La fatica di riallacciare dal carcere i rapporti con un figlio

Ma perché non ci sono dati spazi più ampi per le telefonate e gli incontri?

 

di Ulderico Galassini

 

Mio figlio ora ha 18 anni, ma all’epoca del fatto che mi ha poi portato in carcere ne aveva 15. La mia “esplosione” di follia l’ha costretto in ospedale per le ferite che io gli ho procurato fisicamente e moralmente, togliendogli anche la presenza di sua mamma e pure la mia, in quanto prima sono stato ricoverato in ospedale per un intervento e poi trasferito in un altro servizio ospedaliero per essere sottoposto ad osservazione psichiatrica: un baratro totale ed incredibile. Quante domande e pensieri si rincorrono e si ripetono da quel periodo, e tante non troveranno mai risposta, anche perché il rivangare quei fatti può provocare traumi ulteriori. Tutto dipenderà dalla forza di mio figlio, se vorrà ripercorrere l’accaduto e assieme capire o farci aiutare a capire il perché sia scattata nella mia mente quella azione distruttiva. I medici lo definiscono “suicidio allargato”, lui non sapeva delle depressioni ripetute di sua mamma, lei non voleva che altri sapessero, tranne io e lei e gli specialisti ai quali ci eravamo rivolti in più occasioni già dai primi anni dopo che ci siamo conosciuti. Questo non ci ha impedito di vivere tantissimi momenti gratificanti nella nostra vita insieme, che ripeterei escludendo solo quel giorno di maggio del 2007. È incredibile che io possa aver colpito anche lui ed essermi accorto, al nostro primo incontro dopo la tragedia, di altre ferite in altri punti che non ricordavo. Siamo rimasti 41 giorni senza né vederci, né sentirci; chiedevo di lui e ricevevo solo comunicazioni tranquillizzanti da mia sorella e dai nipoti. Cosa poteva pensare lui di suo padre, come stava reagendo, in che modo avrebbe ripreso i contatti con l’esterno, con i suoi compagni, gli amici, quali sofferenze avrebbe vissuto per la perdita di sua mamma, il suo futuro, la scuola ed un padre in carcere, e lui costretto naturalmente a vivere con altri parenti? Si sarebbe chiuso in casa per paura del giudizio della gente per quello che ho fatto io? Certo lui stesso è stato vittima del mio agire per cui non può in alcun modo essere isolato e trattato  come succede tante volte ai famigliari di persone detenute, ma davvero dovrebbe solo ricevere sostegno, essere rincuorato, incoraggiato, affiancato, sostenuto.

 

Ho calpestato tutto ciò in cui credevo

 

La voglia di vederlo, abbracciarlo, parlargli era incontenibile. Ulteriori risposte sulla sua condizione e su un possibile primo incontro me le riportava il perito, incaricato dal Pubblico Ministero di verificare il mio stato mentale e poi stabilire se c’era un parziale vizio di mente. Stavo male, certo, quando ho fatto quello che ho fatto, ma questo comunque non riuscirà mai a lenire il dolore e la croce che porterò dentro di me, per sempre. Ho calpestato ogni valore umano, tutto ciò in cui ho creduto, i miei obiettivi principali: la famiglia e il lavoro.

La prima lettera di Andrea l’ho ricevuta alle ore 16 del 10 luglio 2007, l’aveva scritta il 4 luglio: “Spesso ti penso. Adesso sono dagli zii. Sono stato promosso, ora ai fine settimana vado sempre in barca con gli zii; di solito andiamo a pescare in mare oppure in laguna a prendere vongole e cozze e ci divertiamo tantissimo. In agosto dal 14 al 24 andiamo via con la barca in Croazia, insieme ad altre persone. Al mare ho conosciuto persone simpatiche ed ho dei nuovi amici. Lunedì sera sono andato ad una festa a casa di Samuel ed ho dormito là, mi sono anche divertito tanto! Tanti saluti, ho tanta voglia di vederti, stammi bene.

Ciao da tuo figlio Andrea!” 

Il giorno successivo, un’immensa gioia ed emozione: ci hanno fatti incontrare, abbracciare, piangere assieme. Poi ci hanno lasciati parlare un po’ ma in presenza della psicologa che lo seguiva, degli zii, i tutori con i quali vive, e dello psichiatra dell’ospedale; non più di mezz’ora ma è stato magnifico. Il giorno dopo sono stato portato nella Casa circondariale di Rovigo e per circa un anno sono stato in cella singola e sottoposto a sorveglianza 24 ore su 24 perché pensavano che ripetessi atti di autolesionismo. Ho riempito fogli di pensieri, notizie, riflessioni, giudizi, paure, tanti ricordi positivi, previsioni per il futuro mio ma soprattutto per mio figlio. Quante volte avrei desiderato essere una presenza invisibile al suo fianco per vedere ogni attimo di Andrea, offrirgli un appoggio negli attimi di sconforto, un aiuto, un po’ di compagnia. Quanto ho rimpianto e rimpiango i bei momenti di ogni giorno del passato. Al mattino lui doveva svegliarsi per primo per essere pronto a prendere la corriera alle 7,10 per recarsi a scuola a 15 km di distanza da casa; la sveglia suonava ma lui non si alzava perché aspettava che io entrassi nella sua camera a tirarlo giù dal letto prendendolo per le gambe o le braccia. Prima che lui uscisse, scendeva anche la mamma Alessandra mentre io pulivo il garage dove dormivano i gatti e gli davo da mangiare e bere, poi uscivamo tutti. Prima delle 14, Andrea mi inviava un messaggio: “Papà mi vieni a prendere alla fermata della corriera?”, c’erano due o trecento metri da fare a piedi fino a casa ma io pronto a correre con l’auto con la scusa che così non portava sulla schiena lo zaino sempre strapieno di libri. Negli ultimi tempi però, dopo che aveva preso il patentino, si muoveva autonomamente con il suo scooter, all’acquisto del quale pure lui ha partecipato usando una buona parte delle sue mance risparmiate. Ora è cresciuto, e da cinque mesi ha la sua auto che prima era la mia.

Due anni dopo che è successo il disastro, hanno tolto il sequestro dell’abitazione e mio figlio è rientrato in possesso dei suoi spazi grazie all’apertura di una porta di comunicazione con la casa degli zii che è lì a fianco. Per fortuna ha avuto anche la possibilità, soprattutto di sabato e domenica o quando gli zii con cui vive andavano in ferie, di rimanere con i suoi nonni (i miei genitori) che non hanno mai saputo del fatto che io sono in carcere. Mio padre era cieco da alcuni anni ed obbligato all’uso di ossigeno 24 ore su 24. Circa due anni fa è mancato. Mia madre ora ha 90anni, è ancora lucida di mente ma è costretta, per i suoi spostamenti, all’uso della carrozzina. La presenza di Andrea a casa sua è una gioia enorme perché senz’altro lenisce il dolore per la mia assenza. Ogni 15 giorni ci sentiamo e mi chiede, credendomi in ospedale per un incidente automobilistico che ha ferito me e causato il decesso di mia moglie: quando ti mandano a casa?

Andrea da alcuni mesi ha anche la ragazza, a me l’ha detto per telefono e mi ha chiesto se conosco i suoi genitori. Due settimane dopo l’ha portata a pranzo dalla nonna per presentargliela. Cosa mi sto perdendo!! Oltre a quanto mi racconta lui, ho per lo meno altri canali informativi e di confronto: vicini di casa, amici, colleghi che lo incontrano o lo vedono nei suoi spostamenti. Tutto questo mi dà un po’ di tranquillità e mi riconferma la maturità che mio figlio dimostra nei suoi comportamenti. Io posso solo scrivergli esprimendo le mie sensazioni, suggerimenti, notizie, e facendogli tante domande.

 

Mio figlio ha difficoltà ad affrontare l’ingresso in carcere per i colloqui

 

Le visite di mio figlio in carcere sono state più frequenti nei primi due anni. Alcune volte veniva con gli zii materni, altre con mia sorella, o con il parroco del paese, che me lo portava e poi usciva lasciandoci soli a parlare; e io me lo tenevo vicino, stretto stretto. L’ultima volta che ci siamo visti è stato il 2 settembre 2009, ora preferisco che si dedichi alla scuola, spero trovi il tempo di farmi visita qui a Padova ma dopo gli esami di maturità. Ci sentiamo telefonicamente ogni 15 giorni ma il tempo di 10 minuti è poco; alcuni discorsi rimangono a metà, il “bip, bip” di fine telefonata è inesorabile e allo stesso tempo inquietante. Un mese fa mi stava informando su un ulteriore intervento di chirurgia plastica che deve subire all’ospedale di Ferrara, in anestesia completa, per rimarginare bene una ferita che gli ho procurato al collo, ma ho dovuto interrompere il dialogo e salutarlo in fretta perché il tempo era scaduto. Dovrà affrontare altri interventi per arrivare alla cicatrizzazione completa. Quante volte mi chiedo cosa potevo fare e come potevo prevedere quello che stava per succedere ed evitare di raggiungere quel culmine di follia che mi ha portato ad annientare la mia famiglia e poi a provare l’esperienza del carcere, dove difficilmente potrò trovare una risposta al mio continuo pensiero: “Perché?”. Questo incessante “perché?” penso se lo ponga anche mio figlio che non ha ancora avuto modo di confrontarsi con me su quello che è successo, forse lo ha fatto con lo psicologo che ha assiduamente frequentato fino a pochi mesi fa. Quando mi ha informato sul suo ultimo intervento chirurgico, gli ho detto: “Tutto per colpa mia!”. Ma lui mi ha risposto semplicemente: “Papà, cerco di non pensarci!”. L’ho pregato di non tenere dei pensieri chiusi dentro di lui, che trovi la forza di sfogarsi, di parlare e se deve rinfacciarmi qualsiasi cosa lo faccia in ogni momento, quando vuole. In un incontro a Rovigo gli ho accennato dei problemi di sua mamma, gli ho raccontato delle mie tensioni, negli ultimi mesi in ufficio, di come facevo uso di tranquillanti per affrontare l’ansia che mi dava andare in banca a fare il mio lavoro, che prima avevo sempre amato ma che ultimamente era fonte di delusioni. Non ha espresso giudizi. Ha saputo ascoltare. Ma perché non ci sono dati spazi più ampi per le telefonate e gli incontri? Forse lui è anche impressionato dal luogo in cui mi trovo ed ha difficoltà ad affrontare l’ingresso in carcere per i colloqui. Io mi domando come potremo affrontare il mondo esterno tra molti anni, se ora ci vengono continuamente limitati i contatti con chi fuori ci attende. Il carcere è isolamento, stoccaggio in una specie di deposito di persone considerate inutili, che non serviranno più a nulla. Per fortuna grazie ad iniziative di volontariato ci sono situazioni in cui ci si può muovere in maniera diversa, costruttiva, per evitare 20 ore di sosta in cella, ma non tutti possono o potranno essere inseriti in attività che ti diano modo di esprimerti, confrontarti, “metterti in gioco”. A me però sta succedendo, da qualche mese infatti ho modo di dare un senso a questa vita partecipando anche agli incontri che facciamo con studenti, che alla solo vista mi ricordano mio figlio Andrea. Certo sento un nodo alla gola ed una stretta al cuore a pensare a lui, e un tremendo dolore al ripetersi delle immagini che mi riportano a quel giorno della tragedia, ma spero che il tempo passi veloce e io possa in qualche modo ridare a mio figlio tanto di quello che gli ho tolto, e rendermi utile a tutti quelli che ne avranno bisogno. Intanto però continuo a chiedermi: dov’è Andrea ora, cosa starà facendo?

 

 

Non si muore il lunedì

Il lunedì non è un giorno di colloqui, per dare a un detenuto una cattiva notizia bisogna aspettare il martedì, oppure lasciarlo fare a estranei

 

La compagna di un detenuto

 

Mattina presto, mi alzo come un automa e mi preparo in fretta.

Poche ore dormite su un cuscino di angoscia

Metto in moto e ripenso a ieri sera, a quella telefonata poco prima della chiusura.

Tuo fratello. Ti devo dare una brutta notizia, molto brutta: è morta mia madre. Un infarto.

Un colpo al cervello e nell’anima, ripenso all’ultimo colloquio, a quanto stavi male... e all’ultima volta che parlando di lei mi confessavi che ti mancava moltissimo, ma vederla lì ti avrebbe fatto sentire più in colpa, più fallito, più orrendo.

Già da subito ho sentito di dover essere io a darti questo dolore e lenirti la sofferenza di quel poco di anima che avresti sentito lacerarsi come carta velina.

Venti minuti ancora e sarò lì, una prova difficile, forse la più difficile doverti procurare il più grande dolore di tutti proprio io, che darei il mondo in cambio di un tuo sorriso.

Ma sento che è così, ti stringerò più forte che posso e piangerò con te il tuo, il nostro dolore. L’amore mi suggerirà le parole giuste.

Non sono di ferro e chiedo dell’educatrice, con lei a fianco sarà un poco meno impossibile, ti conosce, mi conosce.

Non ho bisogno di chiedere, è lei per prima che, dopo aver detto che ci dovrebbero pensare loro, mi guarda negli occhi e sorride: “Certo però che anche io l’ho visto molto agitato in questi giorni, te la senti di dargli tu la notizia? Io vengo con te e ti supporto, ma lo so che con te ha un rapporto speciale, mi sembri la persona più indicata”.

Tuo fratello osserva un poco attonito, ma io sorrido di gratitudine anche se sto per affrontare la più grande fatica. Dai allora, chiediamo al commissario ci sarà un pochino da aspettare, ma è la cosa migliore, ti conosciamo tutti, sicuramente sarà d’accordo

L’assenso della seconda educatrice e di una guardia mi fanno in qualche modo sentire più forte e pronta ad affrontare la disperazione che leggerò nei tuoi occhi.

Vado giù io, si offre la guardia, così chiamo da giù e intanto lo facciamo portare in infermeria, nello stato in cui è, è meglio essere prudenti.

Attesa e silenzio.

Pochi minuti e squilla il telefono.

Il commissario. I parenti possono andare via, la notizia la daremo noi al detenuto. Oggi è martedì e non è giorno di colloqui.

Non volevo un colloquio, volevo solo darti la peggiore delle notizie con il piccolo conforto di sentirla da una persona che ti ama e non dalla fredda voce di una guardia, ma nessuna implorazione vale a nulla, è martedì.

Non mi resta che attendere fuori, aspettando notizie - chissà se vere - masticata dall’orrore e ingoiata dallo sbigottimento.

E attendere domani con il pensiero di te in due metri quadrati, da solo a lottare con il dolore e il senso di colpa che ti dirà: l’ho uccisa io.

Non morite il lunedì... il vostro caro non avrà nemmeno un abbraccio.