In che condizioni si esce da un carcere sovraffollato

 

La parola “sovraffollamento” riferita alle carceri evoca immagini di gente che soffoca in celle strette, con letti a castello a tre e quattro piani, e anche materassi per terra. Tutto vero, tranne l’idea che la ricetta sia allora costruire altre galere. Bisogna piuttosto riflettere sull’inutilità di una pena passata in un posto dove la gran parte delle persone rinchiuse non può fare niente, se non “ammazzare il tempo”. A spiegare come esce una persona da un carcere così, con che prospettive, con che difficoltà e che paure sono due persone con due punti di vista diversi, ma in qualche modo complementari: la compagna di un detenuto, che in una lettera al compagno esprime tutta la sua angoscia per un futuro, in cui non riesce a vedere nessun motivo di speranza, e un detenuto uscito in detenzione domiciliare, che deve misurarsi con una vita tutta da ricostruire.

 

Il carcere visto dalla parte di chi sta fuori, ad aspettare una persona detenuta

E nell’attesa la paura ricorrente è: “Basterò io a curare tutte le ferite che una vita da recluso ti ha inferto?”

 

La compagna di un detenuto

 

Sono venuta da te oggi al colloquio, ma c’ è stato qualcosa tra noi che non ha funzionato e così tante piccole cose sono rimaste non dette. Oggi eri nervoso, distante, teso e un po’ assente e io sono uscita dal carcere con una domanda nella testa: se c’è qualcosa che non mi hai detto, se è successo qualcosa che non so. Non credere che io non mi renda conto di com’è la tua vita, di quanto è difficile andare avanti, giorno dopo giorno, senza che cambi mai niente e aspettando una piccola cosa come un’ora di colloquio, un giorno di permesso, una lettera di qualcuno dei tuoi. Posso solo immaginare come ci si sente a 35 anni a guardare la proprio vita e vedere solo carcere: carcere dietro di sé e, purtroppo, carcere davanti per i prossimi anni. Quando sono venuta al colloquio, ultima volta, una ragazza romana, mentre scendevamo le scale, mi ha detto: “Il carcere è troppo duro e se non sei forte non ce la fai, in carcere resistono solo quelli forti”. lo di te penso che sei forte altrimenti questi quasi 15 anni ti avrebbero ucciso, invece sei ancora in piedi e, anche se ci sono momenti in cui perdi la speranza, ti passa subito e per fortunati torna la voglia di combattere e di sperare. Io sono parte di questa speranza, la speranza che alla fine di questo tunnel buio che è il carcere per te ci sarà qualcosa di bello, finalmente. lo non ho paura per te, non farai una stupidaggine, lo so perché sei forte, perché vuoi vivere, per me.

Ma sai, questa detenzione non è dura solo per te, lo è molto pure per me, anche se per ragioni diverse dalle tue. Ti amo e ti voglio tantissimo bene e mi fa male vederti soffrire, e poi, al contrario delle altre donne che incontro ogni volta ai colloqui, io non sono abituata a niente di tutto questo.

Entrare per la prima volta lì è stato difficilissimo, essere perquisita, accompagnata, sapere che se ti do un bacio ci sono occhi che scrutano, se ti parlo ci sono orecchie che ascoltano e se ti mando un biglietto o una foto c’è qualcuno che la guarderà, è qualcosa a cui non mi abituerò mai… lo so che per te è difficile capire quel che provo, io e te apparteniamo a due mondi così diversi! In questi anni ho affrontato qualcosa che non avrei mai immaginato di incontrare nella mia vita, imbarazzo, disagio, lo stupore che si prova quando si entra in una vita così diversa dalla nostra. Ma riusciamo anche a sorridere, a darci tenerezza e coraggio, in quei pochi minuti che passiamo insieme, in mezzo a tanti altri sconosciuti. Oggi mi hai guardato negli occhi e mi hai sussurrato all’orecchio

“quanto mi ami da 1 a 100?”. Ti ho risposto 1000, perché un uomo come te si può amare solo 1000, per sopportare tutte le difficoltà che ci sono. Se ti avessi amato 50 o 100 a quest’ora avrei perso la forza di resistere.

Tu puoi pensare che io stia bene, in fondo, perché sono libera. LIBERA. Una parola enorme, lo so, se mai dovessero rinchiudermi come sei tu non credo che sopravvivrei, non ce la farei, ma tu non puoi sapere, perché non lo hai mai vissuto, che anche la vita da liberi ha le sue difficoltà, i suoi dolori, la sua fatica. E quando io vengo da te, in quelle due ore riesco a tagliare fuori tutto il resto della mia vita difficile e faticosa, è come se non avessi altra vita che quella che ho li con te.

Capisci quanto è grande ciò che ci unisce? Poi una voce chiama il tuo cognome e ci riporta alla realtà, io ti lascio solo, lì dentro e riparto ma con una forza nuova, quella che mi dà il tuo amore, pronta a rientrare nella mia altra vita. Per questo quando, come oggi, ti vedo stare male il tuo male lo porto via con me. Puoi capire quel che dico? Non sto rinfacciandoti niente, lo sai, cerco solo di spiegarti quanto è difficile. Non mi piace essere quella che ti chiede di stare calmo, di avere pazienza, di non metterti nei guai. non voglio fare l’educatrice o la poliziotta con te, quella che ti scruta per leggere nei tuoi occhi, che ti chiede se hai preso troppa terapia o se c’è qualcosa che non mi vuoi dire. Non mi piace per niente sprecare quel poco tempo a farti l’ennesima predica alla quale, in fondo, non credo neppure io, quando tu avresti solo bisogno di essere abbracciato, di un bacio vero, avresti solo bisogno di un po’ d’amore, la sola cosa che in carcere non può entrare. Che assurdo, eh? In carcere l’unica cosa che non può entrare è l’amore, e noi purtroppo viviamo in questo Paese dove tutti fingono di non sapere quel che succede dentro i muri alti di un carcere, dove ti richiamano perché hai dato un bacio alla tua donna che è li per ricordarti che sei vivo e che non devi mollare.

Quando sono ripartita oggi non ero serena, mi sono fatta tante domande perché mi accorgo che da un po’ di tempo i nostri colloqui non ti fanno più stare sereno, ma al contrario ti ricordano sempre di più tutte le cose che non hai e allora mi chiedo se ti faccio più bene o più male con le mie visite. Lo so che è assurdo dirti di avere pazienza e che questo permesso prima o poi arriverà, mentre te lo dico penso che se fossi al tuo posto mi manderei a quel paese, ma io non posso dirti che questo, di avere pazienza, di sopportare, di non comprometterti e di non mollare. Sono arrivata a casa, nella cassetta c’è una tua lettera, la apro e scivola fuori un fogliettino, poche righe scritte non so da chi, non è la tua grafia, dicono “Fine pena 2015” e di colpo tutto mi sembra assurdo. Hai scippato una collana e l’hai restituita, ma non è per la collana che ti puniscono, hanno deciso che sei socialmente pericoloso. Mi piacerebbe incontrare quel giudice e chiedergli: come si fa a decidere che un ragazzo è socialmente pericoloso, se per colpa di una serie di reati neanche troppo gravi nella società non c’è più rientrato da almeno 15 anni? E poi gli vorrei anche chiedere che cosa sarai a 40 anni, quando forse finalmente uscirai, dopo 20 anni di carcere e nessuna vita dietro le spalle e forse neanche una davanti? Chi ti insegnerà a vivere? Come farai di colpo a diventare un uomo normale? lo ci sarò ma chi insegnerà a me come aiutarti? Sarò capace di farlo? Ne avrò la forza? Basterò io a curare tutte le ferite che una vita da recluso ti ha inferto? Apro la tua lettera e comincio la mia lettura

silenziosa, nelle lettere siamo soli, io e te. È una lettera piena di emozioni, come sempre. Mi dici una cosa che non mi hai detto al colloquio, che non lavori più, che il lavoro è poco e adesso tocca ad un altro. Non è per i 50 euro di paga, io so perché ti fa così male, perché ti hanno di nuovo lasciato da solo con i tuoi pensieri e con le tue angosce che quelle poche ore di lavoro al giorno scacciavano per un po’. Ripiego la lettera, la metto in tasca e penso solo che vorrei salire in macchina venire da te, e darti quel bacio di cui avevi tanto bisogno…

 

 

Dopo il carcere niente sarà più facile

L’impatto interiore della carcerazione è stato troppo forte, anche perché non ho mai voluto entrare mentalmente nelle parte del detenuto, ma ho sempre lottato per restare una mente libera in un corpo ristretto

 

di Marco L.

 

Sono già due mesi che sono uscito dal carcere in detenzione domiciliare, e vi scrivo a partire da una considerazione sul carcere vicino a dove abito. Da qualche tempo manca anche il sapone, lo portano dentro i volontari... Mi sembra un passo ulteriore verso il degrado totale e la perdita del senso della dignità di chi è detenuto. Bisogna insistere però nel far sì che le cose si vengano a sapere perché nessuno ne parla... è questo l’ostacolo più grande, non la mancanza di fondi ma la mancanza di visibilità, l’oblio in cui viene tenuta questa parte della società e della vita sociale, perché comunque di questo si tratta che piaccia o meno, di una parte della società e non di un altro pianeta. Della mancanza anche del sapone in galera hanno parlato in un articolo del quotidiano locale che penso di aver letto solo io, che però non mi metto ancora nella schiera dei cittadini liberi, anche se sono fuori dal carcere ormai, perché penso che una volta passati di lì non si possa dimenticare quella realtà che tutti, ma proprio tutti sembrano ignorare, ma che invece c’è eccome... In due mesi tanti pensieri mi sono passati per la mente, in verità avrei voluto scrivere prima, ma sino ad un paio di settimane addietro non riuscivo a tenere la concentrazione per più di 10/15 minuti e poi dovevo fermarmi e stendermi, questo, però, mi ha permesso di valutare bene lo stato delle cose, le mie sensazioni, i mutamenti intervenuti, la reazione della mia famiglia al mio ritorno dopo questi tre anni e mezzo trascorsi in carcere, e quella del resto della gente...

L’impatto interiore è stato forte, anche perché, per stare lì, non ho mai voluto entrare mentalmente nelle parte del detenuto, ma ho sempre lottato per restare una mente libera in un corpo ristretto, e per questo avevo messo in naftalina una parte del mio sistema nervoso, e liberarlo da una prigionia nella prigionia non è stata assolutamente una passeggiata.

Devo dire che, invece, mi ha stupito positivamente la reazione della gente nel vedermi fuori... dove abito è comunque un piccolo comune (anche se in maggio ha subito il tornado dell’antimafia per presunta infiltrazione mafiosa in alcuni appalti pubblici) e il perbenismo e una certa prevaricazione nei confronti del diverso o “socialmente non corretto” c’è sempre stata, quindi mi aspettavo un po’ di freddezza… È successo tutto il contrario! Sembrava quasi fosse tornato un martirizzato dal sistema... sin qui andrebbe anche bene, ma se andiamo al perché allora si capisce cosa frulla per la testa a buona parte della gente e, conseguentemente, l’idea di applicazione della giustizia e il concetto del reato che ha. Il punto è che mi hanno fatto quasi una festa con saluti, abbracci, inviti e

quant’altro perché quello per cui ero andato “dentro”, un reato finanziario, non è percepito come un vero reato, ma solo come l’essere uscito un po’ più dalle righe di quanto non si faccia in generale!

Secondo tanti di loro la mia detenzione è stata troppo lunga perché, in definitiva, “mica hai ammazzato qualcuno... non ti sei mai drogato... non hai rapinato... sei sempre stato uno di noi...”.

Ora è chiaro che a me ha fatto piacere non essere isolato o ignorato, ma la riflessione che ne scaturisce è lampante: la nostra società non ha solo spostato il limite di ciò che è o non è legale, ha modellato una sua zona grigia entro la quale non solo ci si può muovere, ma pure è ingiusto avere una punizione di così lunga durata perché… perché così fan tutti! e se lo fanno tutti allora è normale e se è normale allora va bene, e tra il socialmente corretto e quello che non è tanto legale, ma è comunque “accettabile” la differenza tende a svanire.

Questo porta ad un altro punto della questione che può sembrare non eccessivamente correlato ma che,invece, io reputo molto consequenziale: nessuno mi ha chiesto come funziona dentro, del carcere non interessa nulla a nessuno, al limite mi hanno chiesto come sono stato io ma sempre e solo per far presente che mi erano vicini per aver “subito” un trattamento ingiusto. Mi hanno addirittura proposto di riprendere il ruolo attivo tra scuola, sport e Comune che avevo prima di entrare in carcere, e questa mi è sembrata una pura follia morale.

Comunque di carcere nessuno vuol sentir parlare, non interessa, sembra che debba a tutti i costi restare fuori dalla vita delle persone “normali” perché è un altro mondo in un altro universo.

Il punto è che anche in casa, dopo pochi giorni, c’è stata una reazione simile, come un rifiuto di accettare che il carcere può entrare nelle nostre vite, anche se chiaramente diversa era la motivazione. I miei proprio non l’hanno digerito sia per loro che per me, mia moglie era preoccupatissima della mia reazione mentale, per lei e per i miei figli sono stati anni psicologicamente difficili.

Mi viene spesso in mente quando si affronta il problema della sofferenza dei famigliari e della vergogna e gogna che devono patire e subire... so bene che quando si è dentro si cerca di vedere la situazione meno drammatica di quanto non sia, ma credo fermamente che se uno invece di scansarla la affronta per quello che è, non può non fare di tutto per non tornare più in carcere, se non per sé almeno per i suoi cari: questa è la vera presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità che noi possiamo e dobbiamo fare.

Personalmente non ho subito la resa dei conti in famiglia che spesso aspetta chi esce, e questo è sicuramente un aiuto mentale molto forte, forse perché, anche da dentro, la vita famigliare ho cercato di affrontarla in modo decentemente normale, senza raccontarsi favole. Questo mi ha fatto star male più di una volta alla fine dei colloqui con i miei famigliari, e alcune volte speravo addirittura che loro non venissero, ma è stato un bene aver voluto affrontare le cose senza nascondersi nulla, non si può e non si deve creare una situazione di finta tranquillità che non esiste solo per mascherare i problemi, perché alla fine il conto altrimenti arriva ed è sicuramente salato.

Per ultimo vorrei fare pure una riflessione su quella panchina fuori dal carcere, dove, quando sono uscito, sono stato quasi tre ore in attesa che mi venissero a prendere, e pur essendo scombussolato dall’essere di punto in bianco messo fuori, non ho potuto fare a meno di pensare a tutte quelle persone, quei famigliari che aspettano per andare a colloquio, con davanti agli occhi quella costruzione, sinonimo di perdita di libertà, aspettano e sanno che dovranno farlo per anni: credo sia un po’ come morire lentamente.