Per i giovani, pene che aiutino a diventare persone responsabili

“Non potevi pensarci prima?”

Un ragazzo che compie un reato dovrebbe essere aiutato a riflettere su quella che è stata la serie di comportamenti che l’hanno portato a superare la soglia della legalità per sconfinare nell’illegalità

 

di Maurizio Bertani

 

C’è un concetto, quello del “pensarci prima”, prima di fare del male, che dovrebbe rappresentare una sorta di convenzione sociale, che si pone come regolatore della convivenza civile.

Ma proprio la domanda “Non potevi pensarci prima?”, che viene rivolta evidentemente quando un fatto è già accaduto, è la dimostrazione che non sempre si può, o si vuole pensarci prima.

Per me che sono detenuto, e quindi uno che ha commesso dei reati, questa domanda “Non potevi pensarci prima?” è strettamente legata al male fatto alle persone come individui e alla società in quanto collettività. Questo comporta la perdita della libertà e l’allontanamento dalla società per il tempo che un giudice, riconoscendo la colpevolezza del reo, ritiene di dover applicare in base alla legge.

Naturalmente non voglio prendere in esame il concetto del “non potevi pensarci prima?” in relazione a persone che sono ultrarecidive e che forse hanno fatto della loro vita dissennata una scelta, ma voglio esaminarlo in relazione a quanti entrano oggi per la prima volta in carcere.

Prendiamo come esempio un ragazzo di diciotto anni, uno di quei ragazzi come ero io e come erano tantissimi altri quando sono entrati in galera per la prima volta, certamente per un reato, commesso però in conseguenza di una serie di comportamenti inizialmente solo trasgressivi, e poi via via più a rischio, fino a superare il limite della legalità.

Oggi si nota sempre più uno smodato uso di alcolici o di stupefacenti, la guida ad altissime velocità, la mania di portare in tasca il famigerato coltellino, che di per sé non sono ancora reati veri e propri, non almeno perseguibili penalmente, ma sono comportamenti frutto di arroganza, piccole trasgressioni che viaggiano al confine fra legalità e illegalità.

L’uso di alcolici o l’uso di stupefacenti non sono condannabili penalmente, almeno se restano entro i parametri stabiliti dalla legge, ma lo diventano se tu ti poni alla guida e provochi un incidente: ci sono 7.000 morti all’anno sulle strade italiane e di questi un’alta percentuale è da imputare alla guida in stato di ebbrezza o all’uso di sostanze stupefacenti.

Anche portare un coltellino in tasca, di per sé, non è un reato, se la misura della lama rimane nei limiti consentiti, ma se avviene una discussione con altri ragazzi e si passa dalle parole alle vie di fatto, è molto facile che chi ha un coltellino in tasca lo usi, forse anche per paura, e non è la prima volta che i giornali ci danno notizie del genere. Ci ritroviamo poi con due famiglie a piangere, una per il dolore di aver perso un figlio, l’altra per il senso di colpa per quanto è accaduto e per il dolore di ritrovarsi un figlio in carcere.

Quando questo avviene, se lo sconfinamento nell’illegalità provoca un reato grave, la detenzione è quasi certa, ma se il reato non è gravissimo i casi sono due: o non c’è l’arresto, o se avviene l’arresto, nel giro di due o tre giorni la persona viene scarcerata in attesa del processo. È giusto che questo avvenga, intendiamoci, ma di fatto, poiché è una scarcerazione quasi incondizionata, visto che si tratta di rea­ti minori, questo provoca nella persona scarcerata un senso di impunità.

Quando poi una persona viene arrestata e scarcerata più volte, sempre per piccoli reati, è evidente che ciò non la aiuta a riflettere su quella che è stata la serie di comportamenti che l’hanno portata a superare la soglia della legalità per sconfinare nell’illegalità. Tutto questo accade perché le istituzioni non hanno messo in atto nulla per fare assumere a quel ragazzo la sua responsabilità fin dal primo reato, con misure magari che non siano il carcere, ma che lo mettano in condizione di capire che il suo comportamento sopra le righe non ha nulla a che vedere con le regole della convivenza sociale.

Al contrario è come se lo Stato con quelle continue scarcerazioni avvallasse quel tipo di condotta, salvo poi presentargli il conto a distanza di anni e anni. Anche questo non si capisce molto, e rientra nel concetto del “non potevi pensarci prima”, solo che qui è lo Stato attraverso le sue istituzioni ad essere in fallo.

Non parliamo poi di tutta quella massa di ragazzi che, spinti da bisogni indotti dalla televisione, dall’emulazione dei compagni, dalle mode, come il bisogno di mantenere un tenore di vita sopra le righe o di trasgredire usando stupefacenti, finiscono per cadere in reati veri e propri come lo spaccio, i furti, le rapine.

 

Quella sottile linea di confine tra legalità e illegalità

 

Il “pensarci prima” vediamo che non è per niente facile, perché se si vive su quella linea di confine tra legalità e illegalità, ci si accorge di averla superata solo quando si è ben oltre e di fronte ad un evento già accaduto. Per chi fa uso di sostanze, se poi ne diventa dipendente ha ben presto la necessità primaria di reperire dei mezzi per il proprio autofinanziamento per l’acquisto di droghe, che non si vendono in farmacia e quindi hanno un costo molto elevato.

Il voler vivere sopra le righe, invece, non è sempre dettato dalla pura arroganza, a volte dipende da una mancanza di alternative, di sane attività di aggregazione giovanile, siano esse promosse in un contesto laico, tramite gli enti comunali o provinciali o in ambito religioso, con spazi dedicati ad attività ricreative, culturali o sportive.

Queste attività negli ultimi anni sono ancora meno di quelle che forse c’erano quando ero ragazzo io e che già erano poche. Allora anche qui le istituzioni non hanno le loro responsabilità in relazione al concetto del “Non potevi pensarci prima?”.

Infine: chi entra la prima volta in carcere a scontare una pena si porta dentro, come dice qualcuno, “il peccato originale” per aver commesso un reato. Ma se questa persona all’interno del carcere viene abbandonata a se stessa, costretta a scontare una pena che spesso ha solo un senso punitivo e retributivo, senza che le venga offerta la possibilità di confrontarsi con se stessa e con quella parte della società con cui ha rotto il patto di convivenza, senza che venga accompagnata in un reale e graduale percorso rieducativo e di reinserimento, di chi è la responsabilità?

Io sono convinto che il “testimone” lo debba prendere in mano il carcere, le istituzioni che operano al suo interno e che appartengono alla società, come sono parte della società tutte le persone che momentaneamente sono rinchiuse in galera, a scontare una pena che è stata loro comminata per un reato commesso, una pena il cui scopo, la rieducazione, è innegabilmente stabilito dall’articolo 27 della Costituzione.

Quindi invito a riflettere su quello che ho sentito dire a un detenuto: “Attenti che prima o poi usciremo e siamo incazzati neri, incazzati neri per essere stati rinchiusi in un carcere giustamente, per qualcosa che abbiamo commesso, ma se viene meno il senso della pena, che dovrebbe essere rieducativa, non lamentatevi poi se le persone escono e tornano a mordere recidivando, perché vi potrebbero anche dire: “Non potevate pensarci prima?”.

 

 

Anche i famigliari dei detenuti spesso sono vittime

Sono figlio di insegnanti, eppure questo non mi ha salvato

Per più di due anni, mio padre non ha saputo che mi trovavo in carcere, perché mi vergognavo di aver fatto questo ai miei genitori

 

di Gentian G.

 

Avevo preparato un intervento da fare durante il convegno, e volevo presentarmi dicendo di essere albanese. Ma, quando mi trovo di fronte agli studenti, spesso mi viene voglia di omettere questo particolare e raccontare la mia storia come se fossi un italiano oppure uno qualsiasi, un apolide. Anche perché ormai vivo in Italia da diciotto anni e il percorso che da qualche anno mi ha portato in carcere potrebbe essere la storia di una qualsiasi persona, indipendentemente dal luogo di nascita. Ho commesso un reato legato al mercato degli stupefacenti. Avevo la fortuna di avere due lavori, di giorno lavoravo in fabbrica e di sera facevo il cameriere, ma aspiravo ad un tenore di vita ancora più alto e questo mi ha portato a prestarmi a fare cose che credevo fossero innocue - passare un numero di telefono non è certo un crimine, ma se nel corso della telefonata si parla di stupefacenti non si può più negare la complicità.

Frequento da un anno la redazione di Ristretti Orizzonti, dove ho partecipato a tutti gli incontri con gli studenti che si svolgono all’interno del carcere. Una delle domande che frequentemente gli studenti ci fanno, è quella che riguarda i rapporti con i nostri famigliari. Non è facile rispondere, perché, ogni volta che parlo della mia famiglia e della mia storia mi emoziono e ho difficoltà come se fosse la prima volta. Quando racconto che entrambi i miei genitori sono insegnanti e mia sorella è laureata, vedo stupore nelle facce dei ragazzi. Forse questo stupore è dovuto alla demonizzazione e alle generalizzazioni che di solito si fanno nei confronti degli stranieri, dipingendoli tutti come la fonte di ogni male.

Ai ragazzi racconto che, per più di due anni, mio padre non ha saputo che mi trovavo in carcere, perché io mi vergognavo di aver fatto questo ai miei genitori. Quando lo ha saputo, gli è cascato il mondo addosso. Per mesi non ha voluto parlare al telefono con me, non usciva più di casa e non frequentava i suoi amici. Lui, che per tutta la sua vita aveva cercato di insegnare a generazioni intere il rispetto delle norme e i veri valori della vita, non riusciva ad accettare che proprio suo figlio avesse commesso un reato così grave e fosse finito in carcere. Successivamente, grazie alla mediazione di mia madre e mia sorella, le cose sono andate meglio. Dopo un lungo calvario per ottenere il visto d’ingresso in Italia, mio padre è venuto a trovarmi in carcere. In quel colloquio, ho capito ancor di più che tra le vittime innocenti delle mie azioni, c’erano anche i miei genitori, che io avevo trascinato in un vortice di male e di dolore.

Raccontando questa storia ai ragazzi, non voglio impietosire qualcuno, ma soltanto far capire che, se è successo a me, che provengo da una buona famiglia, può succedere a chiunque di finire in carcere, e che tutte le nostre azioni si ripercuotono sulle persone che abbiamo intorno, che sono le persone più care e che meno meriterebbero di soffrire.

 

 

Le domande degli studenti ai detenuti

Le pene, il macigno da portare, il castigo non terminano a condanna scontata

Ho sempre pensato che per quello che ho fatto il carcere, la pena da scontare dietro le sbarre sia effettivamente il male minore e sono consapevole che dovrò portare con me le conseguenze di quel gesto per sempre

 

di Andrea Andriotto

 

Pensi di poter rifarti una vita senza avere conseguenze di quanto ti è accaduto?

Come pensi ti possa considerare la gente per quello che hai fatto?

Credi di riuscire a convincere le persone che il carcere ti ha cambiato?

Sono queste le domande che mi rivolgono gli studenti, quando sentono la mia testimonianza. Purtroppo quello che ho commesso non è una cosa che possa passare… cioè, non esiste un evento che possa decretare la fine delle conseguenze di un omicidio. Le conseguenze di certi gesti così gravi ed estremi non terminano con il risarcimento materiale del danno e nemmeno con una pena scontata in carcere.

Ho sempre pensato che per quello che ho fatto il carcere, la condanna da scontare dietro le sbarre sia effettivamente il male minore e sono consapevole che dovrò portare con me le conseguenze di quel gesto per sempre, perché devo e dovrò fare i conti con la mia coscienza per il resto della vita, e non potrò mai dimenticare che a causa mia oggi, oltre ad esserci una vita in meno, ci sono anche persone che sentono la mancanza di quella vita, che soffrono e hanno sofferto per colpa del mio gesto. Quella persona alla quale io ho tolto la vita non ha avuto modo di conoscere e veder crescere i suoi nipoti, per esempio, e quegli stessi nipoti non hanno e non avranno mai l’opportunità di conoscere, di vivere, di voler bene e di imparare qualcosa da quella persona…

Ma non finisce qui, perché quando si commettono certi gesti oltre ad avere delle vittime dirette, si hanno anche un sacco di altre vittime indirette, se così vogliamo definirle. Persone che magari avrebbero avuto un’esistenza diversa se quel fatto non fosse mai successo, amici, conoscenti, vicini di casa…

E poi come posso non pensare ai mutamenti che hanno subito le esistenze dei miei famigliari… che inevitabilmente, un po’ per vergogna, per rabbia, per il bene che mi volevano, hanno dovuto cambiare le loro abitudini. E come posso non pensare ai miei nipoti che un domani potrebbero anche incontrare persone pronte a puntare il dito e a giudicare i gesti di quello zio degenerato? E se quelle persone fossero gli stessi nipoti di quella donna che oggi non c’è più?!

Come vedete sono molte le conseguenze che devo affrontare, e so che c’è qualcuno pronto a dire che me la sono cercata e adesso è troppo tardi per pensare ai disastrosi effetti… Sì, è troppo tardi per me, e non sto certo piangendomi addosso, quello che mi piacerebbe far capire a quelle persone è che, quando si commettono certi atti, la punizione di una persona non finisce dopo 15, 20 o 30 anni di galera, le pene, il macigno da portare, il castigo non terminano a condanna scontata.

Parlando poi del giudizio che le persone possono avere di me… be’, se si tratta di un giudizio superficiale non m’importa di quanto esso sia pesante. Voglio dire che me ne frega poco del parere di una persona che mi giudica senza preoccuparsi di conoscermi.

 

Gli ultimi 14 anni della mia esistenza non li ho trascorsi in un collegio, ma tra le sbarre

 

Certo nella vita di tutti i giorni, nel lavoro per esempio, c’è la possibilità di dover avvicinare persone che non possono conoscermi in modo così approfondito e in quelle situazioni credo sia più che legittimo che quelle persone, che magari sono in possesso di quell’unica informazione su di me, che riguarda il mio reato, siano diffidenti. E se la loro prima reazione fosse quella di chiusura nei miei confronti, di respingermi, di allontanarmi, io, se ci tengo a quel rapporto, devo solo capire e se la mia intenzione è quella di farmi accettare per quello che sono, sta a me fare in modo di propormi in maniera tale da permettere all’altro di avere quante più informazioni su di me, su quello che sono, cercando di aiutarlo ad andare oltre a quello che ho fatto in quel frangente della mia vita, e permettendogli così di avere un quadro quanto più possibile completo di me. Con questo voglio dire che non sono gli altri per primi a dover capire me, ma sono io a dover sforzarmi e capire le loro posizioni che potrebbero essere le stesse che avrei avuto io se i ruoli fossero stati invertiti.

Il carcere sicuramente non aiuta a riappropriarsi della fiducia in se stessi e difficilmente permette di riacquistare le proprie sicurezze, e accettare certi giudizi è più facile a dirsi che a farsi, però credo che se si parte già con un atteggiamento di questo tipo sia più facile poi convivere e affrontare anche questi problemi che inevitabilmente ci sono e ci saranno sempre. Per quanto mi riguarda oggi posso dire di sentirmi abbastanza sicuro e di avere una buona dose di fiducia su quello che sarà il mio futuro. Ma ovviamente di certezze non ne posso avere, fosse anche solo per il fatto che gli ultimi 14 anni della mia esistenza non li ho trascorsi in un collegio, ma tra le sbarre, tra la privazione, la deresponsabilizzazione e l’infantilizzazione che un’Istituzione totalizzante come questa comporta…

Insomma, se domani ce la farò, se la mia vita tornerà ad essere quanto più possibile simile alla normalità, sarà non grazie al carcere, ma nonostante il carcere che, per come è strutturato oggi, non aiuta molto, ma per fortuna non è riuscito ad impedire quel processo di cambiamento, messo in atto da me in prima persona, ovviamente, ma anche da tutte quelle persone che sono riuscite a starmi vicino nonostante le tante difficoltà e hanno continuato a credere in me.

 

 

C’è chi, finalmente, ha detto la verità sull’indulto

Una legge che non ha più né padri né madri, ma che in realtà ha fatto molti meno danni di quanto si immagina

 

di Antonio Floris

 

L’informazione sui temi della giustizia è spesso imprecisa, quando parla ad esempio delle scarcerazioni facili, dei permessi concessi “automaticamente”, e soprattutto dell’indulto. Tante volte vediamo sui giornali notizie del tipo “Arrestato rapinatore… era uscito dal carcere grazie all’indulto“. Chi legge la notizia esposta in questa maniera, resta con l’impressione che se tizio non fosse stato “graziato” dall’indulto sarebbe rimasto in carcere per un tempo indeterminato (magari per tutta la vita) e non avrebbe mai più avuto la possibilità di commettere reati.

Voglio raccontare a questo proposito la storia del mio compagno di cella quando mi trovavo al carcere di Secondigliano. Il mio compagno, M. E., aveva scontato quasi per intero la sua condanna di 12 anni. Dico quasi per intero, in quanto il suo fine pena era fissato al 12 agosto 2006. La legge sull’indulto è entrata in vigore il primo di agosto. La mattina del 2 agosto venne l’agente alla nostra cella per comunicare a M. E. che era arrivato l’ordine di scarcerazione (per intervenuto indulto).

Praticamente questo indulto gli aveva regalato 11 giorni di libertà.

Nel mese di novembre o dicembre di quello stesso anno leggemmo sul giornale che M. E. era stato arrestato durante una rapina, e naturalmente si sottolineava che era uscito grazie all’indulto.

Queste parole “grazie all’indulto” il giornalista avrebbe potuto evitarle, perché non era certo colpa dell’indulto se quell’ex detenuto nel mese di dicembre si trovava in libertà e commetteva altri reati. Lui, indulto o non indulto, il 12 agosto sarebbe uscito comunque dopo aver scontato interamente in carcere la sua condanna di dodici anni.

Ma anche quando sui giornali la gente legge “Condannato per omicidio, è uscito grazie all’indulto”, in molti possono pensare che questa persona non ha espiato la pena inflitta per l’omicidio, ma è stata “graziata” dall’indulto, e l’idea che resta impressa nella mente è quella di una pena davvero molto bassa. In realtà non è mai così. Noi sappiamo che le condanne inflitte per omicidio, quando non è comminato l’ergastolo, possono variare da quindici a trent’anni, e quando uno esce un po’ prima “per intervenuto indulto”, esce perché ormai ha espiato quasi tutta la sua condanna, in tantissimi casi oltre venticinque anni. L’indulto al massimo ha condonato tre anni di pena, ma non tutti i condannati però hanno goduto per intero di questi tre anni. Per esempio, quelli che sono stati condannati a tre anni o condanne minori, per poter beneficiare dell’indulto devono aspettare, in carcere, che la loro condanna diventi definitiva in quanto l’indulto si applica solo quando la sentenza è divenuta irrevocabile. A conti fatti quindi lo sconto di pena spesso è stato anche parecchio inferiore, nel caso da me citato ad esempio è stato solo di pochi giorni. E probabilmente molti dei reati commessi da quelle persone scarcerate in anticipo con l’indulto sono anche avvenuti in una data posteriore al fine pena naturale fissato dal Giudice.

In definitiva l’indulto non ha avuto l’effetto devastante propagandato dai mezzi di informazione. Proprio questo tema, la pessima informazione che di esso si è data, è stato ampiamente illustrato a Padova da Giovanni Torrente, docente universitario che alla giornata di studi “Prevenire è meglio che imprigionare” ha presentato la sua ricerca sulla recidiva degli indultati, e non ha tralasciato di sottolineare anche come questa legge sia stata strumentalizzata per fini politici. E in tanti ascoltandolo abbiamo pensato che finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di raccontare la verità sull’indulto.

In realtà oggi l’indulto sembra non avere né padri né madri, perché la maggioranza di governo attuale sta facendo ricadere sul governo precedente i presunti enormi (ma in realtà molto limitati) danni causati dall’indulto, non riconoscendo in questo anche la sua responsabilità, visto che quella legge è stata approvata dall’80 per cento del Parlamento, quindi con l’apporto anche dei voti di buona parte di quella che era allora l’opposizione; molti esponenti del centrosinistra invece si sono dichiarati pentiti di aver votato l’indulto in modo troppo frettoloso, anche loro “fidandosi” di tanta cattiva informazione.

 

L’indulto è stato spesso e volentieri usato semplicemente come un’arma politica

 

I dati finalmente analizzati in modo scientifico sulla recidiva dell’indulto e illustrati da una persona qualificata come Giovanni Torrente, oltre a raccogliere naturalmente gli applausi da parte dei detenuti, sono serviti a far riflettere le persone esterne lì presenti che non solo l’indulto non ha avuto quell’effetto così devastante, di cui tanto si è parlato, ma è stato piuttosto spesso e volentieri usato semplicemente come un’arma politica.

Chi sta usando quest’arma per screditare i propri avversari politici non si sta però rendendo conto di quanto allarme sociale e quanta insicurezza ciò crei tra la popolazione. Queste cattive informazioni, questa esasperazione di ogni caso di recidiva fanno sì che la gente abbia sempre più paura a uscire di casa e che per ogni reato che succede, e che viene a lungo tenuto al centro delle notizie di cronaca, venga fatta una legge nuova o un decreto di emergenza con sempre nuove restrizioni non solo per chi commette nuovi reati, ma anche per chi è già detenuto.

I risultati che si ottengono sono per un verso del tutto inutili, perché chi vuole commettere un reato difficilmente si fa fermare dalle conseguenze, e per un altro verso dannosi, in quanto è stato statisticamente provato che i detenuti che non usufruiscono delle misure alternative, e si trovano a fine pena all’improvviso sulla strada, senza lavoro, senza soldi, e impreparati ad affrontare la vita esterna, il più delle volte finiscono di nuovo a commettere reati, mentre quelli che espiano parte delle loro condanne fuori con le misure alternative raramente tornano a recidivare e di solito riescono a reinserirsi gradualmente nella vita normale con beneficio di tutta la comunità.

Quindi bisognerebbe avere il coraggio di approvare leggi per ampliare le misure alternative in modo che i detenuti entrino in contatto con il mondo libero in maniera graduale, attraverso l’affidamento e la semilibertà, e non si trovino all’improvviso fuori, senza sapere che cosa fare e dove andare.

Per evitare quindi che i detenuti ricadano nel crimine occorre ragionare di più su come si fa prevenzione. Per esempio, anche ampliando le misure alternative e non restringendole.

 

 

In undici anni di galera non avevo mai affrontato le opinioni degli altri

Le parole dei ragazzi mi hanno fatto più effetto di quelle che ho sentito durante il mio lontano processo, sono queste le prime occasioni in cui rifletto veramente sulla mia vita passata

 

di Ismaili Bardhyl

 

Sono in carcere da più di undici anni, ma solo da qualche mese frequento la redazione di Ristretti Orizzonti. Ogni anno la redazione organizza una manifestazione che attira sempre più persone che lavorano a stretto contatto con la nostra realtà, quali operatori del settore, magistrati, volontari. È la seconda volta che prendo parte a questi incontri, ma nella prima occasione ero un semplice auditore, nelle vesti del detenuto-studente, visto che studiavo alle scuole superiori e grazie a questo ero stato ammesso a partecipare, quest’anno invece, facendo parte della redazione, ho collaborato anche a tutta la lunga fase preparatoria.

In particolare quest’anno sono stati gli studenti delle scuole cittadine i protagonisti più importanti del nostro programma, perché il senso dell’evento era quello di riflettere sulla prevenzione, diretta soprattutto ai più giovani proprio a partire dal carcere.

Al convegno è stato mostrato anche un filmato, realizzato da Silvia Giralucci in una scuola con alcuni di questi studenti, tra i quali due di origini straniere, dove sono stati raccolti i loro pensieri dopo che avevano avuto un diretto contatto con noi detenuti e il carcere. Un filmato che mi ha fatto pensare parecchio, in particolare mi hanno colpito i pensieri di Kautar, una studentessa marocchina che era inizialmente molto arrabbiata con i detenuti stranieri perché sosteneva che nella mentalità degli italiani gli extracomunitari sono considerati come quelli che spacciano o che in genere commettono i peggiori reati, e proprio i comportamenti dei suoi connazionali finiti in carcere facevano sentire lei stessa, in quanto straniera, penalizzata dagli atti di queste persone. Però in questo percorso di confronto con chi è in carcere l’ha colpita il fatto che i reati non dipendono sempre dal vizio, le ragioni sono più complesse e derivano spesso dalla necessità, dalla mancanza di punti di riferimento, dalla difficoltà a inserirsi in un mondo che spesso respinge le persone immigrate. Alla fine Kautar ha chiesto addirittura di poter fare del volontariato in carcere per avere una visione più ampia del problema.

Gabriele, un altro giovanissimo studente intervistato, raccontava che prima era molto infastidito quando sentiva le storie di detenuti che uscivano dal carcere prima del fine pena, riferendosi in particolare alla vicenda di Pietro Maso, di cui molto si è parlato in televisione. Era assolutamente contrario alla semilibertà perché pensava che una persona, che si fosse macchiata di delitti orribili, come l’uccisione dei genitori, dovesse scontare fino in fondo la sua pena in carcere, senza possibilità di reintegrazione. Ma, dopo l’esperienza che ha fatto con la scuola, ha capito che non si risolvono le cose a tenere le persone rinchiuse tutto il tempo senza far nulla, e se la società vuole davvero migliorare la comunità e le persone che ne sono uscite per scelte sbagliate, deve prendersi il compito di rieducarle e di reinserirle gradualmente.

Alexandra invece, una studentessa rumena, era addirittura favorevole alla pena di morte, come molti altri ragazzi del resto. Pensava che chi toglie la vita ad un’altra persona non meritasse a sua volta di continuare a vivere, che non ne avesse più il diritto. Questo mi ha colpito molto perché essendo in carcere per omicidio ho sentito un pugno cogliermi in pieno, soprattutto perché veniva da voci così giovani e innocenti. Per tutto il giorno non ho fatto altro che pensare a quelle dure domande: chi sono io per aver deciso di togliere la vita ad un altro? che diritto ho io di continuare a vivere, seppur in galera, dopo un atto del genere?

Le parole di questi ragazzi paradossalmente mi hanno fatto più effetto di tutto quello che ho sentito durante il mio lontano processo, come se fossero queste le vere occasioni in cui si ha modo di soffrire per quelli che sono stati i propri reati. In undici anni di galera non avevo mai affrontato direttamente le opinioni degli altri, sono queste le prime occasioni in cui rifletto veramente sulla mia vita passata, secondo me sono questi i momenti in cui si ha la possibilità di crescere. E sono stato davvero molto scosso da questi pensieri.

Alla fine la stessa Alexandra ha cambiato idea, o almeno ha cominciato a riflettere sul fatto che, se non tutte, almeno una buona parte delle persone detenute può cambiare durante la lunga vita carceraria, soprattutto se sorrette da un percorso proprio come il progetto di scambio con le scuole, o aiutate da figure importanti quali gli educatori o gli psicologi, in modo da evitare di tornare a fare le stesse scelte sbagliate.

È stata una esperienza molto positiva, questo progetto, che ho scelto di raccontare attraverso le osservazioni fatte da alcuni studenti, un viaggio verso una speranza che negli ultimi tempi, per gli ergastolani come me, sembra affievolirsi sempre più. Il fatto che dei ragazzi, che inizialmente partono con delle idee molto rigide sul mondo, e sul carcere in particolare, arrivino poi a delle conclusioni molto meno superficiali e affrettate, mi fa capire che, in fondo, se il carcere fosse un po’ più aperto alla società, noi non verremmo visti solo come dei mostri dalle facce cattive, privi di qualsiasi tratto di umanità.