Intervista al prefetto di Padova, Ennio Mario Sodano

Educare la gente al rispetto della legalità, a partire dalle piccole cose

Questo servirebbe per la sicurezza. Il nostro invece è un Paese dove si fa presto a criminalizzare le categorie più deboli, ma si fa fatica a vedere i vizi che tutti noi abbiamo.

 

a cura della redazione

 

La domanda di sicurezza che viene dalla società ha bisogno di una risposta molto più complessa e articolata, che non può essere soddisfatta dalla sola azione repressiva, a meno di non voler pensare a forme estreme (stato di polizia). È necessario il coinvolgimento e la volontà di una comunità e una vasta azione a sostegno della legalità”. Queste sono parole del Prefetto di Padova, Ennio Mario Sodano, e sono parole importanti, perché sottolineano che sui temi della sicurezza non ci possono essere semplificazioni, ma solo risposte complesse. Abbiamo deciso di invitarlo in redazione proprio per discutere di questa complessità, in un momento in cui invece le soluzioni che si prospettano per rendere la società più sicura mostrano sempre più il carattere di slogan, l’effetto “annuncio” invece che la voglia di andare a fondo dei problemi. Il Prefetto ha accettato di essere nostro ospite, e di rispondere alle nostre domande.

 

Ornella Favero: Noi vorremmo farle questa intervista a partire da una sua dichiarazione, pubblicata sul Mattino di Padova quando lei è arrivato nella nostra città, la leggo perché è importante: “Si dice che Germania e Inghilterra abbiano più stranieri di noi, ma che qui in Italia gli stranieri fanno quello che vogliono. Io invece rispondo che è cosi perché vedono gli italiani fare quello che vogliono”.

Allora partiamo da queste affermazioni per ragionare con lei su come la società si pone rispetto alla legalità. È infatti evidente che questo scarso senso di legalità nella popolazione poi significa anche che i cittadini chiedono più carcere, ma per “gli altri”, perché ci sono sempre degli altri più colpevoli sui quali è più semplice puntare il dito.

Ennio Mario Sodano: Io parto da un dato di fatto, cioè questo Paese ha un deficit di legalità, che mi pare una cosa lampante, ovvia. Penso alle esperienze che ho fatto al sud, per esempio, in Calabria dove questa cosa è eclatante e si vede proprio nella vita di ogni giorno, dove le possibilità sono pochissime perché l’intera società è basata su un sistema di potere in cui conta soltanto chi ha gli amici giusti, chi ha le conoscenze giuste. Domina, insomma, un familismo che significa, in senso lato, appartenenza ad un gruppo, appartenenza alla tale famiglia, al tale gruppo politico, e via via alla cosca ndranghetista del posto e alla massoneria deviata che fa da collante a tutto questo.

Sono vizi che tutti noi riteniamo appartengano al sud, o per lo meno ad alcune zone del sud infestate dal cancro della criminalità organizzata. A ben vedere però questi vizi al sud son moltiplicati per mille, quindi diventano macroscopici, ma in realtà appartengono un po’ a tutto il Paese.

Quello che io mi sforzo di far comprendere è che, al di la del giudizio morale, bisognerebbe ragionare sul fatto che certi comportamenti non sono convenienti. Se io prendo una “scorciatoia” per avere il permesso che mi occorre o il posto di lavoro, lo faccio per trarne un vantaggio personale e immediato, quindi per egoismo, ma questo calcolo è molto miope. Ottengo un vantaggio per me, ma in realtà sto distruggendo delle opportunità per i miei figli, per i miei cari, per il mio Paese.

È qui che noi siamo molto carenti, come sistema Paese in generale: il vizio di cercare le scorciatoie, di cercare il guadagno facile, è un vizio che appartiene un po’ a tutti e a tutti i livelli.

Quello che poi non funziona è che alla fine chi paga sono sempre i pochi, mentre le possibilità di chi ha i mezzi di sottrarsi alla giustizia, di sottrarsi alle conseguenze delle proprie azioni sono infinite. Chi invece non ha queste possibilità finisce in una macchina che inevitabilmente lo stritolerà.

Senza voler parlare delle categorie più deboli (extracomunitari, tossicodipendenti, emarginati) faccio il mio esempio. Se domani dovessi incappare in un problema giudiziario di una certa gravità, pur essendo totalmente innocente, quando sarò definitivamente assolto, fra sette, otto, dieci anni, la mia carriera e la mia reputazione saranno irrimediabilmente distrutte.

Per altre categorie questo non avviene, per alcune categorie vale il principio che sì, ha rubato, però ha dimostrato di essere un furbacchione; allo stesso modo, chi ha scelto deliberatamente di porsi fuori dalla legge non teme certo per la propria reputazione. Evidentemente c’è un deficit grave di legalità, certi comportamenti non sono avvertiti come riprovevoli, ma semmai sono indice di una capacità di cavarsela, indice di furbizia, quindi assurgono addirittura a comportamenti virtuosi.

Quando poi questi comportamenti li assumono altri, e mi riferisco agli extracomunitari,  non vanno bene. Quindi in questo senso io dico: gli extracomunitari da noi delinquono di più perché gli italiani delinquono di più, poi gli italiani hanno più mezzi per “cavarsela”, gli extracomunitari molto meno e questo è il motivo perché poi le carceri sono piene di extracomunitari. Però se si va a guardare le statistiche gli immigrati regolari delinquono più o meno come gli italiani, mentre certamente gli irregolari delinquono di più, perché sono più ricattabili, più esposti, questo mi pare evidente.

Poi abbiamo un grosso problema, questo vale per Padova, ma vale per tutta la società, che è quello della droga, del consumo, dello spaccio. Noi abbiamo un contrasto allo spaccio di stupefacenti che funziona benissimo, negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente i sequestri e gli arresti, il che sta a indicare da una parte che c’è una forte azione repressiva che funziona, dall’altra c’è una domanda che è sempre altissima di droga. Quando la domanda è cosi alta, hai voglia ad arrestare gli spacciatori, ma ci sarà sempre qualcuno pronto a prenderne il posto.

Poi è anche vero che noi, come forze di polizia locale, interveniamo sull’anello finale di una catena che riguarda non soltanto il nostro Pae­se, ma tutto il mondo. Per stroncare lo spaccio occorre ridurre la domanda, quando la domanda si riduce, allora diventa anche più facile, con la repressione, contenere il fenomeno.

Finché la domanda è cosi alta sarà sempre una guerra impari, sequestri, arresti, nuove leve che sostitui­scono quelle vecchie e di nuovo sequestri e arresti. Torno al punto sul quale insisto da tempo: la sicurezza non può essere demandata solo alle forze dell’ordine, la domanda di sicurezza della società non può essere soddisfatta solo dalle forze dell’ordine, a meno che non decidiamo di rinunciare al nostro modo di vivere e facciamo uno stato di polizia. Basta parlare, basta muoversi a nostro piacimento, basta commerci liberi e traffici, basta incontri e manifestazioni di ogni genere. Così forse si avrà la sensazione di vivere più sicuri... ma a che prezzo? Io, poi, personalmente dubito che anche uno stato di polizia sia in grado di garantire sicurezza.

La sicurezza è questione che riguarda tutti, non si può delegare, non si può dire: io continuo a fare il mio comodo e tu Stato pensa alla sicurezza.

Faccio spesso l’esempio dello spritz qui a Padova. La prima cosa che mi dissero, quando arrivai a Padova, fu: “Sa Prefetto, noi abbiamo un grande problema di ordine pubblico”, io allora chiesi di che problema si trattasse, la risposta fu “è il problema dello spritz”.

“Se è un problema di ordine pubblico”, risposi io, “è mestiere mio, lo risolvo immediatamente. Qui a Padova abbiamo il reparto mobile della polizia di Stato con 600 uomini addestrati a fare ordine pubblico, li mando in piazza un paio di notti, facciamo un po’ di guerra, vedrà che la terza notte non c’è più nessuno a bere lo spritz”.

Il mio interlocutore rimase un po’ interdetto, mi guardò e disse: “Beh forse non è proprio un problema di ordine pubblico”. Ecco forse non è proprio un problema di ordine pubblico, è uno dei tanti disagi della nostra società che possiamo fronteggiare se ciascuno fa la sua parte, se tutti ci assumiamo le nostre responsabilità, oppure è illusorio pensare che con l’intervento di polizia si risolva il problema dello spritz, cosi come tanti altri problemi.

Nelle sere dello spritz, io mando polizia e carabinieri, che fanno il loro lavoro, viene arrestato lo spacciatore, viene individuato il clandestino. Il Comune a sua volta manda i vigili urbani che controllano che i tavolini siano messi per bene, che fanno i controlli stradali e antiabusivismo...

E uno potrebbe dire: abbiamo fatto il nostro mestiere. Ma il problema dello spritz così non si risolve perché se poi, come ebbi modo di dire, al ragazzino di 16 anni al bar viene servito quasi alcool puro, quel ragazzino mi diventa una scheggia impazzita e non c’è reparto mobile che tenga.

Cosa fare allora? Mettere un carabiniere accanto a ogni barista? No, gli esercenti devono fare il loro mestiere e devono anche loro contribuire a determinare condizioni di sicurezza.

Quando ci si lamenta che una data località sta diventando un ghetto perché ci sono prostitute, spacciatori che ormai hanno colonizzato interi stabili, si dimentica che queste persone vivono in case date in affitto dagli italiani, molto spesso a prezzi esorbitanti. Persone ficcate dentro appartamenti di due stanze dove si pagano 300-400-500 euro a posto letto, sicché per un appartamento che sul mercato andrebbe in affitto a 600-700 euro al mese, se ne ricavano 2000-2500-3000.

Ora posso pensare io di stroncare fenomeni del genere e quindi risanare il quartiere con le forze di polizia, quando gli italiani continuano a voler fare affari in questo modo? È illusorio, è un modo per delegare ad altri le proprie responsabilità, e lavarsi la coscienza: io in fondo faccio il mio interesse, chi deve pensare all’ordine pubblico sono le forze dell’ordine.

 

Ornella Favero: Non è che allora servirebbero meno “pacchetti sicurezza” e più attività di prevenzione? Perché i pacchetti sicurezza vanno un po’ nel senso contrario a quello che sta dicendo lei, aggiungono sempre più interventi repressivi e non arrivano al cuore del problema, che è quello della prevenzione, per esempio rispetto ai comportamenti a rischio dei giovani.

Ennio Mario Sodano: Ma anche qui bisogna distinguere, perché un conto è la finalità dei singoli provvedimenti, un conto è la loro lettura propagandistica.

I sindaci hanno la possibilità di adottare ordinanze che servono a intervenire in quei settori che riguardano il decoro urbano, la sicurezza sociale, alcune di queste ordinanze servono effettivamente a contenere fenomeni di degrado, altre sono pura e semplice propaganda. Una ordinanza che vieta il burka limitandosi a citare la legge che vieta di andare in giro a volto coperto, non è in realtà un’ordinanza. Per questo io ho scritto a quel sindaco che avrebbe fatto meglio a dare disposizioni alla polizia municipale perché applichi la legge che c’è. Probabilmente, in quel caso, non interessava realmente ottenere un risultato pratico, ma semplicemente avere visibilità.

Un Paese civile dovrebbe accordarsi su tre, quattro grandi temi sui quali bisognerebbe mettere da parte la propaganda e trovare invece possibilmente soluzioni condivise. Uno di questi temi è la sicurezza, un altro è l’immigrazione, con il quale noi dobbiamo fare i conti.

Il nostro Paese è uno dei più anziani al mondo, abbiamo un calo demografico notevolissimo e la crescita della popolazione è dovuta soltanto alla popolazione straniera, quindi se vogliamo continuare a crescere, non possiamo non fare affidamento su un certo numero di stranieri.

Altrimenti si può fare anche un’altra scelta, che è quella di non crescere, anzi di arretrare, di assestarci su un livello di benessere molto più basso dell’attuale, rinunciando a tutta una serie di cose, allora forse potremmo fare a meno di molti stranieri. Ma fino a quando ci poniamo l’obiettivo di crescere sempre di più, abbiamo bisogno degli stranieri. Naturalmente la crisi economica ora ha cambiate un po’ le cose, ma fino a due o tre anni fa, specialmente qui al nordest, c’era la protesta degli imprenditori che chiedevano più stranieri.

 

Elton Kalica: Io vorrei chiederle com’è la situazione dei reati in Italia, perché noi continuiamo a leggere dati e statistiche che ci dicono che alcuni reati come gli omicidi sono in calo, per altri non si capisce, lei prima ha parlato dei reati legati alla droga, stando agli ingenti sequestri degli ultimi tempi, si può pensare che c’è una grossa domanda, quindi si può parlare di un tipo di reato in crescita, ma volevamo avere una idea anche degli altri reati, quali sono le tendenze.

Ornella Favero: Mi scusi aggiungo una cosa sull’informazione. Un articolo della fine dell’anno scorso di un quotidiano locale titolava “Padova città sempre più violenta”, perché il reato di lesione è aumentato del 33 per cento, poi si va a vedere l’articolo, e si scopre che il questore stesso dice: “Dipende da come si vuole interpretare questo dato, potrebbe anche trattarsi di semplici litigi”, quindi conta molto l’uso mediatico di questi dati.

Ennio Mario Sodano: Quando si guardano questi dati bisogna anche vedere i valori assoluti. Perché se io a Padova un anno ho un omicidio e l’anno dopo ne ho due, i giornali titoleranno, giustamente, “gli omicidi aumentati del cento per cento a Padova” e uno dice “è una strage”.

E invece no, ci sono stati due omicidi. E magari a Napoli ho cento omicidi in un anno e l’anno dopo ho 150 omicidi, le statistiche diranno che a Padova sono aumentati più che a Napoli, il che è vero statisticamente ma ingenera, nel pubblico, l’idea che Padova sia meno sicura di Napoli.

In generale i numeri dicono che la situazione dell’ordine e la sicurezza pubblica non è quella emergenziale che periodicamente viene riproposta. Certo il nostro Paese cambia, è un Paese moderno, dove la gente si muove, lavora, litiga, si commettono reati, ma comunque le nostre grandi città sono più sicure di altre grandi città europee o americane, le nostre città di provincia sono mediamente più sicure delle città di provincia americane, e mediamente negli ultimi anni, e specialmente per i reati più gravi, la situazione è migliorata. Altri rea­ti minori, e mi riferisco per esempio alle truffe, sono in aumento, il reato di spaccio è sicuramente in aumento negli ultimi anni, i sequestri di stupefacenti sono molto aumentati, e qui però c’è un problema di domanda, i sequestri li facciamo ma se la domanda rimane alta è difficile stroncare i traffici.

Negli anni 70-80, quando l’eroina era una cosa che saltava agli occhi e chiunque vedeva quei ragazzi che sembravano zombi, il nemico era più facilmente individuabile, il pericolo si imparò a conoscerlo meglio, e ci fu una reazione. Dopo di che è successo che il consumo è cambiato, il nuovo consumatore deve continuare a lavorare, a fare affari, ad avere una vita sociale, perché altrimenti oggi non si è nessuno, e per rispondere a queste esigenze  è cambiata la droga. Parlo della cocaina, delle droghe sintetiche, ma anche della stessa eroina che viene confezionata e consumata in maniera molto diversa, per cui non è più una droga che ti svuota e ti rende simile ad uno zombi, ma piuttosto una sostanza da assumere per compensare gli effetti della cocaina. Allora dobbiamo dare una risposta come società intera, la polizia e i carabinieri devono continuare a fare sequestri e arresti, ma la società deve riconoscere il pericolo che c’è in queste droghe e quindi fare educazione, fare prevenzione, senza le quali noi possiamo sequestrare una tonnellata in più di stupefacenti, ma non è che cambi molto, perché il mese dopo arriva un altro carico e, se non siamo altrettanto fortunati, entrerà sul mercato e troverà comunque qualcuno disposto a spacciarla e qualcuno disponibilissimo ad acquistarla.

 

Elton Kalica: Io devo confessare che avevo un’idea molto diversa dei prefetti, mi aspettavo un tutore dell’ordine tutto d’un pezzo, invece noto una persona che vede la realtà in modo cosi ragionato e pacato. Nei media negli ultimi dieci anni abbiamo visto in Italia un tipo di informazione che dava una immagine dell’ordine pubblico come di una situazione sempre emergenziale e catastrofica, mentre lei ha detto che i problemi ci sono e che richiedono attenzione, ma che non sono “emergenziali”. Quindi è difficile anche per lei doversi rapportare con dei media che continuano a dipingere una situazione molto diversa, rispetto a quella reale?

Ennio Mario Sodano: Io sono entrato in carriera 34 anni fa, quindi conosco bene la realtà e il mio mestiere. Invidio quei prefetti che ho conosciuto quando ho iniziato, che facevano il prefetto veramente dietro la scrivania, alzavano il telefono, impartivano ordini. Il nostro mestiere è cambiato moltissimo negli ultimi anni, per cui sempre di più bisogna cercare di ottenere risultati con la mediazione, piuttosto che con l’intervento d’autorità, ma è cambiato anche l’approccio delle forze dell’ordine, per cui la mediazione e il dialogo fanno parte ormai di una cultura e di una tradizione consolidata.

Questo naturalmente non significa che non ci siano difficoltà, è un lavoro che è anche frustrante, perché magari non riesci a fare quello che vorresti, perche alle volte nonostante tu faccia tanto poi ti scontri con letture della società e dei fenomeni che sono molto diverse dalle tue. Io comunque rappresento il governo e spesso devo fare delle cose che posso anche personalmente non condividere fino in fondo, però è il mio mestiere. Dopo di che bisogna fare i conti con una realtà raccontata che spesso non è quella reale. Nella realtà, quella vera, le istituzioni, specialmente a livello locale, sono molto più ragionevoli di quanto non sia raccontato, sulle cose si ragiona e si riesce a trovare il più delle volte il bandolo della matassa, e i compromessi necessari.

Molto poi è cambiata anche la società, certi fenomeni non sono più di semplice lettura.

In Calabria, per esempio, mi sono trovato ad affrontare la questione delle case popolari occupate. Ero fermamente deciso ad intervenire e mettere ordine… beh, ho dovuto lasciar perdere! Mi sono reso conto ben presto che, se io avessi applicato la legge fino in fondo, cioè se avessi fatto gli sgomberi degli occupanti abusivi, avrei fatto una operazione di legalità solo formale, perché in realtà avevano più diritto a stare in quelle case gli occupanti abusivi, che non gli assegnatari ufficiali. Sgomberare una famiglia con problemi di disoccupazione e figli minori per restituire la casa (pubblica) a gente che in realtà la usava solo per le vacanze? Decidemmo, allora, di fare prima un censimento, chiesi la collaborazione degli enti e delle istituzioni locali (Comune, Istituto Edilizia pubblica, Regione) per verificare i requisiti degli assegnatari… naturalmente la cosa non interessò a nessuno.

L’importante è capire qual è la propria funzione, io rappresento lo Stato, ho dei doveri cui non posso derogare, ma dall’altra parte devo tentare, con la mediazione, con il convincimento, con il maggior coinvolgimento possibile dei vari soggetti, di trovare delle soluzioni condivise.

Dopo di che sono anche del parere che occorre saper usare gli strumenti propri degli interventi di autorità, perché ci sono situazioni nelle quali non si può far finta di non vedere, ci sono situazioni di degrado tali che richiedono un intervento. Io, personalmente, non do un giudizio morale sulla prostituzione, però onestamente se persone adulte possono decidere di fare quello che gli pare, trovo che non sia giusto assistere a certe scene nel centro della città sotto ai condomini dove abitano anche famiglie, giovani adolescenti che hanno il diritto di uscire alla sera e tornare a casa a una certa ora senza essere offesi da scene che spesso sono imbarazzanti da vedere anche per noi adulti.

Questo non ha nulla a che vedere con il giudizio morale.

Ricordo che a Perugia, allora ero capo di gabinetto in prefettura, ci trovammo in una situazione del genere, c’era un quartiere che la sera diventava un quartiere a luci rosse. Ma era un quartiere di civili abitazioni della città. Si decise di intervenire per un mese, ogni sera, con un ingente schieramento di polizia e carabinieri che passò al setaccio la zona. Fogli di via, espulsioni delle prostitute straniere clandestine, multe al cliente. Tutte queste misure resero impossibile il “lavoro” delle prostitute e siccome “lavorare” dovevano, decisero di cambiare zona.

Una sera fuori dalla questura si presentarono un centinaio di prostitute con la bandiera bianca per parlare con il questore. “Spiegateci allora cosa dobbiamo fare, troviamo un accordo perché noi dobbiamo campare”. Praticamente l’accordo che si trovò fu che questo mercato si spostò in una zona periferica, dove non c’erano abitazioni civili. Fummo però attaccati e contestati da alcuni che sostenevano che così noi non avevamo risolto il problema, lo avevamo solamente spostato.

Io in un’assemblea mi sentii fare questa critica e dissi che il mio compito era dare una risposta alle esigenze dei cittadini che vogliono vivere tranquillamente, non mi sono mai posto il problema di redimere le prostitute.

 

Bruno Turci: Un problema che volevamo affrontare con lei è l’emergenza della droga, la droga, da quello che abbiamo capito dalle sue parole e anche dalle nostre esperienze, è un po’ la vera emergenza, che investe soprattutto i giovani e il carcere, la droga ha prodotto sovraffollamento, perché ci sono alcune leggi in materia, come la Fini-Giovanardi, che hanno provocato una situazione intollerabile nelle carceri. Lei come si pone di fronte a queste realtà veramente drammatiche, che potrebbero anche comportare delle richieste di scarcerazioni o di uso ridotto della carcerazione preventiva?

Ennio Mario Sodano: Abbiamo già una situazione carceraria che è ormai al limite, anche se non se ne parla abbastanza. Il terreno penale e quindi il carcere esulano dalla competenza dei prefetti, che si occupano di polizia di sicurezza, cioè tutto quello che avviene prima e non dopo, quindi quello che posso dire in proposito sono mie opinioni personali. Da una parte dovremmo realizzare più carceri e carceri più civili, ma questo non è stato fatto, nonostante dall’ultimo provvedimento di indulto siano passati quattro anni che dovevano servire, anche, a realizzare nuove strutture. Abbiamo, poi, il problema di ridisegnare il sistema delle pene, non possiamo continuare a risolvere tutto con il carcere, in maniera anche un po’ schizofrenica. Sergio Tinti, ex procuratore della repubblica a Torino, ha scritto un bellissimo libro, dove spiega come si possa uccidere la moglie senza fare un giorno di carcere. Certo “stressando il sistema”, lui lo ammette, però facendo il calcolo di tutti i benefici, considerando tutte le possibilità e tutte le opportunità che prevede il nostro  sistema penale, a condizione di avere buoni e referenziati amici, che possano garantire per te, a patto di avere una casa ospitale, dove vivere in alternativa al carcere, a condizione di poter pagare un buon avvocato, in grado di farti applicare tutti i meccanismi previsti, alla fine si può uccidere la moglie senza fare un giorno di galera.

E questo è un paradosso, perché di fatto le carceri sono piene. Probabilmente, allora, sono piene di tante persone che non hanno le favorevoli condizioni di cui sopra. Probabilmente sono piene perché non abbiamo una risposta che non sia quella carceraria.

Io per esempio, che non sono un grande ammiratore del sistema americano, quando ho visto le immagini di Naomi Campbell in tuta arancione che spazzava le strade di New York, devo dire che ho sinceramente ammirato quel sistema, capace di punire tempestivamente e in maniera effettiva.

Penso a chi da noi va in bancarotta, ruba i risparmi di pensionati e lavoratori, e alla fine prende, dopo sette o otto anni, due anni con la condizionale. Sostanzialmente nulla, continuando a godersi i proventi dei suoi crimini. Meglio, allora, un sistema dove pure una persona potente va a spazzare 15 giorni le strade per avere lanciato un telefonino contro la propria domestica.

Si potrà dire “ma è una punizione da poco”, sì ma qui da noi spesso la punizione non c’è proprio.

A pene edittali (quelle scritte nei codici) estremamente severe corrispondono condanne solo figurative. Noi possiamo costruire tante carceri, ma se non affrontiamo il nodo delle pene alternative alla detenzione è difficile uscire da questa situazione, dobbiamo pensare anche a strutture, direi, di semidetenzione.

Mi riferisco a tutti quelli che hanno l’opportunità di andare al lavoro fuori, se possono stare fuori tutto il giorno che senso ha che debbano venire a dormire dietro alle sbarre, si può pensare a strutture protette, alternative al carcere. Dobbiamo fare molto di più, anche spazzando via molta dell’ipocrisia di questo sistema, che a chiacchiere sembra molto duro ma poi finisce per esserlo solo per alcuni, mentre per altri non lo è affatto.

Quando succedono fatti eclatanti, come quei due omicidi compiuti in una rapina in villa qualche anno fa, la prima cosa che tu vedi in televisione è il cronista che va in giro a chiedere alla gente cosa ne pensa, e c’è chi vorrebbe la pena di morte chi pene più severe. Allora si inaspriscono le pene, ma le condanne definitive continuano ad arrivare dopo dieci anni e più, le severe pene erogate si riducono, spesso, in maniera da diventare virtuali.

Perciò: pene alternative al carcere, condanne rapide e certe, che avrebbero sicuramente maggiore deterrenza. Però, ripeto, sono entrato in un campo che non è il mio.

 

Franco Garaffoni: Io vorrei affrontare anche la questione del senso di insicurezza, che ritengo venga spesso insinuato nella popolazione dall’informazione e dalla politica, affinché la gente poi si senta più sicura con i decreti emergenziali, con i pacchetti sicurezza, con gli arresti a raffica. Se prendiamo gli immigrati irregolari, per esempio, si tratta di persone che praticamente non possono fare altro che essere arrestate. Perché noi cercavamo delle braccia, abbiamo trovato degli uomini, li abbiamo messi nei cantieri, li abbiamo fatti lavorare finché ci facevano comodo, per poi dirgli magari “Caro amico io non ti metto in regola, vai pure per la tua strada”.

Ma in una città come Padova io penso che l’insicurezza venga fatta lievitare dall’incapacità di contenere quegli abusi e quelle illegalità diffuse che sono, per esempio, gli atti vandalici, il danneggiamento dei beni pubblici e privati, le carrozze ferroviarie tutte rovinate, il gay che viene picchiato. Quando poi vedo che in Italia ci sono 170.000 arresti all’anno, mentre è chiaro che non li possiamo contenere tutti, e mediamente buona parte delle persone arrestate sta in carcere meno di una settimana, quindi se oggi arresto uno, poi domani lo rimetto sulla stessa piazza, è chiaro che la gente vede e pensa che la pena non è certa, e nessuno spiega che se quella persona verrà condannata poi entrerà in carcere, quindi è tutto un sistema che concorre a creare un senso di insicurezza.

Ennio Mario Sodano: Io ho detto come la penso, però bisogna anche mettersi nei panni degli altri.

Io faccio sempre l’esempio di una vecchina che un giorno viene con una delegazione in prefettura e mi dice: “Eccellenza faccia qualche cosa, perché da me non si vive più, una volta il mio quartiere era bellissimo, io stavo benissimo, adesso sono in pericolo. Pensi l’altro giorno sono scesa, al portone c’erano 4 negri alti due metri che parlavano fra di loro”. “E cosa dicevano?”, faccio io. “E che ne so io, mica li capisco”, fu la risposta. Magari parlavano di calcio. La storiella può far sorridere, però bisogna mettersi nei panni degli altri.

È vero che certe esagerazioni giornalistiche non aiutano, però è anche vero che il fenomeno dell’insicurezza ha le sue motivazioni. C’è chi davanti a cambiamenti epocali come quelli vissuti negli ultimi anni è disorientato. Chi non ha gli strumenti, chi ha visto solo il suo quartiere, fa fatica a capire come si muovono e cosa pensano quelli che portano le braccia tatuate, o quelli che sono tutti neri, o sono pieni di piercing, si trova effettivamente disorientato, a disagio, non riesce più ad avere punti di riferimento.

In questo senso alcune iniziative sulla sicurezza possono anche essere discutibili dal punto di vista dell’utilità pratica, però, forse, aiutano a rassicurare. I militari nelle città probabilmente rispondono a questa esigenza. Se il pericolo non è effettivo, ma immaginato, probabilmente anche gli interventi non sostanziali, ma d’immagine riescono in qualche modo a dare un esito.

Molti ritengono la città più sicura da quando ci sono i militari, ora debbo dire che i militari hanno effettivamente dato buona prova, i risultati ci sono stati, i controlli sono aumentati, ma indubbiamente c’è anche un effetto di rassicurazione che è dovuto semplicemente alla loro presenza.

 

Ornella Favero: Si, solo che noi lavoriamo nell’ambito dell’informazione, e in realtà vediamo che a volte possono essere pericolose queste politiche sulla sicurezza. Le faccio un esempio, lei ha detto prima una cosa per noi importante, ha detto che servirebbero più misure alternative e pene diverse. Noi ci scontriamo però con il fatto che un certo tipo di informazione e di politica spinge a credere che la soluzione sia il carcere, che serve la certezza non della pena, ma del carcere.

Allora noi ci scontriamo sempre, quando incontriamo gli studenti, con il fatto che loro assorbono questo tipo di informazione e sono convinti che il carcere crei sicurezza, e non è facile farli riflettere sul fatto che parcheggiare una persona in carcere non ti rende più sicuro, e che invece le misure alternative permettono alle persone detenute di fare un percorso graduale di reinserimento che rende più sicura la società. Quindi a volte una cattiva informazione può avere un effetto rassicurante, ma poi crea danni.

Ennio Mario Sodano: Sono d’accordo, c’è un problema anche di cos’è il carcere, a cosa dovrebbe servire, io penso che il carcere ha anche la funzione di difendere la società, per cui ci sono certi comportamenti talmente gravi, che chi li mette in atto va rinchiuso perché è un pericolo per la società, dopo di che un carcere così come è fatto oggi serve a poco. Credo, anche, che sarebbe molto più efficace una giustizia più celere. Condannare una persona dopo dieci anni non serve a niente, non serve a quella persona, non serve alla società, non serve a nessuno.

Non occorrono pene più severe, ma pene più certe, più sicure, applicate in tempi rapidi e possibilmente con un carcere che riesca anche a non abbrutire ulteriormente, perché altrimenti il carcere, anziché difendere la società, diventa un luogo dove coltiviamo odio nei confronti della società, con le conseguenze immaginabili.

 

Sandro Calderoni: La cosa importante è che la pena deve avere un senso. Pensiamo per esempio agli omicidi colposi, io mi sono sempre chiesto che senso ha dare una pena detentiva alle persone che provocano un incidente mortale. Invece della galera, forse avrebbe più senso magari dar loro una pena alternativa, cioè mandarle a lavorare in centri traumatologici in modo da fargli capire la responsabilità e le conseguenze delle loro azioni.

Ennio Mario Sodano: Però bisogna riconoscere che chi, consapevolmente, si mette alla guida sotto l’effetto della cocaina o magari dopo aver bevuto un litro di vino costituisce un pericolo per gli altri e va punito in maniera severa. Se a 18 anni puoi guidare, vuol dire che sei adulto e quindi capace di capire che, se guidi fatto di cocaina, sei un pericolo per te e per gli altri.

Ci sono, però, tanti comportamenti che potrebbero essere sanzionati in maniera diversa e probabilmente anche con più utilità, per chi ha commesso il fatto, ma anche per la società.

Per questo ho fatto l’esempio dell’America e di Naomi Campbell, perché secondo me quella pena ha insegnato qualcosa a lei e ha dato anche un segnale agli altri: se commetti qualcosa di sbagliato paghi un prezzo. Se al giovane che ha sbagliato imponi di svolgere un servizio a favore della società, per esempio, forse ottieni un risultato, se lo stesso ragazzo viene punito con sei mesi di carcere e con la condizionale, con la tirata di orecchie del giudice, rischiamo di far passare un messaggio sbagliato.

 

Bruno Turci: Ma secondo lei come si può uscire dal peso di tutte queste leggi emergenziali che si sono sommate negli ultimi anni, dal terrorismo all’emergenza sequestri alla mafia, e che hanno portato a una modifica in senso peggiorativo anche di certe norme che riguardano i benefici penitenziari?

Ennio Mario Sodano: Io non sarei in grado di dare una ricetta, ma sicuramente una riforma seria del Codice penale e del Codice di procedura penale, carceri più adeguate, pene alternative, tutto questo come effetto finale porta anche una possibilità di vedere con più serenità i fenomeni e di gestirli meglio.

Ci sono fenomeni, però, parlo della criminalità organizzata e del terrorismo, che difficilmente possono essere affrontati con efficacia senza interventi straordinari. Per il resto, sono convinto che se si riuscisse a riordinare la giustizia rendendola più celere ed efficace, se nel contempo si riorganizzasse il carcere, l’intero sistema si riassesterebbe in maniera diversa, e la necessità di tanti strumenti speciali verrebbe meno.

Quello che ancora manca per contrastare la criminalità organizzata è l’intervento sull’humus nel quale la criminalità organizzata cresce e può sopravvivere. Noi possiamo arrestare tutti i boss che vogliamo, ma crescono i figli, i nipoti e prendono il posto degli altri.

Quello che invece dobbiamo fare è togliere l’acqua nella quale la criminalità organizzata nuota. Dobbiamo risanare le amministrazioni pubbliche poco inclini a tenere in conto il merito e molto a premiare l’appartenenza politica, che gestiscono in modo clientelare i fondi pubblici, che prestano scarsa attenzione ai bisogni della cittadinanza, spesso soddisfatti solo come favore, e il favore deve essere, o prima o poi, contraccambiato. Questo è l’humus sul quale bisogna lavorare, se qui non diventiamo più forti e più capaci di intervenire, la battaglia contro il crimine organizzato sarà sempre una battaglia di posizione: avanziamo un giorno e il giorno dopo arretriamo.

L’intervento necessario, perciò, è proprio quello sulla società: eliminare il piccolo malaffare, la corruzione negli enti locali, ma anche educare al rispetto della legalità, a partire dalle piccole cose. Questo servirebbe per la sicurezza.

La criminalità organizzata è come una piramide, in cima a questa piramide ci sono i boss che commettono omicidi, gestiscono traffici internazionali di droga, alla base c’è la corruzione diffusa, il malaffare, il clientelismo, le piccole grandi furberie commesse a danno degli onesti. I grandi crimini commessi al vertice della piramide si reggono sui piccoli, minuti, diffusi  abusi quotidiani.

Questo, naturalmente, riguarda il sud, dove la criminalità organizzata imperversa, ma, a ben vedere, riguarda, certo in misura minore, un po’ tutto il Paese.

Bisogna che comprendiamo che il rispetto delle regole conviene. Forse non conviene al grande furbacchione che tanto fregherà sempre tutti, ma a noi che ci riteniamo persone normali, che nella stragrande maggioranza sappiamo di poter fare affidamento sulle nostre forze, sul nostro lavoro quotidiano, che dobbiamo occuparci del benessere dei nostri figli e dei nostri genitori, conviene vivere nel rispetto delle regole.

 

L’effetto Naomi Campbell

L’immagine di una delle top model più pagate del pianeta che sconta una pena pulendo le strade di New York dà la netta sensazione che la giustizia negli Stati Uniti sia interpretata in maniera tale, che non si possa dire che chi commette reati non paga

 

di Bruno Turci

 

È un classico. In Italia in galera non ci va nessuno e chi ci va ne esce subito, questo è quel che dicono quasi tutti (i disinformati e quelli in malafede), è il refrain che ci accompagna da sempre, ma che è diventato molto più insistente da quando le elezioni si vincono e si perdono sui temi della sicurezza.

Viene in mente Naomi Campbell, moltissimi ricorderanno le foto sui rotocalchi e le immagini diffuse dai telegiornali, in cui la famosa modella appariva nel suo incedere superbo ed elegante, pur con lo zainetto sulle spalle e gli scarponcini da lavoro a tracolla, mentre entrava nel centro di servizio sociale che gestiva il lavoro di pubblica utilità a cui il Tribunale di New York l’aveva condannata. Quella è ciò che si chiama pena alternativa, espiata facendo lavori socialmente utili. L’immagine della top model tra le più pagate e famose del pianeta che si sottopone alla sanzione  mi ha dato la netta sensazione che la giustizia negli USA sia interpretata in maniera tale, che non si possa dire che in galera non ci va nessuno. Ognuno paga… in misura proporzionale alla gravità della colpa… ma paga.

Anche in Italia sono previste queste pene alternative che, tuttavia, non appartengono alla consuetudine penale, in realtà questo modello di sanzione viene usato poco e solo con i colpevoli di rea­ti di minore gravità. Sono pene che raggiungono lo scopo di punire educando i condannati, investendo sul lavoro per reinserirli nella società. Queste pene hanno una notevole utilità sociale e non hanno alcun costo per la collettività. A questo si aggiunge che, per essere efficaci, le pene non devono allontanare i condannati dalla loro famiglia, che è essenziale per il recupero delle persone che hanno commesso dei reati, e proprio con le pene alternative è più facile non compromettere i legami famigliari, far guadagnare autostima e abituare i condannati ad una vita regolare, a una quotidianità scandita dai ritmi del lavoro e dagli affetti. L’uomo ha bisogno di essere responsabilizzato, di essere protagonista del proprio recupero.  

Questo tipo di sanzione dovrebbe avere una maggiore applicazione, estesa anche per i reati di una certa gravità. La società dovrebbe avere il coraggio di tornare a parlare di carcere come extrema ratio, di diritto penale mite. Finito il tempo del giudizio, terminata la fase del processo in cui si stabilisce la colpevolezza e l’entità della pena, dove possibile i condannati dovrebbero essere sottoposti da subito a questa attività di recupero, riconoscendo che si tratta di un investimento per la sicurezza.

Le pene infinite non servono a rieducare i colpevoli di reati più o meno gravi, studi compiuti da associazioni che si occupano del recupero dei condannati in tutta Europa attestano che i detenuti, seguiti e inseriti in attività di recupero che li rimettono in libertà prima del fine pena, se mantengono rapporti con la famiglia, hanno un bassissimo tasso di recidiva. Cito l’associazione dei “Relais Enfants-Parents” che opera nelle prigioni francesi, il cui Presidente, Alain Bouregba, in una Giornata di studi organizzata da Ristretti Orizzonti ha testimoniato, appunto, che i detenuti a cui vengono facilitati i rapporti con la famiglia e che vengono inseriti in progetti di reinserimento attraverso le misure alternative e i lavori socialmente utili, difficilmente tornano a delinquere. Questo accade in Francia, ma anche in tutti gli altri Paesi europei.

 

Le carceri sono strapiene di gente che si “mangia” anni e anni di galera

 

La certezza della pena è un concetto che, se privato di questi presupposti, non si coniuga con il recupero del condannato, ma diventa uno slogan carico di demagogia e utilizzato da chi vuole disinformare. Chiedere la certezza della pena, con le prigioni italiane ridotte a contenitori di carne umana, significa che si vuole far credere che in galera non ci va nessuno. Io assicuro, tutti noi che siamo detenuti assicuriamo che sono tutte balle, le carceri sono strapiene di gente che si “mangia” anni e anni di galera e, fatte alcune eccezioni, la galera se la fanno tutta o quasi. I benefici della legge Gozzini trovano applicazione in poche regioni d’Italia, la legge è stata svuotata dai tagli spropositati operati da chi si è occupato del governo del Paese negli anni più recenti. In ultimo le leggi ex Cirielli e Fini-Giovanardi hanno introdotto l’aggravante della recidiva e la tabella unica delle droghe, riempiendo in tale maniera le prigioni e impedendo l’uscita dei detenuti con le misure alternative

In Italia il carcere non è per i potenti, questo lo sanno tutti. A differenza degli USA, dove in carcere ci sono andati, anche se per brevissimi soggiorni, personaggi famosi dello spettacolo, oppure per lunghi periodi personaggi della finanza come Madoff, o i responsabili del fallimento della Enron o della Lehman Brothers per citarne alcuni. Negli USA, subito dopo i processi, in tempi brevissimi i condannati si consegnano in carcere, anche coloro che sono stati condannati a pene lunghissime. In Italia c’è stato chi ha depenalizzato il reato di bancarotta, il risultato è che gli affaristi che hanno messo sul lastrico centinaia di migliaia di risparmiatori stanno liberi, mentre il tossicodipendente per essersi procurato con un furto i soldi per la dose per drogarsi se è recidivo si fa gli anni di galera. Perciò non è vero che la galera non se la fa nessuno… non se la fanno alcuni… quelli che…

Ciò che porta gli italiani a essere convinti di una impunità generalizzata è soprattutto la cattiva informazione.

Io ho scontato più di trent’anni di carcere e in questi anni non ho mai usufruito di alcuna misura alternativa, con il risultato di passare più di metà della mia vita in galera, senza potermi costruire una vera famiglia. La colpa è certamente solo mia, ma forse se avessi avuto la possibilità di accedere anch’io alle misure alternative avrei potuto integrarmi nella società attraverso il lavoro e l’affetto della famiglia. Anche coloro per i quali la certezza della pena non esiste e che vivono coperti dall’impunità, se venissero condannati con sanzioni che prevedono l’accesso alle pene alternative con lavori socialmente utili, ispirerebbero un’idea diversa della giustizia, forse un rispetto delle regole maggiormente diffuso di quanto lo sia oggi. L’effetto Naomi Campbell sarebbe garantito. Se pensiamo davvero che le regole sarebbe opportuno che le rispettassimo tutti, dobbiamo pensare anche che sarebbe bene che le pene fossero più miti per tutti e, forse, anche i potenti accetterebbero di prendere esempio da Naomi affidandosi alla giustizia. L’entità della pena è relativa, ciò che rende equa, perciò forte, la giustizia è che la pena venga scontata da tutti, deboli e forti.

 

 

La storia di Montassar

Quando l’illegalità degli italiani produce illegalità nei giovani immigrati

Ho scelto di inseguire i soldi facili e mi sono avvicinato al mondo dello spaccio

 

Testimonianza raccolte da Salem Rachid

 

  Io sono tunisino e adesso ho ventisei anni, ma sono in questo Paese da circa tre anni. Quando sono arrivato in Italia sono andato da una mia zia, che abita a Salerno da circa 28 anni ed è stata lei che mi ha trovato il mio primo lavoro, raccoglievo i pomodori, in nero. Ricordo che ero contento perché pensavo che mi ero sistemato qui in Italia, subito e senza difficoltà.

Il primo giorno ho cominciato a lavorare alle cinque del mattino. Ci siamo fermati un’ora per pranzo e poi sono andato avanti fino alle quattro del pomeriggio. Alla fine ho preso 25 euro di paga. Il padrone era prepotente e ci rivolgeva tanti insulti. Non lo so perché… forse pensava che non capivo l’italiano, o lo faceva apposta.

Col passare del tempo, quel lavoro ha cominciato a stufarmi. Non ce la facevo più. Ma per me era importante lavorare perché avevo bisogno di guadagnare. Ero arrivato qui in questo Paese per farmi una nuova vita  e non volevo sentirmi un peso per la zia da cui ero ospite. Ma non potevo resistere lì, cosi ho chiamato uno zio che abita a Bergamo e che faceva il muratore, gli ho chiesto aiuto e lui era disponibile a farmi lavorare con lui, ma il suo padrone non voleva perché non avevo il permesso di soggiorno. Io avevo il diploma di pasticciere che ho preso in Tunisia, ma purtroppo senza documenti non potevo lavorare, e non avevo nessuna possibilità di essere inserito nel mondo sociale. Così ho perso la speranza, avevo 23 anni, ero arrivato qui per sostenere la mia famiglia in Tunisia, perché ho perso mio padre all’età di 19 anni e non avevamo nessun altro sostegno, ma avevo voglia anche di farmi una vita e una famiglia. Ho scelto allora di inseguire i soldi facili e mi sono avvicinato al mondo dello spaccio di stupefacenti. Così sono arrivato a Padova, dove ho incontrato dei mie connazionali e ho conosciuto un altro mondo, fatto di soldi, di ragazze disponibili, di serate in discoteca. Poi ho trovato molte persone disposte a sostenermi, tutti quelli dell’ambiente mi davano una mano per qualsiasi cosa di cui avessi bisogno. Così sono rimasto con loro e ho cominciato anche io a spacciare. Per un po’ di tempo ho dato una mano a mia madre e alle mie sorelle, mandando loro dei soldi, ma purtroppo ho imparato presto che questa strada non dura molto, perché prima o poi finisci in carcere, oppure anche peggio, puoi finire morto ammazzato. Ora sto scontando una condanna di due anni per spaccio, ma sto conoscendo un altro lato della medaglia. Adesso che sono in carcere, nessuno degli amici si è ricordato di me, perché quando sei fuori, ti sono tutti amici perché puoi spacciare e fare soldi, ma quando sei dentro e non servi più a nessuno, è tutto finito.

 

Ho lavorato senza diritti

Io vengo dal Marocco, ho 26 anni e sono in Italia da circa cinque anni. Nel mio Paese avevo il diploma di meccanico e sin da giovanissimo ho lavorato in modo onesto per dare una mano alla mia famiglia, perché eravamo cinque persone, e la vita dalle mie parti è un po’ complicata, soprattutto per una famiglia numerosa.

Grazie alla mia esperienza, appena sono arrivato in Italia, era il 2003, ho trovato subito lavoro come saldatore dalle parti di Reggio Calabria. Ma si trattava di lavoro in nero, e devo confessare che ho visto e ho vissuto  molte forme di sfruttamento di lavoratori stranieri come me. Era normale per me vedere le persone cercare di approfittare della clandestinità di immigrati senza fissa dimora e senza permesso di soggiorno. Non c’era un minimo di rispetto dei diritti di chi lavora, perché la paga era troppo bassa per il lavoro che facevo, l’orario di lavoro era quasi di quattordici ore al giorno, ma mi pagavano circa la metà. Per di più io ero lavoratore qualificato in saldatura professionale, che significa che lavoravo a contatto con gas e sostanze molto pericolose, sia per la mia salute, sia per la sicurezza del cantiere. Ma alla fine accetti tutto, se hai bisogno di guadagnare per vivere.

Quando ho cominciato a lavorare, insieme agli altri ragazzi della squadra eravamo rimasti d’accordo con il padrone che ci pagava alla fine del mese per un totale di 2000 euro, invece non è stato cosi. Abbiamo lavorato il primo mese e quando abbiamo chiesto la nostra paga, lui ha iniziato a dire che aveva soldi per pagarci, ma ci ha promesso di aumentare la paga per i prossimi lavori e che poi ci dava tutto quello che avanzava. Purtroppo non avevamo nessun’altra scelta e così siamo rimasti a lavorare per lui con la speranza di avere i soldi, ma sono passati tre mesi  e questa persona non ci ha dato una lira. Abbiamo tirato avanti grazie ad alcuni miei paesani che ci hanno sostenuto per quei tre mesi, ma abbiamo sofferto tanto. Anche se qualcuno si faceva male sul lavoro, il padrone non dava neanche i soldi per mandarlo all’ospedale, ma faceva venire un sua amico che credevamo fosse il medico del lavoro, ma così non era. Alla fine abbiamo deciso di dargli una bella lezione e siamo andati a denunciarlo dai carabinieri. Loro ci hanno aiutati perché sono arrivati e hanno obbligato il padrone a pagare. Così abbiamo avuto subito tutti i nostri soldi e abbiamo chiuso con quel padrone. Poi abbiamo anche giurato di non lavorare mai più in nero.

Questa esperienza è stata dura perché abbiamo perso la fiducia, anzi quella persona ci ha fatto cambiare anche il nostro stile di vita, perché è stato dopo quell’esperienza che abbiamo deciso di provare la fortuna al nord Italia, dove abbiamo preso un’altra strada e abbiamo cominciato a fare soldi facili senza sapere cosa ci aspettava.

Alla fine sono finito in galera, ma questa è un’altra storia.     

 

 

Sono le corse clandestine che spesso rendono le piazze di notte più insicure

C’è tutto un mondo di persone “regolari” che alla sera partecipano ad un giro, che produce molta più delinquenza di tanti immigrati

 

Di Ismaili Bardhail

 

Quando ero fuori ho potuto conoscere bene l’ambiente delle corse clandestine di automobili. Certo, tutte le vetture sono truccate, abbellite e raggiungono velocità enormi. Questo attira molte persone, ragazzi e ragazze, giovani e meno giovani, che sono attratti dal mondo della velocità, dell’alcol e dell’avventura. La cosa strana che mi ricordo è che nessuno si sentiva un delinquente, ma tutti si consideravano persone normali, che facevano solo qualche piccola trasgressione a fine settima. E spesso le famiglie sono all’oscuro di tutto ciò.

Io sono albanese ed essendo lontano da casa, non avevo la preoccupazione di dire alla mia famiglia dove andavo di sera, ma credo che anche gli altri ragazzi non raccontassero niente a casa. Solo che poi di questi comportamenti a rischio dei loro figli le famiglie vengono a conoscenza soltanto quando succedono incidenti, in cui lascia la vita qualche ragazzo, e tutti pensano che a partecipare a queste gare siano persone incoscienti a cui piace la trasgressione. Ma nessuno sa che quei ragazzi rischiano la pelle per quattro soldi, perché dietro c’è spesso un giro di soldi sporchi dove ad arricchirsi sono sempre altri, sono i soliti furbi che sfruttano la miseria e l’incoscienza dei giovani. Per un certo tempo tra quei giovani c’ero anch’io, e ricordo che non pensavo tanto ai rischi o allo sfruttamento. Inseguivo solo un sogno, volevo avere successo in qualcosa e inoltre speravo di mettermi in evidenza, di essere sempre presente nei ritrovi più famosi di corse e di partecipare alle feste che spesso seguivano. L’ignoranza e l’incoscienza mi avevano accecato e ora che ci ripenso capisco come vi erano tanti “squali” che se ne approfittavano battendomi sulle spalle e dicendomi bravo.

Ora i telegiornali parlano sempre dei reati commessi dai clandestini, dell’illegalità diffusa tra gli immigrati, ma io ho visto che, tra corse clandestine e uso di stupefacenti, c’è tutto un mondo di persone “regolari” che alla sera partecipano ad un giro, che produce molta più delinquenza di quegli immigrati, che magari danno fastidio perché si siedono sui bordi delle piazze di giorno e sporcano con i sacchetti di panini e le lattine di birre. Intorno al mondo illegale delle scommesse forse si muovono interessi grandi, ma certo causano molta più insicurezza e molti più danni, che gli immigrati, che in quelle stesse piazze passano le giornate aspettando un caporale che li porti a lavorare in nero.

 

 

Tanti e sempre più poveri

Raccontiamo sovraffollamento e miseria, perché speriamo che qualcuno sia ancora in grado di scandalizzarsi per la disumanità delle galere

Vorremmo tanto “parlare d’altro”, cambiare argomento, dimenticarci del sovraffollamento, ma non è possibile, non possiamo non tornare su una situazione che sta diventando un incubo di cui non si vede la fine. O meglio, a volte la fine si vede, dato che la gente in carcere a volte si uccide, perché non ce la fa più, perché non vede spiragli di speranza, perché non coglie fuori, nella società, nessun segnale di interesse, di smarrimento, di compassione di fronte a condizioni di vita nelle galere che di umano ormai non hanno più niente.

 

Manca tutto, anche l’aria per respirare

 

di Antonio Floris

 

Con l’aumento del numero dei detenuti sono aumentati vertiginosamente anche i problemi. Uno dei problemi principali che la promiscuità causa è l’aumento del disagio mentale e della depressione, dovuti anche all’abuso di psicofarmaci, ma anche la diffusione di patologie tipo scabbia o epatite. 

Oltre a ciò tutto quello che dovrebbe essere per uno, ora deve essere diviso per due o per tre. I cortili dei passeggi per esempio sono progettati per contenere le 25 persone di una sezione. Se ci si va in 25 il passeggio è pieno al massimo però si riesce a passeggiare. Se ce ne dovessero andare più di 25, quelli che sono in più si devono fermare. Se ci dovesse andare tutta la sezione, in 50 o peggio ancora in 75,  si dovrebbe stare immobili perché camminare sarebbe impossibile.

Lo stesso discorso vale per le docce che sono rimaste sempre le stesse, anzi con il doppio o il triplo degli utenti si sono pure rovinate, tanto che in media ne funzionano tre su cinque.

Ma quello che più sconcerta è che all’aumento del numero delle persone ristrette non ha  corrisposto affatto un aumento della distribuzione dei prodotti di prima necessità.

Poiché con l’andare del tempo la popolazione detenuta si sta progressivamente impoverendo (la crisi non ha certo risparmiato i carcerati), e poiché tantissimi sono anche gli stranieri che nella stragrande maggioranza dei casi vengono arrestati senza avere un solo centesimo, come devono fare questi detenuti a curare la pulizia della persona, degli abiti e delle stanze se nessuno fornisce loro i prodotti necessari? Devono fare affidamento quasi esclusivamente sulla generosità dei compagni di detenzione un po’ più abbienti. Anzi si è trovato il sistema di collocare assieme qualcuno che non ha niente con qualcun altro che possiede qualcosa. In pratica, quelli che lavorano o che ricevono dalle loro famiglie qualche soldo devono sostenere le spese anche di quelli che non hanno niente, se si vuole vivere in maniera un minimo decente. Ma ormai non ce la fa più nessuno a reggere questa situazione, non si riesce più a tamponare le falle di un sistema che va a fondo, come si riuscirà ad andare avanti in queste condizioni?

 

 

Detenuti da reinserire nella società o “vuoti a perdere”?

 

Di Filippo Filippi

 

Io sono un detenuto tossicodipendente e vorrei fare delle brevi riflessioni sulla certezza della pena, che oggi è piuttosto una “certezza della galera”, e sul sovraffollamento carcerario che ne consegue.

Anzitutto la voglia di “certezza della galera” ha portato in carcere non solo criminali “patentati”, ma anche e soprattutto tutti coloro che disturbavano “l’estetica” delle città, persone affette da mali sociali, quindi drogati giovani, sempre più giovani, immigrati disperati, gente con disagio psichico, per i quali il carcere viene usato come un grosso contenitore, che dà una sola certezza: che queste persone detenute una volta uscite (perché presto o tardi usciranno!), saranno più sole, povere, disperate, quindi disposte a delinquere in maniera più cruenta di prima dell’arresto.

Questo disumano sovraffollamento riempie le galere di persone che non ci dovrebbero stare e toglie spazi, vivibilità e possibilità rie­ducative proprio a coloro che ne avrebbero davvero bisogno, perché sono delinquenti di maggior “spessore” e spesso con condanne medio lunghe se non lunghissime.

Ma questo intasamento comporta anche una sorta di scoramento degli addetti ai lavori, che percepiscono che la società e la politica “se ne lavano le mani”, di questi problemi, e lasciano che le persone che lavorano quotidianamente nelle carceri (operatori e volontari), si arrangino con sempre più tagli alle risorse, che si ripercuotono pesantemente sulla vita quotidiana delle galere.

Ora lo spaccato medio della popolazione carceraria è sempre più multietnico e povero, ci sono persone detenute che non hanno nessuna possibilità di mantenere contatti con i famigliari, né di ricevere piccoli aiuti, anche economici, dall’esterno, così si ritrovano letteralmente il vuoto attorno, dimenticati in quella autentica discarica di esseri umani che è il carcere oggi (per chi crede ancora che siamo comunque tutti esseri umani, però!).

Si dice che non è questione di sovraffollamento se la gente si suicida, ma tutto il disagio che porta con sé il sovraffollamento qualche peso ce l’ha, se uno decide poi di commettere un atto estremo come il suicidio, proprio nel luogo nel quale lo hanno chiuso per insegnargli che esiste una società con delle regole, dei diritti e dei doveri, e per ricordargli come ci si comporta nel mondo civile!

Ma forse quella dei suicidi comincia a diventare una questione di “vuoti destinati inevitabilmente a perdere!”, forse le autorità competenti, e anche tanti liberi cittadini mettono in conto che una percentuale di galeotti comunque si suiciderà, “è nella natura delle cose!”, male che vada è un criminale in meno!

Non dimentichiamoci però che questi delinquenti, almeno quelli che sopravvivranno a questo disastro del sovraffollamento, prima o poi usciranno e il come usciranno e cosa faranno non dipenderà solo da un eventuale percorso interiore di presa di coscienza dei reati commessi e del dolore provocato, ma anche da come loro saranno stati ”trattati” nel corso della loro pena e da come verranno accolti, o invece emarginati, una volta finita di scontare la loro ”giusta condanna”. Aggiungo che ho messo giusta condanna tra virgolette, perché in uno stato detentivo così degradante gli anni presi con sentenza definitiva, credo dovrebbero avere un valore maggiore come pena scontata, in quanto un giorno scontato in queste condizioni ”limite” ne vale forse di più, sempre che si possano fare calcoli matematici su questioni di così estremo disagio carcerario.

 

 

E c’è qualcuno che le ha definite “celle a cinque stelle”!

 

di Enos Malin

 

Io vorrei soffermarmi non tanto sull’angusto spazio che ci dobbiamo contendere in tre persone, quanto piuttosto sullo spazio definito gabinetto che si trova adiacente alla cella.

Non voglio certo dire che sia un problema il fatto di avere un bagno in tre, quasi tutte le famiglie si trovano in questa situazione, ed alcune anche peggio. Ciò che invece voglio evidenziare è che, non avendo spazio nella cella, tutto viene conservato nel bagno, che così assume tanti altri ruoli, che di igienico e buono per la salute non hanno ormai più nulla.

La tazza del water è un accessorio che potrebbe far pensare di trovarsi in un bagno, solo che  nell’angolo opposto ad esso c’è una tavoletta in legno di 80 centimetri per 50. fissata al muro, sopra la quale teniamo il fornellino da campeggio. Quello è il nostro angolo cottura, oltre che per scaldare o cucinare lo utilizziamo come ripiano per appoggiare il caffè, lo zucchero, sale, conservati in contenitori di plastica ottenuti in modo “ingegnoso” ad esempio usando bottiglie d’acqua tagliate.

Sul muro abbiamo incollato dei ganci in plastica ricavati dai manici delle posate usa e getta, e li utilizziamo per appendere qualche pentolino ed utensili per la cucina.

Sotto alla tavoletta abbiamo sistemato due cassettine in plastica in cui conserviamo la frutta e la verdura. Tra la tavoletta e il lavandino abbiamo appoggiato un’altra cassetta in cui trovano alloggio posate, bicchieri, piatti e gavette, tutti rigorosamente di plastica.

Il lavandino oltre che per l’igiene personale è adibito anche a secchiaio e serve pure per lavare gli indumenti. Sopra ad esso ci sono mensoline di cartone incollate al muro, sopra le quali mettiamo il necessario per l’igiene personale.

Quasi sopra al water, ad un’altezza di circa un metro e mezzo, c’è un mobiletto fissato al muro che serve per conservare al suo interno tutti i generi alimentari, biscotti, pasta, farina.

Affianco al water c’è una cassetta con le scarpe, mentre sulla parete opposta ci sono appesi gli indumenti che non si riesce a stipare nel piccolo mobiletto della cella.

Quindi il “bagno” è un locale che si presta a tutti gli usi: cucina, dispensa, acquaio, sgocciolatoio piatti, lavandino, scarpiera, armadio a muro e infine gabinetto. Con conseguenze, dal punto di vista dell’igiene, che lasciamo immaginare…