con la loro
curiosità, ti pongono domande che ti fanno riflettere sul tuo passato. Anche
sentire i passati e le motivazioni che ci sono dietro ad un reato dei miei
compagni è motivo di riflessione. Anche io sono un detenuto, ma raramente mi
sono soffermato a riflettere del perché abbia commesso dei reati, mi sono
sempre giustificato dando colpe alle istituzioni, dicevo che ero frutto di un
sistema marcio. Esclusivamente alibi! Ho 37 anni, ho un passato di carcere pari
a 16 anni, ho una condanna di 30. Le procure dei vari tribunali, che mi hanno
giudicato, mi ritengono un rapinatore seriale. Lo sono? Forse si. Considerato
che dei miei reati ho fatto uno stile di vita, era come professare una mia
religione, un mio culto, sempre con la solita fedeltà che un seguace ha.
Una
professoressa delle scuole oggi ha fatto una domanda: “Qualcuno ha mai avuto
l’opportunità di incontrare le vittime dei reati”?. Sono contento che ha
risposto una persona dentro per il mio stesso reato. Questo perché ho sempre
pensato di essere un rapinatore, il quale aveva la convinzione che l’unico
danno lo aveva recato alle assicurazioni delle banche, dunque vittime non ne
avevo.
In
realtà, con un semplice concetto espresso da questa persona in risposta alla
domanda, quindi grazie a un confronto, sono arrivato a concepire una realtà
diversa. Questo mio compagno ricordava che, durante un incontro con le scuole,
una professoressa aveva raccontato di essere stata presa in ostaggio durante una
rapina in banca. Ascoltando questo episodio ho capito anch’io il disagio che
questa signora aveva subito, e ho rivisto nei miei ricordi tutte quelle persone
che per un motivo o per l’altro ho minacciato, anche se devo dire che le
minacce in sé erano finalizzate esclusivamente alla rapina in banca, ma
logicamente le persone che ricevevano tali minacce sicuramente non sapevano che
era per una motivazione diversa. Dunque il terrore si poteva leggerglielo
negli occhi. Non ricordo neanche quanti ostaggi io abbia preso in tutte le
rapine che ho fatto, credetemi sono tante perché mi davano una sicurezza in più
per la fuga, oppure mi viene da pensare a quante volte ho trovato una madre
con i propri figli.
Ecco
che trovo le mie vittime. Onestamente mi devo ancora abituare a questo pensiero,
ma devo farlo mio perché è la verità. Non voglio essere ipocrita dicendo che
oggi mi dispiaccia per queste vittime, ancora non ho raggiunto questa
maturazione, però mi accorgo che sto acquisendo, dentro un confronto, elementi
nuovi su cui riflettere in questi miei futuri anni di detenzione.
Questa
è un’opportunità straordinaria, pensare, riflettere, esaminare con
scrupolosa attenzione il proprio vissuto, e dentro esso trarre delle
conclusioni sulle proprie azioni.
Io
ho fatto del male e non ho ancora potuto fare nulla per rimediare
Brutta
sensazione quella di avere bisogno di chiedere scusa a qualcuno e non poterlo
mai incontrare
di
Erion Celaj,
Ristretti Orizzonti
Ho
quasi trent’anni e sono stato da sempre un grande sognatore, sognare si dice
non costa nulla eppure nel caso mio i sogni sono costati svariati anni di
carcere. Essendo figlio unico maschio, da adolescente pensavo che tutto mi fosse
dovuto perché i miei genitori assecondavano ogni tipo di pretesa che esprimevo.
Appena
finii la terza media, il premio fu uno scooter nuovo: mi dava un senso di
appagamento infinito, avere un mezzo così a quattordici anni mi faceva sentire
superiore ai ragazzini della mia età, e forse era proprio da quei segnali
insignificanti di allora che incominciava a crescere l’uomo errante che
diventai negli anni avvenire. Il senso di superiorità di allora mi ha fatto
commettere atti sconsiderati, che con l’andare del tempo si sono trasformati
nella privazione della mia libertà.
Quel
tornare tardi la sera, quel non stare alle regole di una famiglia normale mi
hanno fatto allontanare da casa, tutto è avvenuto in modo naturale per me e
drammatico per i miei genitori: io mosso dai miei sogni volevo andare oltre, i
miei genitori scossi dalle mie scelte non chiudevano occhio la notte. Cosi mi
ritrovai libero e spensierato a vagare con i miei sogni, in partenza vedevo solo
il colore del denaro, delle macchine e della bella vita, ma durante il viaggio
ho conosciuto anche la cocaina. Desideravo queste cose, ma come le avrei
realizzate non lo sapevo, avevo solo la fame dentro, brutta bestia la fame
quando ti colpisce e per sentirla non è necessario essere poveri
economicamente. Io provengo da una famiglia che non mi ha fatto mancare niente
nei limiti delle loro possibilità, ma la mia fame di allora era la fame
dell’anima, nulla mi soddisfaceva. Forse proprio il mio carattere ha provocato
certe scelte, poi i primi soldi sono arrivati, erano frutto di affari illeciti
ma dopo neanche due giorni già erano finiti e io mi sentivo un idiota, mi ero
sporcato le mani e tutto per pochi euro. Avevo deluso le mie stesse aspettative,
e allora ecco che quel lato oscuro che si nasconde dentro ogni uomo ha preso il
sopravvento in me, e mi ripromisi di “andare oltre”, il “di più, sempre
di più” era ciò che volevo sin dall’inizio.
I
primi tempi furono accettabili per le mie aspettative, ma si era introdotta una
novità nella mia vita: avevo conosciuto i night club, i locali di lapdance ed
ogni tipo di locale notturno, avevo appena 18, 19 anni e mi piaceva vivere cosi,
ma il culmine lo raggiunsi quando conobbi la cocaina. Una sera in uno di quei
locali notturni, mentre ero preso dall’euforia dell’alcool, spuntò fuori la
coca, ricordo come se fosse oggi cosa pensai, “io ti posso dominare” , e
sniffai come un dannato quella notte. A quelle notti ne seguirono altre, i sogni
del ragazzino che ero stato divennero realtà, con una premessa però, la testa
non la voltavo mai indietro per osservare ciò che provocavo agli altri e a
quelli che mi amavano.
I
sogni si interruppero al mio primo arresto, la prima notte in carcere pensavo
che fosse normale e che sarei uscito ancora più forte da quell’esperienza, ci
rimasi poco in carcere la prima volta, quando uscii nulla cambiò, da una parte
io e dall’altra loro, parenti e genitori che mi sembrava fossero marziani con
le loro tiritere e i loro consigli. Ho continuato a sbagliare ancora, se ci
fosse un manuale sugli errori dell’uomo penso di averli commessi quasi tutti
per seguire i sogni di allora. Oggi sono rimasto ancora un sognatore, ma un
sognatore strano, sogno di riavere tutto ciò che avevo quando partii da casa
dei miei genitori, sogno di poter stare vicino a mia madre e mio padre, sogno di
svegliarmi una mattina e poter fare la cosa più semplice al mondo, prendere un
caffè al bar, sogno quella normalità che tanto ripudiavo durante la mia
crescita, e la cosa che sogno ancora di più è avere indietro i migliori anni
della mia vita, perché dai 18 di ieri fino ai quasi trenta di oggi la maggior
parte l’ho trascorsa in carcere. Vorrei non aver fatto azioni che hanno fatto
del male agli altri e a me, vorrei non aver mai conosciuto la cocaina, oggi ci
penso e mi dà i brividi, la cocaina è un male straziante, ti distrugge
lentamente mentre tu senti di essere più lucido che mai.
Proprio
non mi do pace come possa aver io fatto uso di cocaina, la mia famiglia, mio
padre e mia madre, dovevano lavorare otto ore al giorno per poter portare cento
euro a casa e io ne spendevo il doppio o il triplo al giorno per un vizio
malato, anzi, non li spendevo io ma ancor peggio la vendevo ai figli degli
altri, di famiglie che quei soldi li avevano sudati, ma anche se li avessero
ereditati non cambiava niente, nulla ti da il diritto di ingorgare le vene di un
figlio altrui.
Il
tempo sta trascorrendo e sperò che i sogni di oggi mi accompagnino nel mondo
libero, indietro non posso più tornare, assieme ai miei sogni un pensiero mi
assale di frequente: io ho fatto del male ad altri e durante questi anni non ho
potuto fare nulla per rimediare, brutta sensazione quella di avere bisogno di
chiedere scusa a qualcuno e non poterlo mai incontrare. Le istituzioni si
fermano sempre al primo passo, condannano e diventi un numero di matricola, non
danno un volto a chi sbaglia e neanche a chi è vittima, entrambi si rimane
nell’anonimato, non c’è bisogno di essere Freud per capire che i contatti
umani ti migliorano e che una comunicazione semplice e sincera potrebbe far
capire cose che da solo ci metteresti una vita a cogliere.
Chi
sbaglia sente spesso il bisogno di dare qualcosa, forse perché il carcere ti
rende rozzo esteriormente e però anche sensibile interiormente, e quella
sensibilità ha la necessità di appigliarsi da qualche parte per non farci
sentire delinquenti per il resto dei propri giorni.
Noi
abbiamo fatto del male a voi nell’insieme (voi sotto forma di una grande
famiglia che si chiama società), dunque le sorti del nostro reinserimento
dipendono anche dalla società, perché quando sarà finito il lavoro delle
istituzioni e noi ritorneremo liberi, starà a voi se noterete solo l’aspetto
esteriore, o anche quella sensibilità interiore che ci impone di ridarvi
qualcosa indietro con delle buone azioni.
Emigrazione,
illegalità: a volte sono le uniche strade per moltissimi giovani
Succede
in tanti Paesi del mondo, ma anche nell’Italia del Sud, che i ragazzi passino
dalla strada, ai reati, al carcere
Ci
sono regioni del nostro Paese dove è meno facile vivere rispettando la legge,
o perché la criminalità organizzata è forte, le istituzioni sono deboli e
il senso della legalità basso, o perché trovare lavoro è complicato, e per
farlo bisogna andarsene. La realtà è che i sogni dei ragazzi sono ovunque
gli stessi, solo che per realizzarli la strada finisce troppo spesso per essere
quella dell’emigrazione, e a volte anche quella dell’illegalità. E così
il carcere è pieno di persone che arrivano da Paesi stranieri, ma anche dal
nostro Meridione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, solo che noi ci dimentichiamo
facilmente di essere stati un Paese di forte emigrazione, verso Paesi
stranieri o al nostro interno, dal Sud al Nord. Ce lo ricordano però le
carceri, e le persone che le abitano, attraverso le loro testimonianze.
di
Luca R.
Volevo
fare tutto e AVERE TUTTO SUBITO
Sono
Luca e mi trovo ristretto presso la Casa di reclusione di Padova.
Sono
un ragazzo di Catania e già dirvi questo dovrebbe mettervi di fronte a una
realtà molto diversa da quella che può essere il nord.
La
mia famiglia rispecchia la classica famiglia lavoratrice del sud, cioè
lavoratori sottopagati, dunque si sopravviveva con mio padre in giro per il nord
facendo il muratore, invece mia madre arrangiava le giornate facendo la
casalinga. Io davo il mio contributo lavorando in un forno a pietra di notte.
Diciamo che la mia età non corrispondeva a quella dell’anagrafe, avevo
delle responsabilità a cui far fronte e forse proprio quel peso, che un bambino
non dovrebbe mai avere, è stato uno dei motivi di una scelta di vita.
Era
una notte come le altre, calde, molto calde data l’elevata temperatura del
forno, non ero da solo a lavorare, con me c’era un uomo adulto, un padre di
famiglia. Quella notte, il nostro principale ebbe l’idea di lasciare a casa
questo padre per sfruttare la mia bravura nel lavoro e, ovviamente, guadagnarci
sotto l’aspetto economico. Ho sempre odiato le ingiustizie e quella lo era,
così decisi di licenziarmi. Non pensai che anch’io avevo delle
responsabilità nei confronti della mia famiglia, comunque io ero giovane e poi
tutto sommato questo lavoro non mi piaceva più di tanto.
Avendo
le giornate completamente libere, mi avvicinai di più a una compagnia del mio
quartiere, che già conoscevo ma per l’impegno del lavoro non riuscivo a
frequentare. Non potevo avere quello che avevano gli altri ragazzini, perché
non potevo permettermelo, così la decisione fu presa in gran fretta: cosa
c’era di meglio di una rapina in una banca che poteva consegnarti soldi veloci
e soprattutto in contanti? Ancora prima di farla, mi ricordo che già
programmavo cosa mi sarei comprato con i soldi rubati, il motorino era una
priorità necessaria, ti permetteva di essere autonomo, di avere le ragazzine
vicino e di andare a ballare anche fuori città. Quello volevo. Essere libero.
Ma
ecco che tutti questi bei progetti e sogni in un attimo si tramutarono in
incubi. Il carcere minorile. Prima di essere portato al carcere passai tre
giorni al Centro di prima Accoglienza. Accoglienza è una parola che dà un
senso piacevole, a me per esempio fa pensare a delle braccia aperte. Appena mi
interrogarono mi convalidarono l’arresto e fui portato al carcere. Ero
spaventato ma cercavo di non mostrarlo, e quando mi accorsi di avere attorno
ragazzi che conoscevo, essendo del mio quartiere, mi tranquillizzai. Eravamo
molto uniti e, pur essendo seguiti da educatori e assistenti sociali, il nostro
pensiero era di essere dei duri, dunque questo significa anche di dimostrare di
esserlo.
Mio
padre non la prese per niente bene, mi veniva a trovare ogni 3/4 mesi ma per
lettera era sempre vicino. Come al solito mia madre era presente e puntuale, una
volta si presentò con 40 di febbre, lì capii la sofferenza che stavo recando
alla persona più importante che ho nella mia vita.
Il
più delle volte ero nelle celle di isolamento, per via dei casini che
combinavo. Dopo due anni uscii, non per aver finito la mia condanna, ma per
scadenza. Uscii con gli arresti domiciliari, per cinque mesi dovetti stare
chiuso in casa. Al termine ricominciò la mia vita da ragazzo libero. Gli anni
passavano senza che ne fossi consapevole. Il pensiero del divertimento, delle
ragazze ma soprattutto dei soldi non era passato, continuava a farmi crescere
con la convinzione che potevo fare tutto e avere tutto subito. Così cascai
ancora nello stesso errore.
Il
problema è che non ti fanno capire la realtà vera qual è, non ti aiutano a
trovare la motivazione giusta per capire gli errori che hai commesso. Non c’è
una prevenzione vera.
Ho
tanti rimpianti e questo è uno su tutti, l’aver perso quel calore della mia
famiglia. Non aver vissuto a pieno quella che credo sia l’età più bella e più
importante per un adolescente.
Ero
un ragazzo giovane in mezzo alla “crema della crema” della malavita
di
Paolo Cambedda
Mi
chiamo Paolo, sono nato in Sardegna in un paese alle pendici del Gennargentu.
Sono figlio di un pastore e io stesso ho fatto il pastore in un ambiente
patriarcale. Vengo da una famiglia abbastanza povera, ma nonostante la povertà
non ci è mai mancato l’indispensabile per vivere. Devo premettere che in quei
luoghi di pastori, banditi e gente onesta ma duri come le pietre di quel monte,
per poter reperire l’indispensabile si doveva andare con il coltello in mezzo
ai denti. Un luogo dove l’infanzia non esiste, dove devi fare alla svelta a
diventare un ometto, portandoti sulle spalle il peso di una vita che un bambino
stenta a reggere.
All’età
di tredici anni, vedendo quanti sacrifici doveva fare la mia famiglia, è venuta
fuori in me una forma di ribellione, così ho deciso di cercare un altro lavoro,
panettiere, manovale, e altri piccoli lavoretti. Ma tutto questo non mi portava
a raggiungere quel traguardo che mi ero imposto.
Quando
ho compiuto i diciassette anni, ho deciso di emigrare in una grande metropoli,
un po’ per caso sono approdato a Milano dove c’era un mio fratello che
faceva l’infermiere presso l’ospizio per anziani. Li sono stato assunto
anche io. Oltre a lavorare studiavo come ausiliare generico d’infermeria,
tutto sembrava andare bene, fino a quando i debiti, per poter pagare la
pensione dove dormivo e mangiavo, mi hanno sommerso.
Il
proprietario della pensione era proprio del mio paese. L’orgoglio e la
vergogna di non poter far fronte alle spese mi hanno fatto cadere in una crisi.
Da lì iniziò il mio deragliamento, cosi decisi, invece di avere l’umiltà di
chiedere aiuto, che con l’ultimo stipendio mi sarei comprato un’arma. E ben
presto mi sono aggregato ad una compagnia di ragazzi che vivevano alla “bene e
meglio”, accordandoci di fare qualche piccola rapina. Rapina perché durante
la mia infanzia avevo fatto pratica con le armi, poiché nel mio paese quasi
ogni famiglia possedeva un’arma, anche se illegalmente. Cosi facendo tutto mi
sembrava facile, sino al punto di farmi perdere il lume della ragione.
La
realtà che vivevo mi dava euforia, i soldi facili mi permettevano di avere cose
che non avrei mai pensato di poter avere, portandomi a spostare i limiti sempre
più oltre.
Poi
il mio primo arresto per una rapina in banca. In carcere, nella sezione dove
mi avevano collocato, c’era “la crema della crema” della malavita, e con
il contributo dei giornali, che descrivevano le mie gesta in modo esagerato, mi
sono montato la testa. E quando uscii, dallo sprovveduto che ero quando sono
entrato, mi ritrovai a essere un vero e proprio rapinatore, quasi senza neanche
saperlo.
Da
li, ho cominciato ad alzare il tiro, fino al punto di usare armi sempre più
potenti, finché in un conflitto a fuoco con dei portavalori ho avuto la peggio,
rimanendo ferito, ed uno dei miei compagni è stato ucciso. A seguito di ciò,
facendomi curare clandestinamente ho riportato anche delle complicazioni fisiche
che mi hanno segnato per sempre.
Ed
è cosi che stupidamente ho buttato via la mia vita, perdendo gli affetti più
cari e persino la mia salute.