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Gli adolescenti e la costruzione del nemico Stiamo addestrando i nostri ragazzi a essere uomini e donne in difesa E i ragazzi che si difendono sono anche ragazzi che offendono tranquillamente e pesantemente
di Don Gino Rigoldi Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano
Faccio il cappellano del Beccaria da sempre, faccio parte del “mobilio” del Beccaria da 37 anni. Negli ultimi due anni ho visto di nuovo una prevalenza di ragazzi italiani. Sembrava che fossero gli stranieri, essendo più poveri, arrivati di recente, sradicati, a entrare in carcere più velocemente, mentre in realtà le periferie milanesi e lombarde hanno ricominciato purtroppo a “produrre” una quantità di ragazzi e ragazze che delinquono. Va da sé che il mio lavoro non è quello del giudizio, perché il giudizio, quello legale, lo lascio ai giudici, quello morale lo lascio a Dio, a me tocca invece intercettare questi ragazzi, parlare e ragionare con loro su quello che hanno fatto, per capire e individuare la parte buona, la parte positiva, la parte di energia che può essere poi impegnata per un cambiamento. Prima di fare progetti, noi vogliamo che i ragazzi che hanno commesso un delitto prendano coscienza del reato che hanno commesso, perché io ho ben in mente che, se pure sono presentati come mostri che vanno sui giornali, quando poi io li incontro sono semplicemente ragazzi e ragazze, qualche volta pieni di paura e pieni di confusione. E però a subire il reato e a soffrire sono le vittime, che devono essere riconosciute, ed è giusto che chi ha commesso un reato se ne assuma fino in fondo la responsabilità. Devo dire che non ho mai fatto così tanta fatica, come in questi ultimi anni, a far riconoscere ai ragazzi e ragazze, soprattutto a quelli italiani, che le persone, uomini, donne, stranieri, che comunque hanno in qualche maniera offeso, sono titolari di diritti, hanno una dignità che non può in nessuna maniera essere offesa. Bisogna proprio ragionarci molto, lavorarci molto, anche con un po’ di cattiveria qualche volta, perché i ragazzi che hanno commesso questi reati devono un po’ piangere, devono rendersi conto che il reato che hanno fatto è un reato grave. Vengono in carcere per i motivi più diversi, però il punto debole, che non può non essere il punto di partenza su cui noi facciamo conto, è la difficoltà a riconoscere i diritti e la dignità delle persone offese. Allora io mi guardo un po’ in giro e mi domando: questo clima, questa modalità di trattare l’altro come estraneo, quindi poco interessante e forse neanche importante e tanto meno titolare di qualche diritto, da dove viene? Da tante parti certamente, perché in questi ultimi anni c’è una enfasi, c’è un cancro sociale particolarmente efficace nei confronti degli adolescenti che si chiama sicurezza, ma è un veleno, portato soprattutto dagli adulti e dagli anziani, purtroppo, e da qualcuno che ha bisogno di prender voti. E se fa leva sull’insicurezza, la fragilità del nostro esistere e la fatica, e il pericolo, allora magari ci guadagna qualcosa. Io mi rendo conto che questo è un vero e proprio bombardamento, che parte da un preciso punto di vista: “Attenzione, siamo pieni di nemici intorno a noi, c’è qualcuno che può portarci via quello che abbiamo, quello che siamo…”. Fuori dallo stretto circuito, famigliare o amicale, c’è il male, ci sono tutte le corruzioni immaginabili. È diffusissimo questo modo di pensare agli altri come soggetti che potrebbero essere nemici, i nemici ci sono poi da sempre, ogni tempo, ogni periodo ha i suoi nemici. Quando ho cominciato a lavorare al Beccaria i nemici dei milanesi erano i terroni, dopo i terroni sono arrivati i drogati, dopo i drogati gli albanesi, dopo gli albanesi i marocchini, adesso tocca ai romeni.
Adolescenti spesso indifferenti nei confronti dei diritti degli altri
In generale le notizie che hanno spazio sono queste, sulla sicurezza, implementate dalle prime serate della RAI e di Mediaset e caricate dai giornali, perché per un omicidio o per uno stupro si riporta la notizia sui giornali con enorme rilievo, e poi questa idea entra nel senso comune. Eravamo un popolo di santi poeti e navigatori, stiamo scoprendo che siamo un popolo di stupratori, di rapinatori e di assassini. Quest’aria che tira è interpretata dagli adolescenti come una grande liberazione dall’obbligo del riconoscimento dei diritti, addirittura porta all’indifferenza nei confronti dei diritti degli altri. E dire che si cresce in base alla qualità delle relazioni che riusciamo a stabilire. E dire che il pilastro dell’educazione è come stai con gli altri, la qualità degli affetti che costruisci, con la tua famiglia, i tuoi amici, con il tuo partner, la tua partner, il gruppo nel quale vivi, i colleghi di lavoro. È questo il luogo della crescita e del benessere, della creatività e della produttività. Stiamo addestrando i nostri ragazzi non tanto ad essere uomini e donne di relazione, quanto uomini e donne in difesa, ma chi è in difesa è anche in attacco, se poi qualche categoria di persone è indicata come secondaria, come nemica, a maggior ragione questo desiderio di attacco si afferma. Io devo dire anche che il mondo adulto effettivamente è un mondo molto inconsapevole, stasera andrò a fare un discorso sugli stereotipi in un paese vicino a Milano, ma in ogni incontro mi capita di dire, sia che i miei interlocutori siano insegnanti, sia che siano genitori, che siano preti: “Ricordate che la relazione è fondamentale per la crescita dei giovani”. Noi stiamo addestrando i nostri ragazzi alla difesa, e i ragazzi che si difendono, sono ragazzi anche che offendono tranquillamente e pesantemente. Allora bisognerà che noi adulti cominciamo a spiegare ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze, nei posti dove i giovani ci sono, che le cose che possono fare sono le più diverse, dalla musica, alla pittura, alla religione, alla politica, all’ecologia, ma la più importante è stare con gli altri in maniera anche critica, anche conflittuale, ma positiva e costruttiva, tesa a creare legami, a creare amore, creare amicizia, creare sinergie, perché se no non si va lontano, non si va da nessuna parte. Questo clima che noi stiamo respirando, distrugge non soltanto la crescita delle persone, ma anche la crescita della società: se dobbiamo difenderci, com’è che staremo insieme? Badate che questo veleno sociale arriva nella mente dei ragazzi. Per fortuna i figli, i giovani hanno delle risorse, direi quasi innate, per cui delle volte sono influenzati da questo clima balordo che respirano, ma poi sono capaci anche di rimettersi in movimento. Sabato e domenica prossima faccio l’ultimo weekend di formazione di 180, 190 ragazzi che vanno poi in Romania a fare le vacanze, bella gioventù allegra, convinta e capace di fare cose belle e importanti, di legare i gruppi che poi fanno delle azioni che hanno senso. Perché se gli parli diritto negli occhi, se gli dici delle cose serie, se le proposte sono sensate, magari ci metti un po’ di tempo, magari devi essere capace di convincerli, ma i giovani si mettono anche in movimento. Io credo che oggi noi siamo chiamati a sanare la immoralità sostanziale, che non è quella che gira intorno al sesso e a quelle cose lì, è immorale piuttosto la smentita delle parole del Padre nostro: quando dici “Padre nostro”, stai dicendo che tutti gli altri intorno a te sono fratelli e sorelle. Guardatevi da chi fa affermazioni che vedono nemici ovunque. Essi non dovrebbero più recitare il Padre Nostro, perché non si può dire una cosa e poi fare il suo contrario.
Il fascino della trasgressione in relazione ai reati minorili Le risposte a molti interrogativi sul perché si arriva all’azione antisociale si trovano nella differenza nella qualità e quantità del desiderio, che crea una spaccatura tra chi è semplicemente affascinato dalla trasgressione e chi arriva a commettere un reato
di Mauro Grimoldi psicologo, consulente per il Tribunale Penale per i Minorenni di Brescia, autore di “Adolescenze estreme”
Un po’ di emozione lo confesso ce l’ho, sento che quanto oggi è stato detto ha veramente una importanza e un peso, anche sul piano emotivo mi sento toccato molto profondamente. Il tema che ci interessa oggi è quello della prevenzione, che in realtà è un fatto complicato, perché quando noi ci troviamo a pensare a come prevenire un comportamento che sorprende, perché ci sono dei soggetti che delinquono in maniera grave senza dare nessun segnale apparente di grave disagio, ovviamente il punto è come fare questa prevenzione. Ed è un punto assolutamente chiave e radicale. Il secondo problema preliminare è questo: se noi ci troviamo di fronte a soggetti che hanno già commesso un reato, comunque un’operazione di prevenzione la dobbiamo e la vogliamo fare, dal momento che come Stato, come società civile applichiamo sanzioni e adoperiamo congegni educativi e rieducativi nell’auspicio univoco che questi soggetti non commettano altri reati in futuro, non reiterino il fatto, non recidivino. È quindi una forma diversa, una forma terziaria di prevenzione, che va comunque messa in campo per una funzione di sicurezza sociale. Ora, propongo di togliere subito di torno una questione di fondo: l’individuo tende a sopravvalutare la capacità del singolo di determinare le proprie decisioni. Faccio un esempio. Mario, un ragazzo di 16 anni, un giorno decide, convinto da un gruppo di coetanei, di andare a commettere una rapina ai danni di un tabaccaio, in tarda ora. Per lui è la prima volta, per gli altri no, loro sono già esperti, gli mettono in mano un coltello e gli dicono: “Bene Mario, non devi fare niente, devi soltanto stare sulla porta ed evitare che il tabaccaio scappi, ma non ti preoccupare non scappano mai, danno i soldi e dopo tutto finisce lì”. Mario prende in mano il suo coltello, ma le cose non vanno come avevano pensato, perché questo tabaccaio questa volta reagisce e tenta veramente la fuga. Quello è un istante, un momento preciso in cui sta per avvenire qualche cosa. Mario deve prendere una decisione, i suoi amici lo stanno guardando, su di lui c’è il peso del giudizio sociale. Sente di dover essere all’altezza della situazione in cui si è messo, e ha in mano un coltello. Si tratta di una situazione pericolosa e imprevedibile: non è lì che si può concentrare l’esito di un intervento di prevenzione. Troppe sono le variabili che intervengono. Nessuno può arrogarsi la competenza di saper prevedere come possa andare a finire questo evento. Non è lì il punto, il punto di svolta, così lo chiamo, viene prima, e va sempre individuato. Quindi abbiamo eliminato con il dovuto rispetto la questione del caso, delle variabili intervenienti e di tutto ciò che in definitiva non si può controllare: il reato grave è in effetti come un incidente aereo, sono diverse le circostanze che vanno a contribuire al suo avvenire, anche fatti di ordine esterno e non solo decisioni profonde interiori. In questo caso Mario lascerà cadere il coltello, Mario fermerà il tabaccaio con le mani, il tabaccaio verrà rapinato ma avrà salva la vita. Il punto di svolta di un certo tipo di evento, ovvero quel luogo in cui può esserci prevenzione, ha a che fare sul come si arriva ad avere in mano un coltello, sul perché si arriva a quel punto, su quali sono i movimenti anche interni che permettono a qualcuno di arrivare in quel posto effettivo. Vedremo poi l’importanza del concetto di responsabilità come ammissione di presenza, di essere stati lì, di avere partecipato ad una decisione importante. Tuttavia vi sono altri problemi che si interpongono. Un altro tema proposto da questo convegno è la funzione della comunicazione mediatica. Leggo alcune righe di un articolo che riguarda alcuni ragazzi autori di reato: “Il colonnello dei carabinieri si passa una mano fra i capelli. “Non ho mai visto nulla del genere in 30 anni di servizio”, dice. Quello che l’ufficiale non ha mai visto è lo stupro che ha portato in galera quattro minorenni, uno stupro brutale ai danni di una ragazzina di solo 14 anni, uno stupro commesso con il manico di un badile. Sul web si sono dati appuntamento per un aperitivo, si sono trasferiti ad una festa in un rustico e lì il branco si è scatenato”. Si osservi come sono importanti le parole, in questo caso danno immediatamente origine ad una reazione emotiva, assolutamente naturale e comprensibile, per cui il nostro desiderio più spontaneo è quello di creare una risposta uguale e contraria ad un atto disumano. Il termine “retribuzione” risponde a questo concetto, la retribuzione è lo stipendio che si vorrebbe proporzionale alla quantità e alla qualità di un lavoro fatto, ma la retribuzione è anche il valore che si dà a una pena che dovrebbe essere proporzionata ad un reato commesso. Per questa stessa metafora un soggetto può dire ad esempio “ho pagato il mio debito con la giustizia”, ispirandosi ad un criterio molto rozzo di giustizia retributiva. Qualcuno, partendo da questa forma di informazione, pensa e agisce di conseguenza. Per esempio da tempo vicino all’ascensore del tribunale per i minorenni di cui sono consulente vi sono una scritta e un disegno, il disegno è quello di una forca, la scritta dice: “chi uccide deve morire”. Si tratta di un’affermazione molto precisa e molto grave, perché chi scrive con lo spray sui muri del tribunale non è l’adulto vendicativo, chi scrive questa cosa è con ogni probabilità un adolescente. La scrittura sui muri, writing, tagging, sono del resto fenomeni tipicamente giovanili e alternativi. Qualcuno che per età e impostazione generale è abbastanza vicino al suo coetaneo autore di reato più grave (colui il quale ha ucciso un altro essere umano, per esempio) ed è anche per questo spaventato dal significato di qualche cosa che ha visto in un telegiornale. È spaventato dall’esistenza di un altro soggetto della stessa età che gli dovrebbe essere simile e che invece gli appare come diverso, gli appare come mostruoso. Una funzione dei media è aiutare questa forma di ragionamenti, categorizzare in tutto buono/tutto cattivo, semplificando la realtà fino a modificarla, per renderla più semplice e rassicurante all’opinione pubblica.
Il “mostro” semplifica la vita a tutti
La retorica del mostro è molto facile. Il mostro semplifica la vita. Quando si trova qualcuno che ha commesso un reato, non c’è niente di meglio che trovare una spiegazione semplice. Una sempre ottima è: era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, era pazzo, era strano o straniero. Non è mai stato uno di noi. Il consumo di alcol o il consumo di stupefacenti in sé non possono essere una giustificazione sufficiente, possono essere una concausa, possono essere un elemento, per esempio il consumo di alcol tipicamente disinibisce. Il punto cruciale, il centro della prevenzione è tuttavia: da dove provengono gli istinti la cui disinibizione produce il disastro sociale? Se non rispondiamo a questa domanda, non ci può essere prevenzione, ma non solo, non ci può essere neanche trattamento, non ci può essere cura e quindi non ci può essere a lungo termine neppure alcuna sicurezza sociale. Una certa descrizione degli eventi da parte dei media stimola il senso di distanza e il desiderio di punizione; la sicurezza sociale è però su un piano differente. Un certo numero di anni di carcere può rassicurare sul piano sociale? Quando incontrerò quel soggetto per la strada sarò un po’ più tranquillo di quando l’ho inserito all’interno dell’istituto penitenziario? Un soggetto che commette un crimine, dopo alcuni anni di carcere non è di per sé un soggetto riabilitato in quanto è stato punito. E’ evidente che la questione dipende da quello che è accaduto all’interno di quell’istituto in quegli anni. Se quello che è accaduto è niente, sicuramente quello è ancora un soggetto pericoloso. Nulla si è fatto in termini di sicurezza sociale. Quello che vuole essere il contenuto di questo messaggio è: andiamo sempre alla ricerca della complessità. Quando andiamo a cercare le ragioni per cui avviene un reato, soprattutto se è un reato grave, abbiamo bisogno di sapere che ci inseriamo automaticamente e immediatamente in un’ottica di complessità. Per entrare nell’ottica della complessità, e capire i perché, dobbiamo essere molto prossimi al soggetto che commette il reato. Nel caso dei minori l’indagine psicosociale è obbligatoria per legge, anche se potrebbe essere più chiara la finalità dell’indagine e i margini di applicazione di alcune misure come la “messa alla prova”. Se decido che, data la modalità con cui il reato è commesso io non conosco chi lo ha commesso non lo voglio guardare in faccia, mi giro dall’altra parte, eseguo un’operazione difensiva, semplice e giustificata, ma non mai un’operazione di sicurezza sociale. Seguo la retorica della diversità, del mostro. Il che è giustificato se sono un adolescente che scrive sui muri, non lo è altrettanto se per mestiere ho un dovere etico, quello di capire la tragedia che sta all’origine del reato. Un politico, una persona che lavora per i servizi dell’Amministrazione penitenziaria non può accontentarsi di risposte semplici, non può non sapere. In questi casi non può esserci giustificazione nell’ignoranza dei perché. Allora si deve partire ancora una volta dalla responsabilità, però attenzione perché anche qui c’è un paradosso che va sfatato subito. La responsabilità non è, come qualcuno dice, qualche cosa che è collegata alle conseguenze di quello che fai, per cui responsabilità è assumersi la responsabilità di quello che è successo indipendentemente dalle tue intenzioni. Il tipico caso in cui durante una rissa una persona cade e muore implica la responsabilità di un omicidio. Tuttavia vi è un elemento non solo psicologico ma anche giuridico, ovvero la preterintenzionalità dell’evento, che va cioè oltre le intenzioni, il che può essere molto importante. Con gli adolescenti che non si rendono pienamente conto, che raramente sono consapevoli, che raramente programmano, che non sono capaci di sapere cosa sta per succedere e che il più delle volte si sentono vittime loro stessi di un evento pure da loro stessi commesso, ecco, con gli adolescenti abbiamo a che fare con questa dimensione della responsabilità. L’adolescente dice, chiede all’adulto: ma io c’ero? Ah, ma quello sono io? O ti fa la famosa domanda che mi aveva rivolto a suo tempo un ragazzo: ma voi che lavorate in questi posti qui, il tribunale, il carcere, conoscete gente cattiva? Questo ragazzo aveva commesso un abuso sessuale, per cui lui sarebbe stato a pieno titolo in quella che doveva essere la categoria dei cattivi. Allora ci si dovrebbe porre la domanda: ma esistono davvero i buoni e i cattivi? Esiste davvero una storia come quella che veniva raccontata prima da quei giornalisti o esiste una storia diversa? Almeno una differente storia esiste. Conosco direttamente la storia che hanno raccontato i minori autori del reato di abuso descritto dall’articolo letto in apertura. Non entro nel merito, non potendo farlo. Solo, direi per fortuna la questione psicologica – della responsabilità, o morale – della malvagità umana non è una questione di verità, un campo troppo complesso non solo per la psicologia ma anche per la conoscenza umana. Anche la verità giuridica in fondo si (ri-)costruisce a tavolino, è una verità ermeneutica, la verità in cui si possono affermare cose anche diverse; la funzione del giudizio consiste in fondo nel rintracciare cosa potenzialmente sia accaduto, cosa appare in una realtà plausibile. Eppure è migliore della realtà giornalistica, che troppo spesso semplifica, colludendo con la retorica del mostro. Il lavoro psicologico con il minore autore di reato non consiste in un tentativo disperante di raffrontarsi con la verità, ma al limite si deve confrontare con l’esistenza a priori di più verità. Con questo possiamo fare i conti. La questione della responsabilità è centrale e apre la via alla prevenzione. Non è però collegata ad un farsi carico delle conseguenze di un’azione, ma è tutta insita nell’ammissione di un “essere lì” nel luogo – anche psichico – dove avviene il reato: “Io c’ero, non so perché”. Lì, nel “punto di svolta”, il mostro, ero io.
Bisogna interrogarsi sulla dinamica che mette in moto il reato
Ora arrivo alla questione della prevenzione che ci riguarda e chiudo con quella. Luca, altro caso, viene trovato dai carabinieri mentre nottetempo cerca di caricare il computer del preside della sua scuola, un computer con il monitor vecchio tipo, quindi grosso, su un piccolo scooter. Caricare il case, lo strumento principale e il monitor su uno scooter non è operazione facile, non è viceversa difficile per i carabinieri passare di lì e notare questo soggetto che nottetempo sta facendo questa operazione. Il ragazzo viene immediatamente fermato e arrestato, si scopre che per molto tempo, quasi tutte le notti, aveva trovato il sistema per entrare all’interno della scuola, e andava lì inizialmente con degli amici che poi lo hanno lasciato solo, perché non si divertivano e non capivano perché lui fosse così attirato da questa cosa. Quindi Luca si trova da solo, tutte le notti va a scuola da solo e gioca a basket, in una palestra completamente vuota e completamente buia, oppure va nell’ufficio del preside e trova straordinariamente eccitante giocare al gioco del solitario sul computer del suo preside. Questo episodio bagatellare, questo reato piccolo di cui ho voluto farvi menzione, ci interessa perché interrogarsi sulla dinamica che mette in moto il reato, significa trovare il sistema di chiedere al soggetto il perché di ciò che anima l’azione antisociale. C’è un qualcosa di più di piacere e di divertimento, che gli altri ragazzi non hanno e che lo motiva a sufficienza da rendere conveniente, buono, divertente, magari irresistibile commettere il reato. Il ragazzo va a commettere il reato con uno zaino pieno di desideri, questi desideri sono eccessivi, sono troppi, sono qualcosa di più. Gli altri ragazzi non lo hanno fatto, non erano lì con lui, non hanno erotizzato quel computer, non hanno visto niente nel computer del preside che non fosse un banale gioco di solitario. All’inizio una piccola trasgressione può piacere a tutti, ma non tutti commettono reati, ci dobbiamo interrogare, è obbligatorio interrogarci su questo iato, su questa differenza, su questa spaccatura tra chi il reato lo commette e chi non arriva a commetterlo. Questa è la risposta che siamo obbligati a dare, questa è la prevenzione secondaria, questa è la prevenzione che facciamo quando ci troviamo di fronte ad un autore di reato. Il problema è che questa prevenzione è estremamente costosa, occorrono delle competenze, occorre fare una diagnosi della personalità di quel ragazzo, occorre conoscerlo bene per sapere nel caso specifico che Luca, ad esempio, dopo la morte della madre per diversi anni si era trovato a vivere la vita di un piccolo adulto, continuando a fare da padre ad un fratellino di pochi anni. Il padre, di professione camionista era spesso assente per lavoro. Luca era un “adultino”, un adolescente precocemente adultizzato, non poteva permettersi neanche un minimo di trasgressione diurna, alla luce del sole. La notte si condensava un desiderio reso forte dalla sua stessa frustrazione, inespresso e inesprimibile. La notte questo desiderio avrebbe trovato sfogo in qualunque occasione di azioni poco sensate, al di fuori del ragionevole, del maturo, dell’adulto. Ecco quella che può essere una dinamica, qui per esigenze di trattazione estremamente semplificata, di quel “quid pluris”, quel qualcosa di più che differenzia l’adolescente trasgressivo dall’autore di reato, quello che c’è nello zainetto dei desideri. La cosa straordinaria, che allo stesso tempo può essere estremamente frustrante, è che siamo oggi realmente in grado, come psicologi inseriti in equipe multidisciplinari, di fare qualcosa di significativo per quella porzione di sicurezza sociale riguardante i minori che commettono reati. La costruzione “su misura” di un progetto educativo che prende le mosse da una diagnosi di personalità, da elementi di tipo psicologico, a 22 anni dall’entrata in vigore della legge 448, ha dimostrato una straordinaria funzionalità. Grazie a questi strumenti si può dire di essere potenzialmente in grado di restituire alla società civile un individuo che non ha più la necessità imperativa di innescare un conflitto inconsapevole con l’Altro. Saremmo anche in grado di progettare strumenti più o meno “severi”, poiché comprendere è obbligatorio, ma giustificare invece è sempre deleterio, ma nel rispetto delle equazioni individuali e di una graduazione di tendenza alla recidiva. A fronte di questa straordinarietà, non mancando gli strumenti ma semmai la loro diffusione sul territorio, è fondamentale essere messi nelle condizioni di operare. Il lavoro di indagine psicosociale del minore autore di reato, con lo scopo imperativo di conoscere i perchè prima di intervenire con progetti educativi che, se standardizzati, sono votati al fallimento, è un compito delicato e impegnativo, che non sempre si ha la possibilità di gestire al meglio per mancanza di formazione e di risorse, umane e finanziarie. Il problema che si chiama sicurezza rimane lì, strettamente collegato alla prevenzione, non solo primaria. E non si risolve semplicemente andando ad inasprire le pene.
Che cosa “si dicono” le persone mentre commettono un reato
di Adolfo Ceretti
Condivido pienamente l’impostazione teorica che Mauro Grimoldi ha dato al suo intervento. Mi soffermo in particolare sulla “decisione di delinquere”. Mi ha colpito tantissimo l’attenzione che la sua relazione ha prestato alle voci che parlavano dentro al ragazzo che maneggiava il coltello. In questi ultimi tempi, scrivendo il libro Cosmologie violente con Lorenzo Natali, ho avuto modo di chiedermi come si parlano le persone, che cosa si dicono mentre commettono un reato, qual è la loro “comunità fantasma” – è così che la definiamo insieme al criminologo statunitense Lonnie Athens. Ognuno di noi è sempre in ascolto di alcune voci che ci parlano… non stiamo trattando degli schizofrenici… stiamo parlando di chiunque di noi. Mentre facciamo qualcosa, qualunque cosa, dialoghiamo con noi stessi, e mentre dialoghiamo con noi stessi dialoghiamo con degli “altri significativi” – coloro che nel nostro “parlamento interiore” occupano una posizione significativa. Sono gli “altri significativi” che insieme a noi ci suggeriscono quello che dobbiamo fare, anche se alla fine è il nostro filtro simbolico a costituire la cabina di regia che prende la decisione di ciò che faremo, compresi i gesti violenti. Più semplicemente, ci sarà sempre una voce che avrà il sopravvento su altre che ascolteremo in tono più sfumato, ma siamo noi che a un certo punto decideremo, riflessivamente, come agire. Sto brevemente descrivendo quanto avviene al di sopra dell’inconscio – che qui, come tutti voi capirete, non possiamo problematizzare. In chiave preventiva credo che sia molto importante affrontare, con chi ha commesso reati gravi, questo livello del Sé, come ci ha suggerito Mauro con parole diverse dalle mie. A dialogare con Mauro Grimoldi sarà ora Lucia Faggion, volontaria di Ristretti Orizzonti che conduce, su Radio Cooperativa, una trasmissione sul carcere, Ristretti Radio.
Sono davvero semplici da decifrare le ragioni di chi commette un reato grave?
di Lucia Faggion Volontaria di Ristretti Orizzonti
Io faccio parte della redazioni di Ristretti da due anni, e seguo in particolare il progetto delle scuole. Quando Ornella invita i ragazzi a porre una domanda, o meglio a porre le domande che vogliono fare ai detenuti che hanno di fronte, c’è sempre un attimo di silenzio, eppure nei loro occhi, negli occhi di quasi tutti si legge la stessa identica domanda: “Ma voi perché siete finiti qui?”. E solitamente il primo a rispondere è Marino, il quale dice: “Che senso avrebbe se io mi limitassi a dirti il reato? Se vogliamo dare davvero un senso a questa domanda, io ti devo raccontare la mia storia”. Allora il problema io penso sia proprio questo, che l’informazione manca di senso, non ci viene mai raccontato il percorso, ci parlano solo di un reato, ci buttano addosso particolari raccapriccianti, rispetto ai quali noi facciamo fatica a trovare delle risposte. E solo chi è molto vicino, come ha appena spiegato Grimoldi, riesce un po’ alla volta a ricostruire quel percorso che sta alle spalle del reato. Allora io volevo porre un paio di domande a Mauro Grimoldi per cercare di smontare alcuni stereotipi, o alcuni pensieri che poi noi tutti facciamo quando ci limitiamo a leggere semplicemente il resoconto di un fatto. E non vediamo dietro quel fatto la persona e la sua storia. Solitamente si pensa che l’adolescente che commette il reato, ma anche l’adulto che arriva a commettere il reato, sia cresciuto in una famiglia incapace di educarlo, perché assente, perché violenta, perché già inserita magari nel circuito del crimine, ma sono davvero così semplici da decifrare le ragioni di chi commette un reato grave?
La trasgressione non sempre nasce dalla presenza di una famiglia gravemente abbandonica
di Mauro Grimoldi
È una domanda davvero interessantissima, e che in realtà ha come risposta una risposta complessa, ancora una volta purtroppo. Sì e no risponderei, nel senso che noi ancora abbiamo un retaggio di alcuni ragazzi che effettivamente vengono da quella che era la tradizionale culla della criminalità adolescenziale, della trasgressione grave commessa dagli adolescenti, ossia l’abbandono. Ma attenzione, si parla di abbandono grave, si parla di un abbandono evidente, o di un cattivo esempio del tutto preciso, si tratta di quelle famiglie in cui l’esistenza del bambino non ha trovato un posto simbolico. Quindi il bambino non esiste perché i genitori hanno altri problemi, di solito problemi di alcol o di sostanze, insomma questioni gravi che li riguardano direttamente, allora in questo caso quel bambino soffre, può essere che comunque nel suo mondo, intorno alla famiglia, il mondo sociale riesca a sostenerlo ugualmente. Però può anche essere che nell’ambito della sua adolescenza lui in realtà ritrovi la possibilità in qualche maniera di vendicarsi di tutti questi eventi che sono avvenuti nel corso dell’infanzia, avendo un po’ imparato la lezione, che è quella che si vince se si è più forti, si vince se c’è la sopraffazione dell’altro, chi è più violento ha la meglio su chi è più fragile. Se si impara questa lezione, che purtroppo è la lezione di tutti i traumatizzati, i bambini traumatizzati, si va avanti e nel corso della vita si apprende una lezione grave e difficile. Però la vera novità è che noi ormai ci troviamo di fronte ad una buona metà, forse più di metà ormai, di soggetti che sono, lo leggiamo anche sui giornali, i figli delle cosiddette “buone famiglie”, cioè arrivano da situazioni che apparentemente non sono problematiche. Allora qual è il punto? il punto è che si è creato un problema nuovo, un problema a cui non eravamo abituati, a cui non siamo preparati, in altre parole oggi l’ottima famiglia, la famiglia calda, la famiglia che crea un nido all’interno del quale il bambino riposa tranquillo, è anche un luogo dal quale quando si diventa adolescenti diventa difficile separarsi, o meglio quando si esce da lì e si incontra l’altro, l’altro fa paura. Mi viene un altro esempio, scusatemi ma credo che gli esempi possano essere abbastanza utili per comprendere. Ricordo un ragazzo, uno dei primi che ho visto quando ho cominciato a lavorare presso l’ufficio dei Servizi sociali di Brescia, che mi confessò un giorno di venire sempre ai colloqui con me armato, e mi fece anche vedere il coltello, me lo ha messo lì sul tavolo, e io speravo che fosse una promessa di un qualcosa. No invece, lui mi voleva soltanto dire che andava in giro armato perché il mondo è un posto pericoloso. Guardate che le risse nascono non perché qualcuno aggredisce qualcun altro, ma perché qualcuno si sente aggredito, “mi hai guardato male”, “mi hai minacciato”. Questa è la dinamica da cui nasce l’evento dell’aggressione di gruppo, è sempre una risposta difensiva, e ci si difende di più quanto più ci si sente aggrediti, e ci si sente aggrediti quanto più ci si sente fragili. Quindi la trasgressione attuale non sempre e non solo nasce dalla presenza di una famiglia gravemente abbandonica o che fornisce quello che possiamo chiamare genericamente il “cattivo esempio”, il comportamento trasgressivo o violento da parte della famiglia stessa, ma talora proprio dall’opposto. Il che è un po’ inquietante, mi rendo pure conto, perché non ci si salva, non salva noi genitori dagli eventi che possono accadere. Vero anche è che esiste la possibilità di fare prevenzione primaria, esiste se noi siamo in grado di guardare all’adolescente non certo come ad un potenziale omicida o a un potenziale soggetto che sta per commettere dei reati, ma come ad una persona che può vivere l’adolescenza con una certa fatica, una fatica che era sconosciuta a chi lo ha preceduto, a noi. È una fatica nuova, è una fatica loro, è una fatica che è del tutto inedita, però che va considerata. Quindi in questo momento un aiuto è assolutamente indispensabile, e aiuto può essere questo lavoro meraviglioso, di cui ho sentito parlare oggi, che viene fatto nelle scuole, quindi stimoli per la riflessione, aiuto può essere la presenza dello psicologo, del professionista all’interno dell’istituto scolastico che gestisce uno sportello, ma certo tutto questo passa anche per precisi interventi di tipo legislativo e politico.
Quali percorsi possono portare chi ha commesso un reato ad assumersi una piena responsabilità nei confronti della sua vittima?
di Lucia Faggion
Solo un’ultima breve domanda. Spesso, leggendo magari un articolo che descrive un delitto efferato, si è presi dalla rabbia e si dice o si pensa che occorrerebbe mettere l’autore del reato al posto della vittima e fargli subire quello che la vittima ha sofferto, forse solo così potrebbe capire la gravità di quanto ha commesso. Nel tuo ruolo di psicologo, cui vengono affidati anche ragazzi autori di reati molto gravi, che percorsi attivi affinché questa identificazione di chi ha commesso il reato con la vittima, verso cui assumere pieno senso di responsabilità, avvenga, pur su un piano ideale?
Il reato è la malattia che alberga nel ragazzo che l’ha commesso, serve una diagnosi precisa
di Mauro Grimoldi
Quello che posso dire è che gli strumenti esistono e devono essere assolutamente messi in campo, se li dobbiamo mettere in campo con la prevenzione primaria, quindi nelle scuole, a maggior ragione li dobbiamo mettere in campo quando ci troviamo a lavorare con dei soggetti fortemente a rischio come i minori che hanno già commesso un reato. Purtroppo recentemente per esempio il Ministero ha tagliato i fondi sulle consulenze esterne, e quindi di fatto talora alcuni uffici si ritrovano a lavorare senza l’ausilio dello psicologo. Ma se finora abbiamo detto che solo attraverso una precisa diagnosi del reato, in cui il reato diventa la malattia che alberga in quel ragazzo, io posso fare qualche cosa per lui, vedete un po’ che cosa può succedere se io quella diagnosi non la posso fare.
Un progetto “polifonico”
di Ornella Favero
Vorrei che terminassimo queste riflessioni sulla prevenzione in modo “corale” come abbiamo iniziato, perché questo progetto ha coinvolto davvero tutti ed è un progetto “polifonico”, che ha tante voci e tanti punti di vista diversi, che sanno confrontarsi e arricchirsi a vicenda. Quelle che seguono quindi sono le osservazioni di insegnanti e detenuti che hanno collaborato a far crescere il progetto e a farlo diventare un laboratorio di sperimentazione di buone pratiche nell’ambito della prevenzione, a cui in tanti stanno dando un apporto significativo. Vorrei infatti sottolineare che il confronto sui comportamenti a rischio, la trasgressione, il confine sottile tra legalità e illegalità, il rapporto tra autori e vittime di reato non coinvolge solo studenti e insegnanti da una parte, e detenuti dall’altra. No, in molte scuole si sono svolti incontri con i magistrati di Sorveglianza, con gli operatori, educatori e assistenti sociali dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, con docenti di Diritto penale, con mediatori penali. E anche la Polizia penitenziaria è stata coinvolta, alcuni agenti sono venuti nelle scuole, altri hanno collaborato organizzando con grande professionalità e disponibilità gli ingressi di tante classi in carcere. Ma tutto il progetto vede il sostegno e il finanziamento del Comune di Padova - Settore Servizi sociali, anzi il Comune ha fatto proprio il progetto come uno dei cardini della sua politica di prevenzione della devianza nelle giovani generazioni. Vorrei poi ricordare che abbiamo anche parlato di libri con i loro autori, libri importanti che vi invito a leggere e a diffondere nelle scuole, perché sono ottimi strumenti di lavoro, se vogliamo davvero fare quello che non fa più quasi nessuno in questo Paese, una prevenzione vera, e che la prevenzione possa venire da un carcere mi sembra particolarmente significativo.
I libri sono: Lavavetri, di Lorenzo Guadagnucci; Cosmologie violente, di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali; Adolescenze estreme, di Mauro Grimoldi; Lotta Civile, di Antonella Mascali; Strage continua, di Elena Valdini, Gorgo. In fondo alla paura, di Gianfranco Bettin.
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