Riflessioni di detenuti presenti al convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”

Quello che il confronto fra le scuole e il carcere ci insegna

Ho vissuto una vita in funzione di me stesso

L’altro non era minimamente contemplato, al centro c’ero solo io e l’arroganza di poter fare ciò che volevo

 

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Sorriso strafottente, pronto a elargire saluti e battute, ero furbo e loro non mi avevano piegato.

Ecco cosa pensavo all’uscita dal tribunale, mentre due agenti mi scortavano ammanettato verso il carcere.

Avevo appena avuto una condanna a dodici anni di carcere per alcune rapine a mano armata, ma io ero un duro, avevo la corazza e non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi piagnucolare, piegato al loro giudizio!

Il concetto di “corazza” me lo porto dietro da molti anni, è un meccanismo che conosco perfettamente, riesce a spersonalizzare il mio dolore, a convincermi che le cose seguono il proprio corso e che mi scivolano inevitabilmente addosso, tanto non ci puoi fare niente e allora è meglio non starci troppo male.

Ho imparato da giovane a usarlo, quando certi dolori e sensi di colpa sembravano non volermi abbandonare, e allora ti costruisci una corazza emotiva su misura, di quelle che credi impenetrabili al dolore e con questa convinzione tiri avanti, non ti confronti e non ti metti nemmeno in discussione.

La superficialità diventa la linea guida, ridi e scherza ma lascia sempre fuori le emozioni, tieni per

te i tuoi problemi e le sofferenze, tanto non interessano a nessuno e se le manifesti, dimostri solamente la tua debolezza.

A distanza di anni ora penso: che gran testa di c. egoista che sono stato!

Ho vissuto una vita in funzione di me stesso, l’altro non era minimamente contemplato, al centro c’ero solo io e l’arroganza di poter fare ciò che volevo. Giustificavo sempre e comunque il mio comportamento, mi dicevo: è andata così e non posso farci niente.

Colossali balle, credo davvero che noi siamo il prodotto delle nostre scelte e queste ricadono inevitabilmente sulle persone che ci stanno intorno.

La corazza che mi consentiva di non soffrire più di tanto, aumentava le sofferenze di chi mi amava, persone alle quali non davo gli strumenti per capire cosa c’era in realtà dentro di me.

Oggi, con l’aiuto di Ornella, della sua disarmante pazienza, del confronto con gli altri volontari e con i ragazzi delle scuole, inizio, con un po’ di paura, a smontare un pezzetto alla volta questa corazza.

Ci sono un sacco di cose che non mi piacciono e mi spaventano, mi sento più debole, meno sicuro, ma anche più vero. Forse scoprirò altro che non mi piacerà, ma almeno saprò che è parte di me e non dell’armatura dietro la quale mi ero nascosto.

A volte non riesco a capire se certe mie posizioni sono veramente mie o sono soltanto il frutto di quella corazza, radicata così profondamente in me da essere diventata ormai parte della mia vita.

Non so se sarò mai capace di esternare le mie debolezze e nemmeno se sarò in grado di chiedere aiuto, ma le parole che ho scritto mi hanno fatto capire che sono riuscito a incrinare la mia corazza e che pensare di vivere senza soffrire e senza lasciarsi attraversare dalla vita in tutti i suoi lati, significherebbe ridurne l’intensità e la complessità, rinunciando alla profondità dei sentimenti, ed io non voglio più che questo accada.

 

 

Gli studenti si ricorderanno per il resto della loro vita che finire qui è davvero facile

 

di Pierin Kola, Ristretti Orizzonti

 

Mentre sentivo Dritan intervenire al convegno e ho visto come si è emozionato, mi sono ricordato di quella volta che anch’io ho cercato di parlare di fronte ad una classe di studenti.

All’inizio, quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti e si parlava del progetto scuola/carcere, ho pensato subito dentro di me: ma cosa vengono a fare gli studenti qui in carcere?

Tanto noi non possiamo insegnare niente, e anche se raccontiamo le nostre storie niente può cambiare.

Però sono ormai più di due anni che partecipo a questo progetto e oggi ho cambiata idea. Anche se ci sono pochissimo agli incontri, perché alla mattina sono al lavoro, e le classi spesso vengono proprio alla mattina, quelle volte che mi è capitato di incontrare gli studenti ho capito che non è per niente facile rispondere alle loro domande.

Una volta ho deciso di prendere coraggio e provare a dire qualcosa anch’io, ma mi sono trovato subito in difficoltà. Non mi venivano le parole e mi sono bloccato. La voce non usciva fuori. Io volevo rispondere come fanno i miei compagni, volevo dire qualcosa di utile, ma non ci sono riuscito.

E adesso, quando guardo quelle centinaia di ragazzi venire qui dentro per conoscere le nostre storie e ragionare con noi, ho capito che questo progetto serve molto a loro, e serve anche a noi detenuti.

Loro si svegliano presto e fanno chilometri per venire qui in carcere,e conoscerci. Forse all’inizio sono solo curiosi, ma poi si vede che vengono coinvolti e presi dalle nostre storie, il che credo sia un bene perché si ricorderanno per il resto della vita che finire qui è davvero facile, e che bisogna stare sempre attenti e non dare niente per scontato.

 

 

Sono tunisino, la mia pelle è scura e ho commesso numerosi reati

E quindi, secondo la logica dei media, io dovrei essere una persona assolutamente

cattiva?

 

di Tlili Mohamed

 

Da due anni faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti, e quest’anno anch’io ho contribuito a organizzare il convegno all’interno del carcere sui “totalmente buoni” e “gli assolutamente cattivi”. Si è parlato naturalmente di come i mass-media e l’opinione pubblica siano portati a identificare coloro che commettono reati come persone “assolutamente cattive”. Io purtroppo rispecchio in pieno questo stereotipo, sono tunisino, la mia pelle è scura e ho commesso numerosi reati. E quindi, secondo la logica dei media, io dovrei essere una persona assolutamente cattiva?

Sono arrivato in Italia davvero con una valigia carica di sogni, non avevo nient’altro per riempirla, volevo lavorare e aiutare la mia famiglia, ma non sempre le cose vanno come vogliamo. Presto mi sono reso contoche la via più facile era la droga, la vedevo come l’unica soluzione per arricchirmi ed essere così accettato da questa società. Le scelte che fai segnano la tua vita e la mia è stata difficile, ho iniziato a entrare in carcere molto giovane, davo la colpa alla discriminazione e al destino, ora invece capisco che non è così.

Quando al convegno ho sentito parlare lo scrittore Gianni Biondillo, mi sono fermato a riflettere sulle sue parole. Anche lui è cresciuto in uno dei quartieri più difficili di Milano, il suo destino naturale sarebbe stato quello di diventare un delinquente, o perlomeno era questo che la gente poteva aspettarsi da uno come lui. Ma non è stato così, lui ha avuto la forza di puntare su di sé, di far suoi esempi positivi che anche in un quartiere così esistono.

Ha scelto la strada più difficile, ma il suo impegno l’ha ripagato.

Ora forse esiste una possibilità anche per me, e una volta fuori di qui, inizierò a cercarla. Le mie diversità e il mio stato d’immigrato non fanno di me una persona assolutamente cattiva, e io non userò più il pretesto della discriminazione a discolpa delle mie azioni, mi creerò una possibilità e la seguirò sino in fondo, chissà se quelli di voi che si considerano assolutamente buoni mi aiuteranno!

 

 

Confrontarmi con delle persone che non conosco mi ha molto aiutato a capire

 

di Elvin Pupi, Ristretti Orizzonti

 

Io non sono intervenuto al convegno perché mi vergogno, ma se avessi potuto farlo, avrei raccontato come ho vissuto in quattro anni in cui ho frequentato la redazione. Fin da subito ho partecipato agli incontri con le scuole. I primi tempi partecipavo agli incontri osservando i miei compagni mentre raccontavano le loro storie e rispondevano alle varie domande dei ragazzi, tutto ciò mi è parso fin da subito molto interessante, anche se mai avrei pensato che un giorno anch’io sarei stato in grado di raccontare la mia storia e rispondere alle domande dei ragazzi mettendomi in gioco fino in fondo.

Dopo il primo anno passato ad osservare gli incontri, ho deciso di provare a raccontare la mia storia e di rispondere alle domande dei ragazzi, mettendomi in gioco e mettendoci la faccia, perché raccontare degli sbagli fatti e del peggio della mia vita non è certamente facile.

All’inizio avevo il problema della lingua, facevo fatica ad esprimermi in italiano, visto che ero sempre a contatto con i miei paesani, quindi avevo perso tutta la dimestichezza che avevo con l’italiano. Superato poi lo scoglio della lingua sono partito con la mia storia e, nonostante la tensione che avevo dentro, sono riuscito a sbloccarmi raccontando e rispondendo alle loro domande, credevo fosse molto più difficile metterci la faccia a partire dalla narrazione di pezzi della propria vita, ma devo dire che tutto ciò oggi mi viene spontaneo e mi ha aiutato a riconoscere i miei sbagli e a cambiare la mentalità che avevo prima di essere arrestato.

Il fatto di dialogare con ragazzi giovani ma anche con persone adulte che spesso vengono in redazione, secondo il mio parere è utile perché ti dà modo di riflettere sul fatto che se sono finito qui dentro un motivo c’è, e confrontarmi con delle persone che non conosco mi ha molto aiutato a capire ciò che probabilmente da solo non avrei capito. Resto anche molto colpito quando dei ragazzi giovani mi pongono delle domande a cui è doloroso rispondere, e onestamente qualche volta mi trovo in difficoltà. Ma poi ragiono e ricordo a me stesso che il confronto mi può aiutare a crescere.

Credo che questo progetto con le scuole dovrebbe essere esteso anche ad altri carceri, perché è soprattutto utile per noi detenuti. Io provengo da una Casa Circondariale dove queste attività non

c’erano, e mi reputo fortunato di essere arrivato in questo carcere e aver potuto far parte della redazione.

 

 

Mai avrei pensato che tanti giovani fossero sensibili a una realtà così distante dalla loro vita

 

Di Alain Canzian

 

Mai avrei pensato che tanti e tanti giovani fossero sensibili a una realtà che è tanto distante dalla loro vita

Sarà curioso, ma è reale. In tanti anni della mia vita, solo ora in carcere ho assistito ad un evento, per me eccezionale, che ha portato qui dentro così tanta gente che c’erano, credo, ben cinquanta cuochi impegnati a preparare il buffet.

Mi riferisco al convegno del 20 maggio, la giornata nazionale di studi presso la Casa di reclusione di Padova.

Sono rimasto incantato da alcuni interventi, ma quello che più mi ha colpito nel profondo è stato il racconto di una mamma che aveva la figlia in carcere. La sua storia, il suo modo di esprimersi, il suo profondo dolore cosi ben celato dietro una autentica dignità non riuscivano a nascondere il suo immenso dramma.

Un altro aspetto di questo convegno che mi è sembrato importante è stata la presenza di un grandissimo numero di studenti provenienti da tanti istituti. Ciò che mi ha colpito di loro è stato il profondo interesse, attraverso le loro domande sulla vita carceraria e la sofferenza che essa comporta per gli affetti lontani e a volte l’abbandono totale di tante famiglie.

In ultimo, e per concludere con una nota di gioia che ha fatto funzionare anche la fantasia, è stato bello essere in mezzo a tante bellissime donne che da tempo ormai non vedevo più. Nel congedarmi e nel salutare gli ospiti alla fine ho avuto la sorpresa di incontrare una volontaria del carcere di Belluno, dove io sono stato in precedenza, che con la sua gentilezza e viva affabilità mi ha visto con gioia ricordandomi un passato che in quel momento, per il piacere di rivederla, non sembrava di carcere ma quasi di una vacanza. Mi auguro e spero di poter ancora una volta rivivere questa atmosfera che definirei proprio “di gioia” nonostante la galera e nel contempo di temi profondi come quelli della vita in carcere. Desidero ringraziare chi mi ha invitato sperando che il prossimo anno lo rifarà.

 

 

Io considero il progetto scuola una specie di riscatto, un’autotassazione

 

di Enos Malin

 

Il Convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi” lo abbiamo organizzato come redazione per ragionare su quanto sia importante il progetto con le scuole per i ragazzi. I relatori sono stati tanti e alcuni miei compagni hanno spiegato bene il senso del progetto, ma mentre loro parlavano io mi guardavo intorno e, circondato da centinaia di persone attente a non perdere una parola, ho fatto una riflessione su cos’è per me questo progetto.

Nella stragrande maggioranza gli studenti che partecipano al progetto scuola entrano in carcere attratti dalla curiosità. Sono spinti maggiormente dall’interesse di vedere da vicino un mondo conosciuto solo attraverso tanti film che mostrano una realtà romanzata ed enfatizzato anche dai racconti di cronaca nera. Sono consapevoli che molti mezzi di informazione distorcono spesso la realtà, quindi è comprensibile questa loro volontà di constatare fin dove si spinge la fantasia della comunicazione. Per loro c’è poi anche una forte emozione nel vedere da vicino coloro che i media hanno definito cattivi, diversi, dei “mostri”.

Io invece considero il progetto scuola una specie di riscatto, un’autotassazione di affrancamento, e ringrazio gli studenti perché mi danno questa opportunità. Però, ogni volta che incontro i ragazzi, mi sento in imbarazzo, ho difficoltà ad esprimermi e non riesco a relazionarmi con loro.

Tale immobilità è dovuta al fatto che non mi trovo in carcere per unfortuito sbaglio o per una tragica beffa del destino, bensì perché ho voluto scegliere questa vita, ho sbagliato sapendo di sbagliare, e mi chiedo: “Cosa dico a questi ragazzi che ho davanti? Come faccio a spiegare loro quali sono i veri valori della vita, della famiglia, della società? e quanto erano evanescenti quelli che mi ‘hanno condotto qui?”.

Vorrei tanto trasmettere a loro le mie esperienze, spiegargli e fargli capire come sia facile sbagliare e valutazioni. Come sia semplice credere che è più “figo” adottare determinati comportamenti per emergere dal gruppo, ma che sono atteggiamenti errati ed infinitamente rischiosi.

La mia esistenza è stata un fallimento, quindi sono un cattivo maestro di vita. Non posso salire in cattedra per insegnare ad altri ciò che io stesso non ho capito. E non debbo neppure ammonire, non sono un istitutore e poi è risaputo che spesso si ottiene l’effetto contrario facendo tante raccomandazioni su quello che si deve o non si deve fare.

Invece sarebbe necessario saper raccontare con obiettività solo il percorso che mi ha condotto in carcere e che poi mi ci ha fatto trascorrere la maggior parte della mia vita. Ma è proprio questo il difficile, raccontare a sconosciuti la disfatta della propria esistenza, ammettere di aver sbagliato tutto e di non essere stato in grado di adottare i rimedi necessari per attenuare almeno in parte la sconfitta.

Sono queste difficoltà che mi paralizzano. Ogni volta guardo gli occhi sgranati dei ragazzi che ho di fronte, mi scrutano e mi imbarazzano Desidererei spiegare loro tante cose. Vorrei rassicurarli che loro sono immuni dal commettere certi sbagli, ma non è così, in carcere non ci sono i “brutti e particolarmente cattivi”, ma le stesse persone che s’incontrano quotidianamente per strada.

I rischi sono a portata di mano e non sembrano pericolosi; anzi spesso vengono minimizzati come trasgressioni e atti di coraggio.

Ancora non sono riuscito a narrare ai ragazzi la parte più brutta della mia vita, ma toglierò il freno che mi blocca e racconterò il mio passato, affinché i miei sbagli possano far riflettere ed illuminare almeno un po’ il cammino a coloro che il percorso della vita ce l’hanno tutto davanti.

 

 

Vedere i ragazzi delle scuole ha acceso pure in me il desiderio di un futuro migliore

 

di Cesk Zefi

 

Quando uno ha perso tutto comincia a rendersi conto delle opportunità sprecate, e a quel punto il prezzo da pagare per riaverne indietro qualcuna si rivela molto alto.

Ero iscritto all’università, però a un certo punto ho cominciato a fare di tutto fuorché studiare. Lavoravo tutto il giorno, e poi uscivo alla sera. Insomma lo studio era diventato per me come un passatempo.

Il lavoro era al primo posto anche perché era indispensabile per me, ma lo studio era l’ultimo nella lista perché prima ancora avevo bisogno di uscire con gli amici, fare attività sportive, leggere qualsiasi altro libro che non fosse un testo didattico, o passare il tempo giocando o chattando in internet. E solo dopo, quando ormai ero stanco di fare tutto questo, forse prendevo in mano i miei libri e mi mettevo a studiare.

Questo mio modo di “ordinare” la giornata ha fatto sì che mi perdessi in tante cose inutili e anche pericolose per la mia vita e quella di altra gente. Mi sono infatti infilato in un giro di spaccio, e questo in poco tempo mi ha portato in carcere.

Il progetto “Scuola-Carcere” che facciamo nella redazione di Ristretti Orizzonti mi ha messo di fronte a decine di ragazzi da diverse scuole che vogliono capire come e perché siamo finiti qui. E rispondere mi ha fatto riflettere sul mio passato e sulle mie scelte sbagliate. Dalle loro domande appare chiara la loro voglia di capire, anche per non sbagliare a loro volta e per avere una vita migliore, diversa dalla nostra. Vedere questo ha acceso pure in me il desiderio di un futuro migliore, di non rassegnarmi ma di cominciare ad avere progetti precisi per la vita. Così ho cominciato proprio in carcere a fare quello che prima per me aveva poca importanza, quello che era diventato un “passatempo”, vale a dire, studiare. Dopo aver visto gli occhi di quegli studenti, ho capito che lo studio è alla base di ogni progetto, l’unica strada per un futuro migliore. Ma ogni giorno mi rendo conto che il prezzo da pagare per ricominciare una vita nuova è molto alto. Per studiare in carcere e dopo tanto tempo di interruzione ci vogliono tanta volontà e sacrificio. Stare in una cella piccola e sovraffollata, con altre persone che parlano e guardano la televisione, e senza un posto decente per poter scrivere o appoggiare i libri, non costituisce la condizione ideale per studiare.

In più trovare i libri sarebbe impossibile se non ci fossero i volontari che ci aiutano. Il materiale didattico che qualsiasi cittadino libero può scaricare tranquillamente da internet qui è molto difficile da reperire. E infine i tempi di attesa per sostenere gli esami sono spesso lunghissimi. Nonostante tutto, credo sia un sacrificio che vale la pena fare in qualsiasi tempo e condizione, perché non bisogna scoraggiarsi mai ma crederci, nel fatto che la vita si può migliorare in qualsiasi fase e nonostante qualsiasi difficoltà.

 

 

Ho avuto tanti esempi positivi, ma ho sempre preferito ignorarli

 

di A. B.

 

I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi: questo era il titolo del convegno, che si è tenuto a maggio nel carcere di Padova che, da alcuni anni, è la mia dimora obbligata.

Sono stati affrontati numerosi temi con interventi di relatori competenti, ma a dire il vero, come sempre, non sono stato attento a tutto ciò che è stato detto.

Ornella, il direttore della nostra rivista “Ristretti Orizzonti”, nonostante il trascorrere degli anni non si stanca di ripetermi che la mia soglia d’attenzione è paragonabile a quella di un ragazzino di quindici anni. So che la sua è una giusta critica, ma io la trasformo in un complimento, sono abilissimo a farmi scivolare tutto addosso, è il mio sistema per cercare di ingannare le avversità e le sofferenze che inevitabilmente chi è detenuto vive ogni giorno.

Comunque una mia personale riflessione l’ho fatta e andando a ritroso nel mio vissuto, ho cercato di fare un bilancio tra le azioni buone e quelle cattive che hanno contraddistinto la mia vita.

Schiacciante prevalenza delle cattive!

In realtà però, se mi conosceste personalmente, sono sicuro che non mi giudichereste una persona

cattiva.

Esistono azioni cattive, commesse per motivi diversi, ma, pur girando da anni nelle patrie galere, di persone che si potrebbero definire assolutamente cattive non ne ho mai incontrate, ad ogni modo giudicare etichettando qualcuno in un senso o nell’altro ritengo sia assolutamente arbitrario e limitato. Il fatto è che troppo facilmente saliamo in cattedra ergendoci a giudici, dimenticando con altrettanta facilità che la possibilità di sbagliare ci accomuna tutti quanti.

Io personalmente non cerco attenuanti ai miei comportamenti, badate bene, se potessi lo farei, ma se per anni sistematicamente commetti reati, perdi, per così dire, credibilità.

Ho compiuto con premeditazione cattive azioni, ma non mi sento assolutamente cattivo, non impersono il male assoluto, anzi ho idee e progetti per un futuro migliore e come me li hanno anche moltissime delle persone recluse.

Se ad una persona non si fa altro che dire che per lui non c’è speranza, che la sua indole è totalmente malvagia, si corre il rischio di renderla veramente tale. L’assenza di speranza e quindi di progettualità, unita al sistematico rifiuto della società ad accettarti, non crea certo sicurezza ma segregazione e terrore.

Uno degli interventi dei relatori che mi ha colpito e interessato è stato quello dello scrittore Gianni Biondillo, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, periferia degradata e ad alto tasso di criminalità di Milano. Parlava di come chiunque vi abita sia considerato da tanta gente un criminale o potenziale tale e con quanta superficialità si discrimini spesso un intero quartiere, descrivendo con stereotipi coloro che vi abitano.

Anch’io sono cresciuto in un quartiere difficile, ma ho avuto ugualmente tanti esempi positivi che avrei potuto seguire, ho semplicemente preferito ignorarli.

Sono le scelte che facciamo a condizionare il nostro futuro, molte delle mie hanno tracciato il cammino verso il carcere, chissà che quelle future mi conducano altrove.

 

 

Persone che hanno bisogno di recuperare l’umanità perduta

È questa la condizione di chi ha commesso reati anche gravissimi, ma non è in ogni caso “un mostro”

 

di Bruno Turci

 

Durante gli incontri con le,scuole, dalle domande degli studenti e degli insegnanti, emergono sempre gli argomenti più spinosi. Ci chiedono spesso, per esempio: secondo voi non sono pochi 15 anni per un omicida? Secondo voi la pena giusta quale sarebbe? Quello su cui abbiamo riflettuto in questo percorso tra scuola e carcere è che per noi è davvero difficile rispondere ad una domanda così, noi non siamo in grado di dare una risposta accettabile: quanti anni di galera vale una vita tolta? Allora bisogna cercare di ragionare sul senso di una pena che non corrisponda solo alla quantità di anni che può avere il gradimento della piazza.

Agnese Moro, durante un incontro qui in redazione, ci ha detto che a uno studente che le chiedesse quale può essere la pena giusta per chi commette un omicidio, le verrebbe da dire: “Il tempo che uno rientri in se stesso”. Per trovare il modo di rispondere è necessario ragionare davvero sul significato che la pena dovrebbe assumere, bisogna avere coraggio e cercare di non pensare solo alla vendetta sociale. Si deve pensare ad investire sulla finalità rieducativa della pena, e questo equivale a fare un investimento sulla sicurezza sociale, privilegiando il recupero dell’individuo. Perché Agnese Moro ci h espresso un concetto importante davvero: che non ci sono i “mostri”, ma ci sono solo persone “uscite da se stesse”, che hanno smarrito la loro umanità e hanno bisogno di recuperare quell’umanità perduta. Su questo insegnamento bisogna ragionare per riuscire ad aiutare queste persone a intercettare quel virus, a riconoscere il demone che gli impedisce di tornare nel mondo. Dobbiamo cominciare a pensare sul serio come trovare delle soluzioni diverse dal carcere per recuperare queste persone e restituirle alla società, affinché possano realizzare la loro umanità. Dando il loro contributo per lasciare un mondo migliore. Nulla e nessuno deve andare perduto.

Nei miei lunghi anni di carcere ho imparato che delle persone è necessario raccogliere e cercare di capire anche i particolari in apparenza più insignificanti per non lasciare indietro nulla di ciò che

appartiene alla sfera dell’uomo che “si ferma a pensare”. È questa la finalità del progetto che vuole portare la scuola in carcere e il carcere a scuola. Io credo che non si possa mettere in discussione l’importanza di questa attività di prevenzione che facciamo in carcere e credo anche che questa iniziativa dovrebbe trovare spazio per una vasta diffusione sul territorio nazionale, dovrebbe essere incoraggiata per consentire alle associazioni di volontariato impegnate in attività di recupero di potersi organizzare e realizzarla in maniera più capillare.

Non c’è dubbio che quando gli studenti incontrano noi detenuti in carcere o a scuola riescono ad assorbire esperienze che probabilmente non sarebbero mai state recepite se fossero arrivate dai classici modelli di insegnamento. La credibilità che hanno le persone detenute quando si mettono in gioco, raccontando le loro storie, assume punte elevate proprio per la genuinità del gesto di mettere a disposizione le loro testimonianze. I ragazzi riescono a entrare nelle storie e a vedere tutti i fotogrammi che hanno portato le persone a scivolare nei comportamenti a rischio. In seguito, in classe, possono elaborare riflessioni che li “vaccinano”, come se avessero ricevuto da noi degli occhiali un po’ speciali che aguzzano la vista della mente, permettendogli di riconoscere le trappole di quei virus maledetti che a volte si insinuano nella testa dei giovani.

Questa attività è davvero coinvolgente, per noi e anche per loro, è un esercizio che tonifica l’animo dell’uomo e predispone le persone che scontano la loro pena a riflessioni profonde e importanti, che poi andranno a incidere, nella maggior parte dei casi, sulle scelte future.

Il carcere vissuto con queste dinamiche prepara i percorsi che accompagnano più agevolmente le persone condannate ad un reinserimento nella società e nella famiglia. Invece al contrario nelle carceri in cui non esiste una realtà come questa o altre che possano offrire opportunità risocializzanti, i condannati vivono la pena come un atto di vendetta da parte dello Stato, e difficilmente riuscirebbero a percepire la portata del reato commesso. Questo è il grande limite di quelle società che si affidano al carcere come unica soluzione, per la deterrenza, per la riparazione e la prevenzione dei reati.

Paradossalmente, quindi, le persone detenute riescono a riconoscere la responsabilità verso le vittime dei loro gesti nelle carceri dove il regime di vita è più umano e più aperto, altrove dove la detenzione li schiaccia, a loro volta si sentono vittime essi stessi e non saranno mai in grado di elaborare con la necessaria sensibilità le ragioni che li hanno condotti alla devianza. Questa è la vera tragedia, sono le conseguenze che produce la cecità di uno Stato, che non investe energie nella giustizia ripartiva e in quelle misure alternative, che accompagnano il condannato verso il suo rientro nella società. A questo scopo torniamo a ricordare che i dati statistici danno per certo il reinserimento di circa l’80 % di quei condannati che in carcere partecipano ad attività risocializzanti e vengono accompagnati con un lavoro nelle misure alternative. In caso contrario, là dove la gente si fa “tutta la galera” senza nessun percorso di reinserimento, si verifica che è lo stesso Stato che provvede a fornire un alibi, in maniera anche piuttosto maldestra, a chi recidiva.