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Ristretti
Orizzonti (anno
14, numero 5 Settembre - Ottobre 2012) Editoriale C’è
anche un giornalismo maleducato, al quale serve una seria rieducazione di Ornella Favero Una
società nella quale retribuire il male con il male è considerato un valore di
Gherardo Colombo La
rieducazione è un cammino di apertura di
Claudia Mazzucato Capitolo
sesto: La rieducazione sentimentale Noi,
per essere un po’ più detenuti, diciamo sempre di non avere paura! di Dritan Iberisha Il
coraggio di non isolarsi, di non nascondersi, di non vergognarsi di
Marina, madre di un detenuto La
vita emotiva è ciò che rende le persone degne di questo nome di
Alessandra Augeli Capitolo
settima: Il racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita La
mia “revisione critica” negli incontri con le scuole di
Ulderico Galassini Le
parole che hanno segnato la nostra vita di Fatjon
Cana Sguardi
sopra le mura di Peppe Pasini, docente
all’Università di Milano Bocconi Un’occasione
per “pensare pensieri non pensati” sul tema della rieducazione di Adolfo Ceretti Che autorevolezza ha chi rieduca in queste condizioni di illegalità diffusa di Rita Bernardini Quelle circolari che quasi nessuno riesce a rispettare C’e’ anche un giornalismo maleducato, al quale serve una seria rieducazione di
Ornella Favero può
sembrare strano, in un numero di Ristretti che continua l’approfondimento sul
tema della rieducazione, iniziare con la pubblicità di un canale televisivo, ma
voglio farlo, e invitare a guardare tante serie americane riproposte da GIALLO,
per verificare una amara verità: che queste serie raccontano la giustizia e le
carceri in modo molto più preciso, efficace, attento di quanto fanno i
programmi di informazione e di approfondimento nel nostro Paese. Qualche
giorno fa ho rivisto una puntata di Shark, dove l’avvocato Sebastian Stark, un
pubblico ministero brillante e sicuro di sé, entra in crisi quando scopre che
la figlia quindicenne si fa le canne e decide, come forma di prevenzione, di
portarla in carcere a sentire la testimonianza di un suo ex assistito, il suo
calvario di tossicodipendente, la sua vita deragliata fino alla galera senza
ritorno. Quello che ha capito Stark da noi stentano a capirlo le istituzioni, e
più in generale tutta la società: che dal carcere si può fare davvero
prevenzione, e il racconto di sé delle persone detenute può diventare un
momento fondamentale sia della rieducazione che, appunto, di una autentica
prevenzione. Ma questo presuppone che invece di tante campagne di stampa, e
campagne elettorali all’insegna della “certezza della galera” e del
“buttare via la chiave”, si debba ripensare la pena ritornando al senso che
hanno voluto darle i padri costituenti. E
allora, quale rieducazione può essere più sensata di quella che vede la
persona detenuta mettere a disposizione dei ragazzi delle scuole la sua vita,
ripercorrerla insieme a loro, scavare sull’inizio dello “scivolamento”
nell’illegalità, cercare di capire di più di sé per riuscire a rispondere
alle domande di quegli studenti, nei quali tanti detenuti vedono i loro figli? E
quale prevenzione può essere più efficace di quella che permette a tanti
giovani di imparare a vedere i rischi di certi comportamenti “sul filo”
della legalità, di misurarsi con il male che può anche toccare le nostre vite,
di capire quanto è importante avere l’umiltà di chiedere aiuto? Ma
se la rieducazione è un percorso di scambio, di confronto, di cambiamento che
investe tutti i soggetti coinvolti, noi che ci occupiamo di informazione dal
carcere vorremmo che questo percorso toccasse anche i professionisti
dell’informazione, e il caso Sallusti ci sembra da questo punto di vista
perfetto: perché i quattrodici mesi di pena comminati al direttore del Giornale
per diffamazione non sono affatto un caso di libertà di opinione messa a
rischio, sono piuttosto un caso di giornalismo “maleducato”, pieno di falsità
e cialtrone, di cui è responsabile sia chi ha scritto l’articolo incriminato,
sia anche chi l’ha ospitato, e non ha avuto neppure il coraggio di chiedere
scusa. Ma
si sa, uno il coraggio non se lo può dare, nonostante quello che vorrebbe far
credere la fiera esibizione di Sallusti, che si sente uno “con le palle”
perché non ha paura di andare in carcere. E invece ha ragione un detenuto di
Ristretti, quando ha ribattuto che del carcere BISOGNA AVERE PAURA. E però per
averne paura bisogna anche conoscerlo da vicino, e allora l’invito che
facciamo ad Alessandro Sallusti è di “assaggiare” il carcere venendo a
farun lavoro di pubblica utilità, o un affidamento nella redazione di Ristretti
Orizzonti: un serio percorso di rieducazione non si dovrebbe negare a nessuno. Capitolo
quinto: Mala e buona educazione Può
sembrare fuori moda parlare della bellezza del concetto di rieducazione, ma
basta infilarsi nel traffico delle strade delle nostre città o chiedere la
ricevuta fiscale in un ristorante per capire che, se il senso della legalità è
spesso così basso anche fra i cittadini “onesti”, forse tornare a discutere
di educazione e rieducazione degli adulti ha un significato, forte e chiaro.
Magari all’interno di un dibattito che faccia ritornare al centro
dell’attenzione dell’intera società l’idea della buona educazione, e il
senso di una pena che la Costituzione ci chiede che sia “rieducativa”.
Quella Costituzione da cui ci piace ripartire, rileggendo uno dei padri
costituenti, Piero Calamandrei, le sue parole sul carcere, la sua aspirazione a
fondare una “religione civile” capace di trovare nel senso dello Stato il
suo valore più alto. Adolfo
Ceretti presenta Gherardo Colombo Gherardo
Colombo, ex Magistrato, Presidente della Casa Editrice Garzanti. Autore, tra gli
altri, dei saggi “Sulle regole”, “Democrazia” e “Il perdono
responsabile”. Desidero richiamare, anche oggi, questo suo appellativo:
“Apostolo della Costituzione”. Da anni, da quando ha lasciato la
magistratura, Colombo entra infatti quotidianamente nelle scuole di tutta Italia
per dialogare con studenti di tutte le età sui temi della Giustizia e della
Costituzione, e lo fa in qualità di Presidente della Associazione Sulle
Regole, associazione della quale sono onorato di essere un componente. Condivido
con Gherardo un’amicizia sempre più profonda e vera da ormai 20 anni, e ho
scelto, anche per lui, qualche pensiero introduttivo. Sono parole che Gherardo
ha pronunciato nel corso di un’intervista ai margini di un Convegno - I
crimini dell’obbedienza. Giustizia penale internazionale: riconoscere
l’altro, ricostruire l’umano – che si è svolto qualche anno addietro.
In quell’occasione Gherardo aveva dichiarato: “Come potremo essere
giudicati, noi, tra cinquanta, cento anni? Guardando a quello che è successo in
passato, noi giudichiamo sulla base dei nostri metri di oggi, guardando le cose
con un certo distacco. Cosa accadrà quando i nostri comportamenti di oggi –
per esempio il fatto che fabbrichiamo armi – verranno messi in relazione con
le conseguenze che producono e che produrranno? Sono tante le domande che
dobbiamo farci sull’espressione giustizia: è davvero questo lo
strumento che può, almeno in parte, correggere quelle storture delle quali noi
ci accorgiamo quando guardiamo indietro e quando guardiamo gli altri, ma che
spesso non vediamo quando guardiamo noi stessi? Venendo più vicino a noi,
consideriamo la strettissima relazione che esiste oggi tra la deviazione
e la sanzione che viene applicata come conseguenza di tale deviazione, e
l’altrettanto stretta relazione sussistente tra sanzione e affettività:
come potranno essere valutate queste relazioni domani, quando (forse) il
concetto di retribuzione sarà superato?”. Ecco,
è proprio questa la questione stringente, perché Gherardo Colombo sta
impostando tutto il suo pensiero sulla possibilità di andare oltre il concetto
di retribuzione comunemente inteso… Una
società nella quale retribuire il male con il male
è considerato un valore Pena
significa necessariamente punizione e sofferenza. Io credo invece che la strada
per educare alla libertà non
implichi sofferenza, implichi invece fatica Di Gherardo Colombo,
ex magistrato, presidente della casa
Editrice Garzanti E’
un’impresa riuscire a parlare in modo comprensibile di questo argomento in
solo un quarto d’ora, o venti minuti. Temo da una parte di non riuscire ad
essere comprensibile, dall’altra di non riuscire ad evitare di ripetere cose
già dette, perché questa mattina ne abbiamo sentite tante molto interessanti e
molto importanti, e quindi il rischio è forte. Detto questo, cerco di dare
l’idea del percorso che secondo me porta a escludere (non a ridimensionare, ma
a escludere) il “valore” della retribuzione. Metto la parola tra virgolette,
perché secondo me, contrariamente a quel che pensano in tanti, la retribuzione
costituisce non un valore ma un disvalore. Io
ha fatto il magistrato penale per 33 anni. Quando sono entrato in magistratura,
con l’intenzione di fare il giudice penale, alla efficacia della pena
evidentemente credevo; l’esperienza pratica della amministrazione della
giustizia penale mi ha portato a convinzioni che hanno influito, insieme ad
altre, sulla decisione di dimettermi e dedicarmi soprattutto alle scuole, pur
potendo continuare a fare il magistrato per altri 14 anni. Mi riferisco al tema
delle conseguenze della trasgressione, tema cruciale, essenziale, che secondo me
costituisce la cartina di tornasole per verificare la differenza, anche sotto il
profilo delle convinzioni personali, tra una società di tipo gerarchico
discriminatorio, e una società delle opportunità pari. La
mia opinione è che la società delle opportunità pari, la società non
discriminante è in antitesi, è veramente in antitesi rispetto a una società
nella quale il retribuire il male con il male è considerato un valore. Cerco di
spiegarmi: perché è un punto cruciale? Perché riguarda quella parola, il
senso, il concetto della “rieducazione” (per usare il termine della
Costituzione, termine che personalmente abbandonerei perché ora evoca contesti
e situazioni che in altri Paesi hanno celato la omologazione violenta del
pensiero: preferirei parlare di re-inclusione o meglio di riconciliazione). La
convinzione generale, nel corso dei secoli, è stata che la pena serve per
educare. Serve per educare, a cominciare dai bambini per finire a coloro che
hanno sbagliato e quindi evidentemente vanno ri-educati, bisogna educare di
nuovo perché la prima educazione si è persa. Il principio, in questa ottica,
è che la pena serve a educare comunque, tant’è che si tratta di un principio
applicato regolarmente anche fuori dal carcere: i bambini sono normalmente
educati attraverso il sistema del premio e della punizione. Perché questo
sistema è così radicato nella nostra cultura? Credo che questo dipenda dal
fatto che noi, noi intesi come umanità, siamo sempre vissuti facendo
riferimento, avendo come modello sociale una società della discriminazione. La
società è sempre stata modellata come una piramide: chi sta in alto può, chi
sta in basso invece deve. Per far funzionare una società del genere è
necessario educare all’obbedienza. Perché questa serve a mantenere la
discriminazione: devi fare questo, perché te lo dico io, perché te lo comando
(il premio provoca lo stesso effetto). La società della discriminazione, la
società verticale è la società di sempre, è così radicata nel nostro modo
di essere che quando pensiamo a educazione evidentemente pensiamo ad educare a
obbedire. Se
però continuiamo a praticare quel modello dopo che è entrata in vigore la
Costituzione, vuol dire che non ci siamo accorti che la Costituzione è entrata
in vigore. La Costituzione ha trasformato, sotto il profilo formale, la società
da verticale a orizzontale. La Costituzione ha come principio fondamentale
l’affermazione, contenuta nel primo comma dell’art. 3, che tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale. E’ l’esatto contrario di quel che accadeva
prima, quando il principio era la discriminazione (la discriminazione di genere,
per esempio, è stata solo parzialmente superata il 2 giugno 1946 con la pratica
applicazione del suffragio universale). Ebbene
la Costituzione parte da lì, tutti i cittadini, possiamo usare parole più
semplici, tutti i cittadini sono importanti allo stesso modo, i cittadini non
sono la massa di persone di cui parla il Grande Inquisitore di Dostoevskij,
incapaci, ignare, ribelli, pusillanimi e via dicendo, no! i cittadini hanno
tutti un valore. Questo è il principio che informa tutto il resto: perché si
può scrivere che l’Italia è una Repubblica democratica (articolo 1) soltanto
se si premette che tutti i cittadini sono importanti, che tutti i cittadini
hanno la stessa dignità. Ma che senso avrebbe, infatti, il governo del popolo,
se qualcuno fosse degno e qualcun altro no? La forma di governo dovrebbe essere
l’oligarchia, la monarchia, ma sicuramente non la democrazia. E che senso
avrebbe affermare che la sovranità appartiene al popolo, se il popolo fosse
composto di alcune persone degne e di alcune indegne; e riconoscere i diritti
fondamentali a chiunque (la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, articolo 2)? Ora se il punto di partenza è la dignità,
e democrazia vuol dire governo del popolo, è necessario, perché la democrazia
funzioni, che il popolo, le persone, ciascuna delle persone, invece di essere
educata all’obbedienza sia educata alla libertà, che vuol dire anche sia
educata alla responsabilità. Il modello culturale secondo il quale educazione
significa stimolo all’obbedienza è incompatibile con il modello sociale
basato sul riconoscimento della dignità di tutti, della democrazia e del
riconoscimento generale dei diritti. Credo che la ragione per la quale la
democrazia in Italia non funziona bene sia costituita dal fatto che le persone
vengono generalmente educate ad obbedire e non a gestire la propria libertà (e
la propria responsabilità). Se
tutto ciò vale per l’educazione in generale, vale anche per la
“rieducazione”! Se, in modo molto più drastico, evidente e penalizzante
succede per la “rieducazione” degli adulti quel che succede nei confronti
dei ragazzi, quando mai si riuscirà a educare le persone a reimmettersi nella
società positivamente? Già è stato detto, e credo che sia evidente per tutti
noi, che questo incontro è una occasione bellissima per poter approfondire il
tema del carcere. Sono un po’ stupito dall’atteggiamento mentale che trovo
qui, perché di questi argomenti parlo spesso in altre sedi (ieri sera in una
parrocchia a Firenze, il pomeriggio in una università a Pisa) e di solito
l’approccio è l’opposto, si parlano dei linguaggi diversi, il linguaggio
della gente è quello dell’obbedienza e della retribuzione. Sarebbe bello
riuscire a portarlo in giro, farlo respirare, l’approccio di oggi; e sarebbe
stato bello che ci fosse qualche responsabile della amministrazione di questo
Paese a dialogare con noi, perché invece sembra di trovarsi di fronte a due
mondi separati. Qui ci poniamo interrogativi, questioni che altrove sono
praticamente sconosciuti, credo a causa di una inconsapevole presa di distanza
dai problemi reali. Perché se fossero conosciuti nella loro effettività “si
perderebbe l’innocenza” , e bisognerebbe fare i conti con le proprie azioni.
Dicevo:
perché funzioni la società basata sul riconoscimento della persona, è
necessario che l’educazione sia educazione alla libertà e quindi educazione
alla responsabilità. Libertà e responsabilità sono termini inscindibili, si
è liberi in tanto in quanto si è responsabili, e si può essere responsabili
soltanto se si è liberi. La retribuzione del male con il male da una parte,
quanto agli effetti, tende a creare obbedienza; dall’altra parte secondo me
sconta un difetto logico di partenza del quale evidentemente si fa una gran
fatica ad accorgersi. Se si pensa che chi ha commesso il male debba soffrire
altrettanto male, che infliggere il male sia giusto, vuol dire che si crede che
attraverso il male si possa arrivare al bene. Ma se il male ha come risultato il
bene finisce di essere male e diventa bene. E se il male diventa bene il male
scompare, e se non c’è più il male, se non si distingue tra bene e male non
ci sono più punti di riferimento ed esiste solo confusione. Quindi, tra il modo
attraverso cui educare, e il fine dell’educare non c’è soltanto una
questione di coerenza dei mezzi, l’educazione, con il fine, la società
organizzata secondo i principi della Costituzione: ci sono anche degli altri
aspetti, e uno di questi aspetti è di carattere logico: si può arrivare al
bene infliggendo il male? Un
aspetto ulteriore, che ho lasciato per ultimo ma che credo sia il più
importante sotto il profilo dei principi, riguarda la coerenza con l’elemento
fondante della Costituzione, l’affermazione che tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale. Chi l’ha scritta, la Costituzione, ne ha tenuto ben conto
redigendo l’articolo 27, stabilendo che la pena non può consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del
condannato. Secondo me il legislatore avrebbe portato a compimento la sua opera
in questa materia se invece della parola “pena” avesse usato una parola
diversa (perché pena vuol dire necessariamente: punizione e sofferenza, e la
parola, necessariamente richiama l’idea di retribuzione). Credo invece che la
strada per educare alla libertà non implichi imposizione di sofferenza, ma
comporti semmai fatica, una grande fatica, quella fatica che ciascuno di noi
compie nel percorso che dalla nascita si svolge per tutta l’esistenza per
diventare e continuare a essere liberi. Mi
accorgo di avere tralasciato un aspetto. Lo introduco per evitare che qualcuno
si spaventi, pensando che l’abolizione della pena contrasti con la sicurezza
delle persone. Io sono convinto che chi è pericoloso deve essere messo in
condizione di non mettere in atto la sua pericolosità, ma questo non c’entra
con la pena. Voglio dire: che relazione esiste tra garantire la sicurezza dei
cittadini ed impedire a chi ha commesso un reato di mantenere le sue relazioni
affettive? Peraltro, ammesso e non concesso che sia consentito troncare le
relazioni affettive di chi ha commesso un reato, dove sta la giustificazione
dell’impedire le relazioni affettive di coloro che gli stanno intorno? Sei ore
al mese di colloquio controllato visivamente sono la negazione della relazione
affettiva. E che relazione esiste tra la sicurezza e l’imposizione di vivere
in una cella tre metri per quattro, chiusi per ventidue ore al giorno, insieme
ad altre persone? Se
quel che ho finora esposto è condivisibile, perché la conseguenza applicata
alla trasgressione continua ad essere il carcere? Io credo che la questione sia
condizionata da due elementi. Uno è assolutamente irrazionale, ce lo portiamo
dentro più o meno tutti, e sta nella paura. La risposta più immediata alla
paura consiste nella rassicurazione, e mettere in gabbia chi ci fa paura
indubbiamente rassicura. Paura non solo dell’altro, ma anche paura di se
stessi: per vederci innocenti, per vederci liberi dal male abbiamo bisogno di
identificare il male fuori di noi e il carcere rende il male visibile altrove da
noi. L’altro elemento sta nell’efficacia persuasiva che l’argomento
carcere assume nella competizione elettorale, come risposta gradita da una gran
parte della cittadinanza ai problemi di sicurezza (o meglio alle esigenze di
rassicurazione). La
rassicurazione, ben diversa dalla sicurezza, si raggiunge promettendo pene più
severe, giustizia più rapida, maggior ricorso al carcere, perché le persone
credono che questa sia a strada per avere maggior sicurezza. Finché
non cambia il modo di pensare della collettività, sarà ben difficile che si
possa andare veramente e seriamente verso una modificazione sostanziale dello
stato delle cose. Il cambiamento dipende non solo da noi che siamo qui oggi, ma
in generale da tutte le persone. Perché cambi l’approccio culturale,
l’approccio mentale della collettività nei confronti non soltanto del
carcere, ma dell’educazione e del modo di stare insieme è necessario che si
passi dal considerare valore la discriminazione e la sopraffazione al ritenere
punto di riferimento il riconoscimento reciproco. È, come dicevo, un percorso
che richiede l’impegno di tutti. Chi, come succede qui, avverte maggiormente
la necessità di seguirlo, ha la responsabilità di rendere evidente questa
necessità anche a coloro che ancora non la avvertono. Claudia
Mazzucato è Professore Aggregato di Diritto Penale nell’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano. Conosco
Claudia dal 1994 e quello che desidero dire di lei per presentarla, dato che
molti di voi non la conoscono direttamente, è che Claudia ha una forza
spirituale che oso ormai paragonare a quella di Simone Weil – e non sto
esagerando… A essa si accompagna un indiscusso rigore scientifico nello studio
della sua disciplina. Detto altrimenti, ascoltare Claudia è un’esperienza che
muove a declinare in modo inedito la parola giustizia. Mazzucato
è componente del Comitato di Ricerca del Centro Studi Federico Stella sulla
Giustizia Penale e la Politica Criminale, diretto dal mio caro amico
Professor Gabrio Forti, un Centro nato con lo scopo di promuovere la ricerca
teorica applicata sui temi della giustizia penale e della politica criminale.
Claudia, in particolare, studia da anni la questione della conformità
volontaria alle norme e la collaborazione dei cittadini alla prevenzione non
repressiva dei reati, cui corrisponde un criterio di reale parsimonia nel
ricorso alla pena. Ed è proprio su questi temi che, ora, interverrà. La
rieducazione è un cammino di apertura Con
l’idea che la pena deve “tendere alla rieducazione” è stata introdotta
nell’ordinamento penale una dinamica aperta, volta alla messa in gioco di
capacità che siano in grado di riconciliare la libertà con la responsabilità di
Claudia Mazzucato,
professore aggregato di diritto penale nell’Università
Cattolica del Sacro Cuore Sono
rimasta molto toccata da tutti gli interventi e in particolare da due che mi
paiono simmetrici: quelli di Qamar e di Deborah Cartisano. Qamar
ci ha raccontato: “Mi sono costituito perché mio papà mi ha detto che era
giusto: hai sbagliato, devi costituirti”; ci ha riferito che, per lui, suo
padre è stato in tal senso un esempio. La parola “esempio” è tornata anche
nell’intervento di Deborah Cartisano, la quale di nuovo ci ha parlato di un
uomo, coinvolto nel sequestro e poi nella morte di suo padre, che – pur non
essendosi costituito – ha sentito però l’impulso e ha trovato il coraggio
di dire una verità scomodissima. La parola “esempio” è stata infine
riferita al papà di Deborah e lei stessa del resto è stata per noi oggi un
esempio. Mi
colpisce profondamente il fatto che sia Qamar sia questo anonimo sequestratore
siano due “esempi” alquanto singolari e rari nel panorama abituale della
giustizia penale: entrambi hanno sentito il dovere e avuto il coraggio di dire
la verità, seppure in modi tanto diversi. In sede penale, di solito, l’autore
di un reato non confessa il suo crimine, perché a confessarlo c’è ben poco
da guadagnarci: a chi si costituisce, a chi dice la verità, viene al più
riconosciuta una attenuante; chi si costituisce, chi dice la verità, ha però
la tragica certezza di venire punito. Ci vuole quindi un gran coraggio. La
giustizia penale, come tradizionalmente intesa, non è costruita intorno al
valore della verità, né è costruita, almeno per tutta la fase processuale,
attorno all’idea di responsabilizzazione. Mi colpisce sempre come due
riconosciute virtù civili – verità e responsabilità; o meglio: verità e
responsabilizzazione – vadano in cortocircuito nella giustizia penale. E
infatti anche uno dei sequestratori (e forse uccisori) del papà di Deborah, per
poter dire la verità, ha dovuto nascondere il suo volto alla giustizia:
mostrandolo, avrebbe avuto corso la sanzione punitiva. Mi colpisce come la
giustizia – un’altra riconosciuta una virtù civile – in sede penale venga
trasformata in ritorsione, cioè in qualche cosa che fa del male e di fronte a
cui difendersi. Lo
Stato democratico non nasconde simile dimensione aggressiva e negativa della
giustizia, al punto che per primo consente al cittadino di proteggersi dalla
giustizia penale grazie a diverse garanzie costituzionali e processuali (sia
chiaro: guai a toccarle!): il diritto di non dire la verità e il diritto di non
assumersi la responsabilità; o, se vogliamo, in termini più tecnici il
principio noto come “nemo tenetur se detegere”, la presunzione di innocenza,
il diritto costituzionale di difesa, le impugnazioni. Di fronte alla giustizia,
si ha il diritto costituzionale di difendersi e non si può essere tenuti ad
auto-accusarsi. Il che è come dire che non si è tenuti a dire la verità.
Perché in ambito penale verità e responsabilità fanno male (il male di una
pena alquanto afflittiva), e lo Stato democratico non può esigere da una
persona che vada volontariamente incontro al proprio male, al male della pena. Ma
è questa l’idea di giustizia che aveva in mente la Costituzione? Ne siamo
sicuri? Voglio
anch’io seguire l’itinerario aperto da Gherardo Colombo con il suo
intervento. L’art.
27, comma 3, della Costituzione è il valore attorno al quale siamo riuniti qui
oggi, un valore civile importante: “Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Desidero
ricordare che questo comma è stato voluto da qualcuno che poi è diventato
vittima: è stato voluto da Aldo Moro. Mi fa riflettere il fatto che tanti
esseri umani hanno potuto invocare l’art. 27 terzo comma della Costituzione
per ottenere cammini di liberazione (di uscita dal carcere in senso stretto) e
di risocializzazione; che quella norma costituzionale è stata alla base di una
delle più significative riforme del sistema sanzionatorio italiano, con
l’introduzione delle misure alternative alla detenzione; che tante vite
recluse sono tornate a vivere davvero grazie a un principio costituzionale così
profondamente ispirato da una vittima. L’articolo
27 comma 3 della Costituzione non è un “articolo marziano”, una
disposizione eccentrica rispetto all’intera tavola di valori costituzionali.
Esso si intreccia, invece, del tutto armonicamente a tante altre norme
costituzionali. Gherardo
Colombo ne ha richiamate alcune, a me piacerebbe richiamarne altre e, in
particolare, leggere l’articolo 27 della Costituzione come una sorta di
declinazione particolare nell’ambito della giustizia penale – o di
specificazione – di un principio più ampio e generale, che riguarda tutti e
dunque tutti ci accomuna: l’art. 4, secondo comma, della Costituzione che
recita “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità
e la propria scelta una attività, una funzione, che concorra al progresso
materiale, spirituale della società”. Si noti, preliminarmente, che qui con
“cittadino” non deve intendersi il cittadino italiano (quello che ha il
passaporto o la carta di identità con la cittadinanza italiana), bensì la
persona – qualunque persona – che abita la società civile, la comunità di
questo Paese: cittadino, in questo senso, è ognuno di noi. L’art. 4, con il
suo monito a contribuire tutti allo sviluppo materiale o spirituale della società,
è a mio avviso la scaturigine dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione; il
principio del finalismo rieducativo della sanzione è una specificazione
penalistica del dovere che riguarda ciascuno di noi di concorrere – secondo le
proprie capacità, risorse, intelligenza, inclinazioni, aspirazioni – al
progresso materiale e spirituale della società. È
sorprendente che questo singolare dovere – intriso, si noti, di libertà e non
di coercizione; intriso di vocazione, di apertura a mettere in gioco quello che
si è, quello che si è capaci di fare – non sia richiedibile anche a valle di
un evento che non avrebbe dovuto accadere, cioè a valle di un reato: con la
pena detentiva, in tutta evidenza, si viene impediti, incapacitati. Abbiamo, in
fin dei conti, concepito la giustizia come un male che annienta, affossa,
soffoca e reprime le capacità: un male che di fatto rende impossibile
l’adempimento di questo dovere costituzionale. Quel
verbo “tendere” nel terzo comma nell’articolo 27 Cost. vuole invece
segnalare proprio una dimensione di apertura e di “fattività”: secondo la
Costituzione, la pena deve rieducare, e la rieducazione è un cammino aperto che
ha bisogno di essere nutrito precisamente della dimensione volontaria,
imprevedibile, irripetibile e unica che è l’umanità di ciascuno con le sue
capacità, le sue aspirazioni, le sue risorse. Si fa rieducazione solo
consentendo ancora a ciascuno, anche dopo la commissione di un reato, di poter
di nuovo corrispondere a questo dovere positivo di progresso materiale e
spirituale della società. Si è rieducati solo impegnandosi ancora, anche dopo
il reato, a contribuire a rendere il mondo in cui si vive un mondo migliore dove
vivere. A
me sembra questo il senso ultimo della rieducazione. Ma
allora c’è un ulteriore passo importantissimo da compiere: è fondamentale
migliorare le condizioni in carcere, ma non basta. Bisogna fare di più e di
meglio: bisogna riformare il sistema penale nel senso di un pluralismo
sanzionatorio che contempli in primis pene principali non detentive. Perché il
carcere è strutturalmente incapace di consentire la fioritura di capacità,
aspirazioni e risorse, di dar concreto spazio al dispiegamento della “libertà
responsabile” di cui parlava anche Gherardo Colombo. Infatti,
in un sistema penale come il nostro, ancora e sempre ancorato alla pena
privativa della libertà, il nobile e costituzionale principio rieducativo
diventa difficilissimo, se non impossibile, da tradurre in pratica. E ciò non
solo per le ragioni prima descritte da Gherardo Colombo, non solo perché
l’opinione pubblica è capace unicamente di invocare la giustizia retributiva
e cosi poco incline, invece, a sostenere forme di risposta al reato di tipo
rieducativo o riparativo capaci di generare legami sociali positivi. C’è
qualcosa di più: la rieducazione ha una struttura, un modo di essere,
incompatibile con la “chiusura”: perché la rieducazione è un cammino di
apertura, un cammino attivo e non passivo. In
un sistema punitivo, “chiuso” sulla privazione della libertà, la rieducazione
finisce suo malgrado per diventare un “premio”, un’eccezione, uno scarto
rispetto a misure penali detentive che corrono su altri binari concettuali: così,
in pratica, c’è la pena che toglie la libertà e poi – come diceva Mauro
Palma – c’è una specie di premio, con la possibilità eventualmente di
ri-guadagnare ambiti di libertà o la libertà tout court, per chi si adegua
alle regole dell’istituzione penitenziaria, per chi si conforma. Immancabile,
in simile gioco, ritorna la logica di uno scambio, di un conto da saldare,
tipica della giustizia retributiva, tipica della giustizia con la bilancia e la
spada. Si produce, a ben vedere, una specie di costante strumentalità: la
rieducazione non è quel cammino di libertà responsabile che ha in mente la
Costituzione, ma diventa anch’essa il caro prezzo di uno scambio conveniente,
qualche cosa di utile da guadagnarsi a un certo costo. Mi
chiedo se non sia possibile costruire un sistema penale che prenda davvero sul
serio la rieducazione e sappia dar vita a modelli di risposta al reato in grado
di promuovere l’attivazione di capacità, risorse e aspirazioni positive. Mi
sembra, questo, un compito urgentissimo: trovare una coerenza tra ciò che il
nostro ordinamento giuridico afferma in termini di principio, ciò che comunica
attraverso i propri precetti penali e ciò che fa in risposta al reato, cioè
quando i principi e precetti vengono trasgrediti. Non
so se avete mai osservato come tra principi, precetti e pene si venga a creare a
un certo punto – quando fa ingresso la pena – un’interruzione di
significato, un’inversione di rotta, che produce, a mio avviso,
un’insanabile incoerenza interna nel sistema penale. Abbiamo
principi costituzionali che disegnano ideali per una società buona in cui
vivere (uguaglianza, pari dignità sociale, doveri di solidarietà,
partecipazione attiva, inviolabilità della vita e della libertà personale,
ecc.): noi tutti siamo destinatari di questi principi che ci coinvolgono in modo
attivo, ci chiedono di aderire ai loro contenuti e di portarli avanti nelle
nostre relazioni con gli altri. Poi ci sono i precetti penali. Per inciso,
ricordo come questo brutto aggettivo – “penale” – conduca sempre al
cospetto della pena: eppure, in uno Stato democratico il diritto penale non
dovrebbe essere il diritto della pena, bensì principalmente quell’insieme di
precetti comportamentali rivolti a ciascuno di noi, affinché ci si possa
rispettare anche tra sconosciuti. Il diritto penale è un insieme di regole di
comportamento che ci sono rivolte affinché le osserviamo, non dentro una logica
di adeguamento passivo, di ubbidienza, ma all’interno di una logica attiva, di
condivisione di un messaggio costruttivo. Le norme, anche le norme penali, sono
uno dei modi per rispettarsi. Ben prima di intimidirci con ergastoli,
reclusioni, arresti, manette, ferri, blindi, il diritto penale si rivolge a noi
in quanto interlocutori attivi di precetti e comportamenti e ci chiede di tenere
condotte tali da non offendere la vita, l’incolumità personale, il
patrimonio, l’ambiente, ecc. Insomma:
in uno Stato democratico, non siamo destinatari di comandi; siamo interlocutori
attivi di regole. In
simile contesto e conformemente alla tradizione giuridica liberale-democratica,
il reato non è tanto la trasgressione della legge formale, quanto un
comportamento lesivo e colpevole, dove lesivo significa “offensivo di un bene
giuridico” e colpevole significa “rimproverabile” al soggetto che avrebbe
potuto e dovuto agire diversamente. Offensività e colpevolezza/rimproverabilità
sono due portanti del diritto penale in una democrazia; non lo sono ubbidienza,
sudditanza e punizione. Principi
e precetti ci vedono tutti interlocutori attivi, chiamati a contribuire a quella
società buona in cui vivere. Poi però quando viene commesso il reato (accade
ciò che avrebbe dovuto non accadere), il diritto penale di una democrazia
costituzionale sembra cambiar di segno e non essere più coerente con se stesso:
entra in campo la pena con la sua passività afflittiva, con la sua oziosa
cattività, con la sua devastante infantilizzazione. Dobbiamo
impegnarci, invece, per costruire forme di risposta al reato che ci lascino
essere interlocutori attivi dell’ordinamento giuridico anche nel momento
drammatico della reazione all’illecito penale. Risposte al reato in grado di
riproporre il precetto penale anziché, di fatto, smentirlo nella ritorsione del
male. È
tremendo quando il diritto penale, nel momento in cui punisce, assomiglia di più
al reato da contrastare piuttosto che al principio o al precetto positivo che
fin dall’inizio si voleva sancire. I Paesi che applicano la pena di morte sono
un esempio della profonda incoerenza della ritorsione retributiva: la pena di
morte, smentita del precetto “non uccidere”, viene usata proprio per punire
l’omicidio. Un
sistema che cerca coerenza tra principi, precetti, sanzioni è un sistema penale
che, fra l’altro, abbandona una sterile premialità entro una cornice in
sostanza ancora retributiva; è un sistema che cambia più incisivamente e si
struttura in un pluralismo sanzionatorio il quale introduce, a sua volta, un
dinamismo che amo definire “responsività” (cfr. gli studi di John
Braithwaite sulla responsive regulation). Non
più, quindi, “chi sbaglia paga con la pena” cui appiccichiamo etichette
rieducative le quali dischiudono percorsi di risocializzazione che rappresentano
(di fatto, non di diritto) “eccezioni” rispetto alla “regola” detentiva,
passivizzante, infantilizzante. Invertiamo piuttosto il sistema: aspettiamoci
subito dall’autore di reato un comportamento costruttivo con la messa in gioco
di aspirazioni, risorse e capacità; aspettiamoci da lui l’impegno della
libertà responsabile, e lasciamo la sanzione negativa dietro le quinte, nel
background, per le ipotesi residuali in cui una dinamica attiva per qualche
ragione non si produce. Non
utilizziamo l’afflizione come prima risposta al reato, salvo toglierla di
mezzo se c’è qualcuno che “fa il bravo”: aspettiamoci – con quella
“fiducia del rischio” di cui anche parlava Roberto Bezzi questa mattina –
un attivarsi conforme al precetto da parte del reo e teniamo la pena sullo
sfondo, veramente come extrema ratio. Sono
stata qualche giorno fa a un bellissimo convegno organizzato nella mia università
sul tema “Desiderio e Legge”: interloquivano un sociologo, Mauro Magatti, un
filosofo, Francesco Botturi, e uno psicoanalista, Massimo Recalcati. Proponevano
un’idea di desiderio molto affascinante. Il desiderio – dicevano – esiste
solo all’interno di una relazione: chi vive da solo è difficile che sia
capace di desiderare. Il desiderio veniva definito come ciò che ricerca una
“sintesi riconciliata” tra il finito e l’infinito: il desiderio è, per
definizione, insaziabile; non è un bisogno che si può appagare, è una
aspirazione spalancata sull’infinito. Il desiderio è, quindi, molto simile
alla speranza: ha bisogno sempre di più e non c’è niente che lo può
soddisfare, pur non avendo alcuna prepotenza. A
me sembra che quando Aldo Moro, nell’Assemblea costituente, ha
“desiderato” l’inserimento di quel principio – “tendere alla
rieducazione” –, ha caparbiamente introdotto nell’ordinamento penale una
dinamica aperta, attenta all’umanità e volta alla messa in gioco di capacità
che siano in grado di riconciliare la libertà con la responsabilità. Mi
piace immaginare, così, che la rieducazione sia una forma del desiderio nel
diritto penale. Capitolo
sesto: La rieducazione sentimentale Nel
processo e nelle pene concepite come retribuzione al male fatto è del tutto
trascurata la dimensione emozionale dell’offesa che il reato provoca. Ma forse
è proprio sui sentimenti che bisogna riflettere, sulla necessità di una
“educazione ai sentimenti” che ha a che fare con il percepire fino in fondo
il dolore provocato alle vittime del reato, ma anche alla propria famiglia. La
“rieducazione sentimentale” di persone “disavvezze” all’attenzione ai
sentimenti e afflitte a volte da una specie di afasia sentimentale, diventa un
momento importante proprio perché commettere dei reati comporta spesso di
partire da sé e ignorare o calpestare i sentimenti degli altri. E invece
in galera si può aver paura anche dei
propri sentimenti, paura dei nostri figli, che
non conosciamo affatto di Dritanet Iberisha,
Ristretti Orizzonti Comincio
col dire che ogni anno penso e dico che ce l’ho fatta. Anche quest’anno ce
l’ho fatta, perché ogni volta dico che sarà il mio ultimo Convegno ed
Ornella mi chiede “Ma perché l’ultimo?”, ed io rispondo che non lo so,
l’anno prossimo non si sa mai, vediamo come va l’anno perché in carcere non
si sa mai cosa ti aspetta, anche se apparentemente le giornate sono tutte
uguali. Devi vivere alla giornata senza riuscire a immaginare nulla o quasi del
tuo futuro. Ma io non voglio raccontare questo, voglio raccontare un’altra
cosa, perché sopra, quando noi parliamo in sezione, tra di noi detenuti
qualcuno talvolta ti chiede “Ma hai paura?”, paura rispetto al futuro, a
quello che ci attende, a dopo la galera, e noi per essere un po’ più detenuti
diciamo di no! “Io non ho paura, ma che paura, paura non ne ho mai”, così
rispondevo anche io, negando in tutti i modi qualsiasi sentimento di paura. Invece
l’anno scorso, nell’agosto dell’anno scorso, ho chiamato a casa mia e
parlando con mia figlia lei mi ha detto: “Papà, guarda che a marzo ho
compiuto 18 anni, posso venire a trovarti in carcere anche da sola, oramai sono
grande!”, ed io in quel momento ero contento, ho detto “Meno male che puoi
venire a trovarmi da sola!”, stavo per continuare a risponderle
tranquillamente, ma li mi è venuto un colpo, un attacco di panico dentro che
non mi uscivano le parole per rispondere. E allora le ho detto “No, no dai
vediamo, perché stai lontano, è difficile venire fin qui da sola”, ma in me
vi era anche la paura, e non sapevo come dirglielo, perché da una parte non
volevo intendesse che io non desideravo vederla (è la mia unica figlia!), ma
dall’altra mi è venuta questa paura di incontrarla da sola, perché prima non
l’avevo mai incontrata sola, aveva più di un anno quando l’ho lasciata, lei
fuori in libertà e io in galera, e vagavo con questo pensiero “Ma come
faccio? Ma come faccio!?”. Invece l’11 aprile di quest’anno il magistrato
di Sorveglianza mi ha concesso un permesso premio e sono uscito un giorno per un
incontro del progetto Scuole-Carcere. Sono venuti a trovarmi anche i miei, con i
volontari dell’Associazione, Ornella ed altri siamo entrati in un ristorante
per il pranzo, e pioveva parecchio, era un giorno molto grigio e piovoso, a dire
la verità io ero molto confuso, non ho capito molto su quel giorno, infatti ho
pensato tra me e me: “Magari le ore ed i minuti scorressero così veloci anche
in carcere, avrei già finito di scontare la condanna da un pezzo…”. Al
ristorante dopo un po’ ho detto a mia moglie ed a mia figlia se potevamo
uscire, e così siamo andati fuori sotto la pensilina del ristorante e avrei
voluto dire loro qualcosa, ma anche lì, ugualmente la paura continuava. Ma cosa
dirgli!?, perché lei mia figlia, sì mi vuole bene, mi abbraccia, mi chiama
anche padre, perché vuole fare così. Ma la verità è che uno la deve anche
meritare questa parola, ed io non sapevo che cosa dire, così dopo qualche
minuto ho detto loro “Dai andiamo dentro che piove”, in questo caso ho
ringraziato Dio che pioveva, mi ha salvato la pioggia perché non sapevo bene
come comportarmi, avevo troppa paura di sbagliare. Una paura di cui non mi devo
vergognare. Ma
perché questo succede? Io non lo so perché succeda, io so che mia figlia
l’ho lasciata che aveva un anno fuori e ho cominciato a ritrovarla che aveva
19 anni in un bar, fuori. Nel mezzo ci stanno anni di incontri nelle sale
colloqui, dove un figlio non lo puoi in nessun modo conoscere. È una cosa
incredibile, speriamo che nessuno debba mai provarla, la paura di fronte a un
figlio! Il
coraggio di non isolarsi, di non
nascondersi, di non vergognarsi È quello
che serve ai genitori di un detenuto, per comunicare ad altri la loro
esperienza, per metterla a disposizione in modo particolare ai giovani di Marina,
madre di una detenuta l
genitori del “cattivo”: l’immaginario comune ed i mille volti della realtà Nell’immaginario
comune la famiglia del carcerato è una famiglia ”difficile”. Spesso si
pensa, infatti, a situazioni di ignoranza, povertà, alcol, droga, abusi,
arrivando talvolta ad immaginare che il “cattivo” e la sua famiglia siano
anche “brutti” fisicamente. E soprattutto si pensa sempre che siano persone
lontane dalla propria vita, cioè che non potranno mai essere i propri
conoscenti, i propri amici, i propri parenti. In
questi sei anni, durante i quali ho varcato la soglia delle numerose carceri
dove Giulia è stata ospitata, mi sono spesso soffermata ad osservare gli altri
familiari e posso tranquillamente sostenere che la realtà è molto più
variegata di quello che normalmente si crede. Siamo differenti di etnia, di età,
di cultura, di lingua, di ceto sociale. Sono differenti i nostri comportamenti,
ad esempio di fronte alle difficoltà od alle lentezze della burocrazia
carceraria: c’è chi ha pazienza, chi reagisce con rabbia e arroganza, chi con
rassegnazione e umiltà. Ci sono quelli per i quali il carcere è diventata una
periodica abitudine o che si dividono per andare a trovare più familiari, ma
anche quelli che, come noi, affrontano per la prima volta, e molto probabilmente
l’unica, questa esperienza così distante dalla vita abituale: famiglie che
conducono una vita semplice, onesta, normale, lontano da comportamenti che
possiamo considerare “a rischio”. L’educazione
impartita dalla famiglia, dalla scuola, dalla società Quando
un giovane commette un reato solitamente si tende a pensare che gran parte della
colpa sia dei genitori e della loro cattiva educazione. Sono consapevole che le
responsabilità dei genitori nell’educazione di un figlio sono enormi, ma sono
anche convinta che, nell’attuale società, educare un figlio sia un compito
molto più difficile che nel passato. Oggi, un giovane, soprattutto nelle grandi
città, entra in contatto con modelli e sollecitazioni spesso molto differenti
da quelli che una famiglia come la mia propone, ed in ogni caso più
precocemente di un tempo. E, mi spiace dirlo, perché sono stata un’insegnante
anch’io, ma capita talvolta che la stessa scuola, dopo la famiglia luogo
educativo per eccellenza, dia origine, suo malgrado, alle prime contraddizioni.
Ricordo che mia figlia, al primo anno di Liceo, un giorno riferendosi proprio a
ciò che lì accadeva, ci disse: guardate che il mondo esterno non
“gira” esattamente come voi avete voluto farmi credere… E questo mondo
esterno che già dall’infanzia entra nelle case attraverso canali
apparentemente innocui, penso alla televisione, ai videogiochi, ad Internet,
mette spesso in difficoltà e lascia sola la famiglia, quasi avesse in esclusiva
il compito educativo, mettendone alla prova la credibilità. Personalmente,
penso che si stia vivendo in una società nella quale si predica bene ma si
razzola male e non c’è nulla di peggio che dare ad un giovane dei
messaggi così contrastanti. Il
rapporto con un figlio carcerato. I sentimenti contrastanti Ma
le difficoltà educative di un genitore nella vita di ogni giorno, per quanto
grandi, diventano cosa di poco conto di fronte ai sentimenti che prova quando un
figlio viene arrestato. Si tratta di sentimenti forti e dolorosi: paura,
confusione, ansia, preoccupazione, sconforto, senso di impotenza. Ed una cosa è
certa: si decide immediatamente, in modo direi istintivo, se rimanergli accanto
oppure no. Io sono stata fortunata, perché la mia decisione, quella di mio
marito, quella delle nostre famiglie e delle persone a noi vicine è stata la
stessa: rimanere accanto a Giulia qualunque cosa fosse successa e qualunque cosa
avesse commesso perché il nostro amore per lei non era e non è mutato. Certo,
per i genitori che, come noi, hanno un figlio con una lunga condanna, i sogni
sembrano infrangersi e proprio quel figlio fin dalla nascita caricato di
aspettative, probabilmente troppe o troppo grandi per lui, diventa fonte di
sentimenti a volte inconfessabili, come delusione e rabbia, in alcuni casi
rifiuto. Non sono rari, infatti, i detenuti abbandonati dai genitori. Rimettersi
in discussione,
ascoltare, capire, farsi aiutare. Decidere
di restare accanto ad un figlio detenuto, significa innanzitutto rendersi conto
delle enormi difficoltà da superare. Il rapporto si riduce a sei ore di
colloquio al mese (per chi ha la possibilità di sfruttarle) durante le quali si
cerca reciprocamente di riassumere il vissuto del periodo trascorso lontani, di
rassicurarsi e di confortarsi. Ma ci sono anche i momenti di crisi, i momenti di
sfogo, durante i quali per un genitore è difficile mantenere con coerenza il
proprio ruolo educativo. Quante mamme ho visto con gli occhi colmi di lacrime
dopo un colloquio, magari dopo aver dovuto mantenere una posizione ferma per il
bene del proprio figlio. Non va dimenticato che per noi madri, i figli sono
sempre e solo i nostri bambini e saperli lì dentro, soli con i loro pensieri,
è una cosa molto dura da sopportare. Dietro
ogni storia di “galera” ci sono famiglie, educazioni, culture, ambienti e
figli diversi, ma identica è la grande sofferenza con la quale i genitori
pensano alla scelta sbagliata del proprio figlio. Ed è difficile mantenere
obbiettività ed equilibrio: ci si colpevolizza per i propri umani errori
educativi o, al contrario, si nega ogni responsabilità propria o del figlio,
pensando che sia “tutta colpa degli amici…”. Io credo che la
detenzione di un figlio sia una delle occasioni, traumatica e che, ovviamente,
non auguro a nessuno, per riflettere e mettersi in discussione. Essere genitore
è un “mestiere” difficile, come dicevo, ma penso anche che ognuno di noi,
in fondo, è un po’ il “riassunto” delle generazioni precedenti. Dunque,
gli errori che commettiamo in buona fede hanno spesso radici nel nostro vissuto.
Ma per poterlo realizzare, è necessario avere il grande coraggio di non
isolarsi, di non nascondersi, di non vergognarsi e, anche, di farsi aiutare ad
elaborare questa esperienza dolorosa, per poter andare avanti mantenendo
quell’equilibrio e quella serenità utili a nostro figlio. Superare
il passato, vivere il presente, pensare
al futuro Il
passato non si può cambiare ma il presente ed il futuro sì e si possono sempre
fare scelte migliori. L’ho ripetuto tante volte a mia figlia nei suoi e nei
miei momenti di sconforto. Questo non significa dimenticare o negare il reato,
ma capirlo e conviverci senza esserne sopraffatti, anche quando non siamo
convinti che la verità sia quella stabilita dalla Giustizia umana. Ma
migliorare un presente di detenzione non è facile, non a caso il recluso tende
a pensare più volentieri alla libertà futura ed in fondo lo facciamo spesso
anche noi genitori. Ma se è importante fare progetti, farli a lunga scadenza,
soprattutto quando si ha un “fine pena” lontano, non serve: troppe sono le
variabili, con il rischio di delusioni e di provare tanta tristezza.
Il
rapporto con il mondo carcerario. Ogni carcere è un mondo a sé Se,
dunque, è meglio concentrarsi sul presente, bisogna tener conto che il presente
di un detenuto è di solito rappresentato da una cella piccola e poco
accogliente, magari sovraffollata; di rapporti, spesso tesi, con persone
sconosciute; di giornate lunghe ed uguali, di delusioni, di paure, di ansia, di
ricordi. Che
il carcere debba essere un luogo rispettoso della persona con finalità
rieducative non sono soltanto le persone che hanno un familiare detenuto o
quelle dotate di una particolare sensibilità sociale a sostenerlo: è
l’articolo 27 della Costituzione italiana che lo enuncia. “Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” vi si
legge. E ancora: “Le pene devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Ho visto molte carceri in questi sei anni e posso dire che
ognuno è un mondo a sé: regole generali comuni, condizioni strutturali,
opportunità, gestioni diverse, che possono incidere sul comportamento, sulle
reazioni e sul futuro di un detenuto. Attualmente Giulia, grazie a persone
illuminate e che ritengo abbiano saputo mettersi in gioco loro per prime, ha la
fortuna di essere in un carcere considerato una delle eccellenze italiane. E
questo fa la differenza, anche per noi genitori. Una struttura carceraria che si
organizza in funzione del cittadino di domani e non soltanto del detenuto di
oggi, che gli concede una maggiore libertà e gli offre un buon numero di
opportunità di formazione, lavoro, attività, gli permette di non sentirsi
troppo “fuori dal mondo” (cosa veramente importante per chi ha delle
pene lunghe), rieducandolo (talvolta educandolo) ad un comportamento
responsabile ed al rispetto delle regole con la consapevolezza che sono frutto
di una sua scelta e non di un’imposizione. Il
rapporto con chi, lavoratore o volontario, opera in carcere La
realtà italiana, però, tranne rarissime eccezioni, non somiglia affatto al
carcere dove è nostra figlia, perché non bastano buoni propositi e menti
illuminate, sono necessarie strutture adeguate, fondi, investimenti progettuali
privati, personale. Ma non solo: è anche necessaria la volontà, da parte del
detenuto, di cambiare. Voglio, a questo punto, aprire una parentesi che riguarda
il personale che opera nelle carceri: io credo che non è sufficiente che sia
numericamente adeguato ma è fondamentale che sia motivato e formato. In
un’Italia dove il lavoro sta diventando un lusso, non sempre si ha la fortuna
di fare il mestiere che si è scelto e l’impressione che io ho di coloro che
lavorano nelle nostre carceri è la stessa che ho in generale per altri
lavoratori e cioè che si dividono in due categorie: coloro (per fortuna i più
numerosi) che hanno scelto e credono nell’importanza sociale del loro lavoro e
che spesso, a causa di turni massacranti e mancanza di fondi, divengono dei missionari,
e coloro che hanno trovato solo questo lavoro e che, prima o poi,
coinvolgono anche altri nella loro frustrazione. Diverso
è il discorso per chi opera volontariamente e che da un certo punto di vista
credo viva in modo ancora più intenso il mondo carcerario, con le sue regole,
le sue limitazioni ed i suoi drammi. In
ogni caso, per noi genitori, il rapporto con chi si occupa dei nostri figli,
della loro rieducazione ma anche della loro salute e delle loro necessità
quotidiane, è importantissimo: sei ore al mese di colloquio e dieci minuti di
telefonate alla settimana, non sempre bastano a tranquillizzarci. Nelle
restanti, conviviamo con le fantasie, belle o brutte, che ognuno di noi si fa
circa ciò che accade loro lì dentro. Ma
se è vero che talvolta capita di essere trattati con sufficienza o non essere
ascoltati, o di vedere qualche ingiustizia, questo non ci autorizza a
comportarci allo stesso modo né a pretendere di non rispettare le regole, per
quanto alcune possano sembrarci insensate, o che per nostro figlio si facciano
eccezioni. La giusta pretesa del senso di umanità della detenzione e,
dunque dei diritti di un detenuto, non deve sfociare in sterili ed arroganti
rivendicazioni ma in ferme ed educate richieste, cercando sempre di collaborare
nel trovare le soluzioni di un problema. Il
contributo che le famiglie possono dare Il
rapporto tra i componenti di una famiglia, se non deteriorato o nullo prima
dell’arresto, viene sicuramente messo a dura prova quando un figlio entra in
carcere. Alcuni genitori si separano, spesso a causa del reciproco
colpevolizzarsi, alcuni rifiutano di incontrare il figlio (sarà casuale, ma ho
visto più madri che padri durante i colloqui), altri si ammalano per il dolore.
Ma se una famiglia ha la fortuna di superare tutto questo, la sua presenza
diventa un valore aggiunto, un aspetto importantissimo nel recupero del detenuto
perché facente parte della sua sfera affettiva ed educativa passata, presente e
futura. La
prima a rendersi conto di questo, però, deve essere proprio la famiglia che,
per essere utile deve innanzitutto vincere la vergogna e la paura del giudizio
degli altri, uscire dall’isolamento, trovare un proprio equilibro ed essere
disponibile a rapportarsi con chi opera nelle carceri in modo costruttivo perché
proprio noi familiari possiamo cogliere aspetti che altri, dall’interno, non
vedono e, dunque, essere utili a nostro figlio ma anche ad altri. Mi
rendo conto, che tutto ciò può sembrare più semplice a dirsi che a
realizzarsi, ma sono convinta che, in ogni caso, sia importante provare. In
ultimo, penso che ogni esperienza di vita, anche quella dolorosa e
personalissima della detenzione di un figlio, può avere un’utilità sociale.
E comunicare ad altri la nostra esperienza, in modo particolare ai giovani,
ritengo sia un dovere al quale noi in quanto genitori e soprattutto cittadini,
non possiamo sottrarci. La
vita emotiva è ciò che rende le
persone degne di questo nome Privando i
detenuti e l’intera organizzazione carceraria della possibilità di
“lavorare” sui propri vissuti emotivi, concorriamo ad un’opera di
disumanizzazione di
Alessandra Augeli,
Dottore in pedagogia. Svolge
attività di formazione sui temi dell’affettività e della relazionalità, privilegiando
le metodologie narrative ed autobiografiche C’è
una bellissima favola di Leo Lionni che racconta di un topolino, di nome
Federico, che si preparava ad affrontare l’inverno: mentre i due suoi amici
portavano nella tana bacche, noci, fieno e grano, lui restava lì fermo. Come
non lavoro? Sto raccogliendo i raggi di sole per i gelidi giorni di
inverno. E
ora, Federico, che fai? – dicevano gli amici vedendolo fermo seduto su una
roccia. Raccolgo
i colori. L’inverno è grigio. Stai
sognando, Federico? – chiesero quando lo videro accoccolato all’ombra di una
pianta. Raccolgo
parole. Le giornate d’inverno sono tante e lunghe. Rimarremo senza nulla
da dirci. Mi
sembra che la metafora del letargo possa essere vicina ad un contesto come
quello carcerario in cui si sperimenta la privazione dei legami, di aperture (di
ogni tipo), di dinamismo. Federico
offre ai suoi compagni calore, colore e poesia in uno spazio che ne è
privo. Proprio
a partire da questa immagine vorrei provare a tracciare alcune considerazioni
sulla cura della vita emotiva nell’esperienza della detenzione. Mi
avvarrò anche di alcune riflessioni scaturite da una recente ricerca sulla
genitorialità in carcere svolta nel carcere di Piacenza da me e altri colleghi
ricercatori della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università
Cattolica, grazie al sostegno del Centro di Servizio per il Volontariato di
Piacenza (Svep) e di Carla Chiappini, direttrice della rivista Sosta Forzata. Porte
serrate, cinta murarie, filo spinato, torrette di controllo rimarcano linee di
confine tra il detenuto e il mondo esterno e sottolineano dimensioni
contrapposte: «dentro» e «fuori», costrizione e libertà, privazione e
possibilità, chiusura ed apertura, intimità ed estraneità. La
distinzione tra istituzione e mondo sociale pare esprimere l’antitesi tra
ragione e sentimento, mente ed emozioni: l’organizzazione è regolata con
“criterio e ragionevolezza” e il soggetto è espressione di singolarità ed
unicità, protagonista di vissuti emotivi, storie ed esperienze complesse, che
non sempre trovano attestazione. Gli
spazi del carcere si presentano apparentemente come anaffettivi: le
emozioni e i sentimenti sembrano annullarsi dietro le pareti spoglie e lugubri,
dentro le linee dritte ed uniformi, negli spazi angusti delle celle e dei
corridoi. Metaforicamente anche gli affetti sembrano chiusi a chiave e blindati.
In realtà la vita emotiva è soltanto compressa, mascherata, svilita. A
ben guardare, infatti, esistono contraddizioni e paradossi all’interno di
queste stesse dicotomie. Trascorrendo
molto tempo in solitudine il detenuto si trova ad estendere la conoscenza di sé
e a rafforzare più o meno intenzionalmente la propria interiorità. Pensieri ed
emozioni rischiano di divenire forme sterili di ri-pensamento e ri-sentimento
nella collisione con una struttura organizzativa fredda e distaccata. Si tengono
«dentro» cose che non si possono dire, che non si possono esprimere.
L’intimità del detenuto rischia così di farsi voragine dentro cui ci si
perde e crescono forme di “restringimento del sé”, come dice Goffman. Allo
stesso tempo l’istituzione, apparentemente impermeabile ai vissuti e alle
storie di quanti la attraversano, è costretta non di rado a gestire “eccessi
emotivi”, stati d’animo che esplodono e che vanno “contenuti”, con forza
e determinazione. Infatti, come si suol dire, ciò che viene chiuso dalla porta,
continua ad uscire dalla finestra, ed in modo perlopiù distorto ed
incontrollato. L’attenzione
finisce, così, per ricadere sui momenti apicali di espressione emotiva, perlopiù
difficili, continuando a perdere la valenza delle lievi sfumature che
caratterizzano l’esperienza dei detenuti, ma anche di quanti nel carcere vi
lavorano. Ciò
non fa che accentuare e perpetuare l’analfabetismo emotivo e la fragilità
della ricerca di senso che costituiscono la stessa causa di scelte
sbagliate e di percorsi di vita disorientati: la persona detenuta continua a
confrontarsi solo con emozioni dalle tinte forti e a servirsi degli stessi modi
di manifestazione, ritrovandosi ad esserne artefice e vittima al contempo. In
assenza di parole, atteggiamenti e sguardi altri si resta
prigionieri di circoli viziosi e si sperimentano vissuti e sentimenti disumanizzanti
e certamente non liberanti. Inoltre
il momento dell’incontro dei detenuti con i propri familiari, è quello in cui
le contraddizioni proprie del contesto carcerario si “sfidano”: la famiglia,
luogo di intimità e di sentimenti, di confidenza e di convivialità, oltrepassa
la linea di demarcazione e infrange, in qualche modo, i rigidi schemi
dell’istituzione. Anche se per poco, i detenuti respirano la realtà esterna,
uscendo dal quotidiano sentire e sperimentano emozioni differenti; i familiari,
entrando nei luoghi “abitati” dai loro cari, si avvicinano alla loro
esperienza e ai loro vissuti. Ciò
dà adito perlopiù a timori e paure perché viene richiesta, implicitamente, a
tutti – genitori e figli, educatori e agenti penitenziari - una maggiore
capacità di gestione delle relazioni che appaiono trascendere i confini entro
cui ci si era protetti. Di
fronte a tale difficoltà possono prendere il sopravvento dinamiche di controllo
e di repressione delle emozioni e dei sentimenti o di esasperazione
di alcuni vissuti (senso di colpa, rabbia, vergogna, …), che impediscono un esercizio
affettivo ed effettivo della genitorialità, uno sviluppo quanto più sereno
delle relazioni in un orizzonte di comune responsabilizzazione e impegno. Dicevo,
l’incontro in carcere costituisce un momento determinante, prezioso e
delicato: può offrire grandi opportunità di cura del legame familiare, ma
anche dar adito a fraintendimenti, ulteriori chiusure ed allontanamenti. “Ogni
spazio parla: può lanciare segnali di accoglienza, piuttosto che di ostilità.
Aiutare ad orientarsi piuttosto che alimentare la confusione”. Recenti
ricerche evidenziano un netto calo del numero di visite da parte dei bambini e
dei familiari a fronte di un aumento del numero di detenuti. Ciò può essere
imputato non soltanto all’aumento del numero di detenuti stranieri,
impossibilitati a ricevere visite a causa della lontananza, ma anche dalla
gestione degli spazi e dei tempi e dall’organizzazione di ciascun istituto
carcerario. Spesso
sono gli stessi carcerati a scoraggiare i propri figli e familiari a venirli a
trovare. “Vengono
poche volte perché ogni volta che vengono qua si ammalano, non so perché…
Adesso li ho visti dopo quattro mesi. Da Natale che non li vedevo. Ma perché
chiedo io di farli venire poco qua. Ma perché è un posto brutto, sporco, non
mi piace”. [B., 35, It, 2] “Non
sono venuti e non penso che vengano, ma neanche a me non farebbe piacere che
venissero qua. Qua è una brutta situazione, non mi piace farli venire in un
carcere” [N., 30, It, 2] Scegliere
di non incontrare i propri figli, in questo senso, non è tanto esercizio di
libertà nel compito educativo, quanto sottile costrizione. Privare il detenuto
della possibilità di scegliere di incontrare i propri figli equivale a
sottrargli il diritto di visita e il diritto ad una relazione genitoriale
autentica. Migliorare il luogo dell’incontro è tutt’altro che questione
secondaria. È diritto, non privilegio. Lo
spazio del carcere deve dire dell’errore, ma anche della dignità
dell’errante, della sua possibilità di recupero; deve
contribuire a comprendere la separazione, senza tuttavia esprimere il distacco
emotivo dei genitori. Perché
coltivare la vita emotiva in carcere? Le
emozioni e i sentimenti sono canale di accesso ai significati e ai valori,
indispensabili per accrescere il senso etico di responsabilità Consapevolezza
che il proprio stato d’animo influisce sulla percezione degli spazi e dei
tempi della relazione - Ogni luogo connotato affettivamente, ogni spazio in cui
circolano emozioni e sentimenti può divenire casa Riconoscere,
nominare, accogliere, comprendere emozioni e sentimenti è un modo per dirsi la
verità, condizione indispensabile per poter dire la verità (onestà emotiva) Comprendere
le emozioni per poterne assumere la responsabilità e trasformarle (cosa me ne
faccio della nostalgia, del senso di colpa, della rabbia, della tenerezza?);
occorre infatti ristabilire connessioni tra mente, cuore e azione. Il mancato
equilibrio tra queste, infatti, può essere la causa di comportamenti e scelte
sbagliate. Dice, a tal proposito, Umberto Galimberti: “Il movente di alcuni
atti non c’è, o se c’è, è insufficiente o sproporzionato alla tragedia,
perché ignoto agli stessi autori. Occorre mettere in contatto il cuore con la
mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero
emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Queste connessioni
risultano sfilacciate e fragili e perciò ci sono giovani capaci di gesti tra
loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo
perché il cuore non è in sintonia col pensiero e il pensiero con il
comportamento e si è incapaci di sentire che cosa è giusto e che cosa non è
giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo”. Questo
non vuol dire colorare il carcere di un facile sentimentalismo per cui si
lasciano circolare soltanto i buoni sentimenti e si allontanano gli
elementi perturbanti. Nella consapevolezza che il primo passo per dire la
verità è dirsi la verità, riconoscere, cioè, a se stessi
motivazioni, pensieri, fantasie, emozioni e fragilità, il detenuto si dispone
non solo a trovare le parole giuste per raccontarsi in autenticità, ma anche ad
ascoltare la voce dei propri figli e familiari e ad accogliere la fatica della
rielaborazione. Come
curare la vita emotiva in carcere? Accompagnando
i detenuti nella consapevolezza dei propri vissuti e sostenendoli attraverso le
diverse forme di narrazione a trovare le parole giuste per sé e per gli
altri. Creando
terreni di legittimazione di emozioni e sentimenti altri, che vanno oltre
stereotipi diffusi. Prestando
attenzione alla ritualità dell’incontro: ogni passaggio per
conquistare nuovi significati è importante. Per concludere: La
vita emotiva non è un optional. È ciò che rende
le persone degne di questo nome, che rende l’esistenza realmente tale, cioè
ricca di possibilità di trascendenza. Privando
i detenuti e l’intera organizzazione carceraria della possibilità di
“lavorare” sui propri vissuti emotivi – il che significa, come si è
detto, trovare spazi, tempi e modalità per imparare a nominarli, accettarli,
comprenderli ed assumerne la responsabilità, concorriamo ad un’opera di
disumanizzazione e sottraiamo non solo ai detenuti, ma a tutti, l’opportunità
di essere se stessi e di essere migliori. Chiudo
con un augurio: che ciascuno possa realizzare il desiderio di Etty Hillesum,
detenuta nei campi di concentramento, Essere
il cuore pensante della baracca! Capitolo
settimo: Il racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita Nel
raccontare agli studenti pezzi della propria vita, succede spesso che le persone
detenute, che decidono di portare la loro testimonianza, comincino a ritrovare
il “piacere dell’onestà” con se stesse, e anche il bandolo della matassa
di vite complicate, che il carcere raramente aiuta a dipanare. Il fatto è che
con i ragazzi delle scuole c’è quasi un obbligo di verità, avere di fronte
quei ragazzi è un po’ come avere di fronte i propri figli, e confrontarsi con
il loro bisogno di capire il perché dei reati. Che cosa
ha significato per me portare la mia testimonianza ai ragazzi di Ulderico Galassini,
Ristretti Orizzonti Da
circa due anni e mezzo sono ospite della Casa di Reclusione “Due Palazzi”.
Ho commesso un grave reato in famiglia e la detenzione serve per pagare il mio
debito alla società. Dovrei fare un percorso per rieducarmi, e tra le altre
cose arrivare ad una “revisione critica”, e a ripagare il danno che ho
fatto. Ma
la domanda è: come si può arrivare a questo con la situazione attuale delle
carceri italiane, dove tutto ostacola il recupero della persona? C’è
la carenza di operatori, di personale in ogni settore, tutto è rallentato.
Lavoro per tutti i detenuti non ce n’è, le scuole hanno spazi che possono
accogliere solo un certo numero di persone, anche le attività su base di
volontariato non possono accettare tutte le richieste di inserimento.
Bisognerebbe almeno inventarsi qualcosa per far uscire i detenuti dalle celle.
In questa situazione come si fa a pensare che un detenuto possa mettersi in
discussione, riflettere, confrontarsi con gli operatori sulla propria posizione
individuale, se il sovraffollamento affossa quasi tutto? Se sei fortunato ed hai
un lavoro in quel momento devi pensare a come farlo nel migliore dei modi e non
perderlo, ma non certamente a riflettere sul tuo reato e su ciò che ha
comportato per le vittime dirette e per le famiglie. Restare chiuso in cella
quasi tutta la giornata ti consente ancora meno di arrivare alla consapevolezza
del male procurato, e poi con chi parlo, con chi mi confronto, non vedo un
interlocutore attento e pronto ad ascoltarmi, ad aiutarmi. Io
penso di aver trovato un percorso di riabilitazione nell’incontro con i
tantissimi studenti che varcano le soglie del carcere per confrontarsi con chi
fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti e per sentire “l’altra
parte”. C’è un prezzo da pagare: trovare la forza di mettersi in gioco, di
riuscire a raccontare il peggio della propria vita, con sincerità, non
stravolgendo i ragazzi con particolari inutili (li hanno già usati
abbondantemente la stampa e la TV), senza suscitare pietismi o pretendere
perdono o sconti di pena. Sopportare internamente il dolore che accompagna i
miei ripetuti racconti, rivivendo contemporaneamente le immagini del dramma
della mia famiglia. Cosa
mi ha portato a dialogare con i ragazzi? la speranza che possano cogliere i
passaggi che mi hanno portato a superare i miei limiti, e che loro possano
fermarsi un attimo prima se mai dovessero trovarsi in situazioni simili.
Rispondo alle loro domande come se avessi mio figlio davanti e quindi non
voglio, non posso e non devo bleffare, anche quando le domande sono difficili e
dolorose. Ecco
che le riflessioni e il ripercorrere a ritroso tutti i miei 54 anni nel mondo
fuori, da persona “normale”, hanno aiutato anche me, perché ogni tanto
riaffiora qualcosa di nuovo che mi accompagna nella ricerca del perché un uomo
mite si trasforma compiendo qualcosa di mostruoso, quando sino alla sera prima
tutto faceva pensare a un futuro sempre in tre: Alessandra, Andrea e Ulderico,
con tanti obiettivi di vita condivisa. Ho
bisogno davvero di capire, non per giustificare quello che ho fatto, ma perché
voglio dare una risposta a me stesso, la vorrei dare a mio figlio quando avrò
più tempo da dedicare a lui, oggi i colloqui che abbiamo sono pochi e in stanze
rumorose, la telefonata che posso fare una volta al mese per dieci minuti è
anch’essa poca cosa. Questi
incontri con gli studenti e tanti altri confronti che avvengono nella redazione
ti danno soddisfazione, ti fanno sentire ancora una persona utile, che con
responsabilità può dare ancora qualcosa di suo agli altri, per scelta autonoma
e non per costrizione. Ma nonostante questa grande possibilità di confronto, di
dialogo con l’esterno non potrò mai togliermi il peso di ciò che ho
commesso, che ho determinato con il mio agire, e certo non potrò mai
perdonarmi. È la
scrittura che porta la mente a riflettere sulle caratteristiche della nostra
storia personale e a trovare le
parole per raccontarla di
Fatjon Cana, Ristretti
Orizzonti Mi
chiamo Fatjon, sono un ragazzo albanese di 27 anni e provengo da una famiglia
modesta, nella quale non si è mai parlato né di reati né di trasgressioni.
Alla base dei desideri dei miei famigliari c’era per me la strada degli studi,
l’unica che poteva farmi avere più possibilità per il mio futuro. Però
all’esterno della mia famiglia intorno a me io non vedevo sentimenti o valori
educativi sani, ma solo gente che parlava di come raggiungere più in fretta e
con qualsiasi mezzo gli obiettivi del benessere economico. Intanto
io proseguivo il completamento del mio percorso scolastico, avendo anche dei
buoni risultati che sembravano promettere per me un buon futuro e gratificavano
il lavoro e le fatiche della mia famiglia. Il mio comportamento corretto nel
frattempo faceva restare invisibili i segnali negativi del mio carattere, che già
allora c’erano. Il desiderio dei miei famigliari, e anche il mio, erano che io
continuassi gli studi universitari in Italia. Dopo tanta fatica per imparare la
lingua e completare le questioni burocratiche, alla fine ho vinto il concorso
per studiare a Padova, alla facoltà di giurisprudenza. Crescendo in un Paese
come I’Albania con tante difficoltà di vita, vedevo che tra i miei
connazionali, che erano emigrati verso altri Paesi europei, la maggior parte
tornava con una situazione diversa, con condizioni economiche migliori, e tutto
ciò, mentre mi accingevo a partire per l’Italia, apriva la strada alla mia
immaginazione. La
realtà si è dimostrata molto diversa: le difficoltà di inserimento e le
possibilità lavorative scarse, unite alla mia fragilità lontano da casa e
quindi da qualsiasi controllo anche solo psicologico della mia famiglia, mi
hanno spinto a commettere reati nel traffico degli stupefacenti. Il fatto è che
in Italia ho scelto di rimanere attaccato a gruppi di persone provenienti dal
mio stesso Paese, e di non approfondire un confronto culturale con persone del
luogo, non ho cercato cioè motivazioni “sane” per raggiungere condizioni
sociali migliori e nemmeno per migliorare me stesso, ho voluto solo far credere
al mio gruppo famigliare che ero riuscito a inserirmi nel contesto sociale e nel
mondo del lavoro lontano da casa. Le
aspettative tradite nei confronti della mia famiglia, il loro giudizio a cui
dovrò in un modo o nell’altro essere sottoposto, I’arresto, il carcere, la
detenzione, una realtà vuota in cui le prospettive sono molto labili e fumose -
sono di fatto delusioni che impongono una rivisitazione del mio vissuto.
Certamente però non si riesce ad arrivare ad una rivisitazione di se stessi e
delle proprie scelte sbagliate nel vuoto e nell’abbandono all’interno di un
carcere, dove il tempo non viene vissuto attivamente, ma solo trascorso
passivamente. La mia prima carcerazione è stata in un tipo di carcere così,
senza un sostegno psicologico che ti permettesse di ripensare quei comportamenti
errati, un carcere dove il tempo da trascorrere era solo tempo da far scorrere
il più veloce possibile, ma che di fatto nulla ti lasciava dentro su cui
riflettere. Oggi
ritengo che le condizioni siano diverse,
visto che faccio parte di un gruppo come quello della redazione di Ristretti, in
cui ci sono vari progetti. Esiste in particolare un progetto con le scuole, in
cui si incontrano migliaia di studenti: con loro ci si confronta e non lo si può
fare indossando una maschera. E anche se psicologicamente si mantengono o si
cercano di mantenere delle difese o una sorta di giustificazioni, lentamente
queste difese cadono e si è obbligati a porsi di fronte agli studenti come con
se stessi e null’altro che quello che realmente si è. Infine,
esiste da tre anni un Laboratorio di Scrittura, in cui il confronto, il dialogo
e il raccontarsi attraverso la propria scrittura e quella di altri porta la
mente a riflettere su ciò che si è stati e sulle caratteristiche della nostra
storia personale, vista come una catena di cause e di responsabilità che si
possono capire e raccontare cercando le parole che hanno segnato la nostra vita.
La
ricerca per migliorare se stessi si basa su strumenti che pemettono di
ricostruire quello stato personale e sociale distrutto dal reato, e dal
conseguente allontanamento temporaneo dalla società: e così si può arrivare
ad accettare in qualche modo la propria storia per riuscire a costruire un
futuro basato sulla conoscenza dei limiti e delle regole di convivenza corretta
all’interno della società, e sulla consapevolezza che le aspettative
eccessive portano spesso a fallimenti e delusioni. Se
fin da ora si vivono esperienze di convivenza costruttiva, come il nostro
Laboratorio di Scrittura, si fa già esperienza di coscienza e di cambiamento in
positivo. Il
mio intervento è anche a nome di quelli che frequentano il Laboratorio di
Scrittura, avviato tre anni fa da Angelo Ferrarini, docente di scuola superiore,
esperto di scrittura creativa, e condotto oggi insieme a Donatella Erlati,
docente psicopedagogista e psicologa. Ci si incontra due ore ogni lunedì negli
spazi di Ristretti. Siamo una ventina. Il corso avvia alla scrittura di brevi
racconti per aiutarci a capire chi siamo come persone in questo viaggio che è
la nostra vita. Per ora scriviamo di solito brevi testi autobiografici. (Iliade
, Omero, canto III) Il
racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita di Beppe Pasini,
docente a contratto di Pedagogia della
Famiglia all’Università di Milano Bocconi e di Pedagogia Sperimentale
all’Università di Brescia Sopra
le mura Il
tema del mio intervento riguarda la pratica del racconto e della scrittura
autobiografica in carcere. Mi occupo di scritture in prima persona in diversi
contesti del lavoro terapeutico, educativo e sociale, in particolare con persone
che attraversano situazioni di marginalità, di sofferenza, di crisi. La
scrittura della propria vita o di parti di essa, è divenuta una presenza
costante nel mio modo di fare formazione, di insegnare, di fare ricerca. Come
possibilità per comunicare e dare senso ad esperienze cruciali legate al
dolore, alla sofferenza, alle criticità ma anche come occasione di ricerca di
senso, di cambiamento, di trasformazione. Mi piace pensare a questa parte del
mio lavoro come a quella di un facilitatore: di memorie. Il modo che mi sembra
più opportuno per parlarne anzi di scriverne, è quello di partire da ciò che
faccio, dalle pratiche anziché dalla teoria, per poi provare a individuare
alcune linee operative su cosa significa aiutare le persone a raccontare e
scrivere di sè in un contesto come il carcere. Mi
rendo conto che parlarne in prima persona è un’operazione un po’ rischiosa
ma è lo stesso rischio che la scrittura espone chi la sperimenta. Ecco, se
dovessi riassumere in una immagine cos’è per me la scrittura in carcere, la
rappresenterei come uno sguardo sopra le mura. Sento che questa immagine
mi conforta e mi invita a cercare le storie delle persone nonostante lo sgomento
per la lontananza e l’assedio. E’ una immagine epica che ho incontrato nel
canto terzo dell’Iliade: Elena
dall’alto delle mura di Troia scruta le navi dei Greci arrivare dal mare per
vendicare il suo rapimento. La portentosa flotta
veleggia verso la costa per iniziare di lì a poco una lunghissima e
sanguinosa guerra che durerà per più di dieci anni. Le navi sono ancora a
molte miglia di distanza ma il vecchio re Priamo chiede ad Elena di fare una
cosa apparentemente impossibile. Le chiede di riconoscere i volti dei guerrieri
che si trovano sulla tolda. E lei descrive le armature, gli elmi, le corazze.
Non solo. Poiché è l’unica ad avervi convissuto, non solo distingue i volti
ma conferisce anche i nomi ai guerrieri Achei. Scorge le crini dei destrieri e
lo sventolio delle vele. Il suo sguardo si proietta ben oltre le distanze
fisiche e attraversa lo spazio e il tempo. Attraverso questo espediente
narrativo che prende il nome di Teichoscopia (=sguardo dall’alto delle mura).
Omero[1]
propone in questo modo la sua idea di epica come uno sguardo al di sopra delle
mura al quale il mondo si offre in piena luce.
La scrittura di sé dunque, come uno sguardo sopra le mura. Di
qua e di là dal muro: un laboratorio di scrittura autobiografica in carcere Ricordo.
Ricordo il carcere che sorge in mezzo ai campi , vicino alla città. Un grande
prefabbricato. Basso, di un colore marrone. Somiglia a molti altri: tristi allo
sguardo, non concedono molto alla cura. Sono qui per iniziare un corso di
scrittura autobiografica per detenuti legato al tema della cittadinanza attiva.
Nel mio modo di lavorare, la scrittura di sé è solo una delle dimensioni
coinvolte: cerco di affiancare anche dimensioni estetiche e vitali che invitano
alla ricerca di altri alfabeti: i colori, la manipolazione, l’espressione
corporea, le dimensioni poetanti che, intrecciandosi alla scrittura, la
proiettano in una profondità intima, speciale, così unica da essere vera ad
ogni occasione. Il tema della verità nella autobiografia è affascinante e
scivoloso. In carcere è cruciale. Sono vere le storie di sé che una persona
scrive e racconta? Quando ascoltiamo la storia di un detenuto, abbiamo a che
fare con eventi realmente accaduti oppure con reinvenzioni immaginarie? Cos’è
una storia vera? Una storia dipende da chi la ascolta ma l’ascoltatore
lo sa di avere questa responsabilità? Nel
lavoro sociale, con persone che vivono condizioni di fragilità esistenziale,
l’invito a scrivere di sé genera sovente perplessità o addirittura rifiuti.
Odo spesso frasi del tipo : “scrivere ti mette a nudo” o “non
vorrei che altri sapessero le mie cose più intime” o ancora: “scrivere?
Non sono capace, non ci sono mai stato tagliato!” . In carcere non è
diverso. Cerco di non farmi scoraggiare e di considerare questi timori come fili
da seguire con pazienza, per tentare di dipanare il bandolo di una vita. Nei
casi più fortunati, di trovare una storia che riconnetta ciò che sembrava
separato. La poetessa Tess Gallagher dice: “la poesia ricongiunge ciò che
la vita separa”. Mi piace pensare alla scrittura di sé, come
un’esperienza che riconnette. O almeno, è questo che cerco quando la
propongo. Un’esperienza di ri-connessione: con le memorie famigliari, con gli
eventi drammatici legati al reato, con le emozioni che le hanno accompagnate.
Fare poesia in carcere è una pretesa che nasce spesso insieme alla scrittura
di sè. Wiszlawa Szimborska dice : “Preferisco la stupidità di chi scrive
poesie a quella di chi non le scrive” , e allora mi consolo. Perché la
poesia? Per tanti motivi. Forse perché ci si libera dalle regole della sintassi
per inventarne di nuove sperimentando gli effetti trasformativi
dell’immaginazione. La poesia rompe i vincoli e anche il corpo vive la sua ora
d’aria. Nella parola ‘fragilità’ ad esempio, le lettere sembra barcollino
in un precario, tremolante, equilibrio fino a terminare con un’accento robusto
e assertivo. Niente affatto fragile. I
gruppi che incontro in carcere sono spesso composti da persone migranti. Allora
a volte mi aiuta, partire dalle parole e dal loro suono. Le parole sono
innanzitutto suono, e la musica attraversa le distanze tra le culture. In questo
gruppo, per presentarsi molti usano la parola ‘straniero’ e allora
suggerisco di pronunciarla sempre più lentamente per porre attenzione a cosa
accade nella bocca. Il suo movimento somiglia al suo significato. L’aria
sibila contro il palato e viene spinta dalla lingua contro gli incisivi per poi emigrare
forzatamente verso l’esterno . Proprio come avviene ad un profugo costretto ad
abbandonare a forza la sua terra espulso dalla povertà, dalla guerra, dalla
mancanza di lavoro, dalla violenza. Anche per altre parole il viaggio
dell’aria è simile: strano, forestiero, estraneo, esterno, clandestino.
Poi uno azzarda: ma allora anche ‘stronzo’! E tutti scoppiano a ridere. Ma
forse che anche lì non avviene un analogo processo di migrazione:
da ”un dentro a un fuori” ? Possiamo ora pronunciarla con un altro
orgoglio e ricordare di quella volta che ci siam sentiti stranieri. Le parole
come le persone seguono destini nomadi. In
classe: la bellezza salva la vita In
carcere spesso la classe non c’è. Almeno non nel senso che ho sempre
conosciuto. Chi insegna in carcere deve spesso fare i conti con una presenza
alternante e precaria, con variegate origini culturali, e misere origini. Ho
imparato però che non sempre significa deprivazione culturale. In questo gruppo
qualcuno pronuncia a malapena l’italiano ma conosce tre lingue. Amandeep Tchai
capisce il punjabi, l’indi e il russo e scrive sdolcinate liriche tracciando
raffinati arabeschi che ci meravigliamo a contemplare quando ce li mostra. Karim
conosce gli antichi scritti Zulu e parla correttamente cinque dialetti del
Ghana, Saphem prima della detenzione, lavorava come cesellatore in una impresa
di mosaici in pietra. Molti di loro hanno viaggiato attraverso più continenti.
Hanno figli, compagni, mogli e alcuni più di un diploma scolastico. Hanno
vissuto molto più di me. Tutti hanno la piena consapevolezza di appartenere ai
diseredati del pianeta. Sento che questo li porta istintivamente a minimizzare o
mortificare la loro storia se non a ripudiarla. Per raccontarla bisogna esserne
fieri, almeno un po’. Perché partecipare ad un laboratorio di scrittura
allora? Costruire senso sulla motivazione attribuisce valore a ciò che si fa e
lo àncora ad una prospettiva
futura. Chiedo: Cosa
vorreste imparare in questo corso? Fancy:
a non dimenticare e a ricordare parti della mia vita; Octavia:
a esprimermi meglio quando uscirò Jouari:
vorrei imparare a scrivere e a scrivere poesie! Angelo:
vorrei imparare e conoscere altre culture per me stesso e per poter dialogare; Evelina:
vorrei scrivere belle parole e bene; Larrissa:
vorrei imparare a esprimere meglio pensieri, sentimenti, comprendere meglio le
parole e il linguaggio. Il
silenzio in carcere è impossibile; è una grancassa che amplifica ogni rumore,
suono, urlo, eco, vociare, imprecazione. Bisogna farci i conti. Le vetrate che
danno sul corridoio garantiscono oltre alla sorveglianza anche l’assenza di
una certa intimità, auspicata in un gruppo di scrittura autobiografica ma qui
preclusa. Anche
gli spazi parlano Il
gruppo è misto: sei donne e sei maschi, ai quali si aggiungono però saltuarie
presenze di concellini attirati dai compagni che frequentano il corso. Il clima
in cui si svolgono i nostri incontri è per la maggior parte delle volte festoso
e eccitato. Gli spazi sono ristretti, con tavolini usurati e seggiole
sbrecciate. Mettersi in cerchio fianco a fianco, come spesso propongo, è una
piccola rivoluzione: i corpi si sfiorano, si toccano, si urtano goffamente per
celare così un evidente imbarazzo frammisto a desiderio. Il carcere amplifica
all’infinito le allusioni erotiche: nelle parole, nei corpi, nelle
inclinazioni gergali, trasformando ogni gesto in una velata dichiarazione
d’amore, in un simbolico ricordo proibito, condendo i vocaboli di sensualità.
Ma anche di melassa retorica. Mi chiedo: hanno
imparato in questo modo, attraverso le parole, a far l’amore in carcere? Alda
Merini sosteneva che mai come in manicomio, altra istituzione totale, aveva
amato. Periodicamente,
come un ipnotico tamburo di house music, irrompe la bastonatura delle sbarre che
viene celebrata per verificarne la integrità. Un giorno abbiamo provato a
danzarlo irriverendo quel rituale e scoprire così la grazia inattesa del
battito di un cuore affannato. Il nostro. Tutto, in carcere invita ad un altro
ritmo e ad un altro pensiero. Fuori si chiamerebbe contemplativo o
introspettivo, qui diventa ossessione. Ciò che mi colpisce in questi giovani
detenuti è la cura nell’abbigliamento con cui vengono al nostro appuntamento.
Ci si aggrappa alla spasmodica ricerca della bellezza per non soccombere alla
incuria. Un bell’aspetto fa sentire meglio e la normalità pare più vicina.
Anche la scrittura aiuta a sentirsi normali. In carcere si scrive molto: alla
famiglia all’altro capo del mondo o al paese accanto, ad una fidanzata mai
lasciata, ad un indelebile amico ex compagno di cella, all’avvocato, ad un
figlio che non si è mai visto. La difficoltà è semmai una condivisione che
aiuti a socializzare le storie dell’io che ognuno, silenziosamente coltiva e
che rischiano di implodere anche con violenza, nelle relazioni quotidiane.
Ascoltarsi diventa arduo, come se il fragoroso silenzio che ognuno coltiva
mentalmente cercasse gli argini per debordare rendendo impudica la memoria che
si svela. Quando
però il muto fragore si placa, le storie affiorano, ed è bellissimo. Si tratta
il più delle volte di origini di storie, di ricordi in grembo, di rievocazioni
improvvise, di intenzioni narrative, regalateci dall’amorevole solco di una
biro, un pastello, una matita sgarruppata, un moncone di gessetto, un pezzo di
carbone perfino. A loro celebriamo la nostra riconoscenza con un applauso, una
risata, un pianto, un pomeriggio insieme. Sinestesie
per raccontarsi in corpo che ricorda Coniugare
corpo, memoria e linguaggi sensibili mi sembra una via attraente per proporre un
alfabeto che risvegli sensi rattrappiti dalla quotidianità. Questo dovrebbe
fare la scrittura. Come nella Sinestesia (dal greco sun-aisqanomai =
percepire insieme) in cui si intrecciano registri sensoriali con altri: i
colori si fanno chiassosi, gli odori colorati, i sapori ruvidi o lisci. Ci
proviamo in un corpo a corpo con le parole evocando un incontro
indelebile, proprio con la scrittura, come se fosse una persona: “Io e la
scrittura. Un incontro indimenticabile” Dice
Larrissa nel suo italo-rumeno: “…mi
ricordo quando scritto a mia madre e che le ho detto una cosa che non sono mai
riuscita a dirle con la voce…” e
Andrea ricorda: “…
ricordo le parole di saluto scritte su uno striscione dedicato ad un amico morto
sulla strada. Quasi un fratello. “ Sono
incontri indelebili certo e la scrittura ne è stata testimone e protagonista.
Propongo allora di rileggere quanto scritto e dirlo con la propria lingua madre.
E i suoni cambiano: sento la suadenza del castillano, le rotonde aspirazioni del
maghreb, il ritmo dolcissimo del punjabi (o era indi?), l’inglese africano di
Fancy, una lontana nenia slava, il bauscia pugliese di Angelo e io abbozzo,
ridicolo, parole in dialetto bresciano, lontani echi della parlata ormai perduta
delle mie radici famigliari. E
ci diciamo che allora, Scrivere
è come: …un libro, mettere tante cose insieme, un fiore che prima era solo un
foglio piegato, una barca che attraversa il mare, un sacchetto pieno di parole,
una lettera da mandare. La
scrittura, come le persone, respira, cammina, si muove. Prendiamo il foglio di
carta sul quale abbiamo scritto e lo avviciniamo all’orecchio. Lo
stropicciamo, lo strappiamo, lo appallottoliamo, ascoltiamo il suono delle
parole, ce lo tiriamo come fosse una palla. Ridiamo. Parole in viaggio, parole
che ci regaliamo alla fine dell’incontro per ringraziarci di quanto ci siamo
raccontati e da riportare con sé in cella per continuare a ricordare anche da
soli.
Quando
diamo e prendiamo voce, tutto parla e racconta: anche un cancello. Labile
confine tra dentro e fuori, ma pure netto, risoluto, invalicabile. Per arrivare
all’aula di cancelli ne attraverso cinque, ognuno con una sua “personalità”,
un suo particolare sfrigolio che è parola più appetitosa di cigolìo.
Attraverso il cancello passano
sguardi, aria, luce, immagini, attese, speranze, pensieri. Non li si può
fermare con un chiavistello, passano comunque. E allora chiedo: quali parole
vorreste portare dentro e quali vorreste portar fuori? Propongo ad ognuno di
disegnare col carboncino un cancello e di scrivere tra le sbarre le parole che
vorrebbe uscissero e quelle che vorrebbe che entrassero. Perché come dice
Giovanni “…portare
dentro significa, sia che vorresti che le parole ti facciano compagnia sia che
vorresti imprigionarle, così anche portarle fuori vuol dire allontanarle da se
stessi perché fanno male, ma anche liberarle.” E
allora le parole da portar dentro sono: libertà,
vita, famiglia, diritti, amore, giustizia, cambiamento, fiducia, vita sana,
convivenza, risate, amicizia; …e
quelle da portar fuori: rabbia,
riscatto, serate, bamba, belle gnocche, ritorno dal nulla, telefono, allegria,
il mio gatto, un libro da studiare, carmen, paura, parlare, piangere. Tra
le sbarre di quei cancelli abbozzati, le parole fluttuano ridicole e lievi,
paiono indecise su quale direzione prendere. Ognuna porta con sé una storia,
ognuna va a far visita a chi c’è dentro e poi ritorna fuori. Questo ricorda a
molti che nella vita ci si può sentire in prigione anche senza esserlo
fisicamente, così scriviamo di un momento in cui ci si è sentiti in prigione
pur essendo liberi. Ricordo la storia di Hamhed e di suo padre e di un suo
terribile errore medico che ne causò la morte, quella di Evelina e di un figlio
che da tanti anni non può vedere, quella di Fancy e di una casa dalla quale non
poteva uscire perché rinchiusa da un fratello violento. Ricordo Giovanni che
lesse lo scritto di Larissa perché per lei era troppo doloroso e improvvisando
lì per lì lo trasformò in risa di pianto. Rimembrare quelle storie ci
scioglie in una intima “nostalgia” che si declina in arabo con = TUHACHT
(Tuaesctìk) equivalente di ‘Mi manca’ , in Indi con = SHAKATI (Sciactì)
e in ungherese con =HIANISZIK (Iànzik). Un movimento di guance e palato
che si fa ora impastato e dolce, ora tenero e deciso, ora fuggiasco e restio.
Gli stessi che pure chi prova nostalgia, vive. Trascriviamo le parole da portare
“fuori e dentro” su biglietti di leggerissima carta velina, le
appallottoliamo per gettarle oltre quelle sbarre di carboncino e ce ne andiamo
anche noi leggeri dopo un’ evasione semantica. Per
guardare oltre le mura Da
questa breve sintesi provo, per concludere, a individuare alcune linee guida che
mi paiono importanti per creare contesti e occasioni che facilitino la
narrazione e la scrittura di sé in carcere
come uno sguardo sopra le mura: Progettare
e Concertare Per
lavorare educativamente in carcere è cruciale progettare e concertare un
laboratorio di scrittura con la direzione, con il personale educativo, con gli
operatori, i detenuti. Mi
pare una pre-condizione necessaria per creare una cornice esplicita e concordata
sul senso, gli obiettivi, la metodologia. In un’ottica di trasparenza e
reciproco apprendimento. Questo non implica solo saper lavorare in rete, ma
pensarla anche come una selva, un giardino, un cielo, un bosco. Ritualizzare
l’incontro Costruire
una ritualità fatta di orari e giorni stabiliti così come di passaggi che si
ripropongono, aiuta a identificare l’appuntamento con la scrittura di sé e
con le storie come un “luogo speciale” e intimo, da attendere, desiderare,
curare. Affinchè il “dentro” somigli almeno un po’ al “fuori”. Riconoscere
il primato alla cura della relazione Un
laboratorio di scrittura autobiografica è soprattutto una esperienza di cura
della relazione: con il contesto, con i partecipanti, con gli operatori
carcerari. Per diminuire i rischi illusori delle trappole della tecnica e dei
tecnicismi, è essenziale assumere una postura circolare, attenta ai feedback
offerti dalla relazione con le persone e a quello che accade. È soprattutto la
percezione di cura e di sentirsi curati che fa la qualità di un percorso
formativo. È questa che le persone portano via e che a volte salva la vita. Cercare
la bellezza Vedere
la bellezza significa rieducare lo sguardo. È un invito a cercare le strutture
che connettono, direbbe Gregory Bateson. Vedere la bellezza crea speranza,
favorisce una pensosità leggera; riapre/libera le parole, genera spiazzamento,
sposta il tempo e promuove la capacità di immaginare e di immaginarsi. Dice il
poeta ed educatore Danilo Dolci: “Se
l’occhio non si esercita, non vede. Se la pelle non tocca non sa, Se l’uomo
non immagina si spegne” Ridare
centralità al corpo I
corpi reclamano una loro voce. In carcere a volte è un urlo straziante. A volte
ha la forma di una cicatrice e il colore di un tatuaggio. Altre volte è un
suono muto. Il corpo impara, pensa, sogna. Implica considerarlo come un testo,
con una sua propria scrittura, sapienza, memoria. La nostre prime memorie di
cura sono sensoriali, fisiche. L’odore della madre, il sapore di un cibo
d’infanzia, il calore di una mano. Il corpo ama il gioco, perché è esso
stesso gioco. Nei laboratori giochiamo molto. Favorire
una polifonia narrativa La
scrittura di sé dovrebbe alimentare la consapevolezza che non una ma molte
autobiografie abbiamo! Tutte quante vere. Se una storia di vita ha come unico
titolo il nome del reato commesso, le altre che pure possono nascere, si
sottraggono a questa tirannia per essere narrate con altre parole. Magari meno
angosciose. La scrittura di sé aiuta a rivedersi, ripensarsi, ri-narrarsi, che
sono azioni che promuovono cambiamento e offrono così al suo autore una
possibile redenzione. Onorare
la complessita’ di ogni relazione Si
esce cambiati dall’ascolto di una storia di vita. Ricordo che quando mi sono
occupato di memorie dei sopravvissuti ai lager nazisti, i testimoni talvolta
interrompevano il loro racconto per chiedere: ma tu che ascolti le nostre storie
cosa ti succede, cosa provi? Ascoltare e aiutare una persona a comporre la
propria storia, invita anche chi ascolta a cercare i nessi nella propria
esistenza. Cura dell’altro e cura di sé si intrecciano così, circolarmente e
suscitano domande a cui è difficile sottrarsi: chi sono io per l’altro? chi
è l’altro per me? Che ci faccio qui? Perché voglio ascoltare la sua storia?
C’è un po’ di me nelle loro esistenze e ascoltandole, la matassa spesso
aggrovigliata della mia vita, sembra sciogliersi. Incontrare
la storia di chi sta in carcere, invita a ritrovare anche la propria. Ad esempio
con tutte quelle volte in cui abbiam perso la libertà, in cui eravamo lontani
dagli affetti famigliari, o ci siamo sentiti redenti o condannati. Di quelle
volte che abbiam trovato la bellezza in mezzo alla tragedia e questo ci ha
salvato la vita. Aiutare i ragazzi che incontrano queste vite proponendo loro
occasioni e stimoli in cui prendere contatto essi stessi riflessivamente con la
propria memoria attraverso la scrittura, è più di un metodo. È una postura
che educa all’intelligenza narrativa, all’ empatia e all’ascolto di quelle
storie che un po’ somigliano a quelle di ognuno di noi. Per
terminare Ecco,
è con gratitudine che il laboratorio di scrittura in carcere finisce. Ma prima
di lasciarci, accade. In uno di quegli attimi di silenzio che ora angosciano un
po’ meno. È Rachel che racconta ora. Sul suo viso d’Africa che trasluce, ha
una cicatrice gonfia che lo attraversa dall’orecchio al labbro. Una volta
accennò ad un machete, ma nessuno le chiese oltre. Ricorda la sua
infanzia perduta accennando ad una ninna nanna nel suo idioma bambino, il
dialetto Edo’ del delta del Niger. Ci facciamo muti mentre ci regala il suo
canto. In quel luogo di sedie sbrecciate e di muri scrostati, un canto. Perfino
il fragore delle sbarre malmenate si acquieta. Ci traduce le sue parole, che
dicono così: Dio
mia pace guarda gli amici quello
che tu vuoi quello
che tu dai io
voglio ciò che tu mi dai io
vengo da te, io torno a te La
sua voce celebra gratitudine nella stanza. Mi ricordo di avere in tasca un
lettore mp3 che registra pure. So che non si può fare ma decido di usarlo e di
portare quella voce con me. Chiedo a Rachel di cantarla ancora e per alcuni
attimi quel canto squarcia ogni oppressione e il suo respiro soffia quieto sulle
nostre notti, al di sopra delle nostre mura. *Adattamento
dell’articolo apparso sulla rivista Animazione Sociale n. 240/2010 dal titolo,
”La possibilità di sguardi sopra le mura. Un laboratorio per scrivere di sé
in carcere” Le
conclusioni della Giornata di Studi Un’occasione
per “pensare pensieri non pensati” sul tema della rieducazione La parola
“rieducazione” è stata declinata oggi, da chi ha preso la parola, con
modalità, forme e contenuti che si sono coniugati più in seno alle strategie
di prevenzione sociale che a quelle di prevenzione penale di Adolfo Ceretti Viviamo
tempi cupi. Molto cupi. Le odierne drammatiche emergenze economiche e sociali si
intrecciano con le questioni della devianza, della pena, della punizione.
L’opzione alla quale siamo invitati ad aderire da parte della Politica
risuona, spesso, in questi termini: se non si vuole vivere in una società
insicura e non rassicurante oltre che da un punto di vista economico anche dal
punto di vista dell’incolumità dei cittadini, occorre proteggersi fino in
fondo da ogni rischio, e chiedere alle istituzioni (penali, politiche) di essere
i primi baluardi di questa difesa. L’angoscia paranoica di essere
invasi da presenze oscure e terrificanti, identificate nei delinquenti che
arrivano nel nostro Paese da tutte le parti del mondo travestiti da migranti, e
che sbarcano pronti a saccheggiarci, si è impossessata – via
mass-media – di molti di noi. Chi, infatti, se il discorso è impostato in
questi termini, non si sente legittimato a pensare che le carceri debbano
contribuire significativamente a svolgere unicamente la funzione di difendere
la società, rinchiudendo il maggior numero possibile di predatori (reali o
virtuali)? Detto
in altri termini: il paradigma securitario funziona da calamita, una calamita
che polarizza le decisioni pubbliche e le scelte individuali: tutto ciò che
respinge, blinda, rinchiude e immunizza dai pericoli è positivo; tutto ciò che
accoglie e apre al dialogo è negativo. Queste torsioni politico-criminali –
occorre dirlo senza infingimenti – stanno svuotando di senso, almeno in parte,
il contenuto dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana. Oggi,
nel corso del nostro riuscitissimo Convegno, organizzato magistralmente da
Ornella Favero e da Ristretti Orizzonti, abbiamo respirato, al contrario,
un’aria differente, e messo a punto idee e programmi che non nascono da
vissuti di angoscia e paranoia. Riflettendo
ad alta voce osservo che nel corso di questo Convegno si è parlato, meno di
quanto forse pensassi, intorno a temi strettamente connessi alla realtà
carceraria, alla vita quotidiana dei detenuti, temi che a loro volta sono
strettamente connessi con la questione della rieducazione inframuraria. Non
si è parlato – sono solo alcuni esempi – dell’articolo 41-bis; del
braccialetto elettronico; del circuito di media sicurezza, così come previsto
dalla Circolare 3594/6044 del 24.11.2011; del rischio suicidario in carcere,
tema peraltro particolarmente approfondito da Ristretti Orizzonti; della
riforma della sanità in ambito penitenziario, avviata negli anni passati; di
psichiatrizzazione del carcere (l’unico e significativo dato è stato offerto
dal Dott. Pietro Buffa quando ha ricordato che nel carcere Le Vallette
sono entrate, in 700 giorni, ben 576 persone malate di mente e non in misura di
sicurezza, naturalmente). Aggiungo
subito che non sono dispiaciuto per questi silenzi. Se
avessimo affrontato questi temi avremmo analizzato, ancora una volta, le
questioni politiche – intese in senso lato – che premono sulla vita
carceraria, ma non avremmo avuto la possibilità di “pensare pensieri non
pensati” – come invece è stato fatto – sul tema della rieducazione. Tutto
ciò per dire che oggi è stato svolto un lavoro assai pregevole. La parola
“rieducazione” è stata declinata, da chi ha preso la parola, con modalità,
forme e contenuti che si sono coniugati più in seno alle strategie di
prevenzione sociale che a quelle di prevenzione penale. E questo aspetto è
certamente rimarchevole, almeno per chi ora sta parlando. Per
concludere le mie brevi riflessioni sul Convegno è, però, sul racconto di sé
nello spazio carcerario che desidero tornare. Abbiamo
discusso nel corso dell’intera giornata sul fatto che anche un detenuto
deve imparare a convivere con le proprie debolezze e a onorare i suoi limiti,
per non rischiare – come abbiamo letto nella brochure di presentazione
del Convegno – di “schiantarsi al primo impatto”, dopo la carcerazione,
con una vita che difficilmente può essere ricca di gratificazioni. Abbiamo
ragionato a lungo su quanto sia importante incontrare qualcuno con cui avviare e
strutturare un racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della
vita, come è stato messo bene in evidenza in una delle didascalie del convegno
e poi da alcuni Relatori. Personalmente,
ho sempre interpretato il ruolo del criminologo e il suo operare lontano da ogni
pretesa positivista e scientifica. A partire da questa consapevolezza,
soprattutto negli ultimi anni – cito qui l’amico Alfredo Verde (“Il reale
del delitto e i tre livelli della criminologia”, in A. Verde, C. Barbieri (a
cura di), Narrative del male, Angeli 2010) – ho maturato la convinzione
che fare criminologia significa decifrare quegli ipertesti che sono le
narrazioni, ipertesti prodotti a diversi livelli e in diversi contesti dai
discorsi degli attori che ruotano attorno all’atto criminale (rei, forze
dell’ordine, giudici, giornalisti). In altre parole, il criminologo, pur
gravato da tutte le ambiguità che lo sovraccaricano, dovrebbe, in contesti
diversi, aiutare il reo a scrivere la sua trama narrativa, se non ce l’ha, o
la sua trama vera, se usa i suoi account per ingannarci. In tal senso,
trovo una forte sintonia anche con alcune parole scritte da Cristiano Barbieri
(“Ermeneutica e criminologia”, in A. Verde, C. Barbieri (a cura di), Narrative
del male, Angeli 2010): “Il metodo narrativo considera sostanziale nella
vita mentale del soggetto l’interpretazione della realtà, descritta
attraverso le narrazioni intra ed inter-personali delle sue
esperienze. Questo permette di conoscere in modo più puntuale non solo il
naturale bisogno di raccontarsi e di raccontare ciò che accade, aiutando a
comprendere meglio quelle modalità di dare un senso agli eventi, ma anche quel
processo di scrittura e ri-scrittura della propria biografia, o delle parti più
significative di essa, che motiva anche il cambiamento dei vissuti e degli
atteggiamenti nei confronti del mondo”. Nel discorso esistenziale di ogni uomo
la creazione di storie rappresenta il primo dispositivo al quale si fa ricorso
per conoscere e interpretare perché, parafrasando ancora quanto sostiene
Barbieri, è attraverso il racconto che si ricerca il significato delle proprie
esperienze e si conferisce senso agli eventi e ai propri vissuti, si dà
un’incurvatura al proprio progetto di vita. Se
tutto ciò ha un fondamento, allora le strategie di prevenzione e trattamento
del crimine possono essere, almeno in parte, attuate attraverso i “racconti”
che rievocano le vicende criminose, agite o subite. Attorno a questi racconti,
infatti, gli operatori possono aiutare i loro interlocutori a edificare
significati e valori che possono contrastare un’evoluzione, o anche una
carriera di tipo criminale, alla luce dell’interpretazione data di ciò che di
deviante è accaduto al singolo e a ciò che egli ha provato in quei frangenti. In
Cosmologie violente, un libro pubblicato nel 2009, ciò che insieme a
Lorenzo Natali ci siamo proposti di ricostruire sono i percorsi psico-sociali
che conducono un individuo a realizzare atti violenti – quali omicidi, lesioni
gravi o violenze sessuali – mostrando come tali percorsi non siano segnati da
una natura irrazionale e incontrollabile, ma piuttosto edificati e collocati
dentro itinerari interpretativi che è possibile riorganizzare a partire dalla
prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di senso in una
certa misura intelligibili e avvicinabili. Seguendo queste direzioni
teoriche, prima di rispondere all’interrogativo relativo al “perché” un
individuo, in un momento preciso della sua vita, decida, inaspettatamente
e sorprendentemente, di attaccarne fisicamente un altro, bisognerebbe
considerare che ogni atto ha una storia e che occorrerebbe sapere qualcosa di
questa storia e di quella del suo autore prima di poterne comprendere il senso.
Coerentemente, è proprio attraverso interviste qualitative semi-strutturate a
detenuti condannati per crimini efferati, domandando loro cosa pensavano e cosa
provavano nel momento in cui commettevano un omicidio o una violenza sessuale,
che abbiamo cercato di catturare progressivamente i significati degli atti
violenti, giungendo a mettere in luce la fondamentale ambiguità che attraversa
il mondo di chi li pone in essere e il nostro. Da un lato, infatti, il ruolo
attivo e riflessivo dell’individuo nella costruzione dell’azione violenta è
lo stesso che presiede e guida qualsiasi altra nostra azione (anche quelle
non-violente). Per altro verso, si registra un drammatico scarto fra “noi” e
“loro” nel fatto che gli attori violenti scelgono un’azione
violenta come mezzo di risoluzione di un conflitto in atto. Il riconoscimento di
quest’ambiguità di significato fra mondi simili – ma non eguali –
contribuisce a non esaurire, dunque, il problema della criminalità violenta con
la questione della malattia mentale, e motiva a guardare con occhi nuovi la
profondità qualitativa del perché violento di molte azioni umane. Se
assumiamo queste prospettive la domanda, in una visione trattamentale e
rieducativa, può diventare la seguente: che cosa può offrire questo modo di
approcciare la persona (violenta) che sta scontando una pena in carcere? In
particolare, può essere utile per avanzare una riscrittura di un racconto di sé?
E ancora, la riflessività, la conversazione interiore promosse da tali
narrazioni possono diventare un elemento centrale di operatività per iniziare
un percorso di trasformazione individuale? In
sintesi: la propria storia, raccontata, ascoltata e riconosciuta senza essere più
giudicata, può divenire, a un certo punto del “cammino” dentro a
un’istituzione totale, il punto di partenza per un percorso di
auto-osservazione, l’inizio di un processo di cambiamento per reclamare
un’esistenza più indipendente dalle relazioni di dominio violento (che
contraddistinguono la vita di molti detenuti)? È, insomma, seguendo queste
traiettorie che il carcere può divenire – pur con tutte le sue inaccettabili
contraddizioni – un luogo che non cancella e scomunica dal mondo le persone
che ospita, può iniziare a vederle, a riconoscerle, a contarle per una e
diventare, paradossalmente, uno spazio potenziale per pensare, ridimensionando
la sua ormai prediletta funzione di custodia e incapacitazione e… gli spettri
del sogno di Primo Levi. Su
tutti questi temi l’esperienza di Ristretti Orizzonti ha insegnato e ha
da insegnare ancora molto Che
autorevolezza ha chi rieduca in queste condizioni di illegalità diffusa? di
Rita Bernardini, Deputata
Radicale nelle liste del Partito
Democratico Vorrei
partire con un interrogativo: “Chi rieduca chi”? Perché c’è un problema
ed è un problema di legalità, di rispetto della legge, di rispetto delle
regole, in fondo la legge è un insieme di parole messe in un certo modo, che
regola la convivenza civile, e il patto che dovrebbe esserci fra gli uomini e le
donne è il rispetto della legge. Certo la democrazia ci dà la possibilità, se
mai ci fosse, e io ritengo che in Italia la democrazia non c’è, la legge ci dà
la possibilità di cambiarla o con il referendum, c’è il referendum
abrogativo, o con una proposta di legge di iniziativa popolare, o attraverso gli
eletti in Parlamento. Queste sono regole minime. Ebbene, noi abbiamo le
istituzioni che dovrebbero far rispettare le leggi, a partire dalla nostra
Costituzione, che sono le prime a violarle. Allora
un problema c’è ed è un problema serio: chi è senza peccato scagli la prima
pietra. In mezzo a noi ci sono persone che hanno avuto esperienze con il
carcere, e persone che non le hanno avute, ma è facile che almeno il 50% di
coloro che sono qui abbiano avuto problemi con la giustizia.
Esagero? Guardate, in Italia in questo momento ci sono oltre dieci
milioni di procedimenti civili e penali pendenti, ma non è che ci sono oggi
perché è un momento particolare della storia del nostro Paese, no! Da
trent’anni in Italia noi siamo continuamente puniti dal Comitato del Consiglio
dei Ministri d’Europa per l’irragionevole durata dei processi, sia civili
che penali. Come si chiama un uno che viene preso, viene mandato in galera, esce
e ricommette un reato? Si definisce un “delinquente recidivo”, ebbene cosi
si è comportata l’Italia. Perché dall’Europa ci è stato chiesto di
rientrare nella legalità da trent’anni. Mi
sono fatta mandare i dati dal Ministero della Giustizia: ebbene, in questo
momento, fra procedimenti civili e penali, c’è una causa ogni 2,3 famiglie.
Il Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha
chiesto alle istituzioni italiane, al governo, al Parlamento che cosa stanno
facendo per uscire da questo stato di illegalità che blocca un Paese anche dal
punto di vista economico. Le risposte che ho sentito da parte del Ministro della
Giustizia mi paiano insufficienti, il Ministro dice: ho fatto il tribunale delle
imprese, ho stanziato 7,2 milioni di euro per il processo telematico in sede
civile. Tra l’altro era uscita una prima agenzia che aveva scritto 7,2
miliardi di euro, allora ho pensato che era una cosa seria, ma si tratta di
milioni, e che cosa sono 7,2 milioni di euro per tutta Italia per la giustizia
civile, sono niente. Quindi noi stiamo ingannando l’Europa e io spero che
l’Europa insista anche con sanzioni nei confronti dell’Italia. Stiamo
ingannando l’Europa dicendo che stiamo facendo qualcosa di serio, invece non
stiamo facendo alcunché, anzi peggioriamo la situazione. Allora
c’è uno stato di illegalità sia nella giustizia, sia nella vita nelle
carceri. Una volta eravamo io o Marco Pannella ad essere considerati esagerati,
quando parlavamo di tortura nelle carceri, quando parlavamo di violazione
sistematica dei Diritti Umani e Civili, ma adesso abbiamo il Presidente della
Repubblica, il Ministro della Giustizia che il giorno dopo che ha visitato il
carcere di Sollicciano, anzi il
momento dopo appena uscita, ha detto: “Le carceri sono luoghi
di tortura”. Ma
allora non è un obbligo uscire subito da questo stato di illegalità, che
rieducazione si può dare in questo modo, che autorevolezza ha chi rieduca?
Pensiamo anche alla Polizia penitenziaria, voi andatevi a leggere i loro
contratti di lavoro, e poi per gli educatori, per gli psicologi, non c’è
alcun rispetto della legge, una carenza di organico di 7000 unità, gli
psicologi che fanno otto ore al mese e i detenuti nemmeno li possono vedere, non
hanno proprio il tempo di incontrarli i detenuti, che legalità è questa, che
autorevolezza ha uno Stato di questo tipo? Ecco
perché noi riteniamo che ci sia un obbligo da parte dello Stato intanto di
rientrare nella legalità, quella costituzionale. Guardate che lo hanno fatto
nelle carceri in California quando si sono resi conto che c’erano troppi
detenuti rispetto alla capienza, l’ha fatto la Corte costituzionale tedesca, e
allora noi riteniamo che la risposta da dare subito sia quella della amnistia, e
che non si può aspettare un minuto di più. Voglio per finire invitare a
riflettere che dove c’è strage di legalità prima o poi c’è strage di
popoli, perché non c’è più nessuna regola che tiene insieme. In questo noi
crediamo, e per questo continueremo a batterci, speriamo non da soli. Quelle
circolari che quasi nessuno riesce a rispettare Per
parlare di rieducazione serve una “revisione critica” anche da parte degli
operatori, che rappresentano un’istituzione che non funziona di
Igor Munteanu, Ristretti
Orizzonti Sono
un ragazzo moldavo e da oltre cinque anni mi trovo a scontare una pena nelle
carceri italiane. Attualmente sono da tre anni nella Casa di reclusione di
Padova, dove faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, e questo
mio articolo sulla rieducazione prende spunto proprio da un confronto avuto in
redazione, uno dei tantissimi confronti e discussioni che si fanno
incessantemente, tutti i giorni. Io
penso che la rieducazione nelle carceri italiane quasi non esista, perché
quello che succede in galera è che c’è una netta contraddizione tra quello
che è previsto dalla Costituzione e quello che realmente viene applicato da
parte degli operatori e delle istituzioni che rappresentano questa realtà. Di
solito quando c’è una circolare che reprime la vita di noi detenuti, viene
esposta in sezione in bella vista, e ti si chiede di rispettarla alla lettera,
altrimenti vieni sanzionato con un rapporto disciplinare, e la conseguenza sarà
quella che non ti verranno dati i quarantacinque giorni di liberazione
anticipata, previsti ogni sei mesi, se il tuo comportamento è “perfetto”…
Mentre invece quando il Ministero adotta una circolare per migliorare la vita
dei detenuti all’interno del carcere, non solo non ti viene comunicata, ma
quasi sempre non viene rispettata. Allora mi chiedo: come può un detenuto
rieducarsi a rispettare le regole e le leggi, se proprio da parte di chi ha il
compito di insegnarcele, vengono continuamente raggirate e non rispettate, e ti
viene data come unica spiegazione la causa del sovraffollamento? Succede
infatti spesso che, da parte delle istituzioni e degli operatori, ogni volta che
un tuo diritto non viene rispettato, viene data la colpa al sovraffollamento,
come se questa fosse una responsabilità del detenuto che è in carcere,
facendoti cosi pagare tutte le conseguenze di un sistema che non funziona, e
giustificando nello stesso tempo una istituzione distratta, che continua a
tenerti chiuso nonostante non abbia più gli spazi per garantirti almeno di
dormire dignitosamente. Infatti
in alcune carceri, in tutti questi anni di detenzione, mi è capitato di sentire
e vedere gente che è stata costretta a dormire nelle salette della socialità
con materassi appoggiati a terra per mancanza di spazi, quindi mi ritengo una
persona fortunata di essere stato collocato nel carcere di Padova, perché qui
ancora non si è arrivati ad uno stato cosi drammatico delle cose. Ma nonostante
tutto anche qui a Padova talvolta si è costretti a subire, a causa del
sovraffollamento, alcune violazioni dei diritti Non esiste più per esempio la
possibilità di avere dall’amministrazione prodotti per l’igiene personale e
delle celle, si è costretti a vivere in tre persone in celle grandi tre metri
per tre, nate per ospitare un solo detenuto, con la conseguenza che una volta
chiusi all’interno non è possibile stare tutti in piedi. E poi ancora, sono
solo cinque le docce per settantacinque detenuti, di cui solo tre funzionano, ma
con condizioni igieniche precarie in quanto piene di muffa e acqua che cade dal
soffitto, e mancano spazi per attività educative per tutti. Su quasi novecento
detenuti, solo poco più di trecento hanno la fortuna di svolgere qualche
attività lavorativa o scolastica. Mi
chiedo allora come può un detenuto rielaborare gli errori che lo hanno portato
a varcare la soglia del carcere, se prima non viene fatta una “revisione
critica” anche da parte degli operatori che rappresentano un’istituzione che
non funziona, nella consapevolezza che questo tipo di trattamento non farà
altro che restituire alla società una persona peggiore di come è entrata. Solo
quando ci sarà da parte loro questa chiarezza, si può iniziare a parlare di
rieducazione. Educazione
significa tirar fuori da ciascuno la propria unicità Noi
ci educhiamo attraverso le vite degli eroi semplici (Deborah Cartisano), degli
adulti credibili (Eraldo Affinati) come quelle che abbiamo ascoltato a Padova,
che fanno zampillare la voglia di continuare a credere che ciascuno possa
migliorare la sua vita in mezzo agli altri, sia in carcere che fuori dal carcere di Adriana Lorenzi,
scrittrice, formatrice, conduce laboratori
di scrittura autobiografica nelle carceri Da
dieci anni, da quando cioè lavoro all’interno del carcere di Bergamo, sento
parlare di rieducazione e di trattamento dei detenuti da parte
degli operatori dell’Istituto penitenziario. Forse
il problema sta nel prefisso ‘ri’ che precede la parola ‘educazione’,
perché presuppone soggetti da educare per la seconda volta visto che la prima
si è rivelata insufficiente, fallimentare. Pensare in termini di rieducazione
significa collocarsi in una posizione di superiorità nei confronti di qualcuno
che sta in quella di inferiorità. A
me personalmente è sempre piaciuta la parola educazione… mia nonna si
lamentava dei giovani maleducati nei confronti degli anziani sui marciapiedi e
sui mezzi pubblici e si inteneriva al cospetto di quelli beneducati. Per lei
l’educazione - salutare con un buongiorno e un buonasera, dare del lei in
segno di rispetto, lasciare il passo e aprire le porte alle donne - veniva prima
di tutto perché il resto, diceva, sarebbe arrivato di conseguenza. Lo stesso
vale per me. Educazione
viene da ex-ducere tipica dell’arte maieutica socratica, tesa quindi a
tirar fuori da ciascuno la propria unicità; ma anche da edere che
significa mangiare e nutrire, ossia offrire alle persone tutti i beni della
storia umana, quelli da passare di generazione in generazione. La
pratica implica quindi un partire dal soggetto che ha ricchezze interne e dal
contesto che si è andato stratificando di saperi e regole da conoscere e
rispettare per una buona convivenza; e anche una fiducia nei confronti della
trasformazione delle persone. Si possono cambiare i propri atteggiamenti e
comportamenti e persino la propria scala di valori; è possibile trasformarsi,
abbandonando cattive abitudini per un vivere civile, rispettoso. L’appuntamento
di maggio a Padova sul tema della rieducazione mi è sembrato imperdibile e
sorrido perché, in realtà, è quello che mi dico ogni anno in occasione del
convegno organizzato da Ristretti Orizzonti. Il nostro è un tempo duro e
dobbiamo affrontarlo con chi condivide le nostre stesse passioni, i nostri
stessi ideali e impegni perché non ci fiacchino completamente. Il
paesologo Franco Arminio scrive: “Noi adesso siamo assonnati e stanchi e in
questa stanchezza possiamo solo prenderci cura di chi ci capisce e di chi
capiamo. Non è tempo di stare con tutti, non è tempo di fare ogni cosa.
Possiamo solo fare poche cose, dobbiamo ridurre i nostri impegni, sgravare il
carico che portiamo addosso… Non dobbiamo importare sempre nuove esperienze,
ma sforzarci di capire perché falliscono le nostre, perché il bene che
proviamo a fare non dura. Non abbiamo più la coperta della politica, non
abbiamo più la coperta di un pensiero collettivo in cui accasarci. Dobbiamo
andare avanti con le persone che ci sono care, producendo ammirazione e riguardo
più che rancore e lamenti ” (Terracarne). Vado
a Padova per stare con le persone che mi sono care, per ritrovare gli amici
della Redazione interna ed esterna e registrare con orgoglio i loro cambiamenti,
soprattutto di quelli che tornano in carcere, nonostante abbiano ormai assolto
il debito con la giustizia, perché hanno scelto di continuare a occuparsi di
legalità e illegalità. Penso a Daniele che mi ha raccontato della sua bambina
e a Elton che da libero ha ottenuto il permesso di continuare a frequentare la
redazione interna di Ristretti grazie all’Articolo 17. Mi
piace la formula del convegno per la quale ci sono i detenuti della redazione
che portano la loro testimonianza, mentre Ornella Favero li accompagna al
microfono e li sostiene per stemperare la loro ansia da prestazione di fronte a
un pubblico così numeroso. Quella dei detenuti non è una parola ‘minore’
rispetto a quella dei relatori e viene ascoltata da tutti in un silenzio
rispettoso conquistato con maestria da Ornella. La
domanda di quest’anno è facile da formulare, ma spalanca, di fatto, un
mistero difficilmente penetrabile e sondabile: quando funziona la rieducazione
in carcere? Funziona
quando l’istituto carcerario ragiona criticamente sull’area trattamentale
messa in atto al suo interno e se si racconta all’esterno attraverso i
giornali e giornalini che raccolgono l’energia creativa e narrativa dei
detenuti. Per
Mauro Palma il sistema carcerario ha una sua forza, l’apertura verso
l’esterno, e una sua debolezza, la distanza tra la norma carceraria e la realtà
carceraria. La rieducazione funziona se si attivano modelli comportamentali
miranti a responsabilizzare e non a infantilizzare i soggetti, come succede
invece in carcere sia sul piano linguistico con l’utilizzo di parole in
‘ino’ e ‘ina” sia sul piano comportamentale con tempi prefissati per la
doccia, l’ora d’aria, pranzo e cena e, soprattutto, la negazione di modi per
vivere degnamente la propria sessualità. Si
può parlare di rieducazione ogni volta che i detenuti sono chiamati a scegliere
della propria vita, a sviluppare forme di autonomia come accade nel carcere di
Bollate raccontato dal coordinatore dell’area trattamentale, Roberto Bezzi. Funziona
anche quando, come ha detto Qamar, si avverte un senso di appartenenza, come
quella da lui provata nei confronti di Ristretti Orizzonti e un’assunzione di
responsabilità che si tocca con mano quando lui riconosce che la sua famiglia
“ha un omicida al suo interno”. Funziona
quando, come ha spiegato Luigi, si impara in redazione ad aggiungere i punti e
le virgole ai propri scritti e di conseguenza anche alla propria vita. Se si
comincia con l’ordinare un testo, rispettando regole lessicali e sintattiche,
si finisce per contagio con l’ordinare la propria esistenza. Funziona
secondo Ivo Lizzola quando si riesce a reggere la sofferenza di raccontare di sé
ad altri, adottando i modi e i tempi del futuro anteriore, progettando quello
che sarà alla luce di quello che è stato per non ripetere gli stessi errori e
cambiare strada, per quanto e come possibile. È come se un detenuto si dicesse:
“Sono stato così finora, ma da adesso in poi, posso anche essere un uomo
diverso”. Funziona
se si coltiva la speranza in chi pensa di non avere una seconda opportunità
dopo essere stato fatto a pezzi dall’errore compiuto, dal fallimento vissuto. L’asprezza
della crisi dei nostri giorni mette sicuramente in discussione la nostra capacità
di comprare, consumare, andare in vacanza e al ristorante, ma è compromessa
soprattutto la nostra forza, la capacità di pensare che sia possibile fare e
cambiare, agire e produrre qualcosa di buono e bello. Questa è, per me,
l’espressione peggiore della crisi: le nostre forze sono al limite della
sopportazione delle avversità perché abbiamo imparato - vale per chi sta
dentro e per chi sta fuori - che non basta l’impegno, neppure la fatica per
avere un posto di lavoro, una casa, relazioni importanti. È la corrosione di
intenzioni propositive. Allora
diventa indispensabile ascoltare voci che, fuori dal coro delle lamentazioni e
dei vittimismi, incitano ad avere fiducia. Penso alla testimonianza toccante di
Deborah Cartisano, il cui padre, Lollò, è stato sequestrato e ucciso dalla
’ndrangheta nel 1993, perché si era rifiutato di pagare il pizzo richiesto.
Deborah ha costituito un’Associazione, va nelle scuole per parlare del padre
perché non cali il silenzio sulla sua storia e si rinnovi, piuttosto, la forza
di quel suo ‘No’ alla ’ndrangheta per vivere una vita degna di tale nome.
A distanza di dieci anni dalla scomparsa del padre, ha ricevuto una lettera
scritta da uno dei suoi carcerieri per chiedere perdono alla famiglia per
l’omicidio compiuto e indicare il punto esatto del seppellimento del corpo. Mentre
ascoltavo Deborah, mi sono venute in mente le parole rivolte da Paolo
Borsellino, nel film che gli è stato dedicato, alla figlia Lucia: “Ciascuno
deve fare la sua parte”. Lucia deve pensare a preparare i suoi esami e lui a
continuare l’opera di Giovanni Falcone perché non vada perduta, arrendendosi
al male, al sopruso. Noi
ci educhiamo attraverso le vite degli eroi semplici (Deborah Cartisano),
degli adulti credibili (Eraldo Affinati) come quelle che ascoltiamo a
Padova che fanno zampillare la voglia di continuare a credere che ciascuno possa
migliorare la sua vita in mezzo agli altri, sia in carcere che fuori dal
carcere. Ho imparato che quando i detenuti prendono parte alle attività
teatrali, scolastiche, lavorative dentro il carcere, modificano la percezione
che hanno di loro stessi e rispondono con le loro azioni allo sguardo pieno di
aspettative degli educatori e degli insegnanti e al patto che con loro hanno
formulato, dove e quando è stato formulato. Ho imparato che un reinserimento
lento dentro il mondo esterno, aiuta i detenuti a misurare le loro forze prima
che il cancello della galera si chiuda dietro le loro spalle definitivamente. Noi
ci educhiamo ascoltando Pietro Buffa che parla di dato di irreparabilità del
reato commesso ma riconciliabile di fronte a un pubblico e anche Gherardo
Colombo che parla di dare pari opportunità ai soggetti affinché siano educati
alla libertà e responsabilità attraverso la fatica e non la sofferenza. La
rieducazione non funziona quando aiuta soltanto come ha detto Antonio “a
sopravvivere dentro e non a vivere fuori” e quando lui è uscito dalla
galera, non sapeva cosa fosse l’euro e si vergognava all’idea di andare nei
negozi a fare un qualsiasi acquisto. Elton ha raccontato del senso di
spaesamento vissuto dopo quindici anni di carcere senza un giorno di permesso
che hanno condizionato i suoi movimenti - il correre in cerchio, l’andare
avanti e indietro nell’area passeggi - tanto che da libero zigzagava su un
rettilineo. Il movimento a zigzag tra legalità e illegalità, tra senso di
onnipotenza e vulnerabilità è la tentazione per chi esce dopo aver scontato la
sua pena e non vede l’ora di “arraffare” il mondo esterno, quello che ha
tradito delinquendo ma dal quale si sente anche tradito per gli anni vissuti
dietro le sbarre. Le
parole nate dall’esposizione della propria vita più o meno ferita, più o
meno scombussolata, sono capaci di educare a un ascolto attento e utile. È a
Padova che sento ogni volta di quanto le nostre vite siano “in bilico sui
cornicioni”, per dirla ancora con Franco Arminio, eppure riconosco anche
il potere salvifico dell’esempio, inteso come occasione di riflessione: se
anche uno solo ha provato a resistere, altri faranno lo stesso. Una redazione
come Ristretti Orizzonti impegna a un certo modo di informazione dal carcere sul
carcere. E
quando lascio il convegno di Padova per tornare a casa, mi sembra più lieve il
credere nelle pratiche educative che mirano a renderci migliori e a rendere più
abitabile il nostro mondo. E mi dico che la via intrapresa è quella giusta
nonostante sia impervia. Parlare
di rieducazione significa parlare di democrazia Ogni
educazione che sviluppa la facoltà di partecipare efficacemente alla vita
sociale è morale. Essa forma un carattere che non solo effettua azioni
particolari socialmente necessarie, ma che si interessa a quel continuo
riadattamento che è essenziale allo sviluppo. L’interesse a imparare da tutte
le occasioni della vita è il fondamentale interesse morale. (John
Dewey, Democrazia e educazione). di
Luciana Scarcia, docente
del Laboratorio di lettura e scrittura della
Casa circondariale di Roma Rebibbia Attualità
dell’articolo 27 della Costituzione In
questi anni è continuata l’elaborazione teorica sulla funzione della pena,
con produzione di qualificata letteratura, ma non si può dire che i suoi
contenuti si siano riversati nell’opinione pubblica orientando il senso comune
o stimolando una riflessione diffusa. Il tema della Rieducazione è rimasto così
confinato dentro il carcere e nei progetti di qualità di alcuni Istituti
Penitenziari, o in qualche frammento di discorso istituzionale riportato dalla
stampa. Si dirà che è ovvio che l’esigenza di riflessione riguardi il luogo
stesso che la Costituzione indica come terreno della sua applicazione, ma questo
settorialismo non rende ragione del fatto che in quella parola è racchiuso un
nucleo fondamentale del pensiero democratico: l’idea che l’uomo, in quanto
depositario della capacità di scelta tra vecchie e nuove possibilità di vita,
possa sottrarsi al determinismo dei destini già tracciati da origini sociali,
da scelte più o meno consapevoli, da errori. Idea strettamente connessa con il
concetto di Giustizia, intesa come valore del “dovuto a tutti”, e con quello
di Libertà, intesa come valore dell’esercizio della capacità di scelta. Questa
premessa per dire che parlare di Rieducazione significa parlare di Democrazia e
dunque il settorialismo rispecchia una carenza nella coscienza democratica.
Appartiene alla nostra storia pre- e post-unitaria il fatto che i fondamenti
costitutivi della forma dello Stato sono stati scritti prima del manifestarsi di
una coscienza nazionale; le regole scritte nella Costituzione disegnavano un
modello di società che anticipava, volendole orientare, mentalità e abitudini
di pensiero. Quanto scritto nell’art. 27, 3° comma, “le pene devono tendere
alla rieducazione del condannato”, indicava la direzione dello sviluppo del
sistema penale, intendendo dar vita a un’istituzione che costituisse un
tassello della società democratica, uno strumento di coesione sociale, e
insieme agli altri articoli della Parte Ia delineava un modello di società
democratica inclusiva, tale da accogliere anche chi aveva inferto una ferita
alla collettività. Presupponeva dunque una cornice sociale caratterizzata da
valori condivisi, dai quali il comportamento criminale aveva deviato e verso i
quali bisognava riorientarlo. Nonostante
la persistenza di particolarismi e resistenze, l’efficacia “educativa”
della Costituzione ha sicuramente agito in tutti i campi della vita sociale,
fungendo da faro per tutta la produzione normativa che ha accompagnato le
profonde trasformazioni avvenute dal dopoguerra e la crescita della cultura
democratica (con il ruolo fondamentale della scuola pubblica). Tuttavia tale
efficacia si è riverberata molto di più sul piano delle norme scritte che sul
piano del funzionamento reale delle istituzioni nella vita quotidiana. Nel
sistema penitenziario questo “vizio” storico si è rivelato in modo ancora
più evidente: ci son voluti quasi tre decenni di disegni di legge, commissioni,
sperimentazioni per riuscire a eliminare la normativa fascista e arrivare a una
Legge di Riforma dell’Ordinamento, la 375/1975, la cui attuazione però fu
assai lenta, oltre che incerta e parziale; portata a compimento solo nel 1986
con la legge 663 (c.d. Gozzini), dovette attendere il 2000 per avere il nuovo
Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario. In questo periodo
c’è stato sicuramente un grande cambiamento nelle carceri italiane: con tempi
lunghi e in modo frammentario si era comunque affermata una tendenza
riformatrice – ispirata dall’art. 27 e coerente con lo “stato sociale”
– che mirava ad attuare il principio che cambiare e migliorarsi è possibile,
per tutti! Però, non solo il divario tra normativa e funzionamento reale è
rimasto ampio, ma il cambiamento si è presentato a macchia di leopardo: qualche
Istituto modello, alcuni in cui si attuano progetti avanzati e molti altri
estremamente arretrati. Negli
anni 90 quella tendenza riformatrice si è esaurita, nell’impatto con le
conseguenze del processo di globalizzazione economica: crisi dello “stato
sociale”, cambiamenti nel mondo della criminalità, crescita gonfiata del
bisogno di sicurezza, aumento del tasso di detenzione (“boom
penitenziario”), irrigidimento del controllo e del Corpo della polizia
penitenziaria (ad es. i GOM che operarono anche nella caserma di Bolzaneto nel
2001 a Genova). Oggi
il sistema carcere (con i problemi del sovraffollamento, della carenza di
personale, l’alto tasso di suicidi) è diventato un’emergenza nazionale, una
patologia: non solo non viene garantita la legalità, ma addirittura si
commettono crimini (Bolzaneto, casi Bianzino, Cucchi, ecc.). Tutti – partiti,
mass media – denunciano che uno Stato democratico non può tollerare questa
situazione disumana, ma sembra prevalere un atteggiamento di resa e di impotenza
a risolvere il problema, tanto che alcuni asseriscono la non riformabilità del
carcere. Eppure in quello stesso sistema accade che vengano realizzati progetti
importanti di recupero e reinserimento individuali, che danno ragione di quel
principio democratico. Insomma, l’esistenza di esperienze e percorsi virtuosi
convive con il fallimento dell’istituzione carcere. Educare
a che cosa? A
questo punto bisogna uscire dal carcere e allargare il discorso alla società.
Guardando in modo particolare agli ultimi due decenni, non si può certo dire
che essa si sia evoluta secondo il sistema di valori in cui si collocava la
Costituzione; anzi, alcuni studiosi affermano che è in atto un processo di
“decostituzionalizzazione”. Comune è la convinzione che sia assai diffuso a
tutti i livelli un sistema di illegalità sotto forma di piccole e grandi
omissioni o aggiramenti delle leggi, e che i valori di Giustizia e Libertà
abbiano perso la loro forza di fronte alle urgenze dei problemi materiali. Da ciò
deriva la preoccupazione che la democrazia sia oggi in crisi. Allora
una prima domanda è: la società in cui il detenuto deve essere reinserito con
quale grado di convinzione aderisce a quel sistema di valori dai quali
discendono le regole della vita collettiva? Una
seconda domanda è: l’istituzione che deve porre in atto il principio della
Rieducazione ha le carte in regola per farlo? Queste
prime domande sono evidentemente provocatorie. Ponendole non voglio eludere il
problema della responsabilità del singolo di fronte alla legge e alla
collettività, ritengo anzi che il concetto di responsabilità debba essere
posto con maggiore determinazione al centro del sistema penale, e per chiarezza
dichiaro subito che: le tesi abolizioniste della pena non mi paiono molto chiare
né utili al momento; ritengo indispensabile e urgente il potenziamento delle
misure alternative (che siano però davvero tali e non uno spostamento
all’esterno dello stesso sistema di controllo e sanzione); altrettanto urgente
considero la riforma del Codice penale che consideri il carcere come extrema
ratio; sono favorevole alla maggiore diffusione delle forme della giustizia
riparativa. Ma sono anche convinta della necessità di mantenere
l’obbligatorietà per le istituzioni di un’azione che si può definire
educativa in senso lato (su questo tornerò in seguito), che non può riguardare
solo il luogo carcere, ma dovrebbe accompagnare le altre forme di pena,
adeguandole alla persona e al reato. Sempre
per essere chiara, dirò anche che non ho mai condiviso le posizioni di chi
guarda con sospetto e scetticismo alla finalità rieducativa della pena in nome
di un’istanza libertaria di salvaguardia dell’autonomia della persona
detenuta, o per rifiuto della pretesa ideologica di fare “l’uomo nuovo”.
Mentre sento forte l’esigenza di capire e discutere nel merito del significato
che si dà all’azione educativa in generale. Quindi
pongo una terza domanda, questa volta reale: quando parliamo di Rieducazione che
cosa intendiamo? Facciamo riferimento a un sistema di valori – e quindi il
discorso si allarga alle credenze e alla cultura –, oppure al mero rispetto
delle leggi – e quindi delimitiamo il campo alla legalità? Io penso che la
riflessione vada portata nel campo più vasto dei valori condivisi e dei
comportamenti individuali all’interno di una cultura, intendendo per cultura
quell’insieme di sistemi simbolici che mettono in moto dei
“meccanismi-protesi”[2]
che plasmano la vita e la mente dell’uomo, dando significato alle nostre
azioni e rendendo possibile trascendere i limiti biologici. Mentre un discorso
riferito al mero ambito della legalità mi pare limitato (e qui la lungimiranza
di Kubrick nel film Arancia meccanica ci insegna qualcosa: sottoposto a
un innovativo programma di rieducazione, il “trattamento Ludovico”, e
presentato dai media come un successo della politica governativa, Alex potrà
usare la sua aggressività con tutta tranquillità perché ormai è protetto
dalla legge). La
parola Rieducazione in effetti appare usurata, non solo perché assai
scarsamente riscontrabile nelle forme del “trattamento” attuate nelle
carceri, ma soprattutto perché con quel prefisso ri rimanda a un’idea
di correzione di comportamenti devianti da un sistema di valori di cui
qualcuno (l’istituzione) sarebbe depositario. Allora, verrebbe da dire, tutta
la società deve essere “corretta”, visto che, proprio per quella crisi di
coscienza democratica denunciata da autorevoli studiosi, è il sistema di valori
che risulta assai appannato. Tale visione correttiva va superata alla luce della
più attuale concezione della formazione/educazione permanente dell’individuo
nell’arco di tutta la vita, e a maggior ragione questo vale per chi come il
detenuto sta vivendo il fallimento di una traiettoria di vita, quella criminale.
Quindi preferirei parlare di educazione tout court, ma senza mettere in
discussione l’art.27. Ma
educazione a che cosa? Alla responsabilità è la risposta giusta,
ma oggi il senso di responsabilità individuale nei confronti della collettività
in cui si vive risulta affievolito, perché, rispetto ai valori di Giustizia e
Libertà, per tutti, risulta molto più pregnante e performativa l’idea di
libertà intesa come massima affermazione del singolo nella capacità di consumo
e nella qualità biologica del suo corpo; di conseguenza risulta più forte il
sentimento dell’indifferenza verso chi quella libertà non la può
condividere. Quindi per evitare che quelle parole siano contenitori vuoti, a cui
non corrispondono ragionamenti e sentimenti personali né comportamenti reali,
bisognerebbe riflettere sui loro significati alla luce dei cambiamenti in atto
nella società. E questa riflessione sui valori della collettività dovrebbe
costituire lo sfondo sul quale opera l’azione educativa che, collocandosi sul
terreno della relazione con l’altro, deve necessariamente rideclinarli e
negoziarne i significati. E qui inevitabilmente il discorso scivola sul piano
etico, perché chiama in discussione termini assoluti come Bene e Male. A
questo proposito mi viene in mente il personaggio della guardia carceraria Nitti
nel romanzo Più alto del mare[5].
Nitti, uomo gentile, marito e padre amorevole, a un certo punto cambia
atteggiamento: si chiude, non comunica più con la moglie e i figli, diventa
cupo e scontento, e la moglie ne è preoccupata perché intuisce il motivo:
anche lui aveva finito per assecondare il sistema, compiendo, come i suoi
colleghi, i “disturbi”, cioè atti di violenza e vendetta sui detenuti, e
questo lo aveva allontanato da se stesso. Ed è Luisa, un’altra moglie, di un
detenuto violento, che l’aiuta a infrangere quel muro di silenzio eretto
attorno a sé. Dopo un colloquio con la moglie Nitti si fa assegnare a mansioni
di ufficio per motivi di salute. Il personaggio compie la scelta di sottrarsi a
quel sistema di sopraffazione e violenza su altri uomini e di salvaguardare
dentro di sé quel qualcosa che “vale la pena” e che deve costituire una
“frontiera” al di qua della quale non si consente alla realtà esterna di
penetrare[6],
però non va oltre, non cerca di contrastare il sistema, si limita insomma a
chiamarsene fuori. Tornando
alla riflessione sul principio dell’art.27, l’azione educativa necessaria è
quella volta a creare le condizioni e offrire gli strumenti culturali per
esercitare quella facoltà di giudizio (o libero arbitrio) che può permettere
di prendere le distanze da sistemi nei quali si è rimasti incastrati, per
errore, per scelta, per abitudine, per debolezza. Ciò significa essere
consapevoli del fatto che la scelta non è soltanto una preferenza, bensì una convinzione
che un certo stile di vita meriti di essere sostenuto; significa saper fare
le distinzioni (tra giusto e non giusto, tra rispetto di sé e sopraffazione,
tra diritti e doveri) e delineare dentro di sé la propria “frontiera”;
significa infine capire che porre un limite alla rivendicazione del proprio
interesse immediato non significa necessariamente rinuncia. Dalla
mia esperienza Dalla
mia conoscenza del carcere ho ricavato due convinzioni opposte ma coesistenti:
la prima è (come detto prima) che l’istituzione carcere non solo non è quel
tassello della società democratica che doveva contribuire alla sua coesione
sociale, ma è un luogo dove punizione e assenza di regole certe convivono con
un approccio pedagogico infantilizzante, a cui dopo un certo periodo si reagisce
imparando a fare il “bravo detenuto”; la seconda è invece che lì dentro ci
sono esseri umani che hanno un’aspirazione autentica a cambiare stile di vita,
a scoprire di sé parti migliori, magari inesplorate, e che vanno seguiti e
aiutati non per “salvarli”, ma perché possano tracciare un proprio percorso
di reinserimento, anche a dispetto di una società indifferente e chiusa. Questo
è avvenuto e avviene continuamente, ma riguarda singoli percorsi individuali,
compiuti in buona parte grazie all’altra istituzione presente, la scuola,
grazie a progetti stabili, ad attività e operatori che l’istituzione prevede
ma non gestisce direttamente (volontariato laico e religioso, cooperative,
associazioni). Va senz’altro bene che non sia gestito tutto dal Ministero, ma
certo sarebbe necessario che quanto si fa dentro si collocasse in un sistema che
abbia, nella diversità e pluralità di apporti, finalità comuni. Altrettanto
indispensabile sarebbe rivolgere l’azione educativa anche al personale
penitenziario. Per
quanto riguarda la mia esperienza (di insegnante prima e di docente volontaria
di laboratori di lettura e scrittura poi), la scrittura di sé, con l’apporto
della letteratura – quella che pone alla vita le domande essenziali –, si è
rivelata uno strumento prezioso proprio per l’esercizio di quella facoltà di
pensiero indispensabile alla scelta e al prestare attenzione a ciò che si
considera importante nella vita; per questo ritengo appropriato l’uso
dell’aggettivo “educativa” per questa attività. Perché il raccontare è
un bisogno fondamentale dell’uomo, che risponde all’esigenza di
“trattare” i conflitti e la propria “zona grigia”; ma questa aspirazione
è attraversata da valori e norme che si condividono con la collettività. E i
Greci questo ce lo hanno insegnato perché per loro il bello e il buono erano
due diverse facce della stessa qualità: il bisogno di elevarsi. “Apprendimento”
ed “educazione” non hanno luogo solo nelle aule scolastiche Allora
quale miglior “laboratorio” se non la visita al carcere e le storie di vita
raccontate dalle persone che vivono o hanno vissuto in prima persona questa
esperienza? di Gabriella Paracchi,
Insegnante di Scienze Sociali, Liceo delle Scienze Umane “A. di Savoia
Duca D’Aosta” Padova Perché
anche quest’anno ho deciso di svolgere con la classe quinta il
percorso/progetto che ci ha condotto fino alla Giudecca, a Venezia, nell’orto
del Carcere Femminile? Il
mio intento è stato quello di far leva sulla motivazione dei ragazzi a
ricercare il significato della realtà che li circonda e il senso delle scelte
nell’agire della vita quotidiana, interrogandosi e trovando risposte e
soluzioni ai propri vissuti. L’obiettivo
didattico riguardava la possibilità di discutere e confrontarsi per trovare
insieme soluzioni e scambi collettivi nella valorizzazione della propria
diversità e dimensione soggettiva. Ma come? Un
modulo didattico da svolgere nel programma scolastico di quinta riguarda
l’argomento della “Devianza”. Questo viene affrontato e studiato dal punto
di vista psico-sociologico, oltre che da quello storico. Quando
si parla di scuola, molte volte, è facile definire e commentare negativamente
quanto studiato sui banchi, perché lo si ritiene astratto rispetto alle
esperienze della vita reale. E
allora, parlando di “Devianza“, quale miglior “laboratorio” se non la
visita al carcere e le storie di vita raccontate dalle persone che vivono o
hanno vissuto in prima persona questa esperienza? Quale miglior confronto
conoscitivo ed emozionale? Da
più parti gli studi psicosociali propongono riflessioni sull’integrazione
esistente e necessaria tra emozioni, comportamento morale e sociale. Secondo
questi studi la pianificazione del futuro, il giudizio morale e la gestione
delle relazioni con gli altri sarebbero impossibili senza questo particolare
impasto di ragione e sentimento che caratterizza le nostre esperienze. Possiamo
dire con le parole dello psico-pedagogista Bruner che “pensiero ed emozioni
non procedono parallelamente uno dopo l’altro: piuttosto essi cooperano alla
costruzione dei significati che attribuiamo ad una situazione, così che ciò
che facciamo dipende sempre da ciò che conosciamo e sentiamo.” I
reati sono il risultato di vissuti e a volte di scelte fatti giorno dopo giorno
nella vita quotidiana Ecco
allora che per gli alunni, incontrare ed ascoltare i detenuti a scuola,
confrontarsi con gli operatori, i volontari del carcere e il Magistrato di
Sorveglianza, entrare dentro all’istituzione carceraria e sentirsi chiudere
dietro le spalle i cancelli, uno dopo l’altro, discutere in classe,
commentare, criticare e mettersi in gioco… vuol dire definire chiaramente i
significati degli eventi della nostra vita, comprendere che l’apprendimento ed
il pensiero sono sempre collocati in un certo contesto culturale rendendosi
conto così che i “reati” commessi non sono incidenti, realtà casuali e
disgiunte da sé, ma il risultato di vissuti e a volte di scelte fatti giorno
dopo giorno nella vita quotidiana. Abbiamo
parlato e discusso di “limite”, “responsabilità”, “conflitto” e
abbiamo visto come l’interpretazione soggettiva di ciascuno di questi concetti
determina diversi percorsi nella vita di tutti i giorni. Sono
state messe in gioco da più parti le proprie emozioni ed il controllo di esse
attraverso quelle che Goleman chiama “abilità legate all’intelligenza
emotiva”, cioè quelle capacità che sono in grado di produrre
autoconsapevolezza ed empatia. Questo
percorso didattico ha guidato “apprendimento” perché ha visto integrarsi
una varietà di elementi, tutti egualmente attivi: il linguaggio, il sentire
emozionale, la narrazione delle proprie esperienze, lo scambio reciproco di
informazioni, i ruoli sociali, le immagini, i sistemi di giudizio, le regole,
gli stili di vita e così via. Attraverso
l’empatia e la gestione delle proprie emozioni è stato più facile
condividere le esperienze ed inscrivere nella mente le azioni seguendo delle
trame, degli intrecci come in un romanzo e in un racconto. Facendo
riferimento a tutto questo, e citando sempre Bruner, possiamo dire che
“apprendimento” ed “educazione” non hanno luogo solo nelle aule
scolastiche, ma anche, e in pari grado, nelle famiglie, per la strada, nei
luoghi di lavoro, cioè ovunque ci sia un incontro e un confronto tra soggetti
diversi e, nel nostro caso, anche quando “il carcere entra a scuola e la
scuola entra in carcere”. Il
prezioso lavoro di educarci ad uscire dalla violenza È questo
che ci rende davvero portatori di un nuovo concetto di Cittadinanza di Paolo Montagner,
Insegnante di italiano e latino, liceo Scientifico “G. Galilei” di
Caselle di Selvazzano (PD) La
Giornata di studi “Il senso della rieducazione in un Paese ‘poco
educato’” ha un titolo provocatorio, che anche all’osservatore meno
attento evoca sentimenti contrastanti e una domanda: perché mai dovremmo
educarci o rieducare alla cultura della legalità, se lo Stato, di cu dovremmo
sentirci parte viva, cittadini, è così “poco educato”, come le cronache
quotidianamente ci confermano, neppure più allarmate nella loro denuncia, in
un’atmosfera di disillusa assuefazione, dietro alla quale, tuttavia, cova la
rabbia onesta di quei cittadini semplici o più impegnati, che si sentono offesi
al cuore dal discredito gettato da scandali, ruberie, mala politica sul
“sentimento dello Stato”, che dovrebbe appartenere a chiunque? Alla
ricostruzione di questo sentimento credo servano molte giornate come questa e
tutta la faticosa operazione di trasparenza e di discussione critica messa in
atto da donne e uomini di buona volontà per farci interiorizzare che quello che
non vogliamo, in questo nostro Stato, come ebbe a dire Norberto Bobbio, è che
le carceri siano simili a ospedali dove ci si faccia ricoverare non per guarire,
ma per ammalarci di più, forse fino a morire; che non è accettabile che
questioni annose come il sovrappopolamento degli istituti carcerari, che
riguarda decine di migliaia di persone, sia un fatto che non coinvolga anche
tutti noi, che fuori dal carcere viviamo e, in libertà, esercitiamo diritti e
doveri; che non è ammissibile pensare al carcere come ad una discarica sociale
e che, se le cronache ci raccontano di suicidi (sempre più frequenti) e di
morti, in cui sia dimostrato il coinvolgimento del personale carcerario,
operatori o personale medico, noi non ci dobbiamo indignare e non dobbiamo
chiedere conto alle autorità preposte di tutto ciò che violi il patto di
fiducia stabilito, in origine, tra il cittadino e lo Stato, esecutore giusto
della somministrazione delle pene e garante della dignità di ogni persona. Risulta
difficile sostenere che, da parte delle istituzioni, vi sia sempre il rispetto
del principio dell’eguaglianza e della dignità umana Sono
molte le domande che nascono nei nostri studenti, dopo che sono entrati in
questi luoghi, ne hanno percorso i corridoi lunghi, delimitati da sbarre. I
racconti di vita che veniamo ad ascoltare qui, in piena gratuità, ma difficili
per chi sta compiendo il proprio percorso per uscire dalla violenza, sforzandosi
di cambiare, ci confermano che, di fronte a basilari diritti umani violati, alle
lungaggini di processi che sembrano non concludersi mai (almeno non per tutti),
risulta davvero difficile sostenere che, da parte delle istituzioni, vii sia
sempre il rispetto del principio dell’eguaglianza e della dignità umana. Ciò
nonostante, donne e uomini di buona volontà ci dimostrano che la strada c’è
e che uno Stato è migliore a partire dai suoi cittadini, dal loro basilare
rispetto delle regole della convivenza e dalla loro conseguente esigenza di
vedere le medesime regole applicate proprio dallo Stato; ci testimoniano la
speranza fattiva di chi crede: crede, come ha scritto pochi giorni fa, in
relazione agli inquietanti fatti di Genova, Agnese Moro, che il prezioso lavoro
di educarci ad uscire dalla violenza, a qualsiasi livello la possiamo
esercitare, ci rende davvero portatori di un nuovo concetto di Cittadinanza. Nell’Italia
della crisi, dove le tensioni sociali sono il terreno fertile in cui il seme
della violenza può facilmente allignare, Agnese Moro scrive così:
“L’Italia è un Paese meraviglioso, che in ogni angolo propone umanità,
impegno, dedizione.Ma è anche un Paese al quale la violenza - subita e agita -
non è purtroppo estranea. Ce lo dicono i tanti omicidi di donne, gli scontri
negli stadi, il difendersi da soli con le armi, la presenza invasiva di cosche
mafiose, il nostro tollerare, come nel caso delle carceri, situazioni che non
possono che lasciare spazio a comportamenti violenti, l’aderire all’idea che
i conflitti internazionali si risolvono con le armi e non con la diplomazia.
Dobbiamo ancora lavorare per espellere la violenza dal nostro modo di essere e
di pensare, nell’unica maniera possibile, ovvero non considerandola mai una
risposta efficace ai problemi di ognuno di noi, del nostro Paese e del mondo.” Con loro
faccio un percorso che mi aiuta molto a riflettere sul tema della
“responsabilità”, che trovo un termine più adeguato rispetto alla
“rieducazione” di Mohamed El Ins,
Ristretti Orizzonti A
me sinceramente non piace il termine “rieducazione” perché mi costringe
subito a pensare all’educazione e questo mi fa riflettere che i miei genitori
non hanno nessuna colpa riguardo agli errori che ho commesso. Loro mi hanno
insegnato sempre le buone maniere e un modo di vivere onesto. Frequentavo
anch’io le scuole e procedeva tutto bene, non mi mancava nulla, ma
all’improvviso mi è venuta l’idea di immigrare alla ricerca di un futuro
autonomo senza contare sull’aiuto dei miei genitori. Così li ho messi al
corrente della mia decisione riguardo alla mia partenza. Abbiamo discusso molto,
perché loro erano contrari. Ci tenevano che io continuassi i miei studi, ma io
ho insistito e alla fine loro hanno rispettato la mia scelta. Dopo
qualche anno di vita in Italia ho potuto avere il permesso di soggiorno che mi
ha dato modo di intraprendere un altro viaggio dal sud Italia verso il nord. Così
sono riuscito a trovare un posto di lavoro fisso, infatti mi hanno assunto in
una fabbrica di mobili come falegname, però non potevo lavorare in regola perché
il patto stipulato con il datore di lavoro era quello di darmi un alloggio, una
camera nei sotterranei della fabbrica, e farmi lavorare in nero. Non
avevo scelta, ero facilmente ricattabile, era davvero una situazione
imbarazzante. Ho cercato un appartamento in affitto, ma non c’era niente da
fare perché la gente aveva paura di dare la casa ad uno straniero, ci
scambiavano per dei marziani, il clima era davvero intollerante. Un
giorno ho deciso di mollare il posto di lavoro e trovarmi un’altra
occupazione. Sono riuscito a farmi assumere presso un’altra fabbrica, ma il
problema dell’alloggio non era ancora risolto, ero costretto ad abitare in una
casa abbandonata, ovviamente la situazione non era assolutamente piacevole, ho
cercato di continuare a resistere, speranzoso che le cose cambiassero, invece le
cose peggioravano sempre di più. Così ho ceduto alla mia debolezza, che mi ha
condotto alla ricerca di certi amici che sapevano “arrangiarsi” facendo
traffico di droga, e così sono iniziati i problemi con la giustizia e mi sono
ritrovato in carcere varie volte “parcheggiato”, senza avere la possibilità
di essere aiutato a riflettere sulle mie scelte, giuste sbagliate difficili,
scelte sulle quali avevo davvero bisogno di fermarmi a pensare. In
questa mia ultima carcerazione mi ritengo invece molto fortunato rispetto ad
altri compagni che non hanno la possibilità di partecipare a nessuna attività
lavorativa, scolastica o culturale. Nel mio caso ho avuto l’opportunità di
partecipare anche al progetto di confronto tra le scuole e il carcere,
incontrando gli studenti, raccontandogli le nostre esperienze, con la speranza
che loro non cadano negli errori che noi abbiamo commesso. Nello stesso tempo
anche loro sono molto importanti per noi, perché dal mio punto di vista sono
per me come uno specchio dove riesco a vedere il mio passato, accettare il mio
presente e lavorare per un futuro migliore, quindi questo percorso mi aiuta
molto a riflettere sul tema della “responsabilità”, che trovo un termine più
adeguato rispetto alla “rieducazione”. Quando
le persone detenute si confrontano con le scuole, come avviene a Padova, è
inevitabile che si parli di reati, e di come è “facile” finire in carcere a
partire da piccoli comportamenti magari solo un po’ da incoscienti, per
arrivare poi alle violazioni più gravi e a perdere il controllo della propria
vita. Ma si parla anche di scuola, e di tutte quelle buone pratiche che la
scuola dovrebbe insegnarti, e a volte tu, studente distratto, non apprezzi, non
capisci, sottovaluti totalmente. Eppure, il rispetto delle regole, il controllo
dei propri comportamenti, la capacità di ascoltare gli altri si forma proprio
negli anni della scuola, tanto che in carcere abbiamo fatto una riflessione
profonda su una pratica che, ai tempi del computer, sembrerebbe invecchiata, e
invece resta al centro dell’educazione delle persone, e per quel che riguarda
il carcere della RIEDUCAZIONE: si tratta degli APPUNTI, e di quanto un certo
modo di prenderli, e di imparare ad ascoltare gli altri, possa essere anche un
buon allenamento a trovare un equilibrio tra la propria libertà e il rispetto
di quella altrui. Le
piccole regole che ti insegnano a vivere Il carcere
è un luogo considerato “senza qualità” può anche diventare un laboratorio
per riflettere proprio sulla qualità delle proprie azioni, e sull’importanza
che ha il rispetto delle regole anche piccolissime di Ornella Favero Il
carcere è un luogo considerato “senza qualità”: ci sono infatti finiti
quelli che hanno fatto le cose male, senza rispettare gli altri, senza neppure
prenderli in considerazione. Ma il carcere può anche diventare un laboratorio
per riflettere proprio sulla qualità delle proprie azioni, e sull’importanza
che ha il rispetto delle regole anche piccolissime per imparare poi a ricordarci
sempre delle persone che abbiamo intorno, e di quanto può essere gratificante
porsi dei limiti per non farle soffrire. Controllo
qualità Nelle
fabbriche il controllo di qualità significa controllare che i prodotti che
escono rispondano a determinati requisiti, ma i controlli oggi non avvengono
solo sul prodotto finito, avvengono a ogni tappa della produzione e sono fatti
dallo stesso operatore, come forma di autocontrollo sui risultati del suo
lavoro. Allora, noi vogliamo provare a tessere l’elogio degli appunti, come
forma insostituibile di “autocontrollo” sulle proprie capacità di capire,
selezionare le informazioni, fissarle sulla carta, trasformarle in materia utile
per il proprio lavoro. W
gli appunti Quando
andiamo nelle scuole nell’ambito del progetto “Il carcere entra a scuola, le
scuole entrano in carcere”, ci accorgiamo spesso che tanti ragazzi NON
PRENDONO APPUNTI. Quelli di noi che si sono formati negli anni in cui non erano
tanto diffusi i computer, hanno faticato per non rimanere dei “senzatetto
digitali”, e sono passati faticosamente dagli appunti all’uso anche delle
tecnologie. E però scopriamo oggi che gli studenti, tutti ormai
tecnologicamente attrezzati, stanno diventando dei “senzatetto
manual-culturali”, dove per manuali intendiamo però tutte quelle attività
che non necessariamente hanno bisogno di un supporto tecnologico, ma che
comunque si basano sulla capacità di “far funzionare la testa” usando gli
strumenti più semplici, come per esempio carta e penna. Dunque, gli APPUNTI. Attenzione Chi
commette reati spesso pone al centro della sua vita se stesso, e gli altri non
esistono. I comportamenti a rischio hanno origine da questa mancanza di
attenzione e di rispetto per l’altro: guidare, per esempio, sotto effetto
dell’alcol significa non voler rinunciare al proprio piacere e non avere la
minima attenzione per chi può capitare sulla tua strada. Imparare
a prendere appunti ti impone invece, prima di tutto, una attenzione all’altro,
a quello che dice, al valore che devi dare alle sue parole e ai suoi pensieri.
Devi imparare a distinguere le cose più importanti e quelle meno significative,
e a farlo rapidamente, e poi fissare sulla carta non tanto QUELLO CHE TU RITIENI
FONDAMENTALE, quanto quella che è l’essenza della persona che hai davanti.
Perché gli appunti non devono “parlare” di te, devono rispecchiare la
persona che si sta raccontando davanti a te. Andare
al cuore Gli
appunti ti costringono ad andare al cuore delle questioni in discussione e a
scegliere fra il necessario e il superfluo. E non è detto che “scrivere
tanto” indichi una buona qualità del lavoro, al contrario spesso significa
non saper fare delle scelte. Vale la pena rileggere in proposito le lezioni
americane di Italo Calvino: “Dopo
quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto
esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva
per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle
volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure
umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere
peso alla struttura del racconto e al linguaggio”. “Scrivere
per sottrazione” se quando prendi appunti significa saper cogliere
l’essenziale nelle parole degli altri, e dargli il giusto valore, quando
invece scrivi un testo tuo, o ti racconti, significa allora imparare a pensare
agli altri, a come farsi capire, arrivare alla loro testa e al loro cuore.
Ancora una volta, è un piccolo esercizio, un allenamento a una pratica poco di
moda, l’altruismo. Precisione
contro cialtroneria Prendere
appunti, “approfondire” attraverso la scrittura sembrano operazioni PESANTI.
Calvino però ci viene di nuovo in soccorso: “La leggerezza per me si
associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e
l’abbandono al caso”. Dunque si può imparare a essere “leggeri” ma
non superficiali, si può essere precisi ma non pesanti. Proprio
in carcere ci si accorge di quanto è importante lavorare alla rivalutazione di
certe parole: l’idea della “bella vita”, che è poi il motore che spinge a
commettere tanti reati, i soldi le belle macchine le belle donne i vestiti
firmati, è sempre associata alla leggerezza, e la cultura, quindi anche la
scrittura, e tanto più gli appunti sono invece sempre associati alla
pesantezza. Imparare
che la cultura può riempirti la vita “con leggerezza”, insegnarti ad avere
delle passioni, anche aiutarti a “rimorchiare di più” (ricordiamo
un’intervista a Gianni Riotta, giornalista e scrittore, che alla domanda
“perché si dovrebbe invitare i ragazzi a leggere” rispondeva esattamente
così: “Chi legge rimorchia di più”) è un concetto poco di moda in carcere
come a scuola, e gli appunti ne sono il simbolo: qualcosa di assolutamente
noioso, poco eccitante, poco emozionante. E
invece gli APPUNTI possono essere uno straordinario strumento per esercitare la
memoria, la capacità di scelta, l’attenzione agli altri, la precisione, la
leggerezza intelligente invece che la pesantezza ottusa. I
punti e le virgole della vita di
Luigi Guida,
Ristetti Orizzonti Nei
molti incontri con le migliaia di studenti che sono venuti a confrontarsi con
noi detenuti, spesso racconto i vari “scivolamenti” che mi hanno portato a
varcare la soglia del carcere già dalla minore età, e spiego che le mie
passate esperienze detentive, prima che arrivassi a Padova, più che avere avuto
un effetto rieducativo nei miei confronti, hanno contribuito a farmi diventare
una persona peggiore di come sono entrato, e a farmi accumulare centinaia di
rapporti disciplinari che non mi hanno permesso di usufruire in quasi dieci anni
di carcere dello sconto di pena previsto per chi ha un buon comportamento, anzi
ho preso moltissime denunce e quindi ancora anni di galera. E se gli spiego che
da quando sono a Padova per la prima volta potrò usufruire di uno sconto di
pena, grazie a quegli operatori che mi hanno messo a disposizione degli
strumenti per raggiungere questo traguardo, tra cui la possibilità di vivere
questa esperienza con la redazione di Ristretti Orizzonti, la domanda più
frequente che mi viene fatta è che cosa ha davvero potuto contribuire al mio
cambiamento. La prima cosa che mi viene da raccontare è il primo articolo che
ho scritto all’interno della redazione: una pagina intera di racconto della
mia vita senza un punto o una virgola, o meglio con un solo punto a metà del
testo. Credo
che la consapevolezza che forse quello scritto rispecchiava molto la mia vita è
iniziata quel giorno, dopo che Ornella Favero correggendolo mi ha fatto notare
che il contenuto dell’articolo era buono, ma aveva un disperato bisogno di
qualche pausa, qualche regola, qualche virgola. Ho dovuto così riflettere sul
fatto che lo stesso doveva valere anche per la mia vita, perché molto spesso
alla base dei comportamenti che ti portano in carcere c’è la mancanza di
riflessione sulle conseguenze dei nostri gesti. Devo dire che da lì ho
cominciato seriamente a pensare che forse era il caso di iniziare a mettere
qualche punto e qualche virgola sui testi e non solo, cosa che ora da quasi due
anni faccio contemporaneamente negli articoli e nel rispetto delle regole
carcerarie. E questo mi sta portando a essere meno impulsivo e più riflessivo
nel parlare e nell’agire, e a mettere al primo posto le conseguenze dei miei
gesti sugli altri. Allora
forse non sono “irrecuperabile” come mi è stato detto in altre carceri, e
forse il paziente lavoro di ascoltare gli altri, prendere appunti su quello che
dicono, mettere dei punti e delle virgole mi può portare a un maggior rispetto
della loro e della mia vita. Arrieta
Guevara Miguel, Aslam Abbas Qamar,
Belegu Gentian, Boscarino Vincenzo, Cana Fatjon, Canzian Alain, Cappuzzo
Gianluca, Cavallini Marco, El Ins Mohamed, Filippi Filippo, Floris Antonio,
Frignani Stefano, Galassini Ulderico, Guida Luigi, Iberisha Dritanet, Ismaili
Bardhyl, Kola Pjerin, Kovac Davor, Lazarov Miroslav, Malin Enos, Monzoni Bruno,
Munteanu Igor, Napoli Santo, Pupi Elvin, Salem Rachid, Semolin Oddone, Spahija
Flamur, Tlili Mohamed, Tripodo Mirko, Turci Bruno, Vacaru Gheorghe, Vitali
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registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione
in A.P. art.
2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova
[1]
Omero
“Iliade” trad it. di M.G.Ciani (a cura di), Marsilio, 1990 [2]
Così li definisce lo psicologo statunitense J. Bruner ne La
ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati
Boringhieri, Torino, 2003 [3]
Simona Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli,
Milano, 2012 [4]
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007 [5]
Di Francesca Melandri, Rizzoli, Milano 2012 [6] Su questo A. Camus ha scritto bellissime pagine. V. L’uomo in rivolta
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