Capitolo
settimo: Il cambiamento drammatico del sé
Il
cambiamento drammatico del sé
di
Adolfo
Ceretti
“Nel
corso dell’esistenza di ognuno di noi, il nostro Sé può essere messo in
discussione, riorientato e fatto slittare “drammaticamente” verso una
nuova conformazione/organizzazione valoriale e simbolica. Detto altrimenti, con
l’espressione “cambiamento drammatico di sé” indichiamo quei mutamenti
del Sé assai simili ai processi che accadono nel corso di una “conversione”
ma che, a differenza dei primi, sono drastici e improvvisi e non implicano una
“istituzionalizzazione” del processo di trasformazione. In questi
frangenti di crisi, la consapevolezza della nostra comunicazione interna tende a
farsi particolarmente acuta come quando, in una situazione problematica,
parliamo con noi stessi per valutare le diverse vie d’uscita. Ma ora si
tratta degli snodi decisivi, i più dolorosi e “privati”, delle esperienze
biografiche. Rei e vittime, talvolta, incontrano queste trasformazioni
profonde”
Il
possibile “cambiamento drammatico di sé” dei “cattivi per sempre”
di
Ornella Favero
Il
capitolo dedicato al “cambiamento drammatico di sé” inizia con una persona
che è da poco tempo nella nostra Redazione, ma che purtroppo ha una storia
carceraria pesante: Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo.
Quando è venuto nella nostra Redazione, era il primo di una sezione di Alta
Sicurezza ammesso a farne parte, e non è stato facile, per lui e per noi. Perché
noi siamo continuamente abituati a questo confronto serrato soprattutto con i
ragazzi delle scuole, quindi le persone si mettono in discussione, sono attente
alle parole, imparano a pensare che è più importante l’ALTRO, lo studente
che incontri, del proprio star male, è più importante quel ragazzo che hanno
davanti. Allora con Carmelo abbiamo cominciato a dire che la sua storia è una
storia particolarmente difficile, ma ragionare sull’ergastolo ostativo con i
ragazzi delle scuole, far capire che comunque stiamo parlando di persone, non
“reati che camminano”, è stata una tappa importante del nostro progetto,
in cui abbiamo cercato di “umanizzare” anche i “cattivi per sempre”,
quelli che invece noi pensiamo che possano essere protagonisti di quel
“cambiamento drammatico di sé”, di cui vogliamo parlare in questo capitolo
della nostra narrazione. Quando Carmelo Musumeci ha discusso la sua tesi di
laurea, il suo timore più grande era che sua figlia lo rimproverasse perché
sbaglia i congiuntivi: ecco, mi ha fatto sorridere questo particolare, ma mi ha
fatto anche capire che in questa esperienza di racconto di sé devono venire
fuori queste piccole cose, devono venire fuori le persone con tutta la loro
umanità. Questa credo che sia la nostra grande battaglia.
Che
cosa se ne fa la società della mia sofferenza e di quella di tanti ergastolani?
Serve
una pena che abbia un senso, io per la prima volta davanti ai ragazzi delle
scuole, di fronte alle loro domande, mi sono sentito colpevole, cosa che non mi
è mai capitata in venti anni di carcere
di
Carmelo Musumeci,
Ristretti Orizzonti
Ho
un po’ di mal di mare perché non sono abituato a vedere tutta questa gente e
poi soprattutto è qui che mi sta ascoltando mia figlia, non è facile è la
prima volta che succede, perché l’ho lasciata che aveva otto anni, adesso ne
ha trenta. Sono veramente emozionato, perché vivo da 23 anni in queste sezioni
ghetto, l’Alta Sicurezza da quasi sedici anni, e prima sono stato sottoposto a
un periodo molto lungo di regime di 41bis.
In
queste sezioni si forma veramente una sottocultura, nel senso che si parla
sempre delle solite cose, non ci si accorge che il mondo è andato avanti, si
rimane fermi. Sono sezioni in cui l’età media è tra i 50 e i 60 e siamo
quasi tutti ergastolani, “Uomini Ombra”, come ci chiamiamo fra di noi,
quindi non si parla mai del futuro, non si parla mai di speranza, perché è
inutile parlarne, non ne abbiamo, abbiamo anche smesso di sognare perché ci fa
più male.
Quando
sono arrivato a Padova Ornella ha avuto il coraggio di chiedere di farmi
scendere, in via sperimentale, nella redazione di Ristretti Orizzonti. Non
nascondo che i primi tempi per me sono stati difficili, durissimi, mi veniva
voglia di scappare per rifugiarmi nel sicuro della mia cella lontano da tutti.
Nella
redazione c’è questo progetto collettivo con le scuole che è
importantissimo. I primi tempi avevo proprio paura, per la prima volta davanti a
quei ragazzi, di fronte alle loro domande, mi sono sentito colpevole, cosa che
non mi è mai capitata in venti anni di carcere. In pochi mesi, dentro di me,
c’è stata una vera e propria rivoluzione, perché sei disarmato davanti alle
domande dei ragazzi, davanti ai loro occhi, davanti ai loro visi, loro fanno
delle domande che veramente dentro di te fanno scattare dei meccanismi che non
mi era mai accaduto di vivere. Allora io, con un po’ di ironia, ho detto ad
Ornella: Attenzione qui abbiamo trovato la maniera per sconfiggere la criminalità
organizzata. Se li portiamo davanti a questi ragazzi, io penso che veramente si
raggiungano degli obiettivi importanti.
Io
in questi pochi mesi ho fatto un salto di qualità, una vera e propria
rivoluzione interiore e credo che questo esperimento andrebbe esportato nelle
altre carceri, perché così si possono educare le persone proprio dentro la
società, perché non corrano il rischio di diventare asociali. Certo un
progetto del genere è molto faticoso per gli stessi interessati, perché è
doloroso cambiare in meglio e poi avere il fine pena mai, quindi incredibilmente
hai un miglioramento però la sofferenza aumenta, io mi sentivo più sicuro
prima, adesso ho perso un po’ la mia identità, la mia identità da cattivo.
Perché il carcere, un certo tipo di carcere, come l’hanno descritto, io lo
dico spesso, è il posto più illegale di altri, dove al male si aggiunge altro
male. Invece con un percorso, come sta accadendo a me in redazione, si possono
ottenere risultati incredibili.
Colgo
l’occasione per parlare dell’ergastolo ostativo, perché non si può educare
una persona senza dirgli il suo fine pena, senza dargli la possibilità di avere
un calendario in cella per segnare i giorni che passano. Io lo dico spesso in
redazione, che è molto più umana la pena di morte, perché in questo modo è
una “morte al rallentatore”. A che serve migliorarsi, crescere anche
interiormente, senza poi avere la possibilità di uscire, soprattutto, a che
serve alla società murare viva una persona invece di farle scontare una pena in
modo utile? Io preferirei scopare le strade di una città, andare in un Pronto
Soccorso, assistere gli anziani. Dopo 23 anni di carcere credo che sarebbe ora
che io andassi fuori a scontare veramente la mia pena in modo utile per la
società. Che cosa se ne fa la società della mia sofferenza e di quella di
tanti altri ergastolani? Voglio ricordare, soprattutto, i giovani ergastolani
che sono entrati in carcere a 18/19 anni e hanno passato una parte più lunga
della loro vita dentro che fuori. Che ne facciamo di queste persone? Qualcosa
bisogna fare se veramente si vuole applicare la funzione rieducativa della pena.
A me, da questo punto di vista, questi confronti con i ragazzi mi hanno fatto
molto bene.
Se
invece un uomo viene trattato in maniera disumana, rinchiuso senza speranza,
finisce per credersi innocente, diventa innocente a tutti gli effetti. È
disumano non capire che, dopo tanti anni di carcere, una persona è cambiata.
Quando cambi ti chiedi perché devi continuare a scontare la pena in questa
maniera, perché?
Voglio
concludere questo intervento dicendo che, per molti di noi, la pena migliore,
forse più dolorosa, è il perdono. È importante questo perché fin quando ci
tenete dentro, mi rivolgo alla società, alla politica, noi non ci sentiamo
colpevoli, io mi sentirei più colpevole se qualcuno mi perdonasse del male che
io ho fatto, vorrei rimediare a questo male facendo del bene, ma la vorrei io e
molti ergastolani questa possibilità.
Un’ultima
cosa voglio aggiungere: ci sono sezioni sotto il regime di 41bis dove i detenuti
non possono abbracciare neppure la propria madre o la propria figlia, io ho
avuto l’esperienza con mia figlia, quando facevamo il colloquio davanti a un
vetro divisorio, lei piangeva perché non potevo abbracciarla, non potevo darle
una carezza. Ecco io credo che non si rieduca così una persona, posso capire
quando c’è una emergenza come è accaduto nella strage di Falcone e
Borsellino, però adesso sono passati vent’anni e non c’è più questa
emergenza, non c’è più questa necessità perché così si diseducano anche i
nostri figli. Io ho visto come i nostri figli, con i loro genitori sottoposti al
regime del 41bis, anche loro cominciano ad odiare lo stato, questo c’è da
dirlo.
Ecco
perché la legalità, prima di pretenderla, bisogna darla, lo Stato deve
iniziare a darla e poi forse può pretenderla.
Persone
che compiono gesti violenti,e hanno un’immagine di sé violenta
Con
chi dialogavano mentre commettevano i loro reati violenti? ed è possibile per
loro cambiare la propria immagine, modificare delle parti di sé?
di
Adolfo Ceretti
La
proposta è di chiudere questa giornata con una domanda: “Nel corso
dell’esistenza di ognuno di noi, il nostro sé può essere messo in
discussione?”. È possibile che a un certo punto della nostra vita noi
riusciamo a metterci in discussione, a riorientarci, facendo slittare “in modo
drammatico” noi stessi verso una nuova configurazione valoriale e simbolica?
Va da sé che ora, qui, stiamo parlando di persone che hanno commesso gesti
violenti, che hanno un’immagine di sé violenta e che iniziano un percorso di
trasformazione. È possibile, dunque, per costoro, cambiare la loro immagine,
modificare delle parti di sé?
Nel
libro Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali (2009), io e
Lorenzo Natali abbiamo posto la questione in termini scientifici. Oggi
cercheremo di restituirla in modo un po’ più fruibile. Come molti sanno,
abbiamo lavorato su un materiale narrativo raccolto attraverso lunghe interviste
in profondità raccolte nel carcere di Opera. Gli intervistati erano soggetti
che avevano commesso omicidi e violenze sessuali. Nel corso delle nostre
interviste abbiamo cercato di mettere i nostri interlocutori nella condizione di
aprire un flusso narrativo, di porli il più possibile in contatto con quei mille
sé di cui parlava Alfredo Verde, e di raccontarci che cosa si dicevano, che
cosa pensavano, e con chi dialogavano mentre commettevano i loro reati violenti.
Queste
parole sono molto familiari per chi ha partecipato alle riunioni della redazione
di Ristretti Orizzonti, perché ci abbiamo lavorato sopra parecchio.
Una
delle questioni che nel libro mettiamo maggiormente in evidenza è il
ridimensionamento di un mito che, nella seconda parte del secolo scorso, ha
occupato una posizione di privilegio nel pensiero criminologico, cioè a dire il
mito psicopatologico. In breve, stiamo parlando della convinzione, assai
diffusa, che i reati violenti siano commessi, nella maggior parte dei casi, da
persone affette da disturbi psichiatrici. Nella logica comune infatti, è molto
rassicurante pensare che una persona cosiddetta normale non possa
commettere certi delitti, che per gravità e per mancanza di provocazioni appaiono
assolutamente irrazionali, insensati, gratuiti e incomprensibili. Invece accade
il contrario. Quotidianamente e ovunque persone non affette da disturbi psichici
attaccano il corpo di qualcun altro. Le violenze accadono negli spazzi urbani o
extraurbani, nei caseggiati che abitiamo, nei luoghi in cui lavoriamo, e
producono inquietudine, sconcerto e l’urgenza di prenderne, in qualche modo,
le distanze.
Spaventa
e perturba doversi arrendere a riconoscere che, nel manifestarsi di molti gesti
distruttivi, è rinvenibile un ruolo “attivo e riflessivo” dell’individuo,
lo stesso che presiede e guida ogni altra azione, anche quella non violenta. In
breve quello che io e Lorenzo sosteniamo è che in quasi tutti i delitti
violenti è possibile ricostruire, se si riesce a dialogare a fondo con le
persone che li hanno commessi, l’istante in cui è stata presa una sorta di decisione
di commettere il reato. Se, dall’esterno, essa può sembrare dettata dalla
casualità noi scommettiamo, al contrario, che quasi sempre essa si appoggia,
invece, ad alcune conversazioni interiori, dei veri e propri soliloqui
che, per quanto in modo breve, in maniera sempre fallibile, indicano, a chi
li compie, come certi elementi, certe credenze, certe idee, certi desideri e
motivazioni abbiano a che fare con lui. Nel nostro caso come alcuni desideri e
alcune motivazioni siano del tutto coerenti con il commettere un gesto violento.
Ecco:
Lorenzo e io ci occupiamo soprattutto di questi temi: di come gli uomini parlano
a se stessi, che cosa si raccontano quando decidono di comportarsi così come si
comportano, anche in modo violento.
Oggi,
però, non vogliamo approfondire questa parte della nostra ricerca, quella che
ha studiato le conversazioni interiori di chi attacca il corpo di un
“nemico”. Vogliamo al contrario spostare il discorso su quei soliloqui che
gli uomini e le donne inaugurano quando iniziano ad abbandonare un’immagine
violenta di sé all’interno di un faticoso e mai lineare percorso di
riconoscimento dell’altro, inteso come essere singolare, come l’altro
possibile di una relazione.
È
un percorso irto di difficoltà, di oscillazioni, di avanzamenti e
indietreggiamenti.
Prima
di dare la parola a Lorenzo, che entrerà più dettagliatamente nel merito del
discorso, vorrei leggervi un frammento di una delle nostre interviste, che parla
di un uomo che aveva iniziato a commettere delitti violenti. Dopo l’incontro
con una ragazza, della quale si era perdutamente innamorato – e che lo aveva
“cambiato” –, è accaduto un evento altamente drammatico, che ha riportato
il nostro a commettere delitti violenti.
“Per
esempio molte volte è anche il destino ad essere infame. Per esempio quando
sono uscito dal carcere - sono stato condannato per reati contro la persona,
truffe, assegni a vuoto e altro - mi sono messo a lavorare perché quella volta
mi sono detto: basta mi sono stufato. Mio padre mi aveva dato un furgone e
andavo a fare i mercati e guadagnavo. Poi ho conosciuto una ragazza e mi sono
messo con lei, lei mi diceva sempre: “Non rubare altrimenti io non ti voglio
più”. Sai com’è la donna quando è innamorata, continuava a dirmi: “Se
ti arrestano io non resisto”. Allora per amore io avevo mollato tutto, ero un
altro. Pure gli amici alla fine mi stavano alla larga perché o li menavo o
dicevo “Statemi lontani”. Oltre ad avere i soldi perché lavoravo
onestamente ero pure bravo, ero in regola con licenza, tutto. Non rubavo più
perché mi ero innamorato. “Cambio vita e chi se ne frega del resto”, tanto
facevo più soldi onestamente che rubando. Quando salutavo qualcuno lei diceva:
“Ma chi è quello un tuo amico?” E io: Sì, perché? E lei: “Quello non è
un vero amico e te lo dico io”, e alla fine aveva ragione, perché poi
guardavo tutto sotto un altro aspetto, sotto un altro profilo, e mi dicevo:
“Ma guarda questa, lo sai quanti me ne ha scoperti di amici falsi?”.
Un
giorno ero al mercato, stavo vendendo quando arrivano due poliziotti e uno mi
fa: “Devi venire con noi”. Ma io sto lavorando, e c’era la mia donna che
subito chiede: che succede? L’hanno chiamata in disparte e chissà che cosa le
hanno detto, perché poi l’ho vista uscire piangendo mentre diceva: “Ti devono
arrestare”. Ero sicuro che da un anno non avevo commesso alcun reato, ma loro:
“Ti dobbiamo arrestare perché devi scontare dieci mesi per reati che hai
commesso da minorenne. Lo sappiamo che da un anno sei fuori dal giro, però purtroppo
la legge è la legge”. Io: “Porca miseria, e adesso come faccio, c’è la
mia donna, mi portate via e il banco rimane qui”. E da qui è partito tutto il
destino infame”.
L’importanza
di porsi la domanda giusta
E
di trovare risposte che siano capaci di orientare e orientarci riflessivamente
verso modalità di risoluzione dei conflitti alternative all’uso della
violenza e del dominio violento rispetto agli altri
di
Lorenzo Natali,
assegnista in Diritto penale e
Criminologia all’Università
di Milano-Bicocca e co-autore del libro Cosmologie Violente
Ho
pensato di iniziare il mio intervento con le parole del sociologo Paolo
Jedlowski, che affronta il tema della narrazione – tema che ha attraversato
tutte le relazioni e gli interventi che mi hanno preceduto. Scrive Jedlowski
(Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, 2000, pp. 34-35): “Se
possiamo rendere conto della vita nella forma di storie è […] perché la vita
stessa ha in sé una dimensione storica: si svolge nel tempo, ed è del tempo
[…] che i racconti si occupano. Perché viviamo nel tempo […]. […] la vita
si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre come un materiale narrabile”.
È
proprio vero, ed è questo il senso del nostro sguardo all’agire violento e ai
cambiamenti che si possono verificare. Per noi, come criminologi sensibili alle
storie e alle narrazioni di chi ha commesso gesti atroci, comprendere la storia
di queste persone ha significato anche ascoltare i loro possibili cambiamenti,
quelli riusciti o quelli solo tentati, come nel caso che è stato appena letto
da Adolfo Ceretti. Quando ci troviamo di fronte a qualcosa di simile a quello
che si è ascoltato, ciascuno di noi in qualche modo comincia a raccontare a se
stesso la storia della propria vita, e inizia a raccontarsela in un modo nuovo.
Si tratta di veri e propri mutamenti, trasformazioni del sé, che assomigliano
ai processi di conversione, ma che si esprimono in maniera molto più drastica e
improvvisa. Sono i cambiamenti drammatici di sé. Detto in maniera molto
sintetica, chi li attraversa non sarà più la stessa persona che era prima.
Vorrei
proporvi oggi una rapida analisi, necessariamente semplificata, delle fasi che
compongono questo cambiamento. Si tratta di fasi che non si determinano in modo
automatico né in modo lineare: prima di concludere una fase occorre, infatti,
attraversare una serie di esperienze che sono tutt’altro che scontate. È
questa una visione processuale e non deterministica della vita degli individui
che mi sembra abbia attraversato molti degli interventi che abbiamo ascoltato e
che mi hanno preceduto. Ogni cambiamento segna la fine di un capitolo della
propria esistenza e l’inizio di uno nuovo. Il finale, ossia, l’esito del
cambiamento, è sempre aperto: nuovi capitoli possono sempre essere scritti. È
anche questo il senso delle affermazioni che sono state fatte relative alla
convinzione che ognuno di noi scrive e riscrive costantemente la propria vita.
La domanda che proveremo ad esplorare è, allora, la seguente: “Come passiamo
da un capitolo della nostra vita a quello successivo? Quali sono questi momenti
di trasformazione, spesso così dolorosi e per niente scontati?”.
Se
il nostro Sé può essere rappresentato e immaginato come un prisma, una vera e
propria lente che ci permette di guardare il mondo nel quale siamo immersi e di
osservare, al tempo stesso e in maniera riflessiva, noi stessi – la parola
riflessività è senza dubbio centrale nella nostra proposta – questo prisma
può entrare in crisi e frammentarsi di fronte a un’esperienza sociale
drammatica. È un’esperienza sociale che rompe in maniera drastica la trama
simbolica che diamo normalmente per scontata. È questa la fase della
frammentazione, la prima fase, quella che inaugura un possibile cambiamento
personale. Si tratta di un’esperienza radicale, un vero e proprio
sconvolgimento – anche questa è una parola che si è potuta ascoltare più
volte nel corso di questa giornata. Un’esperienza che non riusciamo ad
assimilare né a mettere a fuoco con le lenti che abbiamo costruito nel corso
della nostra vita. E così il nostro Sé si spezza: non siamo più in grado di
leggere delle direttive chiare su come ci si dovrebbe comportare. Ci troviamo di
fronte, in altre parole, a una intelligibilità che all’improvviso sembra
mancare, e, ovviamente, ci sentiamo totalmente smarriti, divisi e indifesi,
innanzitutto di fronte a noi stessi. Questa è la drammaticità del cambiamento.
Il mondo, attraverso questa nuova lente, sembra essersi improvvisamente
rovesciato: è diventato del tutto alieno ed estraneo. Si apre così un periodo
tormentoso, di autoesame, estremamente riflessivo, durante il quale la nostra
autostima si abbassa in maniera vertiginosa, e quella conversazione interiore di
cui si è parlato si fa particolarmente acuta, come quando per esempio ci
troviamo in una situazione problematica e stiamo valutando dentro di noi le
possibili vie di uscita. Quello che è importante sottolineare nella nostra
proposta – che, ovviamente, è solo una proposta, ma che può aiutare a
leggere questo genere di cambiamenti – è il fatto che la crisi non nasce mai
solamente per una svalutazione del nostro mondo interiore, dei nostri valori, di
ciò in cui crediamo. Qualcosa di molto forte è accaduto là fuori, nel mondo;
qualcosa di molto violento è avvenuto in noi che in un certo modo si rispecchia
e si manifesta nel mondo esterno. È qualcosa che rimane incomprensibile, ma
che, nonostante questa inintelligibilità, si incista inevitabilmente nel nostro
Sé, ormai profondamente scosso.
Questo
sconvolgimento spinge ad andare in cerca di un nuovo orizzonte al quale
ancorarci, per non rimanere più indifesi e divisi di fronte a noi stessi.
Proprio su questo punto, anche per dare un sapore più concreto alle parole che
stiamo pronunciando, proporrei un breve filmato, tratto dal film American
History X, che mostra chiaramente e con la forza persuasiva della
rappresentazione cinematografica, questo momento decisivo che dà il via al
cambiamento drammatico di sé. Il protagonista, Derek, è un ex naziskin che sta
scontando in carcere una pena detentiva per aver ucciso a colpi di arma da fuoco
due ragazzi neri. Proprio in carcere incontra il professor Sweeney, che è stato
in passato il suo insegnante. Derek è profondamente scosso per le esperienze
traumatiche che ha appena vissuto in carcere e sta attraversando proprio quella
fase iniziale di cambiamento che abbiamo provato a suggerire, una fase che lo
porterà a mettere in discussione e poi ad abbandonare la violenza intesa quale
mezzo giusto, credibile e convincente per risolvere i conflitti. È proprio nel
corso del dialogo con il suo ex insegnante, accorso in suo aiuto, che Derek
sente chiaramente per la prima volta la necessità di ripensare il suo passato.
Sweeney:
“Non voglio che tu faccia nulla. Dimmi soltanto come ti senti veramente…”.
Derek:
“[…]. Non lo so… non so come mi sento… sono… Mi sento un po’
confuso… io non lo so… Ci sono cose che… che non mi tornano…”.
Sweeney:
“Sì, succede… Senti Derek, tu sei troppo in gamba per buttarti via facendo
finta di non vedere tutti i buchi di questa misera ideologia”.
Derek:
“Ehi, ehi aspetta, ho solo detto di essere confuso, non ho mai detto che non
ci credo”.
Sweeney:
“Bene, è per questo che devi aprirti… In questo momento la rabbia ti sta
consumando, la rabbia che hai sta annebbiando il cervello che il Signore ti ha
donato”.
Derek:
“Ci hai mai fatto caso? Non fai che parlare di quello che mi succede fin da
quando ero al liceo. Come fai a sapere così bene tutto ciò che c’è dentro
di me?”.
Sweeney:
“No. So cosa c’è dentro di me, questa sensazione la conosco bene… Conosco
bene lo stato in cui ti trovi…”.
Derek:
“Che ne sai tu dello stato in cui mi trovo?”.
Sweeney:
“C’è stato un momento in cui incolpavo qualsiasi cosa, chiunque al mondo,
per tutte le sofferenze e le viltà orrende che capitavano a me e che vedevo
capitare alla mia gente. Davo la colpa a tutti, davo la colpa ai bianchi, colpa
alla società, colpa a Dio… Non avevo risposte perché mi facevo le domande
sbagliate. Tu devi farti la domanda giusta…”.
Derek:
“E qual è?”.
Sweeney:
“Tutto quello che hai fatto ti ha reso la vita migliore?”.
Sweeney:
“No…”.
Come
abbiamo visto nello spezzone cinematografico, Derek chiede aiuto e soccorso al
professore, e ciò di cui ha bisogno è soprattutto un consiglio, un
suggerimento, come accade nelle esperienze di cambiamento. Derek dice di sentirsi
confuso e smarrito; il suo ex professore nomina la rabbia e l’importanza di
porsi la domanda giusta, anticipando forse anche troppo il cambiamento di Derek
– lo notiamo dalla sua reazione. Nella fase della frammentazione, infatti, la
comparazione critica tra l’evento estraneo ancora incomprensibile e le
certezze che fino a quel momento erano date per scontate inizia ad avviare
l’attore sociale – l’attore violento in questo caso – verso una ricerca
volta a sostituire le certezze passate. Si tratta, però, ancora di un Sé
“semplicemente” in costruzione. In questa fase ci si rivolge, per esempio, a
persone reali, a ricordi o a frasi sagge che abbiamo incontrato anche molto
tempo prima rispetto al momento della crisi. Quello che cambia – e questo è
decisivo – è che ora, per la prima volta, tutto ciò acquista un senso, un
tono e un sapore peculiare: è questa la seconda fase (la fase dell’unità
provvisoria), nel corso della quale si inizia a ristrutturare quello che prima
era semplicemente un cumulo di macerie e di frantumi. In questa fase quello che
conta è proprio l’apertura che ora abbiamo rispetto agli altri e, in
particolare, all’influenza di altri significativi – come la figura del
professore nel caso del filmato proposto. Tuttavia, pur in questa apertura,
siamo sempre e solo noi a dover trovare una via ancora non percorsa e, per
questo, unica. L’unicità del nostro vissuto è qualcosa che dobbiamo tenere
costantemente in dialogo con la molteplicità possibile degli altri
significativi a cui ci riferiamo.
La
domanda che a questo punto ci rivolgiamo in termini di conversazione interiore
è la seguente: “Quando un giorno mi troverò di nuovo ad affrontare
un’esperienza drammatica e dolorosa come quella che ho vissuto, riuscirò a
dimostrarmi all’altezza di questa sfida? Riuscirò a superare indenne ciò che
ho appena vissuto?”. La risposta a questa domanda ovviamente è tutt’altro
che scontata, e un ruolo decisivo è giocato dall’azione. È durante la fase
della “praxis” (terza fase) che il nuovo Sé provvisorio viene sottoposto
alla prova cruciale dell’esperienza. È così che si testa il definitivo
affermarsi o il deciso fallimento del nostro Sé ancora provvisorio.
Quest’ultimo si rivelerà una guida affidabile per il futuro solo se il
neonato “riorientamento simbolico-valoriale” riesce a integrare con successo
l’intera esperienza sociale che, in passato, aveva prodotto la crisi.
L’affermazione definitiva del nostro nuovo Sé – o, viceversa, il suo
fallimento – deve attraversare l’esperienza della vita, e la fiducia nel
poter dare un nuovo nome al mondo, riconoscendolo sotto una luce differente,
potrà consolidarsi solo grazie a continui tentativi che confermano o meno la
nostra capacità di superare questa prova.
Tutta
questa serie di esperienze, che stiamo necessariamente riassumendo, culminano
poi in una rivelazione personale, una sorta di epifania. Ecco che tutt’a un
tratto la prospettiva muta radicalmente sotto i nostri occhi e ci troviamo
cambiati. Con grande sorpresa e soddisfazione personale, per non parlare di
reale sollievo, si realizza di essere finalmente riusciti a superare
un’esperienza sociale simile a quella che aveva provocato la frammentazione
del Sé precedente. Dal momento che ogni Sé va inteso come un processo anche
sociale, il nuovo modo di guardare al mondo rimane transitorio fin tanto che non
guadagna l’approvazione e la risposta simpatetica di “altri significativi”,
rivelandosi così ai suoi occhi e, ciò che più conta, a quelli degli altri. Il
vecchio Sé viene definitivamente sostituito da quello emergente, per mezzo del
quale si possono finalmente riordinare i pensieri e le emozioni che vagavano
caoticamente (quarta fase: “consolidamento”). Sono solo gli “sguardi degli
altri” che possono, però, conferire pieno significato al successo e
stabilizzare il cambiamento, riconoscendolo. A questo punto una domanda chiave
che rivolgiamo a noi stessi è quella che riguarda il desiderio. È così che la
persona inizia a domandarsi: “Desidero veramente essere il tipo di persona che
sto per diventare?”. La risposta a questo dilemma tragico, ancora una volta
non è mai scontata, anche se. dopo il lungo e tormentoso percorso intrapreso
con la “frammentazione”, è difficile trovare motivazioni valide e convincenti
per negarsi il traguardo, tanto desiderato, dell’assunzione di un nuovo Sé.
La riflessività si intreccia e si lega così, inevitabilmente, con la
dimensione del desiderio. Si tratta di quella stessa domanda decisiva che il
professore, nel filmato, propone a Derek: “Tutto quello che hai fatto ti ha
reso la vita migliore?”. La domanda giusta. In conclusione possiamo affermare
che è proprio nella nostra ineliminabile apertura al bene e al male, in
un’insenatura e in uno spazio che si crea e che rende possibile un dialogo tra
queste due polarità – è stato detto benissimo da Marina Valcarenghi nel suo
intervento –, in questo dialogo continuo tra Bene e Male, che la possibilità
di un cambiamento diventa allora, anche nella nostra proposta, possibile,
credibile e, non da ultimo, desiderabile. Occorre pertanto non solo porre la
domanda giusta, ma anche riuscire a esprimere con coraggio risposte adeguate
alla complessità della domanda, risposte che siano capaci di orientare e
orientarci riflessivamente verso modalità di risoluzione dei conflitti
alternative all’uso della violenza e del dominio violento rispetto agli altri.
Adolfo Ceretti
Voglio
chiudere con una sola riflessione perché Lorenzo, che a mio avviso è stato
bravissimo, ha dovuto sintetizzare una quantità di concetti molto complessi in
poche battute. Il lavoro che stiamo svolgendo Lorenzo e io e quello che, per
esempio, svolge anche Graziella Bertelli a Milano nel reparto de “La Nave”,
o Angelo Aparo con il “Gruppo della Trasgressione”, non sono
metodologicamente simili. Ciò che ci accomuna è che tutti, nel proprio
contesto operativo, cerchiamo di immettere la riflessività come un elemento di
operatività. Immettere l’interlocutore violento o tossicodipendente in un
momento riflessivo significa mettere una persona nella condizione di osservarsi,
per iniziare un percorso di cambiamento. In questo modo il carcere diventa un
carcere che non cancella, che inizia a riconoscere, a vedere. È quello che
accade ogni giorno nella Redazione di Ristretti Orizzonti, dove si contano le
persone per una, restituendo loro dignità. Anche dentro le istituzioni la
storia, la narrazione di ognuno viene finalmente riconosciuta, senza essere più
giudicata. La storia, la narrazione di ognuno può diventare allora un punto di
partenza per un percorso di auto-osservazione che, se sostenuto nei modi in cui
abbiamo cercato di raccontarvi, può avviare anche un percorso di cambiamento.
E in questo senso anche il carcere, che noi vorremmo fortemente ridimensionato, può però paradossalmente diventare uno spazio potenziale per pensare – mettendo in secondo piano quella che, oggi, è ormai diventata la funzione che gli è stata assegnata: quella di incapacitare i delinquenti.