Il
racconto vincitore del Premio Castelli
“Maroc
e Alfonso”
Maroc
cercava rabbiosamente una ragione a quello che aveva commesso e la poteva
ottenere solamente insieme ad Alfonso
Di
Franco Garaffoni
Una
storia si dice che per essere bella non deve essere vera, io non so se questa
storia sarà bella o meno, di sicuro è vera. Sono un detenuto e quella che mi
accingo a raccontare è una storia di detenzione, di sofferenza e speranza. La
vita all’interno di un carcere possiede ritmi diversi da qualsiasi altro
luogo, ma superati i primi momenti (anni) la quotidianità prende il
sopravvento e tutto si uniforma. Il tempo assume una dimensione diversa, i
riferimenti non sono in ore o minuti, ma in giorni, mesi, anni, il detenuto si
abitua agli spazi ridotti e con essi crea un patto di non aggressione, di
sopportazione reciproca, le sbarre dopo un certo periodo sfumano, sembrano
scomparire, non ci si fa più caso. L’occhio le rifiuta e guarda oltre.
Rimangono
i detenuti. La popolazione dei detenuti. Personalmente ho sempre paragonato
l’insieme di questa umanità ad una orchestra. Una orchestra composta da tante
persone, ognuna con le proprie emozioni, il proprio modo di pensare, la propria
storia e ognuna con un’idea diversa del futuro. Ma tutte con lo stesso scopo:
creare armonia,
in sostanza suonare la stessa musica, la musica della speranza. Quella
musica che superi il pessimismo della ragione e abbracci l’ottimismo della
speranza.
Avevo
sentito parlare di Alfonso e Maroc, gran lavoratori, degni di fiducia, sempre
impeccabili e puntuali. In un carcere dove esiste tutto e il suo contrario e
dove in base alla mia esperienza esiste una uniformità di comportamento che non
si discosta dall’ozio e dal menefreghismo, le rarità comportamentali destano
sempre curiosità. Questo mi spinse a volerne sapere di più. Mi chiedevo cosa
può unire un detenuto marocchino, Maroc, con una pena importante, con tanti
anni da passare dietro le sbarre, e la lavapavimenti che usava per svolgere il
suo lavoro all’interno del carcere, e che lui chiamava Alfonso. Da dove
nasceva questa unione che rasentava
una vera simbiosi fra un essere umano e una macchina. Insieme formavano una
coppia, difficile vedere uno senza l’altro. Lavoravano insieme, si spostavano
di piano in piano, spaziavano per
tutto il carcere, uno guidava l’altro, uno accudiva l’altro, sempre tirati a
lucido, lavoravano e Maroc gli parlava. Oserei dire che si confidava, li vedevi
passare ed erano un’unica persona, da anni. Quando Maroc non era di servizio,
quando non lavorava con la “sua“ lavapavimenti, se ne stava in cella. Il suo
volto era disteso, i suoi occhi presenti, non erano persi nel nulla, vedevi una
pace interiore in lui. Era affabile, non si negava a nessuno, era un detenuto
che esprimeva l’idea di vivere
“libero“. Volevo conoscere la sua storia.
Voltaire
diceva che le streghe smettono di esistere quando noi smettiamo di bruciarle.
Maroc mi riportava alla mente le sue parole. Come aveva fatto Maroc a smettere
di bruciare le sue streghe? Di
solito un uomo ha più paura del futuro che del passato. Maroc stava vivendo un
presente per nulla facile, lontano
dalla famiglia e in carcere da tanti anni, ma dava la sensazione di essere in
pace con il suo passato e non avere timore del futuro. Poi il caso ebbe un ruolo
importante nel soddisfare la mia curiosità. Alfonso, la lavapavimenti, si usurò.
Una semplice rottura di un ingranaggio, nulla di grave, ma pur sempre un
inconveniente che separava la coppia. Era il momento. Mi presentai davanti alla
sua cella, gli dissi ciao, lui rispose ciao. Inizia
in questo modo il racconto della storia di Alfonso e Maroc.
La storia di Maroc
Sono
arrivato molti anni fa in Italia, ho lavorato come muratore, come imbianchino.
Lavori occasionali e pagati in nero. Poi
niente lavoro, non servivo più. L’orgoglio di non tornare da sconfitto
al mio Paese aveva fatto il resto. La droga, lo spaccio, il reato, la condanna,
il carcere, una storia che si ripete
e si ripeterà. L’inizio della carcerazione è stato duro, isolato venti ore
al giorno, nessun contatto con gli altri detenuti, quattro ore di aria al
giorno, il muro e il cielo come compagni. Quando pioveva era come se fosse
venuta a trovarti una nuova compagna, passeggiavi dentro di lei come un bambino
corre in mezzo a un prato, ti bagnavi ed era come ricevere un regalo, ti faceva
sentire vivo. I tuoni e i fulmini erano una scenografia che la natura ti
regalava e i miei occhi erano felici. Ma ero cattivo, dentro di me mi sentivo
una vittima, non accettavo le mie colpe, rifiutavo la condanna, nella mia mente
si era creata una camera oscura che sviluppava continuamente foto di fatti
negativi, nessun ricordo lieto trovava spazio, nessuna immagine positiva. Poi
l’isolamento fini, fui trasferito in sezione. La vita con gli altri detenuti
mi trovò impreparato, l’isolamento è qualcosa che ti entra dentro, lascia il
segno nel quotidiano modo di vivere e pensare, poi col tempo ti diventa amico
fedele e silenzioso, e lo accogli totalmente. Ora dovevo accettare questa nuova
situazione e conviverci.
Lo
ascoltavo e vedevo tranquillità, esponeva i fatti con naturalezza.
In
carcere raccontare la propria storia ad un estraneo non è usuale, è
considerata una debolezza. Le sue parole erano nutrite da forza, semplicità.
Continuai ad ascoltarlo. Avvenne tutto all’improvviso, mi disse: Mi
offrirono un lavoro, dovevo pulire i
corridoi, gli uffici, le scuole, con una macchina lavapavimenti a batteria.
Questa occasione mi apparve come un segno del destino. L’inizio fu
difficoltoso. Può sembrare strano, ma mi convinsi che la macchina mi stesse
aiutando, sembrava indirizzare i
miei movimenti, imparai velocemente e il lavoro mi fu assegnato definitivamente.
Stavo acquisendo, dopo tanto tempo, il senso del movimento, mi muovevo verso gli
oggetti, anziché stare immobile a guardarli. Ero stato troppo tempo immobile,
sia fisicamente che mentalmente. Quella macchina mi stava trascinando verso un
modo diverso di vivere la carcerazione. Stavo ritrovando la fiducia in me
stesso, mi sentivo utile. Dedicai sempre più attenzioni al mio strumento di
lavoro, la pulivo giornalmente, mi premunivo di non accostarla troppo ai muri,
non volevo che li urtasse, e quando il lavoro era terminato la coprivo con una
coperta per ripararla dalla polvere. Un giorno iniziai a parlare con Lei, le
raccontavo della mia terra, della mia famiglia, dei miei tormenti, dei miei
sogni. Lavoravamo e parlavo, per la prima volta mi confidavo. Fu allora che le
diedi un nome, e la chiamai Alfonso.
Stava affiorando in me la consapevolezza di quello che avevo fatto, perché la
verità da sola non basta, è ancora una menzogna se non è accompagnata dal
rimorso e dal desiderio di riconoscere il male fatto.
Lo
guardavo stupefatto, stava rivivendo il suo passato con una pulizia morale che
mi lasciava senza parole, senza domande. Ero come un bambino in attesa della
favola della buona notte. Mi disse: Il dolore viene sempre a riscuotere il
suo pegno. Quello che ti sto raccontando è un cambiamento che nasce da una
sofferenza profonda, grezza, elementare, che taglia come una lama tutte le
protezioni che ti costruisci e ti mette a nudo. Ora, io credo di essere arrivato
nel posto che merito. Finalmente conosco me stesso molto meglio, mi sento
stabile e conscio del mio passato. Penso sia il momento della mia vita in cui un
cambiamento possa trovare spazio, ora vedo la
detenzione come una ricchezza.
Ora
iniziavo a capire, quella macchina lo stava liberando, lo stava portando sulla
riva della speranza, era un naufrago in balia di se stesso, ora
iniziava a vedere la terra. Il rapporto che esisteva fra di loro era
qualcosa che superava la logica, sconfinava nella necessità. Maroc cercava
rabbiosamente una ragione a quello che aveva commesso e la poteva ottenere
solamente insieme a Alfonso. Qualcosa ancora mi sfuggiva, perché quel nome?
Cosa rappresentava per Maroc quel nome? Era un nome inventato o faceva parte del
suo passato? Vedi, continuò, io non riuscirò mai a perdonarmi, il
mio reato appartiene ad una categoria che non mi permetterà mai di considerarmi
ex, intendo dire, un ladro può smettere di rubare e diventa un ex ladro. Altri
reati te lo permettono, ex rapinatore, ex truffatore, l’omicidio no. Il mio
reato vive con me, non potrò mai diventare un ex assassino. La mia vittima si
chiamava Alfonso. Il nome che ho dato alla lavapavimenti. Quando sono con lei,
quando mi confido, quando le parlo è come implorassi il perdono per quello che
ho commesso. So di non meritarlo, ma solo così
riesco ad accettare la mia
colpa. Tutto questo rende l’espiazione una ricchezza e sono certo che mi
prepara ad una attesa di libertà
coerente e positiva. Questa macchina, che io identifico nella mia vittima, è la
mia medicina, giorno dopo giorno mi porta ad un cambiamento dell’anima. Prima,
quando ancora non lavoravo con Alfonso, svegliarsi al mattino era una
sofferenza. La consapevolezza di trovarmi in carcere, durante la giornata,
lentamente si materializzava e mi isolava dentro me stesso, e diventavo cattivo,
violento. Ora, forse mi illudo che
la mia vittima sia il mio faro, che favorisca in me l’acquisizione di valori
umani e sociali diversi rispetto a quelli che in passato mi indussero a
commettere il reato. Ora sto rivalutando
quello che c’è di vero nel mio personale fallimento, per iniziare la mia
ricostruzione. Alfonso è l’artefice e il regista di questo copione. Quando si
crea sofferenza la si vive anche, e oggi questa sofferenza, per quello che ho
commesso, mi serve come barometro
della mia coscienza. E solo Alfonso potrà essere il giudice, a cui permetterò
di giudicarmi.
Questa è la storia di Maroc e Alfonso.