Una morte che ci insegna tante cose

 

di Ornella Favero

 

Graziano Scialpi è morto per un tumore, diagnosticato troppo tardi, dopo un anno passato con dolori lancinanti, aspettando di essere portato in ospedale per una risonanza magnetica. Ma in ospedale è arrivato solo quando gli si sono paralizzate le gambe, e ormai c’era poco da fare.

Basta accendere la televisione per essere bombardati ogni giorno da notizie su omicidi in famiglia, dove chi uccide viene descritto come una specie di mostro lucido e spietato. E non a caso, anche oggi che è morto, Graziano Scialpi sulle pagine di molti giornali viene “inchiodato” al suo reato, un omicidio in famiglia appunto, di quelli che riempiono le trasmissioni televisive e le pagine dei giornali. È un reato gravissimo, e nessuno di noi intende minimizzare le sue responsabilità, però Graziano ci ha aiutati a capire che non esistono i mostri, ma uomini che fanno cose mostruose. E capire che potrebbe succedere a ognuno di noi significa sapere che dobbiamo imparare a chiedere aiuto, a essere più umili, a non fidarci troppo della nostra razionalità. Cose che Graziano non è riuscito a fare, ma che ha insegnato a tutti noi. La definizione “Siamo persone, non reati che camminano” è sua.

La storia di Graziano insegna anche altro: che la medicina, dentro e fuori dal carcere, deve ritrovare umanità e capacità di ascolto, due caratteristiche fondamentali sempre, ma forse ancora di più in carcere, dove le persone rinchiuse, quando stanno male, sono veramente, totalmente nelle mani dei medici. Come racconta Elton Kalica, che con Graziano ha condiviso la galera.

 

 

Quella di Graziano, la peggiore delle morti

 

di Elton Kalica

 

È morto Graziano. Solo poche settimane fa, l’agente di turno della sezione mi aveva raccontato del ricovero urgente di Graziano in ospedale. Un racconto veloce, senza tanti particolari, ma sufficiente per capire che era grave. Il giorno successivo, alcuni assistenti volontari di ritorno dalla visita in ospedale, mi avevano parlato di una persona che ormai non viveva più: paralizzato, sofferente e spaventato. Ma poteva parlare, il che gli aveva permesso di raccontare di quella incommensurabile sofferenza spalmata in circa un anno di attesa per fare una banale risonanza e vedere da cosa dipendeva quel dolore lancinante alla schiena. Tutto dovuto a ritardi e negligenze che ha fatto in tempo a raccontare anche in una faticosa intervista a Radio-Radicale.

In un suo brano, Fabrizio De Andrè diceva che “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. È ovvio che nessuno può immaginare la sofferenza attraverso la quale è passato Graziano, ma conosco il carcere di Padova abbastanza per provare a immaginare cosa significa trovarsi in un carcere sovraffollato, nella sezione che agenti e detenuti considerano la più problematica, in una cella di tre metri per tre, e in compagnia di persone che di guai ne hanno magari già abbastanza per conto loro. Così come conosco bene la sensazione che ti assale quando ti trovi a dover confessare un problema di salute ad un medico convinto che stai simulando e che ti congeda con una battuta di spirito, una specie di pacca sulle spalle a distanza che ti dice “non fare il furbo con me!”. Da subito provi rabbia per non essere ascoltato, creduto, ma terminata la visita devi ritornare in cella, e mentre ti accompagnano lungo il corridoio ti rendi conto di essere impotente, di essere talmente piccolo che anche il tuo dolore, anche la tua richiesta d’aiuto spesso rimbalza contro quel muro di gomma che ha la forma di una persona dal camice bianco, e mentre senti il cancello chiudersi dietro la tua schiena, umiliato e offeso ti rassegni alla tua cella, alla tua sofferenza e all’indifferenza del mondo. Mi basta pensare a questo per affermare che Graziano ha potuto vivere la peggiore delle morti.

Forse il dolore di un detenuto sarà anche la metà della metà, ma io spero tanto che questa morte cambi un po’ le cose: vorrei che da oggi in poi ogni medico, invece di pensare che il detenuto che avrà di fronte stia simulando, pensasse di avere di fronte Graziano - una persona che ha sofferto più del dovuto per via di questa maledetta paura della simulazione - perché solo mettendosi nei panni di chi soffre, quel medico potrà provare non una metà del dolore, ma il dolore nella sua totalità.