Re-inventare il reinserimento al lavoro dei soggetti svantaggiati

Non sono le abilità professionali o le competenze sociali a mancare in molti “soggetti svantaggiati”, quanto la possibilità reale di svincolarsi dall’etichetta di “ex”

 

Di Alessio Guidotti, dopo l’esperienza della detenzione si è riqualificato professionalmente, 

lavora c/o Cooperativa Il Sorbo di Formello (RM) come tutor nei reinserimenti lavorativi

 

Quando si parla, per l’inserimento al lavoro, di “soggetti svantaggiati”, si dà una definizione generica che raccoglie tutta una serie di svantaggi legati a persone che, per diverse ragioni, vivono una condizione di debolezza, determinata dalla loro posizione umana e sociale, anche per quel che riguarda la possibilità che hanno di lavorare.

Credo, però, che vi siano dei grandi controsensi, e delle contraddizioni sottili, e anche degli effetti controproducenti in una parte delle politiche e delle pratiche di gestione degli inserimenti al lavoro dei soggetti svantaggiati o “deboli”.

In particolar modo credo vi siano, nella pratica quotidiana, alcuni aspetti poco considerati riguardo i reali problemi che ci sono nell’intraprendere un percorso di reinserimento lavorativo: credo, cioè, che non siano ancora sufficientemente presi in esame alcuni aspetti che sono, in realtà, parte determinante di chi vive il problema di doversi reintegrare in un mondo, quello del lavoro, con il quale per varie ragioni ha perso il contatto. In particolar modo ho constatato, anche a partire dalla mia esperienza diretta, come vi siano problemi comuni, tra le varie categorie di quelli che vengono definiti soggetti svantaggiati (ex-detenuti, utenti psichiatrici, ex tossicodipendenti).

La prima grande inattualità di alcuni sistemi di approccio al problema è come queste “classificazioni” siano, in molti casi, oggi, prive di valore e di significato per quello che interessa: sempre più spesso, ad esempio, soprattutto nelle Cooperative sociali, ci si trova davanti a situazioni multi-problematiche, situazioni in cui lo stesso individuo da reinserire presenta problemi di natura psichica, problemi legati alla tossicodipendenza e trascorsi carcerari.

La divisione in categorie ha valore, quindi, solo per alcuni aspetti prettamente “tecnici” del lavoro di tutoring che però qui non interessano.

Mi sembra, invece, molto più significativo parlare di quanto, nella maggior parte dei casi, ci si trascini dietro vecchie teorie e pratiche che non hanno più il senso che potevano, forse, avere quando sono state ideate. Tralasciando di considerare se sia mai stato efficace definire i percorsi di reinserimento al lavoro con tanto di sottolineatura del tipo di svantaggio di cui la persona che

intraprende un percorso del genere è realmente portatrice, vorrei solo considerare come non ci si possa lamentare del peso di un pregiudizio se poi, anche inconsapevolmente, quel pregiudizio lo si alimenta. Sono anche convinto che deputare al soggetto debole il ruolo sociale di colui che combatte lo stigma dimostrando come l’ex detenuto (o ex qualcosa) possa tornare ad essere un bravo lavoratore sia una vera azione controproducente, inutilmente gravosa per la persona, che ha già i suoi problemi.

Pubblicizzare a caratteri cubitali che in un determinato luogo ci siano persone che lavorano e che siano provenienti da percorsi di detenzione, non sono sicuro che sia molto significativo, o per lo meno credo che oggi, nel 2011, sia una cosa di dubbio valore a livello di reinserimento lavorativo e sociale.

Il pregiudizio, il desiderio di categorizzare le persone, qualificarle, isolarle se ci parlano di realtà che non conosciamo e che fanno paura come il carcere o il centro di igiene mentale, sono meccanismi legittimi della mente che non tutti riescono realmente però a superare. Anche noi, per esempio, che abbiamo avuto a che fare con la giustizia, potremmo avere un pregiudizio verso un magistrato di sorveglianza, che non conosciamo e che magari è, invece, ben disposto nei nostri confronti. Faccio un esempio concreto: io credo, cioè, che se il laboratorio che produce pasta all’uovo si trova all’interno di un penitenziario, questa caratteristica si debba dire, comunicarlo nella pubblicità dei prodotti che vengono realizzati, e bisogna farlo senza remore. Ma se il laboratorio non è in carcere, perché dire che ci lavorano ex-detenuti? Quanto serve dire di far lavorare degli ex qualcosa, pubblicizzarlo, sottolinearlo, metterlo in evidenza? Non sarebbe meglio fare della pasta all’uovo buona e a buon prezzo, e venderla con un sorriso e simpatia? Mi viene in mente una fattoria sociale che vende l’insalata in confezioni con scritto “Io sono solidale” e la foto di un ragazzo down sottobraccio a un contadino sorridente: siamo sicuri che quello sia un modo per combattere lo stigma? Qual è il valore di questo genere di presentazione di un prodotto di una fattoria sociale? Cosa vende quella fattoria? Prodotti ben coltivati e buoni oppure l’occasione di sistemarsi la coscienza e fare un’opera buona comprando insalata coltivata da “quei poveretti”? Far vedere che uno zoppo può saltare, mettendogli addosso un cartello con su scritto “sono zoppo” non mi sembra un’ottima idea... non sarebbe meglio farlo saltare insieme a delle persone che non zoppicano, e basta? Il problema legato a quelle che vengono definite le abilità sociali, a come un determinato soggetto deve imparare ad acquisirle, non può essere sempre messo insieme con il fatto che quel soggetto sia un ex-qualcosa. Il mio timore è che essere definiti, ad esempio, ex detenuti diventi un vero marchio che poi la persona porta con sé e non riesce a togliersi più di dosso, ma non con gli altri: con se stesso. Sapere di appartenere a categorie socialmente svantaggiate rischia di creare uno svantaggio, e io credo che in particolar modo quelli che chiamerei più volentieri “percorsi di riqualificazione e collocazione professionale” dovrebbero lavorare molto su questo concetto di allontanare il più possibile l’etichetta di svantaggio… dallo svantaggiato!!! Questo, sia ben chiaro non ha nulla a che vedere con i supporti sociali (tirocini, sussidi, agevolazioni per chi assume) che devono esserci e andrebbero semmai aumentati. Potrei raccontare storie reali e concrete dove ex-tossicodipendenti, ex-degenti psichiatrici, insomma ex qualcosa, hanno portato il peso del loro svantaggio anche quando il loro percorso di riqualificazione e collocazione professionale poteva dirsi, se non concluso, che avesse raggiunto un buon livello. Ma qual è, realmente, lo svantaggio? Parliamo di uno svantaggio più comune e che accomuna un po’ tutti coloro che sono assenti da diverso tempo e per diverse ragioni dal mondo del lavoro, parliamo di uno svantaggio che è (superato l’aspetto di qualificazione professionale) prettamente relazionale. Ci sono concretamente delle difficoltà a inserirsi in un contesto di lavoro, queste difficoltà possono riguardare sicuramente persone poco abituate a questi contesti, ma le stesse difficoltà si possono incontrare in persone che non sono ex niente, hanno problematiche caratteriali, non sono considerate svantaggiate ma sono solo percepite, dai loro colleghi, un poco antipatiche o introverse, oppure presentano difficoltà che nel contesto di lavoro trovano un loro bilanciamento... eppure nessuno mai si sognerebbe di mettergli un tutor!!

 

A cosa serve il TUTOR?

 

Credo che comunque sia una cosa positiva, in situazioni particolari, l’intervento del tutor, le cui funzioni mi rendo conto che non sono mai ben chiare: il tutor non svolge funzioni di controllo, come credo sia sbagliato chiamare tutor chi offre consulenze di tipo teorico, e magari da dietro una scrivania, alle persone svantaggiate (ho visto tutor presentarsi ai tutorati con la lista delle opportunità lavorative di una determinata zona, oppure offrire vaghe consulenze su opportunità di detrazioni fiscali o ancora di corsi di aggiornamento professionale), credo che per queste cose ci sia, e ci debba essere realmente, l’assistente sociale, e penso che sia meglio spendere un poco di risorse

per tutoraggi “on job”, come ha scelto di fare la cooperativa per cui lavoro dove il tutor si “camuffa” da collega di lavoro, è un facilitatore di processi relazionali, un mediatore di conflitti. Tutto questo può servire per un ex detenuto? Non lo so, per me in realtà non esiste una categorizzazione, ho visto ex internati in OPG avere realmente bisogno di un tutor, che stesse con loro sul posto di lavoro, per questioni che qui è complesso spiegare, ma posso dire che non riguardavano solamente le loro difficoltà, quanto quelle degli altri componenti la squadra di lavoro a superare i loro timori e i loro, fastidiosi ma pur legittimi, limiti di accettazione della diversità altrui.

 

Molte volte poi il tutor si trasforma in un mediatore

 

Ma il mio interrogativo sulla persona che proviene da percorsi di detenzione è sempre lo stesso: il

tutoraggio deve servire solo perché quel determinato soggetto è un ex detenuto?

Non lo penso affatto, e nella cooperativa per cui lavoro il tutor non viene messo “a priori” se una persona proviene dal carcere: la verità è che molte volte il tutor serve per fare da mediatore nelle relazioni sul posto di lavoro a chi, indipendentemente dal tipo di svantaggio, ha perso o trova difficoltà ad instaurare nuove relazioni in un ambiente non protetto come è quello del lavoro.

Per chi proviene da percorsi di detenzione sono arrivato a domandarmi se sia giusto dover presentare quel maledetto certificato penale, mi spiego meglio: una volta che chi assume lo fa per la qualifica che quella persona ha (giardiniere, meccanico, infermiere, ecc.) che senso ha far sapere del proprio passato? Forse non ha alcun senso, se oramai si è nell’ambito di una professione. Le Cooperative hanno delle motivazioni specifiche di ordine amministrativo, ma sul piano sociale il ruolo della Cooperativa non deve finire per paralizzare l’individuo inchiodandolo a quel posto di lavoro: raramente, cioè, la cooperativa sociale è un luogo di passaggio, e non che questo sia un

male (magari ce ne fossero, di cooperative che hanno tanto di quel lavoro da poter assumere a tempo indeterminato), ma ci sono situazioni dove con un poco di coraggio si potrebbe provare veramente a dare opportunità “altre” ad alcune persone svantaggiate: penso a quelle ragazze, utenti del Centro di igiene mentale, che lavorano in cooperativa nel settore pulizie, per alcune di loro varrebbe la pena provare a farle veramente riqualificare, anche attraverso un percorso di studi.

Purtroppo, in questi casi il ruolo della cooperativa è anche limitato ovvero non ha poteri decisionali in tal senso, e nei centri di igiene mentale non sempre si trovano psichiatri responsabili e disposti a rischiare (responsabili proprio per questo) ma sono testimone di un coraggioso e bravo psicoterapeuta che si è battuto per far avere a un utente un sussidio terapeutico e agevolarlo a riprendere gli studi, lasciare il posto di commesso in un supermercato, ma quel coraggio, oggi, è stato premiato: adesso Piero, diagnosi di schizofrenia paranoide, si sta diplomando, e già lavora nel settore per cui studia.

 

Il soggetto svantaggiato può avere ruoli di responsabilità

 

Il ruolo della Cooperativa non deve allora trasformarsi in quello di una realtà che paralizza l’individuo: mettiamo il caso che un ex-detenuto, alle dipendenze di una cooperativa sociale, che essendo bravo nel suo mestiere, trovi la possibilità di un posto di lavoro presso una ditta, una normalissima ditta e non una Cooperativa Sociale, intenzionata ad assumerlo per le sue competenze

professionali. Si potrebbero verificare in questo caso delle situazioni controproducenti, sia da parte della cooperativa sia da parte del soggetto debole: la cooperativa può tendere, con una serie di atteggiamenti a non incentivare realmente il passaggio da un posto di lavoro a un altro (uno migliore magari anche economicamente) con l’ingannevole motivazione che quel determinato soggetto è uno “svantaggiato”, e quindi è preferibile lavori in una cooperativa sociale. L’altra reazione “paralizzante” può avvenire nel soggetto svantaggiato, nel caso specifico, ex-detenuto che si domanderà se deve dire o no al nuovo datore di lavoro, che è appunto un “ex-detenuto”: io sono dell’idea che non debba assolutamente farlo!! che senso ha dire di essere un ex, se si viene assunti per le proprie competenze professionali? Ci sono, quindi, delle buone pratiche per non far essere il reinserimento al lavoro una mera pratica assistenziale, ma è necessario che siano pratiche condivise, e in cui non solo il tutor ma anche il coordinamento delle squadre di lavoro ne comprenda il senso: io, ad esempio, chiedo ai coordinatori di settore (giardinaggio, pulizie) di nominare responsabili di

ogni genere, da quello dell’innaffio al responsabile della manutenzione attrezzi per il lavoro, sono piccole forme di responsabilità, il cui fine è dare a quella persona un ruolo definito, gratificarla, ma soprattutto mettere gli altri componenti della squadra di fronte al fatto che il soggetto svantaggiato può avere ruoli di responsabilità. Quando qualcuno mi domanda cosa faccio realmente con i soggetti svantaggiati, gli dico che cerco di fargli dimenticare di esserlo, e con gli ex detenuti è molto più facile, perché il carcere, come anche la tossicodipendenza, è spesso la parte conclusiva di un problema altro, che non sempre si riflette sul lavoro in maniera palese e limitante. Credo, comunque, che l’esibizione del certificato penale per questioni di lavoro sia una pratica obsoleta, il certificato penale dovrebbe essere un documento ultrariservato la cui richiesta da parte di un datore di lavoro dovrebbe avere ragioni specifiche e motivazioni particolari, e non quelle generiche di sapere se uno è stato in carcere o no.

Infine un’osservazione su lavoro e tossicodipendenza. L’abnorme diffusione della cocaina degli ultimi anni ha creato una situazione paradossale anche in merito al reinserimento lavorativo: ci sono ex-tossicodipendenti che lavorano, seguiti dal SerT, il quale chiede relazioni e monitoraggi, ebbene su una squadra di lavoro di 5 o 6 persone una è ex tossicodipendente e almeno altri due o tre lo sono effettivamente, sono incensurati, sconosciuti ai SerT, magari hanno moglie e figli, e consumano cocaina almeno una volta a settimana: non sono ovviamente considerate tra il “personale svantaggiato”, hanno la fedina penale pulita, e sono in squadra con persone “svantaggiate” (ex tossicodipendenti provenienti da percorsi di detenzione). In alcuni casi si creano situazioni paradossali: l’ex tossicodipendente si porta appresso lo stigma, mentre il lavoratore non appartenente a categorie svantaggiate, si porta appresso la sua voglia di cocaina.

Io credo che comunque, oggi come oggi, ci sia una situazione che nella sua complessità può giocare a favore di chi, a mio avviso, dovrebbe essere presentato come persona in “ricollocazione e riqualificazione professionale” e non in “reinserimento lavorativo”: oggi, per le note cause di crisi di lavoro, i responsabili del personale, gli addetti alle assunzioni, sono abituati a vedere  lavoratori “in movimento”, insomma oggi cercare un lavoro in età adulta non è più come tanti anni fa, dove c’era l’abitudine a posti di lavoro stabili e contratti che duravano nel tempo. Questo potrebbe

essere un fattore di vantaggio in una situazione di svantaggio. Sono cambiati molti parametri nel mondo del lavoro, me ne dava conferma il responsabile del personale di una grossa Cooperativa sociale, lui stesso mi diceva che rispetto a 10-15 anni fa sono aumentate le persone che vengono da lunghi periodi di inoccupazione, o che cambiano diversi datori di lavoro: mi spiegava che oggi è normale, mentre un volta sarebbe potuto essere indice di poca affidabilità del lavoratore. Allora, mi domando, in tutto questo cambiamento non si può trovare un aspetto positivo per chi proviene da

inoccupazione a causa di trascorsi carcerari? Io credo di si, credo cioè che, oltre alle possibilità che danno le tante cooperative di tipo “B” nate proprio da contesti carcerari, si debba sempre provare a guardare più in là, in termini di formazione e ricerca di opportunità lavorative, e l’abolizione della richiesta del certificato penale darebbe una grossa mano in questo senso.

Purtroppo invece si vede come, spesso, non sono le abilità professionali o le competenze sociali a

mancare in molti “soggetti svantaggiati”, quanto la possibilità reale di svincolarsi dall’etichetta di ex. Per l’ex detenuto questo è un vero dramma, ho visto brave e volenterose persone, veramente capaci nel loro lavoro, sentire come una palla al piede il certificato penale, quel maledetto foglio che alimenta solo lo stigma e il pregiudizio e troppo spesso mette in secondo piano quello che è realmente necessario su un posto di lavoro: competenza, serietà, desiderio di far bene e partecipare a un processo creativo e produttivo, mentre invece per molti “ex qualcosa” il desiderio di riscatto,

unito alle riscoperta di risorse personali, è un incentivo a tutto questo.

 

 

Meno galera, più lavori di pubblica utilità

 

I più spericolati al volante hanno meno di 30 anni. Sono circa 2000 i giovani italiani che ogni anno muoiono sulle strade per colpa dell’alcool.

Dal 2010 sono stati introdotti degli inasprimenti delle pene per chi viola le regole della strada: chi viene sorpreso alla guida in stato di ebbrezza o sotto effetti di sostanze stupefacenti può essere condannato fino a un anno di carcere, ma la legge dice anche che la pena detentiva può essere sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità. A Padova, grazie a una convenzione tra Comune e Tribunale, e poi con alcune associazioni, la persona fermata perché guidava ubriaca o sotto effetti di sostanze tra le diverse opportunità avrà anche quella, pur “evitando” la pena detentiva, di “assaggiare” da vicino la galera, lavorando per l’associazione “Granello di Senape”, che fa volontariato proprio in carcere. Abbiamo allora affidato al Comune di Padova la spiegazione di come funzionerà questa Convenzione, e poi abbiamo chiesto a un ragazzo, a cui è stata ritirata la patente, di raccontare il costoso e faticosissimo percorso a ostacoli che bisogna fare per averla indietro.

 

 

Una pena realmente “alternativa” per chi guida in stato di ebbrezza

 

di Lorenzo Panizzolo

Dirige nte Servizi Sociali, Comune di Padova

 

Di recente il Comune di Padova e il Tribunale hanno sottoscritto una Convenzione per consentire alla persona, sanzionata per guida in stato di ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze, la possibilità di svolgere un lavoro di pubblica utilità per un determinato periodo di tempo in sostituzione della pena detentiva e pecuniaria. È bene specificare che il lavoro di pubblica utilità – previsto dal Codice della strada - non è però consentito nei casi in cui l’automobilista, in condizioni psico-fisiche alterate, si sia reso colpevole di incidente stradale.

Il lavoro viene svolto, senza alcun compenso, nelle strutture individuate dalla convenzione, nei termini e nelle condizioni stabiliti dal giudice attraverso la sentenza.

La convenzione ha definito un totale di 19 posti di lavoro, individuando strutture gestite da Enti/ Associazioni e Cooperative che hanno, per la maggior parte, come missione il contrasto e la prevenzione del disagio e dell’emarginazione. L’obiettivo è infatti quello di dare all’attività da svolgere una valenza educativa, proponendo alle persone sanzionate esperienze di lavoro che le mettano in contatto e a confronto con una umanità che soffre o che è ai margini Si è dunque cercato di far riflettere i soggetti sulla loro condotta nel contesto di ambienti emotivamente coinvolgenti.

Tra le strutture che hanno accettato di aderire alla Convenzione mi fa piacere citare la Casa di Reclusione di Padova e l’Associazione Granello di Senape, partner preziosi dei Servizi Sociali di Padova nell’ambito del progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Come è noto il progetto propone, da vari anni, un percorso formativo che impegna ogni anno alcune migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori della Città e i loro insegnanti su temi della legalità, del rispetto delle regole e dei comportamenti positivi. Durante le visite in carcere i giovani ascoltano, tra l’altro le esperienze di vita dei detenuti il cui esordio, non di rado, li vede

protagonisti con atti di bullismo o con comportamenti trasgressivi, come la guida in stato di ebbrezza o sotto l’uso di sostanze.

Grazie alla Convenzione le persone impegnate nel lavoro di pubblica utilità saranno quindi chiamate a incontrare gli studenti e i detenuti in carcere, a esporre la loro esperienza direttamente in classe agli studenti e infine a supportare gli educatori in carcere nell’attività di ascolto ai detenuti. Ecco dunque che trova utile e concreta applicazione il principio della valenza educativa che è stata posta alla base della individuazione dei posti di lavoro dalla Convenzione stipulata con il Tribunale.

Desidero concludere questa presentazione, infine, ricordando lo slogan della campagna di prevenzione alcologica dei Servizi Sociali “ALZA LA TESTA, NON IL GOMITO!”, che rappresenta un invito rivolto in particolare ai giovani per una vita positiva e responsabile.

 

 

Patente: se te la ritirano, riaverla costa caro!

 

di Andrea A.

 

“Mi hanno ritirato la patente solo perché ho bevuto un bicchiere di vino…”, “mi hanno trovato positivo alla cannabis…”, “hanno ritirato la patente a un mio amico perché…”. Negli ultimi tempi capita sempre più di frequente di parlare con qualche conoscente e sentirsi dire qualcosa del genere.

Be’, per mia sfortuna, ma soprattutto a causa della mia stupidità, mi è capitato di entrare nel girone infernale del “ritiro patente”.

Nel momento in cui ho chiesto di riaverla è iniziato il calvario.

Mi sono recato presso la Commissione medica patenti, mi è stato dato un modulo che ho dovuto riportare compilato, allegando delle marche da bollo e le ricevute dei versamenti fatti sul conto corrente del Ministero dei trasporti.

La prima visita mi è stata fissata dopo circa tre mesi. Arrivo negli uffici della Commissione e aspetto il mio turno. Dopo mezzora d’attesa, consegno allo sportello i documenti che mi sono stati richiesti, e mi dicono di attendere, sarò chiamato dagli ambulatori.

Cerco un posto a sedere che non c’è, siamo in tanti qui oggi. Dopo più di un’ora e dopo essermi sottoposto all’esame della vista, vengo convocato negli ambulatori, davanti alla Commissione, mi annunciano che per riavere la patente dovrò sottopormi a degli esami approfonditi, e per fare questo dovrò rivolgermi al settore di Medicina legale.

Considerando che i due servizi non sono molto lontani tra loro, ne approfitto e vado subito agli sportelli di medicina legale, ma non è il giorno giusto e devo tornare l’indomani mattina.

Chiedo un’altra mezza giornata di permesso al datore di lavoro, vado a medicina legale, mi fissano per due mesi dopo una visita, dove mi dovrò presentare con la ricevuta del ticket, che devo pagare presso gli uffici della ASL.. Per l’esame che dovrò fare io è di circa 450 euro.

Passano due mesi e mi presento all’appuntamento a medicina legale, dopo la canonica attesa di un’oretta, mi riceve una dottoressa che, trascritti tutti i miei dati anagrafici, mi chiede da che punto preferisco mi venga tagliata una ciocca di capelli e mi spiega che i capelli saranno esaminati e da lì riescono a capire se ho fatto uso di stupefacenti negli ultimi 5-7 mesi.

Poi mi fa un sacco di domande, per capire le mie abitudini e il mio rapporto con le sostanze e con l’alcol. Mi licenzia dopo mezz’oretta dicendo che da quel momento e per circa un mese sarò chiamato, a sorpresa, dagli operatori di medicina legale e dovrò presentarmi lì per sottopormi allo screening tossicologico (esame delle urine). Pochi giorni più tardi, infatti, ricevo una telefonata e vengo invitato a presentarmi il giorno dopo, alle 14.45 a medicina legale.

Arrivo e in attesa, sedute sui gradini e un po’ ovunque, trovo almeno trenta persone. Quasi tutte giovani, un paio di anziani e non più di tre ragazze. Tutti lì per sottoporsi all’esame delle urine, tutti hanno avuto problemi con la patente, o a causa dell’alcol, o dell’assunzione di droghe.

Uno alla volta siamo chiamati in un bagnetto, provvisto di telecamera, per riempire una provetta con la nostra urina. Prima che arrivi il mio turno passa più di un’ora.

Lì, in quel bagnetto sorvegliato dalla telecamera, ci dovrò tornare altre 4 volte. Per cui, da oggi mi possono chiamare in qualsiasi momento per dirmi di tornare il giorno dopo all’ora x. L’unica giustificazione valida per un’eventuale assenza è un certificato medico, altrimenti salterebbe tutto e dovrei ricominciare praticamente da zero. Ok, questa trafila, per me, questa volta, dura esattamente 4 settimane, in tutto 5 esami delle urine, più quello iniziale del capello. Dopo circa un mese dall’ultima chiamata, ricevo una telefonata che mi invita a presentarmi di nuovo davanti alla Commissione.

Qualche giorno dopo sono lì, prendo il numeretto, dopo un po’ mi chiamano allo sportello, e uno dei commissari mi annuncia che gli esami sono perfetti, e che da oggi posso guidare, ma tra 4 mese dovrò sottopormi nuovamente a tutti gli esami, dovrò fare la stessa trafila, cioè: andare in Commissione patenti prima un paio di volte solo per prenotare la visita, poi andarci per la visita, poi andare sei o sette volte a medicina legale, oltre che pagare nuovamente le marche da bollo e i vari versamenti, anche il ticket, in pratica, la prossima volta, oltre a dover sborsare circa 500 euro per le varie spese, dovrò nuovamente chiedere al mio datore di lavoro una decina di mezze giornate di permesso per rinnovare la patente. Tra quattro mesi ricomincia la trafila, per me e per altre centinaia di persone.