|
Misure alternative: è possibile incentivarne la concessione? “É fondamentale che si possa realizzare la trasformazione della persona nella direzione del suo recupero” Un incontro in redazione col Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Giovanni Tamburino, dove si è parlato di misure alternative, di discrezionalità dei magistrati, di reati ostativi alla concessione dei benefici, e di recidiva, che alla fine poi è la vera questione fondamentale
a cura della Redazione
Dopo l’indulto, ragionare sul senso della pena e sull’applicazione delle misure alternative è diventato, per noi di Ristretti Orizzonti, un momento fondamentale del nostro lavoro. In questo percorso di approfondimento abbiamo incontrato nella nostra redazione il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Giovanni Tamburino.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Per cominciare, ci piacerebbe capire come si forma la decisione sulle misure alternative nelle Camere di Consiglio: quanto conta il reato nella valutazione della persona che chiede una misura alternativa, e quanto invece le relazioni degli operatori penitenziari e il percorso detentivo? E che ruolo hanno gli esperti nell’ambito della Camera di Consiglio stessa? Giovanni Tamburino: Non ci sono regole fisse rispetto a questa domanda e in particolare rispetto al ruolo che hanno gli esperti. Sapete che il Tribunale di Sorveglianza è formato da due magistrati – li chiamiamo “togati” – cioè di carriera, di professione, e due esperti, che non sono magistrati di carriera e neppure necessariamente dei giuristi. Dunque, non è detto che abbiano conoscenza di diritto, ma debbono averne in materia di aspetti diversi della realtà delle persone. Sono psichiatri, psicologi, criminologi, medici legali, e simili… La magistratura di sorveglianza interviene dopo la condanna, che è la “retribuzione di un reato”, ossia la conseguenza in termini sociali e giuridici di un illecito penale, e arriva alla fine di un processo che deve verificare se vi è responsabilità penale. Questo può sembrare ovvio, ma non lo è se si tiene conto del fatto che, nella fase successiva alla condanna, vi sono delle modificazioni che vanno ad incidere sulla portata della pena. Ci si può chiedere perché la condanna – che è la “giusta retribuzione” del reato commesso – venga cambiata. Perché dico che è la retribuzione “giusta” del reato commesso? Perché il processo, nella fase di cognizione, non mira solo a determinare se vi è stata responsabilità di un determinato reato, ma anche a definire esattamente qual è il trattamento retributivo/sanzionatorio di quel reato. Tant’è vero che ognuno di voi sa che rispetto alla pena – alla commisurazione della pena – i vostri difensori hanno chiesto che la pena venga determinata in un modo piuttosto che nell’altro. Per esempio, con la concessione delle attenuanti, col giudizio di prevalenza delle attenuanti, con il fatto che, se la pena è stabilita dal Codice tra un minimo ed un massimo, ci si possa lamentare del fatto che è stata determinata in modo eccessivo, elevato. Tutto questo si discute già durante il processo che noi chiamiamo di cognizione, cioè il processo che si è concluso con la condanna. Se questo è vero, da un punto di vista concettuale quella condanna è la retribuzione giusta, e allora ci si può chiedere: perché questa condanna viene ritoccata/modificata? Questa domanda è una domanda sociale, nel senso che non ce la stiamo ponendo soltanto noi qui in questo incontro, ma è la società che se lo chiede. Vi sono contestazioni rispetto allo stesso ruolo della Magistratura di Sorveglianza e rispetto al fatto che vi sia una modificazione della pena dopo che essa è stata definita. Una parte dell’opinione pubblica sostiene che ciò determina l’incertezza della pena e chiede che vi sia maggiore certezza della pena. In effetti si può rispondere a questa domanda solo trovando una radice forte a giustificazione della modificazione della sanzione che è stata determinata con la condanna. Intendo dire che questa modificazione non può essere lasciata ai buoni sentimenti, non può essere lasciata ad una valutazione “scarsamente impegnata” e poco consapevole del fatto che si va a toccare un punto molto sentito nella società. Questa radice forte c’è nel nostro sistema istituzionale-giuridico ed è rappresentata dall’art. 27 della Costituzione. La radice forte sta nel fatto che la nostra Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Questo e non altro – a mio parere – è ciò che giustifica la possibilità di modificare la pena giusta che è stata determinata con la condanna. Solo un valore forte, costituzionale, come quello della rieducazione giustifica che qualcuno – un giudice – possa ritoccare quello che un altro giudice – alla fine di un percorso, che è un percorso molto complesso, quello del processo – ha definito come pena giusta. Questa rieducazione voi sapete che viene ritenuta un mito da una parte dell’opinione pubblica in Italia e non solo in Italia: un obiettivo mitico in quanto molto difficile da raggiungere e che – alla prova dei fatti – con una certa frequenza statistica fallisce. E quindi ci si è chiesti – in particolare nel sistema americano – se non sia il caso di abbandonare questo obiettivo, ritenendolo appunto troppo difficile da raggiungere. Richiamo il sistema americano non certo perché mi piaccia, ma perché esso rappresenta un punto di riferimento evidentemente non secondario, tenuto conto del fatto che spesso ciò che avviene in quel paese a distanza di tempo si estende ad altri paesi. Per fortuna la cultura europea è una cultura diversa, in particolare diversa è la cultura italiana. Dico per fortuna in quanto ritengo che quell’approccio sia sbagliato, anzi disastroso. Dove c’è l’obiettivo della rieducazione – e noi lo abbiamo come obiettivo posto dalla Costituzione e conseguentemente non eludibile neppure dalla legge ordinaria – questo obiettivo, dunque, passa attraverso la modificazione della persona. Questo è un punto molto importante. Bisogna considerare che, nel giudizio davanti al giudice della cognizione, tale giudizio fa riferimento a un fatto. Noi abbiamo un sistema giuridico – ormai collaudato da secoli – che è un sistema legato al fatto: si giudicano i fatti. Ciò può sembrare ovvio, ma non lo è per nulla, perché non sempre è stato così. Inoltre, vi è chi critica questo sistema, perché trascurerebbe la valutazione della persona. In effetti può accadere che una persona “buona” compia un atto cattivo. E questa persona verrà condannata, nonostante sia “buona”. Ciò accadrà raramente, ma può accadere. Così come accade – per fortuna meno raramente – che una persona “cattiva” compia azioni buone e naturalmente non verrà condannata, pur essendo una persona “cattiva”. Il nostro sistema – e non solo il nostro – è un sistema di giudizio sul fatto: ognuno di noi/voi viene chiamato a rispondere di fatti, dunque di azioni commesse. Questo si chiama, in termini tecnici, il sistema della “tipicità”, perché il fatto deve essere un fatto “tipico”, previsto dalla legge penale. Certo si tiene conto anche della persona, ma solo nel momento in cui si determina la pena, non nel momento in cui si va a vedere se è responsabile o no. Nel momento in cui si applica il criterio costituzionale della rieducazione, il fatto – per così dire – passa in secondo piano. Ciò che conta è la trasformazione della persona. Attenzione: non la persona, ma la trasformazione della stessa, in quanto ciò che si chiede per procedere alla modificazione della sentenza è che la persona voglia trasformarsi e riesca a farlo. Torno a dire: questo è un obiettivo che sembra a molti enorme, eccessivo rispetto alle possibilità che ha un sistema di operare. Però è quello che vuole la Costituzione, ed è anche, se volete, un’utopia – nel senso buono del termine, cioè non qualcosa che è solo un’illusione o una fantasia, ma qualcosa che non esiste ancora, ma può essere raggiunto – dunque un’utopia vostra, di ciascuno di voi, ed anche un’utopia sociale, perché la società spera/confida che questo avvenga. Per ottenere tale risultato si mettono in opera una serie di sistemi, che voi vedete nell’ambito del carcere: vedete ciò che fa l’Amministrazione, ciò che fanno gli operatori. Tutto questo è funzionale a raggiungere quell’obiettivo: che si possa realizzare – nel maggior numero di casi possibile – la trasformazione della persona nella direzione del suo recupero, della sua rieducazione, come dice il testo costituzionale. Quindi certo il reato conta, perché questa trasformazione deve essere messa in relazione a quel soggetto che uno, due, tre... dieci anni prima ha commesso quel determinato reato. Ma quello che è decisivo nella fase post sentenza, che è la fase gestita dalla Magistratura di Sorveglianza, è questo elemento – ricavato da un dato o, meglio, da un insieme di dati – che riguardano la trasformazione di una persona. Gli esperti aiutano concretamente a rendere più completo il giudizio dei magistrati di professione – che sono giuristi e basta – rispetto a questa trasformazione della persona. Il diritto non è in grado da solo, normalmente, di valutare se e quanto vi sia stata questa trasformazione della persona, perché ciò attiene di più ad elementi quali la psicologia e la sfera delle dinamiche relazionali, della famiglia, della società. Sapete infatti che non in tutti i sistemi penitenziari la parte del giurista è importante e pesante come in Italia. Altrove la gestione delle forme/misure alternative è rimessa in maggior misura ad organi amministrativi, che a loro volta agiscono integrati con gli psicologi e gli altri esperti. Anche da noi si ritiene che in questo tipo di valutazione il ruolo del diritto sia certo importante, ma non così pesante da poter poi decidere da solo. Nel nostro sistema, e nel Veneto per il Tribunale di Sorveglianza che presiedo, agli esperti cerchiamo di dare – direi con ottimi risultati – tutta la voce che è utile che abbiano nella decisione. Proprio in questi giorni stiamo rinnovando gli esperti che fanno parte del Tribunale di Sorveglianza, e devo dire che ci sono molte domande per entrare a far parte del Tribunale di Sorveglianza. Valuto ciò come un segno molto positivo, di un interesse forte a far parte di questa funzione sociale e anche forse il segno che ci si rende conto che si va a portare un contributo importante rispetto alla decisione.
Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Il nostro giornale esiste da dieci anni e credo da dieci anni noi discutiamo della discrezionalità dei magistrati perché è un po’ un problema… Se è vero che ogni persona è una persona a sé, è anche vero che ci sono Tribunali di sorveglianza in cui le misure alternative vengono concesse pochissimo e altri molto di più. Dunque noi a più riprese ci siamo domandati se non si possa tendere ad una maggiore uniformità, di modo che la persona non viva come un terno al lotto il fatto di dover scontare la pena in una città piuttosto che in un’altra. Quanto poi alle misure alternative, quando si presenta all’opinione pubblica il tema della pena che “si modifica”, forse sarebbe il caso di enunciare i dati dell’inchiesta fatta dall’Amministrazione penitenziaria, che testimonia come per i detenuti che hanno affrontato un percorso di reinserimento con misure alternative la recidiva crolla al 19% contro un 70-80% della recidiva di coloro che si sono fatti tutta la pena in carcere. Non dovrebbero questi dati far riflettere anche la Magistratura di Sorveglianza? Giovanni Tamburino: Attenzione, perché quando ci sono dei limiti alla discrezionalità, di regola sono limiti che vengono posti al potere del giudice di concedere qualcosa. Non ho mai visto limitazioni alla discrezionalità scritte in questi termini: “Il giudice deve dare questo, dare quell’altro..”. No: tutte le limitazioni della discrezionalità che voi potete vedere nella storia del diritto penitenziario sono limitazioni della discrezionalità in senso inverso, cioè: “Il giudice NON dia in questo caso”, oppure restringono i termini, chiedendo che si sia scontato un certo limite della pena. Facciamo il caso di qualcosa che tutti conoscono: nel nostro Codice penale tutte le pene sono comprese fra un minimo e un massimo. Ebbene, i casi in cui le pene sono irrogate nel massimo sono enormemente più rari di quelli in cui la pena viene data verso il minimo. Direi che anche i casi in cui le pene vengono date a metà tra il minimo e il massimo sono molto, molto più rari di quelli in cui la pena viene data verso il minimo. Questo esempio deve far riflettere su cosa significhi discrezionalità. Perché se la tendenza è quella di dare pene verso il minimo, la riduzione della discrezionalità vorrà dire semplicemente che il minimo viene alzato. Se una misura prevede che – poniamo – la semilibertà possa essere espiata a metà della pena, la riduzione della discrezionalità probabilmente vorrà dire – come è avvenuto – che rispetto a certi reati non si richiede più la metà ma si richiedono i due terzi. Le riduzioni di discrezionalità sono sempre, e direi in modo strutturale, nel senso di restringere. Su questo a me sembra che occorra riflettere quando si dice che c’è eccesso di discrezionalità. Nel caso della Magistratura di Sorveglianza poi si tratta di giudizi estremamente personalizzati: bisogna tener presente cioè che sono giudizi più personalizzati di quanto avvenga nei giudizi della cognizione. Dunque la distinzione da caso a caso è una distinzione inevitabile. Certo, si potrebbe costituire un sistema – e si è anche pensato di farlo nelle riunioni organizzate periodicamente dai Magistrati di Sorveglianza di tutt’Italia – che preveda delle griglie grazie alle quali sia possibile ridurre, restringere i margini della discrezionalità. Personalmente non sono contrario ad un’ipotesi di questo genere, diciamo che di fatto in qualche modo avviene già, nel senso che la regola di fondo della Magistratura di Sorveglianza è che quando si può la misura la si dà. La tendenza è quella di dare tutte le misure possibile, quando si ritiene che il successo, il buon esito sia sicuro o fortemente probabile. È evidente che la Magistratura decide su proiezioni nel futuro e il futuro non lo conosce nessuno, direi neppure l’interessato. Si tratta dunque di un giudizio che ha un margine di rischio. Però la Magistratura di Sorveglianza quando decide tende a rispondere positivamente tutte le volte che ritiene di poterlo fare a ragion veduta: ossia quando c’è una alta probabilità del buon esito della misura. Quindi alla fine, nonostante le potenziali griglie, non si potrà sfuggire a questo imbuto, rappresentato da questa semplice domanda: questa misura riuscirà bene? E questo nell’interesse della persona e anche della tranquillità sociale. Nella valutazione entrano in gioco tutta una serie di elementi che hanno sfaccettature anche molto personali, che dipendono, di nuovo, da moltissimi elementi. La valutazione dei diversi tipi di rischi rientra in queste variabili. Personalmente ritengo che si debba valutare in maniera diversa il rischio di reati a carattere violento dal rischio di altri tipi di reati. Sono tutti reati, dal punto di vista del diritto. Ma, sebbene non ci sia scritto da nessuna parte, secondo la mia opinione la ricaduta – anche sociale – dei reati di tipo violento è diversa da quella degli altri. Certo può accadere che una persona giudicata a Venezia riceva un giudizio diverso da quello di una persona giudicata a Roma. Ma la domanda è: in che misura ciò può essere evitato? E ancora: è poi così giusto che si cerchi di evitarlo? Ancora una volta torno a dire che se si fa una regola generale che deve essere rispettata da tutti, potrebbe essere una regola generale di segno restrittivo.
Ornella Favero: Ma la legge Gozzini per esempio al contrario ha allargato queste possibilità, e comunque magari alcuni criteri per uniformare si potrebbero trovare. Anche questa indagine del DAP sulla recidiva mi pare che dovrebbe essere conosciuta da tutti, perché potrebbe dare nuove motivazioni all’applicazione delle misure alternative Giovanni Tamburino: La Magistratura di Sorveglianza considera le misure alternative, pur con tutte le cautele e l’attenzione che occorrono, un valido strumento. Se potremo dire a ragion veduta – dunque con un sostegno di carattere statistico – che la recidiva diminuisce con le misure alternative, ciò sarà un ulteriore elemento, e molto forte, per utilizzarle ancora di più, perché alla fine tutto si gioca sulla recidiva, che è la vera questione fondamentale, così come sostengo da sempre. Se non si riduce la recidiva siamo al fallimento. Significa che tutto il nostro lavoro, quello degli operatori, della polizia penitenziaria, degli psicologi, degli assistenti sociali, dei volontari… è un lavoro che finisce nel nulla. Dunque porterebbe ad un senso di fallimento e frustrazione tutti coloro che lavorano in questo settore e credono in questo lavoro. Non è solo il fatto che la recidiva è negativa per l’individuo e la società: è un punto che riguarda in modo diretto e specifico chi lavora credendo – sebbene in modo critico/realistico – che questo lavoro debba servire. C’è un grande investimento sociale e anche economico. Una delle ragioni portate nella scelta statunitense di abbandonare il criterio della rieducazione è che costa troppo rispetto a ciò che rende. La pena che tende alla rieducazione è una pena che costa di più in termini economici, ma che è vantaggiosa se vi è una ricaduta sociale di effettivo miglioramento. Ora – ed è per questo che mi trovo in disaccordo con la scelta statunitense – se c’è questa ricaduta, e dunque la riduzione della recidiva, allora non c’è spesa che sia da considerare sprecata. In conclusione, poiché certamente la recidiva è la misura di riferimento, costituisce un forte argomento a favore della applicazione delle misure alternative la riduzione di recidiva che sia ad esse riferibile. Rispetto a questo fenomeno tutti siamo chiamati ad interrogarci. Essendo una persona che da 30 anni e più frequenta le carceri so che non è facile, non sto sottovalutando la realtà di nessuno di voi ed è chiaro che le difficoltà sono enormi. C’è anche una cultura, una mentalità che si è formata. Però ognuno deve chiedersi se è possibile cambiare. Questa idea del cambiamento è sicuramente un’utopia. Ma è altrettanto un’utopia anche rimanere sempre uguali. Non cambiare sembra più semplice perché l’uomo è un animale abitudinario. Però si possono rompere/cambiare anche le abitudini.
Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Lei prima ha detto che la valutazione delle concessione delle misure alternative viene fatta sulla persona, e ha detto anche che rimanere uguali è pure questa un’utopia, perché le persone cambiano. Però ci sono state alcune leggi che hanno escluso certe categorie di reati dalla concessione dei benefici, quindi andando contro entrambi i principi che lei ha appena citato. Nel primo caso perché si annulla l’individualizzazione del trattamento e dunque non si va più a valutare sulla persona e sul suo percorso – appunto personale – ma invece si rimane fermi al titolo del reato. Secondo, si va ad annullare il principio del cambiamento, dando per scontato che chi ha commesso quel reato non può cambiare e quindi non merita di seguire un certo percorso. Non le pare che queste leggi emergenziali – anche se forse necessarie nel momento in cui sono state emanate – siano ingiuste? Giovanni Tamburino: Esattamente come dicevo prima, quando si riduce la discrezionalità sempre la si riduce per contenere l’atteggiamento giudiziario che evidentemente ha dato prova, rispetto alle valutazioni sociali esterne, di lassismo o comunque di atteggiamenti non sufficientemente rigorosi. Questo è avvenuto anche in epoca emergenziale davanti ai fenomeni del terrorismo, della criminalità organizzata, mafiosa etc. Queste riduzioni della discrezionalità – perché in alcuni casi la discrezionalità è completamente tolta, il giudice non ha alcuna possibilità di concedere misure se non ricorrono determinate condizioni – certo sarebbero contro il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione, se trascurassero completamente gli elementi di trasformazione del soggetto. In effetti ci sono state numerose eccezioni in questo senso, proposte alla Corte Costituzionale, perché si è ritenuto, da parte del giudice dinanzi al quale la questione era stata prospettata, che essa non fosse manifestamente infondata. La Corte Costituzionale ha detto però che non sono norme illegittime perché consentono alla persona di dare un’attestazione del fatto che c’è stato questo cambiamento, sia pure nel caso della criminalità organizzata con la dissociazione. In altri termini la Corte Costituzionale ha salvato queste norme dicendo: “La trasformazione in questi casi deve innanzi tutto essere una rottura col passato che ha visto questa persona inserita in un’associazione per delinquere”. Se non c’è questa rottura/abbandono è inutile pensare di valutare la trasformazione di questa persona, perché questo elemento ha una tale importanza che, se non c’è, diventa preclusivo rispetto alle misure. Da questo punto di vista sono norme che attualmente sono ritenute compatibili col dettato costituzionale. Aggiungo che, guardando alla situazione attuale carica di preoccupazioni perché sotto la minaccia del fenomeno del terrorismo internazionale, ritengo che sia improbabile che ci si adoperi per dei cambiamenti di peso su questo terreno; anzi, dopo il famoso 11 settembre, c’è stata anche una direttiva europea che chiede agli Stati – anche a quelli europei – di affrontare il terrorismo con un’attenzione ed una severità adeguate al rischio che si riscontra in questo fenomeno. Dunque vedo difficile che per reati con connotazioni riferibili al concetto di terrorismo si possa pensare a una marcia indietro rispetto alle restrizioni. Inoltre, considerando quello che avviene in altri paesi, non mi sembra che in Italia ci sia una normativa particolarmente rigida.
Ornella Favero: Però il 4bis comma 1 resta comunque molto rigido. Lei ricordava che il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione deve sottostare alla condizione che vi sia stata dissociazione. Ovviamente il cambiamento della persona è un percorso lungo, che certo non si compie dall’oggi al domani. Allora quando passano 10-15 anni dal momento della commissione del reato gli elementi che andrebbero valutati dovrebbero riguardare il percorso di quella persona, perché una persona può anche non aver collaborato subito dopo aver commesso il reato, ma avere in seguito compiuto un forte cambiamento. A distanza di anni vedi delle persone che non hanno più nulla a che fare con la malavita – a volte non hanno nemmeno mai avuto a che fare – cui non vengono concesse le misure alternative. Succede quindi che persone che hanno commesso gravissimi reati di sangue possono a un certo punto della loro carcerazione iniziare un percorso che prevede anche di uscire in permesso, e poi in semilibertà, insomma si ritiene, giustamente io credo, che possano essere rieducate, mentre lo stesso non vale per chi ha commesso anni fa un sequestro o un reato fra quelli ostativi, senza spargimento di sangue e, a volte, e penso a tanti stranieri, senza appartenere alla malavita organizzata, ma magari solo a una associazione messa in piedi per quel reato e finita poi nel nulla... allora uno si chiede: ma è davvero giusto? Giovanni Tamburino: Non tutte le regole sono coerenti e logiche, non tutto il sistema penale è privo di sbavature. Ci possono essere contraddizioni ed anche leggi incomprensibili. Allo stato la questione è stata posta più volte e la Corte Costituzionale l’ha sempre respinta. D’altra parte una qualche differenza rispetto ai reati associativi esiste perché – nonostante anche questo sia discutibile – si dice che rispetto ad un’associazione per delinquere il rischio che tu continui a farne parte esiste sino a che non hai rotto, ma per rompere ti devi mettere contro. Questa affermazione, in particolare per quanto riguarda i fenomeni mafiosi, è alquanto concreta: chi ha studiato a fondo questi fenomeni sostiene esattamente questo, e cioè che si rimane legati sino a che non si rompe e per rompere bisogna mettersi contro. Quindi, l’alternativa del legislatore da questo punto di vista e in questi limiti può avere una sua ragionevolezza. Diverso è un reato orrendo, efferato, ma che ha riguardato un legame familiare. Potrebbe essere mille volte più orribile, ma in questo caso non c’è il rischio che un legame associativo rimanga.
Ornella Favero: Le leggi emergenziali credo che stritolino dentro un meccanismo, nato in situazioni particolari, anche persone che, dopo anni, con quel meccanismo e quelle situazioni non c’entrano poi molto. Giovanni Tamburino: La mia opinione – ma dovrebbe cambiare la legge – è che laddove si abbia la certezza che i legami con l’ambiente in cui è avvenuto il reato sono venuti meno, si dovrebbe ammettere la misura.
Elton Kalica: Recentemente è emersa la questione dei controlli della Polizia penitenziaria (invece che delle forze dell’ordine) rispetto alle misure alternative. Noi ci siamo interrogati soprattutto sulle modalità con le quali questi controlli vengono fatti, e sul rischio, sempre presente, che siano davvero “invasivi” e che creino ulteriori squilibri alla situazione già precaria del detenuto nel suo ambiente lavorativo e familiare. Giovanni Tamburino: Su questo punto non voglio esprimere alcuna opinione. Sono però sicuro che i controlli affidati alla Polizia penitenziaria verrebbero certamente svolti con modalità tali da non andare contro le finalità delle misure alternative. E questa mi sembra la questione più importante.
Marino Occhipinti: Per finire, una domanda sulla liberazione condizionale: è formalmente applicabile anche a persone che non hanno mai usufruito dei benefici? Giovanni Tamburino: La liberazione condizionale esisteva prima del 1930 (quando è stato creato il Codice penale) ed è stata sempre applicata. È una misura “forte”, che fino al 1974 veniva concessa dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia. La Corte Costituzionale con la sentenza 4 luglio 1974 ha esautorato il Ministro da tale potere, rimettendolo nelle mani della magistratura. Se prima di tale passaggio la liberazione condizionale era molto rara, dopo, quando la possibilità di concederla è stata attribuita alla magistratura, è divenuta più frequente. Ora la sua concessione è tornata ad essere abbastanza rara, perché ci sono i benefici di legge, ma è comunque formalmente applicabile a tutti. Misure alternative e discrezionalità dei Magistrati Proviamo a immaginare di essere un Tribunale di Sorveglianza
Quanto pesa la sentenza e quanto il comportamento in carcere nella concessione delle misure alternative? Ne abbiamo parlato in redazione con i Magistrati di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin e Antonino Cappelleri
a cura della Redazione
A Padova i Magistrati di Sorveglianza hanno la buona abitudine di entrare in carcere e incontrare i detenuti, e anche di venire nella nostra redazione, e accettare di discutere con noi. Questa volta, il tema dell’incontro è stato proprio quello più “classico”: la discrezionalità dei Magistrati e i criteri sui quali si basano le loro scelte nella concessione delle misure alternative.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): La prima cosa che vorremmo sapere è quanto influisce il reato, e quanto il fascicolo del detenuto, nel giudizio di un magistrato, che deve valutare se una persona è pronta ad uscire per ricominciare la vita fuori dal carcere, e quanto contano invece il percorso detentivo e le relazioni degli operatori penitenziari: insomma, come formate il vostro giudizio… Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Sappiamo che qualcuno ha pensato anche all’ipotesi di prevedere una griglia dove tutti questi elementi siano valutati in un modo più chiaro. Io vorrei però toccare anche un altro punto, visto che con voi si può fare dal momento che siete dei Magistrati che entrano in carcere, e non è dappertutto così. Sappiamo che ci sono dei Magistrati di Sorveglianza che non vanno regolarmente in carcere, allora noi ci siamo domandati: come fa un Magistrato a formarsi un’idea sulla persona, sul suo percorso e sulle sue prospettive per il futuro, senza averla mai incontrata? Giovanni Maria Pavarin: Se io le chiedessi da cosa è formato il giudizio che lei ha di me: se da quello che ci siamo detti o da quello che ha sentito dire di me, o ancora da quello che lei ha letto delle cose che io ho scritto, è difficile quantificare. Direi che ci interessa tutto, tutto influisce sul giudizio. Il giudizio è il momento finale, che è sempre provvisorio, di una somma di fattori: quindi è ovvio che si parte dalla sentenza; se fosse possibile partiremmo anche da prima, cioè da quando uno è nato, da quello che ha fatto, da quello che era quando ha commesso il reato a quello che invece è diventato dopo. Siamo consapevoli che prima di tutto una persona cambia: ogni giorno noi cambiamo; abbiamo sì un substrato tendenziale di staticità, però ogni persona, anche se non avesse delle relazioni con gli altri, credo che cambierebbe, quindi io non so se la griglia alla quale vi riferite voi sarebbe applicabile ed efficace. Direi che conta molto la lettura della sentenza, come conta la lettura di quello che uno ha fatto nel corso della detenzione. È ovvio che si tiene conto del fatto se abbia o non abbia avuto delle occasioni trattamentali, perché uno che ha il 41-bis ha pochissimo trattamento, ha meno occasioni di dare prova di essere cambiato rispetto a come è incollato e bollato dal titolo di reato o dal provvedimento ministeriale che lo ha considerato pericoloso, per cui è difficile valutare una persona nel suo complesso. Poi c’è la conoscenza del personale che ha avuto in carico il detenuto, ma nessuno di questi elementi di conoscenza ha un valore prevalente rispetto ad altri, sta a noi fare un saggio mix. È ovvio che alcuni fattori sono più importanti di altri: se uno ha molte condanne è più difficile vincere un naturale pregiudizio che una persona si forma quando legge il suo curriculum; invece per chi ha una sola condanna il lavoro tutto sommato è più semplice, però va sempre svolto caso per caso. Ci sono persone rispetto alle quali il giudizio è difficilmente formulabile, e ci sono persone verso le quali il giudizio è abbastanza sicuro; ci sono discussioni che in Camera di consiglio possono durare cinque minuti oppure quarantacinque, a seconda del carattere sfuggente del materiale che si ha. Insomma è tutto molto difficile, ma potete anche voi allenarvi a fare questo giochetto: immaginare di essere un Tribunale di Sorveglianza, avere sul tavolo i fascicoli di altri compagni, fingere di essere un uomo che dà o non dà misure alternative e vedere il tipo di discussione che si potrebbe accendere tra di voi. Vedreste allora come sono diversi i giudizi, e come sia difficile tirare le somme. Antonino Cappelleri: Ma in ogni caso il reato ha una forte influenza sul giudizio. Ci sono reati che impediscono addirittura il giudizio del Magistrato o del Tribunale perché sono ostativi a determinate misure, oppure prolungano i termini perché si possa accedere alle misure alternative, come nel caso della ripetizione dei reati cioè della recidiva. Questo credo che possa far capire quanto pesante sia in quella griglia di cui dicevamo il significato del reato, che sotto il profilo del principio è anche il momento essenziale dal quale parte il percorso trattamentale e poi rieducativo.
Ornella Favero: Sì, è vero che ci sono i reati cosiddetti ostativi, però è una questione abbastanza controversa perché l’articolo 27 della Costituzione dice che comunque la pena deve tendere alla rieducazione. Mi ricordo che a un recente convegno a Roma, indetto dal Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza, l’ex ministro della Giustizia Flick ha sostenuto che non esiste “polifunzionalità” della pena perché la pena deve tendere alla rieducazione, punto e basta, allora che ci siano dei reati ostativi a me sembra che faccia a pugni con la Costituzione, perché inchioda una persona al momento del reato, e non si vede dove possa esserci un percorso graduale di rieducazione. Sento parlare di progressione del trattamento, ma io non la vedo molto se il reato continua ad avere così tanto peso. Il dottor Pavarin ci ha invitati a provare a fare come se fossimo un Tribunale di Sorveglianza: in un certo senso molte volte lo facciamo, perché leggiamo le sentenze di vari Tribunali, e qualche volta si ha la sensazione che conti solo il reato. Per questo forse poniamo il problema di ragionare di più sui criteri per la concessione delle misure alternative. Giovanni Maria Pavarin: La prima osservazione che un difensore della Costituzione potrebbe fare è che l’articolo 27 dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, ma è tutto da dimostrare che rieducazione significhi la concessione della misura alternativa prima che la pena finisca. L’idea che anche la misura alternativa sia una forma di espressione di quella stessa pena è un’idea non molto affermata ancora nella coscienza giuridica: ci sono reati di elevato allarme sociale, soprattutto perché sono considerati spie di esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, quindi il legislatore dice: stop. Solo liberazione anticipata, le altre misure alternative no! Questo naturalmente forse appartiene ancora ad una concezione della pena formatasi nelle emergenze dei primi anni ‘90 che troverei giusto rivedere, su questo sono d’accordo con lei. Il sequestro fatto da una persona che mi sta vicino (Elton Kalica, ndr) può essere meno grave, per le modalità di comportamento, di uno che da una vita rapina le banche con il mitra, ma l’articolo 628 terzo comma del Codice penale non ha sbarramenti, come invece succede per l’articolo 630. Convengo con lei sul fatto che si potrebbe rivedere la tipologia del reato nella prima fase, si potrebbe reintendere il sistema alla luce di criteri diversi, ma questo non toglie l’utilità della legge attuale: mai si sarebbero affrontati i problemi di criminalità organizzata senza pensare alle spinte che abbiamo dovuto dare alle persone che stando dentro alle cosche, hanno collaborato con la giustizia, hanno consentito quindi di sgominare certi fenomeni particolarmente temuti dallo Stato. Certo che se uno ha una condanna di quel tipo si può dire che in questo momento storico è particolarmente sfortunato, perché per quel reato non è consentito entrare nel merito e creare e costruire una misura alternativa: quindi quando il Tribunale dice che l’istanza è inammissibile, è come se dicesse che non può neanche leggere cosa c’è scritto, perché la legge fa praticamente divieto al giudice di guardare in faccia quel condannato. Una norma che secondo me potrebbe essere ripensata, però non vedo come ci sia una collisione con l’articolo 27 della Costituzione, posto che anche la pena eseguita tutta in carcere può avere una finalità di rieducazione.
Ornella Favero: Ma secondo lei è possibile che una persona passi venti, trent’anni tutti in carcere e a fine pena esca rieducata dal carcere? Giovanni Maria Pavarin: In linea teorica direi di sì. Se il carcere funziona ed è come la legge lo immagina, questa sarebbe la funzione del carcere. Che poi una pena così lunga possa avere questo effetto è del tutto opinabile, visto che in altri Paesi le pene detentive non hanno una durata così elevata, si arriva al massimo a 15 anni. Antonino Cappelleri: In questo momento in Italia il sistema delle sanzioni prevede pene e misure di sicurezza che sono due binari spesso divergenti. In altri Stati c’è un sistema di pene diverso; per esempio per i “sex offenders” la Svizzera non fissa la pena, come facciamo noi, in un certo periodo – 5, 6 o 7 anni – ma incarcera e condiziona la durata della pena, un po’ come succede per la nostra misura di sicurezza, al superamento della condizione patologica che può spingere al reato; ovviamente questo poggia su un sistema capace di curare. Allora ancora di più se ci fosse una riforma del nostro ormai antichissimo modo di punire, questo discorso del rieducare in carcere e fuori del carcere potrebbe essere modificato e ripensato, rielaborato, quindi non è una cosa così fissa che il carcere non rieduca e la misura alternativa sì.
Marino Occhipinti: Le misure alternative forse non rieducano, però almeno dalle ultime statistiche sembra che chi ha fatto un percorso carcerario con le misure alternative recidiva al 19 per cento, mentre la media di chi non ha fatto questo percorso è al 68 per cento, quindi questo dovrebbe essere un bell’indicatore per quando si tratta di concedere le misure alternative. Antonino Cappelleri: Certo, però è un indicatore tendenziale, valido se la statistica è stata fatta bene e se i dati che la sorreggono sono giusti. Allora questa è l’obiezione principale: se io vengo ammesso alle misure alternative sono già ad un certo punto della rieducazione, quindi in realtà i due campioni, quello che ha recidiva in più e quello che ne ha in meno, sono già distinti alla base come tendenza alla recidiva, però devo dire che in ogni caso questa prima statistica che esce dopo anni e anni di silenzio è indubbiamente confortante sulla validità delle misure alternative.
Elton Kalica: Sono tanti che prendono con molta cautela i dati di questa statistica, perché dicono che chi è in misura alternativa è un soggetto che è portato a non recidivare o che comunque ha avuto un percorso positivo, però la concessione delle misure alternative non è che sia così uniforme, magari a Padova le misure alternative vengono date con più facilità rispetto ad altre città, allora vorrei dire che non tutti quelli che non escono con le misure alternative sono delle persone tendenzialmente portate a recidivare, quindi quando si dice che quasi il 70 per cento di chi sta in carcere fino alla fine della pena poi torna a recidivare, in quelle statistiche rientrano anche i detenuti di quelle città, dove le misure alternative vengono applicate pochissimo. E mi pare anche poco ovvio che i detenuti di Padova siano migliori dei detenuti di Napoli, e che sia colpa dei detenuti di quelle città se non vengono ammessi alle misure alternative. Giovanni Maria Pavarin: È ovvio però che la recidiva interessa più quelli che non hanno avuto una misura alternativa, ma perché? Perché erano quelli che evidentemente o non erano meritevoli di averle oppure non avevano le condizioni per averle, come la casa, il lavoro eccetera. Quindi sono usciti dal carcere nelle stesse condizioni in cui sono entrati, e nulla è cambiato: per cui è un dato che trovo abbastanza logico e scontato, anche se sono io per primo a dire che quando uno ha chiesto fiducia, la merita e la ottiene e comincia a mettere il naso fuori dal carcere, è molto più facile che si incanali bene sul binario giusto prima che la pena finisca, binario dal quale poi non trova motivi per uscire, però i due dati vano letti insieme. Sulla valutazione della diversa applicazione delle misure da parte dei Tribunali di Sorveglianza, è ovvio che già gli uomini si trovano in disaccordo tra di loro quando devono ricostruire i fatti del passato, e devono giudicare se Tizio ha commesso o no una certa azione: figuratevi il disaccordo che ci può essere quando si prova a prevedere il futuro, cioè la previsione di un futuro incerto è fonte di valutazioni diverse e difformi. Non è un giudizio scientifico, è un giudizio prognostico che prevede qualcosa che nessuno sa come finirà. Poi ci sono Tribunali con realtà diverse, per esempio il mio collega di L’Aquila ogni tanto mi dice: “Cosa vuoi che faccia con i miei detenuti? Sono tutti con il 41-bis, non posso dare niente, li conosco tutti, mangio anche con loro, ma non possono avere benefici e non dipende da me…”. Quindi dipende anche dal tipo di reato; ci sono poi Tribunali che sono più severi o più seri, non lo so, usate il termine che volete; a parte che il Tribunale è fatto da due giudici togati e da due laici, che sono l’espressione della società civile, e oltre che ad essere esperti fanno da cassa di risonanza della società rispetto al fenomeno della pena: è un modo per far partecipare il popolo all’amministrazione della giustizia penale, per cui vale il loro voto come il nostro, non è che possiamo fare come vogliamo noi. Mi rendo anch’io conto che ci sono dei Tribunali che dispensano le misure alternative con il contagocce, che però sono ampiamente compensati da altri Tribunali che forse tendono ad un investimento maggiore nella concessione di una fiducia non sempre esattamente certificata - almeno nelle motivazioni delle ordinanze. Per uniformare le varie realtà, si potrebbe fare anche diversamente: invece di lasciar decidere al Tribunale se dare la misura alternativa negli ultimi tre anni, si potrebbe prevederne la concessione “d’ufficio” salvo prova contraria, cioè invece di dartela te la devono respingere con delle motivazioni. Questo però implicherebbe che il carcere funzionasse in tutte le sue componenti, quindi non solo nell’area della sicurezza, ma soprattutto nell’area rieducativa. Però qui a Padova è un caso eccezionale, anche perché ci sono spinte positive sostenute dalla società civile che entra in carcere, più che dall’amministrazione che non ce la fa perché gli organici sono limitati e le presenze degli operatori insufficienti. In un carcere così quanti educatori sono previsti e quanti in realtà ce ne sono? Però se il carcere funzionasse e raggiungesse lo scopo per cui è stato costruito, si potrebbe ad esempio arrivare a dire che negli ultimi tre anni tu vai in affidamento in prova salvo che qualcuno (il Tribunale) dica che tu non te lo meriti, non invece come adesso che bisogna dire che te lo meriti per averlo. Antonino Cappelleri: C’è poi da dire un’altra cosa che riguarda la prospettiva di codicizzare le attuali misure alternative come pene ordinarie, e non, come oggi, trasformazioni della pena inflitta: è previsto ad esempio anche nella stessa miniriforma Mastella che possa essere il Giudice di merito – così come concede la sospensione condizionale della pena – a concedere direttamente una misura alternativa. A me fa impressione l’idea di spostare la misura alternativa dalla competenza del Magistrato di Sorveglianza a quella del Giudice di merito. Ad esempio, io vengo accusato di furto e portato davanti al giudice. Posso prendere un tot di reclusione oppure, secondo la riforma che può essere approvata, posso essere direttamente rimesso in misura alternativa che, come suo presupposto, ha una sorta di patto tra me e lo Stato perché io accetti di essere risocializzato. Il mio difensore dirà al Giudice che sono innocente, che il furto non l’ho fatto, e mi chiedo come si possa nello stesso tempo dire: “Beh, se però lo ha fatto è comunque pentito di averlo fatto e merita una misura alternativa…”. Mi sembra veramente una difficoltà grossissima per la stessa parte che si difende e che si difende schizofrenicamente in questo senso, e per il Giudice del processo penale, perché gli è vietata l’osservazione della personalità dell’interessato, per esempio gli è vietata la perizia criminologica sulla pericolosità sociale. Mi chiedo quindi come si possa approvare una norma del genere, se non con un pasticcio, a meno di creare un processo penale a due fasi: la prima sulla responsabilità del fatto e la seconda poi sulla personalità e capacità di rieducazione, il che significa che se oggi un processo può durare anche dieci, quindici anni, immagino che poi duri ancora di più.
Ornella Favero: Vorrei tornare un attimo a quello che diceva il dottor Pavarin, che è poi l’obiezione che viene fatta sulle percentuali della recidiva per chi ha portato a termine un percorso con le misure alternative: è ovvio, si dice, queste persone erano già quelle più “attrezzate”. Guardi, ho riflettuto un attimo, e non sono del tutto d’accordo. Cioè, lei ha ragione a dirlo guardando Padova, che è una città in cui mediamente le misure alternative vengono applicate, ma non credo, per esempio, che persone incarcerate in altre città siano più criminali dei detenuti che vanno in misura alternativa a Padova. Allora ritengo che in quella statistica siano incluse tantissime persone che avevano le stesse condizioni dei detenuti che a Padova vanno in misura alternativa e però non ci vanno: perché? Penso che lo sappiate meglio di me, che ci sono moltissimi rigetti legati quasi esclusivamente al reato, con persone vicinissime al fine pena che però non escono. Allora quella statistica è più interessante di quel che sembra. Anche perché mi sono studiata tante altre ricerche – più limitate, è vero – fatte sulle misure alternative, per esempio in Toscana, ed erano statistiche che dicevano che comunque, anche nell’ambito dei soggetti più a rischio tipo i tossicodipendenti ed i recidivi, quelli che hanno un percorso graduale che comprende l’essere messi fuori in misura alternativa, come fase di “decompressione” prima della libertà, raggiungono dei risultati apprezzabili. D’altra parte l’avete detto tutti che con l’indulto sono state messe fuori delle persone senza controlli, senza niente, ed era meglio se venivano date loro le misure alternative, così da farle uscire in modo graduale e controllato. Quindi veramente, quando ai cittadini si parla di sicurezza, bisogna avere il coraggio di dire che forse tenere la gente in galera fino alla fine per la sicurezza non è un grande investimento. Cioè il Magistrato che non dà le misure alternative forse si sente più tutelato, però la società non è più tutelata se si mettono fuori le persone a fine pena. Giovanni Maria Pavarin: Quello che lei dice è chiarissimo, ma diciamo che bisogna partire dal presupposto che se c’è una tendenza a conservare la pena come in origine è stata decisa dal giudice della cognizione, perché di questo si tratta, c’è chi dà le misure più volentieri e chi le dà meno volentieri. Chi le dà meno volentieri perché lo fa? Perché gli sembra di fare uno strappo a quello che il Giudice della cognizione ha deciso, perché non si fida, perché ha paura, perché gli sembra di dover interpretare così il ruolo che la società gli demanda facendo il Magistrato di Sorveglianza? Bisogna sempre chiedersi il perché del comportamento degli altri.
Ornella Favero: La società avanza certe richieste a volte perché è male informata. Giovanni Maria Pavarin: Ma non scandalizzatevi e tentate di capire; insomma, è giusto anche indignarsi ma non arrabbiarsi, tentare sempre di capire gli altri e pensare di costruire il dialogo con le persone che decidono in un certo modo. Ed è dal dialogo, dal confronto, che nascono la caduta delle paure oppure la miglior comprensione delle ragioni degli altri, e anche un abbassamento del livello di sdegno, perché noi ci sdegniamo a volte quando gli altri tengono un comportamento che noi non avremmo tenuto se fossimo stati nei loro panni. Il fatto che ci sono delle decisioni che vengono prese nel posto X, e che non sarebbero state prese nel posto Y, appartiene alla vita, per cui mi sembra giusto quello che voi dite. Però pensate anche che uno dei parametri attraverso i quali noi potremmo e vorremmo misurare il livello di maturità della persona è quello dell’accettazione della pena. Mi hanno dato dieci anni, dieci anni sono, non hanno detto dieci anni, forse sette anni sicuri e tre anni in misura alternativa. Il sistema è congegnato in modo tale che la pena che è stata inflitta è quella che poi si può trasformare se e quando e con gli strumenti che sapete, però il primo momento di pacificazione della persona con se stessa è quello di accettare la pena. Chiedere la trasformazione della pena in misure alternative non è un diritto soggettivo, è un’ipotesi che la legge fa e che prevede che sia possibile raggiungere con il concorso di tanti elementi, tra cui, purtroppo, ha un peso grandissimo la valutazione discrezionale del magistrato. È vero che è una discrezionalità vincolata perché si basa su certi parametri, però c’è pur sempre tanta discrezionalità in questa materia, discrezionalità intesa come carenza di binari, di ragionamenti imposti dalla legge. Bisogna accettare il fatto che un Magistrato la eserciti in un modo e un altro Magistrato in un modo diverso; la legge dice “quando uno se lo merita, quando è poco pericoloso…”, ma non ti spiega in cosa ciò consista di preciso. È ovvio, una persona può leggere un’ordinanza di rigetto e non trovarsi come la descrivono le motivazioni del rigetto o le carte degli operatori: “Ma io non sono più così, no, no, questi non hanno capito niente…”, e però allora questo è un motivo in più per farsi conoscere oppure per dire in maniera pacifica che non condividete il giudizio dato nei vostri confronti, però non bisogna scandalizzarsi più di tanto. Appartiene proprio al gioco della vita.
Ornella Favero: Sì, ma qui non è in discussione la vita, è in discussione la “non vita”, perché in carcere l’accettazione delle persone ha dei limiti, e lo diceva anche lei che nel nostro Paese ci sono pene molto alte, allora pene alte – perché siccome ci sono le misure alternative le condanne spesso vengono date con larga generosità – e per giunta fatte tutte in carcere, finisce davvero che c’è una differenza enorme tra una pena scontata a Padova e una in un’altra città, insomma è dura da accettare. Va bene la discrezionalità, però c’è qualcosa che forse non funziona nel sistema. Elton Kalica: Io vorrei fare una breve considerazione sul concetto di accettazione. La mia opinione è che non ci sono alternative ad accettare la condanna che ci è stata inflitta, però io distinguerei l’accettazione della pena e l’accettazione della condizione in cui questa pena viene espiata. Sta nella natura degli uomini cercare di migliorare le condizioni in cui vivono, quindi io credo che non sia così ragionevole che un detenuto accetti la condizione in cui vive con rassegnazione. Fino a qualche anno fa ero in una sezione di Alta Sicurezza, e oggi non sarei in redazione se non avessi fatto dei progressi interiori, ma anche se non mi fossi battuto per uscire da lì, per ribadire che io c’entravo poco con quella realtà. Cioè nel mio spirito ho accettato la condanna, ma non ho accettato di dover stare, per il mio reato, in Alta Sicurezza e per questo ho cercato di andarmene da quella sezione. Antonino Cappelleri: Quindi, aldilà del discorso sulla diversità dei metri di giudizio delle magistrature delle varie zone, io leggo una prima critica alla pena, cioè quello che stride è sentirsi sottoposti a una pena che non funziona, mi pare che alla fine vogliamo dire questo. In qualche modo bisogna però superare la netta separazione pena carcere-pena extra carcere, pena cattiva-pena buona. In realtà il carcere non è un monolite, qui a Padova, per esempio, secondo me abbiamo un carcere che funziona meglio degli altri. Alla fine devo anche accettare la sorte, tutto è perfettibile ma ci sono dei limiti anche obiettivi, di opinione pubblica, della classe politica…
Marino Occhipinti: Guardi, non è comunque facile accettare la sorte. A volte ci arrivano in redazione lettere di persone detenute in altre carceri, e si nota subito la “rabbia” di chi vive una detenzione di venti ore al giorno chiuso in cella e le altre tre-quattro in un cortile a camminare avanti e indietro rispetto a chi, invece, vive una detenzione un po’ più “costruttiva”, magari con un lavoro, con lo studio, con le attività, con i volontari che entrano. Insomma, penso che quando vengono date delle possibilità, e qui a Padova le opportunità ci sono, le persone possono anche cambiare, riflettere. È ovvio che non può essere data a tutti l’opportunità di sedersi di fronte ad Olga D’Antona, di ascoltarla, di percepire il suo dolore, così come forse non è possibile partecipare a qualcosa come 16 incontri con 70-80 studenti ogni volta, come abbiamo fatto noi in questi mesi, ed anche se è una fatica terribile, penso però che siano delle opportunità irripetibili. Giovanni Maria Pavarin: Mi colpisce però questa idea tutta italiana di voler sempre cambiare le leggi. La Costituzione non va bene? Allora cambiamola, mentre in realtà leggendola ho avuto la sensazione che sia bellissima, ma a volte, siccome non ci va bene la realtà così com’è, ne pretendiamo un’altra senza renderci conto che basterebbe attuare gli strumenti che abbiamo. Se noi dessimo attuazione all’Ordinamento penitenziario non avremmo l’esempio che ha fatto Marino Occhipinti sul detenuto che sta venti ore in cella: io vedo, leggo, vi seguo sempre, e sono contento perché usate il vostro tempo e le vostre capacità, e allora perché non lo fate anche per chiedere quello che già rientra nei vostri diritti? Chiedete allo Stato che attui quello che ha scritto per voi: cominciate a chiedere le cose che vi spettano con calma ma anche con fermezza. Per sistemare 50mila persone in carcere non servono miliardi di euro, ne servono molto ma molto meno, e vincendo questa battaglia civile si convincerà l’opinione pubblica che se si chiedono queste cose nessuno può dire nulla. È solo il carcere che funziona davvero quello che può davvero produrre misure alternative, stroncare la recidiva e fare tutte le cose utili che sono nella sua natura e nelle sue funzioni. La pena deve essere improntata a passaggi sempre più incisivi verso un percorso liberatorio Responsabilizzare più che rieducare
Acquisire capacità di autocustodirsi nel rispetto dell’altro: questo è il senso della pena
di Maria Longo Magistrato di Sorveglianza a Bologna
Un intervento improntato a sinergia tra le diverse istituzioni che lavorano sulla persona che commette reati può portare ad una nuova definizione del proprio essere sociale, ad acquisire capacità di autocustodirsi nel rispetto dell’altro: questo è l’obiettivo della pena. Questo percorso non può vedere estranea la società civile, la collettività, perché la trasgressione prende corpo, si materializza in un determinato contesto sociale: quanto più questo contesto si mostri in grado di riconoscerla come esperienza – pur negativa – propria, tanto più è in grado di rispondere in modo costruttivo. Non perché il disagio, l’emarginazione, le debolezze soggettive e relazionali siano da individuare come causa della trasgressione, ma per tener conto di un dato di realtà: nell’emarginazione sociale, nel problema individuale, nel problema relazionale, si può con maggior rischio determinare una reazione trasgressiva. Se al bisogno ed al disagio che può manifestarsi anche in età precoce nell’ambito famigliare, non viene data tempestiva risposta – è fondamentale saperne decodificare e cogliere i segni all’esterno della famiglia, già nella prima infanzia – il disagio può provocare grossi danni alla persona ed alla collettività: lo strappo sociale provocato dal reato ha ricadute sia come costi che come insicurezza indotta (strutture necessarie per dare risposte contenitive da un lato, vittime del reato dall’altro). Beccaria diceva che il livello di una civiltà si misura dal grado di organizzazione delle carceri. Osando oltre, si può affermare che il grado di una civiltà si misura dalla capacità di riconoscere la trasgressione come intranea al proprio tessuto sociale, e così di riportarla nel proprio ambito, di restituirla ai servizi del territorio, forse sordi nel momento in cui il disagio si è manifestato. Il recente provvedimento di indulto può essere un utile spunto per ripensare alla funzione della pena: perché erano detenuti quelli che, improvvisamente, sono stati scarcerati senza un progetto? Era un’inutile detenzione? Era un’ingiusta detenzione? È doveroso interrogarsi su quale sia la funzione della pena, aggiornando i ragionamenti, così da rendere attuale la risposta dell’istituzione alla trasgressione: risposta che è sempre cambiata nel tempo. Funzione “retributiva”, “afflittiva”, “rieducativa”: perché non di responsabilizzazione? (aggiornando il linguaggio ed aggiornando il termine si comunicano nuovi intenti). Responsabilizzare significa: custodisciti da solo, così non hai bisogno del contenitore esterno. Guarda l’altro, rispetta l’altro. Il reato in fondo che cos’è se non un’aggressione – anche in senso traslato – all’altro? È il senso del re-inserimento o di un iniziale, corretto inserimento che è proprio il compito del giudice della pena: tentativo di responsabilizzare, presupposto di una volontà di cambiamento nella persona. Non esiste una predestinazione al reato: dal reato si può entrare ed uscire, si possono determinare momenti di vita in cui prevalgono le pulsioni aggressive non gestite, l’interesse proprio che schiaccia l’interesse altrui. Il processo di responsabilizzazione comporta la presa in carico della propria parte aggressiva, imparando a riconoscerla ed a gestirla; il passo successivo comporta il riconoscimento della vittima. A mio avviso questo è il compito del giudice della pena, che trova possibilità di avere concretezza proprio attraverso gli strumenti dell’Ordinamento penitenziario. Non benefici, ma strumenti diretti allo scopo della responsabilizzazione, per restituire alla collettività una persona consapevole dell’esigenza di aderire al “patto sociale” rotto con il reato. È un compito diretto che deriva dalla Costituzione e dalla legge ordinaria, che non ammette né riserve, né obiezioni.
È possibile che la discrezionalità coincida con l’arbitrio?
Soddisfatti i presupposti giuridici che sono legati al tempo dell’espiazione della pena ed al tipo di reato, il giudice deve fare una valutazione dell’evoluzione possibile della persona attraverso i vari momenti di osservazione. Momenti intramurari fin quando non è possibile una ammissione all’esterno, ma che comunque coinvolgono diverse persone e istituzioni preposte proprio al tentativo di fuoriuscita dal crimine (irrinunciabile è anche la conoscenza diretta, da parte del giudice, delle persone di cui si occupa). Dov’è il limite della discrezionalità nella valutazione della possibilità di applicare o non applicare questo o quell’istituto dell’Ordinamento penitenziario? È possibile che la discrezionalità coincida con l’arbitrio? È un interrogativo che è sempre necessario porsi in senso critico, perché è un grande rischio che la Magistratura di Sorveglianza corre: che la discrezionalità si possa ampliare tanto, da arrivare a non dare una logica, stringente e corretta giustificazione rispetto ad una non applicazione degli strumenti dell’Ordinamento penitenziario. La legislazione che ci regola dà realmente tante opportunità di liberare dalla pena inutile e di fare che la pena diventi un momento di formazione, un momento di ricostruzione di una personalità disarticolata. Il percorso liberatorio è tracciato in una stringente progressione: dal permesso premio, all’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento, alla detenzione domiciliare in tutte le sue forme molteplici. E se questa progressione non può chiamarsi diritto, è certamente una forte aspettativa della persona in esecuzione pena. Allora che cos’è discrezionalità? Può la Magistratura di Sorveglianza restringere l’applicazione, o deve confrontarsi con il precetto costituzionale e con la legge che è improntata appunto a passaggi sempre più incisivi verso un percorso liberatorio? Osare, promovendo sinergie al fine di una costruzione di un progetto utile per la persona, porta ad emancipazione non solo dal carcere ma anche dalla trasgressione, con riflessi positivi sulla collettività, e costituisce una grande risposta alla richiesta di sicurezza: una risposta sensata che non vuole creare nuovi vincoli ed esclusioni, ma restituire persone responsabili. In questa materia, probabilmente la legge è più avanti rispetto alla capacità della collettività di accettare il “rischio” dell’applicazione dell’Ordinamento penitenziario. Ma verificata la sussistenza dei presupposti dando conto dei percorsi, non c’è spazio per decisioni arbitrarie di non applicazione di una legge. Viviamo oggi una schizofrenia del sistema normativo. Da un lato, per diminuire la popolazione detenuta, si emana l’indulto, dall’altro si creano norme che aumentano invece necessariamente l’ingresso in carcere, e comunque l’ambito dell’esecuzione penale: - la legge ex Cirielli, che eleva in un modo considerevole i termini per l’ammissione alle misure alternative per i recidivi (sappiamo benissimo che tra i recidivi rientrano i tossicodipendenti, le persone più svantaggiate, che sono proprio quelle sulle quali è più necessario elaborare progetti di sostegno: in mancanza ricadono nel reato). Proprio su queste persone la legge ci vieta di agire, se non dopo un’altra lunga attesa, che rafforza ovviamente gli intenti di trasgressività, e che allontana sempre di più una corretta esecuzione dal momento della trasgressione penale e dall’emergere del disagio (quanto è lontana spesso l’esecuzione dal momento della trasgressione! quanto colpisce persone che sono “altre” rispetto a quella che ha commesso quel determinato reato! quante volte, al contrario, l’esecuzione arriva subito dopo la trasgressione, senza minimamente tener conto dell’emergenza personale?). - l’art. 14 della Bossi-Fini (condanna penale per la non ottemperanza all’obbligo di espulsione) ha provocato intasamento delle carceri: 10.000 detenuti in esecuzione). - la nuova legge sulla tossicodipendenza (legge cosiddetta Fini-Giovanardi) pur introducendo spunti positivi crea a sua volta nuovi vincoli. È possibile che si arrivi ad indicazioni maggiormente univoche con la riforma del Codice penale in corso di elaborazione, nella quale sono da valorizzare due strumenti, utilissimi, già presenti del resto nel nostro processo minorile e che in quell’ambito danno ottimi frutti: la messa alla prova con l’elaborazione di un progetto sulla persona e l’irrilevanza del fatto (del fatto, non del reato: non significa che al reato non si debba dar peso, irrilevanza nel percorso di vita di una persona come fatto del tutto occasionale e come fatto poco aggressivo con riconoscimento della vittima, risarcimento o riparazione sociale) Ripensando alla funzione della pena, all’obiettivo che ci poniamo, possiamo chiedere al legislatore maggiore coerenza e a noi operatori maggior coraggio nelle scelte verso una progressione liberatoria. Quando il sistema penale mostra indifferenza verso le sorti del condannato Rivedere l’istituto della sospensione della pena
Le pene alternative date dal giudice dovrebbero essere pene con immediata presa in carico, al momento della pronuncia della condanna
di Paolo Canevelli Magistrato di Sorveglianza a Roma
Nel dibattito sulla pena nel nostro Paese si fa strada l’idea che la carcerazione rappresenti oggi la risposta più facile ed al tempo stesso meno adeguata per fronteggiare le forme di devianza sociale. Tale affermazione è spesso accompagnata da una diretta critica al sistema delle misure alternative sia quanto alle previsioni normative che ne limitano la concreta operatività, sia per quanto concerne l’applicazione delle stesse da parte della Magistratura di Sorveglianza. È stato espresso di recente, da parte della massima carica dello Stato, l’auspicio che, attraverso opportuni interventi di riforma del sistema penale e penitenziario, si giunga a considerare la pena detentiva come extrema ratio, come sanzione da applicare solo relativamente ai reati che producono maggiore allarme sociale. Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo, che si svolge nell’ambito dei lavori della Commissione di riforma del Codice penale (Commissione Pisapia), persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, affiancando alla tradizionale pena detentiva (unica in concreto applicata) un nuovo catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione, già previste dall’Ordinamento penitenziario, per dotare la Magistratura di Sorveglianza di strumenti sempre più efficaci per favorire il reinserimento sociale dei condannati (proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario redatta dal Presidente Margara). Limiterò questo mio breve intervento alle ipotesi di lavoro che si stanno delineando all’interno della Commissione di riforma del Codice penale, anche per verificarne la praticabilità rispetto al complesso quadro normativo che regola la fase di esecuzione della pena. L’eccessivo ricorso alla carcerazione nel nostro sistema penale è il dato di partenza di ogni riflessione. E, tuttavia, l’osservazione della realtà degli istituti penitenziari e delle presenze che si registrano al loro interno evidenzia come tale affermazione trovi ampio e positivo riscontro, in particolare, durante la fase delle indagini preliminari e del successivo accertamento delle responsabilità (primo e secondo grado del processo di merito), potendosi constatare un consistente ricorso da parte dei giudici alla misura della custodia cautelare in carcere. Le statistiche dei detenuti presenti alla data del 31 dicembre 2006 negli istituti penitenziari della regione Lazio informano che su un totale di 3.900 detenuti, circa il 60% è in attesa della condanna definitiva e, quindi, ancora in stato di custodia cautelare. Non può sfuggire che il basso dato percentuale concernente i condannati definitivi trae origine da una stratificazione normativa disordinata e spesso schizofrenica degli interventi di riforma predisposti per la fase esecutiva, a volte caratterizzati da una esasperata tendenza a rinviare il momento della esecuzione (attraverso forme di sospensione più o meno automatica), ovvero, da improvvisi inasprimenti sollecitati da campagne di stampa che producono allarme nella opinione pubblica (dalle preclusioni previste per i reati di cui all’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, alla nuova disciplina della recidiva). Nella fase esecutiva, dunque, la carcerazione, pur rappresentando l’unica risposta sanzionatoria, risente di una serie di impulsi (legati anche alla eccessiva dilatazione dei tempi del processo) che la rendono in qualche modo inevitabile, ma che spesso ne comportano una concreta applicazione a distanza di molti anni dal reato commesso. Una carcerazione che intervenga a sanzionare con la privazione della libertà personale un individuo per un reato commesso dieci o anche quindici anni prima non è degna di un Paese civile, in quanto si pone essa stessa di ostacolo a processi di risocializzazione eventualmente già avviati.
È sempre più difficile accedere alle misure alternative dal carcere
Se il carcere rappresenta, quindi, l’unica risposta che l’Ordinamento è in grado di offrire ai problemi della devianza, si deve sottolineare, d’altra parte, come per chi sia entrato nel circuito carcerario risulti sempre più difficile accedere alle misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario. Gli ostacoli sono molteplici, ma per lo più riconducibili alle seguenti situazioni. Spesso le pene detentive di breve durata (entro un anno) vengono espiate integralmente in carcere da chi sia sottoposto a custodia cautelare, a causa della insufficienza dei tempi per avviare una effettiva osservazione penitenziaria e predisporre, quindi, un programma di trattamento adeguato alle caratteristiche individuali della persona condannata. In molti casi, persone che hanno alle spalle una devianza non marginale e che hanno riportato negli anni diverse condanne, si trovano, in occasione del più recente episodio criminoso, a dover subire l’adozione da parte del Pubblico Ministero di un provvedimento di cumulo (con frequente revoca di benefici in precedenza concessi) che finisce per determinare una quota di pena incompatibile con alcuno dei benefici penitenziari previsti. La difficoltà di accesso alle misure alternative è normativamente imposta, per altro verso, nei confronti delle persone condannate per reati ricompresi nella previsione dell’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, per una parte dei quali ogni misura esterna è preclusa per legge, salvo che non sussista una attività di collaborazione con la giustizia. Vengono in considerazione, per ultime (ma rappresentano un numero sempre più rilevante) le persone condannate che si inquadrano nella cosiddetta marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti di lunga data, disagiati psichici e psichiatrici), nei confronti delle quali il ricorso alle misure esterne è reso particolarmente difficoltoso dalla assenza di idonei riferimenti in grado di sostenere praticabili percorsi di inclusione sociale. L’incremento che negli ultimi anni si è registrato nella applicazione di misure alternative alla detenzione riguarda soprattutto il settore degli interventi realizzati nei confronti di condannati liberi che si sono presentati davanti ai vari Tribunali di Sorveglianza dopo i provvedimenti sospensivi previsti dalla legge Simeone (legge n. 165 del 1998). Il sistema descritto in questa breve premessa non si dimostra, tuttavia, sempre in grado di assicurare l’efficacia degli interventi sia in chiave di reinserimento sociale dei condannati, sia a livello di tutela da possibili e, purtroppo, frequenti forme di recidiva. Per riflettere insieme sui problemi cui ho accennato, credo possa essere utile presentarvi un caso concreto, relativo ad una persona attualmente detenuta in un istituto detentivo a Roma, per verificare il livello di funzionalità degli interventi messi in atto nei suoi confronti e valutare, poi, se la riforma del Codice penale con i suoi contenuti sanzionatori, prevalentemente prescrittivi e non detentivi, sia in grado di produrre migliori risultati in termini di reinserimento sociale. Si tratta di una persona detenuta perché, in un lungo arco di tempo, ha commesso oltre dieci reati ed ha subito perciò una serie di condanne che nel corso degli anni (10 anni) non lo ha mai costretto ad un periodo di carcerazione di durata significativa. Dopo aver subito dei brevissimi periodi di carcerazione preventiva (quasi mai superiori a tre o quattro giorni), riusciva, infatti, a beneficiare della misura della sospensione condizionale della pena, che gli è stata concessa per ben sei volte. Continuando a commettere reati (prevalentemente contro il patrimonio, ma anche relativi alla detenzione al fine di spaccio di stupefacenti) senza che nessun servizio o istituzione pubblica l’abbia mai preso in carico, si è trovato nel 2005 a commettere un ultimo furto, un furto banale, di entità modesta, per il quale è stato condannato ad una pena detentiva di breve durata. Approfittando del suo stato detentivo, la competente Procura della Repubblica ha inteso verificare la complessiva situazione giudiziaria e penale di tale persona, provvedendo alla emanazione di un cumulo che ha portato la pena complessiva ad oltre 9 anni di carcere. L’aspetto più sorprendente di tale vicenda non è tanto il numero di anni che si sono sommati arrivando fino a nove, quanto il verificare che, a fronte di una serie di reati ripetuti nel tempo a breve distanza l’uno dall’altro, questa persona aveva scontato solo tre anni circa di carcerazione preventiva, trovandosi, quindi, a dovere espiare, una volta formato il cumulo, una pena detentiva residua di oltre 6 anni di carcere. L’entità della pena residua rendeva, pertanto, impossibile qualunque ipotesi di misura alternativa, senza considerare che le prospettive di recupero del giovane (già tossicodipendente da molti anni) si erano nel frattempo assai complicate, a causa del progressivo deterioramento delle condizioni personali, anche rispetto all’abuso delle sostanze, ed alla perdita quasi totale di riferimenti affettivi e familiari in grado di supportare un eventuale percorso terapeutico. Solo il recente provvedimento di indulto del luglio scorso ha riportato la situazione in limiti accettabili, con la rideterminazione di una pena detentiva inferiore ai quattro anni, dalla quale ripartire verso possibili forme di cura e riabilitazione. Il punto critico della situazione che vi ho rappresentato (che è assolutamente frequente negli istituti penitenziari) si scorge ove si consideri che questa persona, tossicodipendente nel 1991 e che commetteva reati per procurarsi la dose di sostanza necessaria, per oltre un decennio non è stata presa in carico da nessuno. Allora mi chiedo, cos’è che ha spinto l’ordinamento (lo Stato nel suo insieme) a mostrare questa faccia così clemente, così indulgente nei confronti del condannato tanto da fargli scontare, a fronte di nove anni di pena complessiva, solo tre anni di pena? L’idea riabilitativa o risocializzante della sanzione? Non credo si possa sostenere che la concessione per sei volte della sospensione condizionale della pena (con implicito invito a proseguire nella propria condotta deviante, vista l’assenza di reazione da parte dell’ordinamento) faccia parte di un programma di intervento razionale volto a favorire il superamento delle problematiche evidenziate dal giovane. Piuttosto, mi sembra di scorgere nell’atteggiamento dell’ordinamento una palese indifferenza verso le sorti del condannato, che si è consumata attraverso una forma di totale disinteresse nei confronti di chi si era reso responsabile di reati che trovavano la loro origine in una forma di disagio sociale aggravata dall’abuso di sostanze stupefacenti.
È fallimentare la sospensione condizionale della pena senza il contestuale avvio di un progetto di recupero
Con quale autorevolezza lo Stato, finora assente, si presenta oggi al condannato ricordandogli che il debito contratto con l’amministrazione della giustizia è, per così dire, lievitato nel tempo a causa di una mancata tempestiva risposta degli organi competenti? La fallimentare politica penale della mera sospensione condizionale della pena, ripetuta illegittimamente nel tempo, senza il contestuale avvio di un progetto di recupero in favore del giovane autore di reati, ha prodotto solo un incremento di reati e di conseguente carcerazione, tanto più grave perché la privazione della libertà personale si concretizza, per un periodo di tempo medio lungo, a distanza di oltre dieci anni dall’inizio della devianza, in presenza di una situazione particolarmente aggravata sul piano personale, rispetto a 10 anni fa, e complicata dall’insorgere di gravi problemi psichici. Occorre domandarsi, in proposito, se le soluzioni normative ipotizzate dalla Commissione di riforma del Codice penale, ove applicate al caso in esame, avrebbero determinato un risultato diverso e più attento alle istanze risocializzanti del condannato. In altre parole, la tipologia degli interventi auspicati con il ricorso a sanzioni principali diverse da quella detentiva avrebbe potuto mutare sensibilmente il quadro di riferimenti del condannato ed avviarlo verso un progetto di recupero già durante la fase di uno dei tanti processi conclusi con la sospensione condizionale della pena? Credo che una risposta positiva possa essere data solo ove si immagini che le pene alternative irrogate con la sentenza di condanna siano accompagnate da una previsione di immediata operatività, nel senso che le misure di sostegno e di controllo che le caratterizzano possano essere attivate fin dal momento della emissione della sentenza di condanna di primo grado. Tale precisazione si rende indispensabile, in quanto le sanzioni irrogate in sostituzione della pena detentiva, per risultare efficaci, non possono attendere i tempi necessari per la definitività della sentenza, in quanto del tutto imprevedibili e, soprattutto, non coordinati con le reali necessità di recupero del soggetto. Occorre sottolineare con forza, in questa sede, come la presa in carico di una persona da parte di servizi o istituzioni pubbliche o private (gli UEPE i Ser.T., le Comunità terapeutiche…), ai fini dello svolgimento di una prova o di una misura prescrittiva, non possa essere rinviata nel tempo in attesa della irrevocabilità della sentenza, pena il suo sostanziale fallimento. Ritengo, pertanto, che gli approfondimenti ancora in corso nell’ambito dei lavori della Commissione per la riforma del Codice penale debbano farsi carico di questa problematica, perché si dovrà realizzare un sistema che consenta al giudice del processo di disporre, prima della irrogazione della pena non detentiva, di tutta una serie di informazioni (acquisibili anche attraverso l’indagine affidata agli UEPE) che potranno supportare la decisione così da costruire un percorso che vada concretamente nella direzione di un tentativo di possibile risocializzazione del condannato. In tale prospettiva, si dovrebbe partire ricercando la condivisione, da parte della persona sottoposta a processo, di un meccanismo di anticipazione della presa in carico, funzionale al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, che potrebbe trovare la sua sede naturale in una sorta di accordo tra le parti, reso ufficiale dall’intervento del giudice, per l’applicazione di una pena prescrittiva, di tipo non detentivo, che non intervenga sul quantum di pena, ma sulla modalità di applicazione della pena stessa. Per quanto concerne, infine, l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, pure previsto nell’ipotesi di riforma del Codice penale, ritengo che la misura possa e debba trovare ingresso nel diritto penale degli adulti, con le stesse modalità già previste per i minori autori di reato e, quindi, senza limiti di pena o esclusioni collegate alla tipologia del reato commesso o alla personalità del condannato. Immaginare che questa particolare misura di probation possa, nel mondo degli adulti, essere applicata con ristretti limiti di pena (si parla di reati puniti, in astratto, con pene non superiori a tre anni), dimostra una mancata consapevolezza dei meccanismi che presiedono l’applicazione del sistema penale nel suo complesso ed apre la strada ad una prevedibile impossibilità di applicazione dell’istituto, senza contribuire a risolvere alcuna delle esigenze prospettate all’inizio. Quella “presa in carico” che non c’è Mark, 24 anni, fine pena 2033
È la storia di un giovane ragazzo albanese con una condanna lunghissima per piccoli reati, e molti processi ancora da celebrare
di Marino Occhipinti
Dopo aver letto l’intervento di Paolo Canevelli, Magistrato di Sorveglianza a Roma, ho pensato di raccontare la storia giudiziaria, e anche umana, di un ragazzo che è in sezione con me. Si chiama Mark, o meglio tutti lo chiamiamo così, anche se il suo vero nome è un altro. È albanese, ha 24 anni ed è in carcere da tre. Quando è arrivato in Italia, come tanti suoi connazionali clandestinamente, a bordo di un gommone, di anni ne aveva appena 16. Non era “in cerca di fortuna”, come si sente solitamente dire, ma soltanto di un lavoro che gli permettesse di vivere dignitosamente, con qualche speranza in più di un futuro migliore di quel che, invece, gli poteva offrire a quei tempi il suo Paese. Certamente non immaginava, quando salutò i suoi familiari che dal 1998 non ha più rivisto, e salì sul gommone che gli consentì di attraversare il mare, come sarebbe andata a finire… Quando Mark arriva nella mia sezione sono praticamente il primo a conoscerlo, perché viene messo in cella con un amico romeno col quale mangio quasi ogni sera. Quindi ci vediamo lì all’ora di cena, mangiamo assieme e lui si mostra subito spigliato, gioviale, sorridente e molto alla mano, una persona con la quale, proprio per il suo carattere, è molto piacevole dialogare, anche se si esprime in un italiano un po’ stentato. Ad un certo punto, non so bene per quale motivo – forse perché è molto giovane, ha pochi anni in più delle mie figlie, e più che dietro le sbarre, chiuso in una cella, me lo immagino fuori, a godersi la vita e la libertà – mi viene spontaneo domandargli quanto tempo dovrà ancora rimanere in carcere. “Per ora mi hanno condannato a 29 anni e sette mesi, ma ho ancora tre processi da fare. Mi hanno scoperto grazie ai RIS di Parma, quelli che fanno vedere in tv, con le impronte digitali e per i mozziconi di alcune sigarette”, mi risponde incupendosi improvvisamente. Abbassa lo sguardo, si passa una mano davanti al viso per farmi capire di lasciar perdere, e comincia a sistemare le sue poche cose appoggiate sulla branda. Qualche indumento, la “fornitura della casanza” (piatti posate bicchiere caraffa e secchio, tutto rigorosamente in plastica), ed una borsa con una ventina di cappellini – che nei giorni successivi appenderà in cella – di tutte le marche e di tutti i colori, dono dei compagni di carcerazione che via via sono usciti. Così come vorrebbero le regole non scritte della galera (ma anche il buon gusto della riservatezza) cerco di scacciare la curiosità ed evito di domandargli per quale reato è detenuto, ma mi assale la sensazione che Mark possa comunque aver bisogno di scaricare la sua disperazione, la sua angoscia, insomma di confidarsi con qualcuno; o forse, in quel giovane ragazzo, rivedo me stesso molti anni fa, e in qualche modo qualcosa ci lega: la condanna. Una trentina di anni da scontare lui, l’ergastolo io. Per essere stato condannato ad una pena così alta, penso tra me e me, avrà sicuramente ucciso qualcuno, e proprio perché so quanta fatica mi costi pronunciare le parole ERGASTOLO ed OMICIDIO ogni volta che qualcuno mi chiede quale sia la mia pena e quale il mio reato, cerco di alleggerire il discorso ricorrendo ad alcune frasi di circostanza. Gli spiego che adesso che lo hanno messo a lavorare e che lo hanno spostato in questo piano, una sezione più tranquilla delle altre proprio perché siamo tutti “lavoranti”, il tempo scorrerà più velocemente. E magari tra qualche anno potrà cominciare a chiedere i primi permessi… Gli dico poi che, anche se ha commesso un reato molto grave, immagino si tratti di omicidio, deve comunque andare avanti, affrontando tutto con quanta più forza possibile… Mark riacquista improvvisamente il sorriso, e, nel suo italiano incerto, mi interrompe: “Ma che omicidio e omicidio! Furti, io fatto furti. Rubato e basta, no omicidio”. Si sta prendendo gioco di me, penso: non è possibile che per aver “soltanto” rubato sia stato condannato a quasi 30 anni di carcere! Sicuramente quelli che lui definisce “solamente” dei furti, in realtà saranno almeno delle rapine, magari le tanto temute rapine in villa dove avrà quantomeno ferito qualcuno. Insomma, cerco di “giustificare e di comprendere” il perché di una pena così spropositata… Lui si accorge della mia incredulità, e allora tira fuori dalla borsa una carpetta rossa, piena zeppa delle sue carte processuali. Io dico che no, non voglio leggere cose che non mi riguardano, ma lui insiste, anzi mi chiede di portarmi tutto in cella, così, con un po’ di calma, posso aiutarlo a capirci qualcosa. Intanto comincia a raccontarmi dei pezzi della sua vita; dice di essere affascinato dalle macchine di lusso, quelle potenti e costose che lui non potrà mai permettersi, che prima di arrivare in Italia dall’Albania aveva visto soltanto in tv. Adesso invece le Porsche, le Audi, le Mercedes e le Bmw erano lì, a portata di mano, e bastava aspettare il momento giusto, possibilmente al calare delle tenebre, per farsi una corsa nella notte. E se polizia o carabinieri lo inseguivano, si infilava nell’autostrada tutta curve del Trentino, “dove loro, ai 200 chilometri orari, evitavano di rincorrermi per evitare che succedessero incidenti gravi”. Gli chiedo cosa ne facesse poi delle macchine, se dopo averle rubate le “rivendeva”. Mi dice di no, che a lui piaceva soltanto guardarle, toccarle, “farci un giro”, magari dormirci una notte se proprio non aveva dove andare, dopodichè le abbandonava in qualche paese vicino e magari, per tornare indietro o per spostarsi da un’altra parte, ne rubava un’altra, sempre di lusso e sempre potente. E anche per mantenersi, per vivere, “dal momento che come clandestino non ti assume nessuno”, ancora furti. “Ma senza mai fare del male a nessuno”, mette le mani avanti.
Se ci fosse stata davvero una “presa in carico” immediata…
In effetti, dalle carte che a tutti i costi vuole farmi leggere, è proprio così. Una lunga serie di furti: automobili, cellulari, la cassa di qualche negozio, una mezza dozzina di computer, parecchi portafogli. In un’occasione ha rubato una coppia di lenzuola e relative federe da una camera d’albergo; un’altra volta, sempre da un albergo, si è portato via un accappatoio: “Mi aveva rincorso la polizia, sono stato nascosto tra la neve per un paio d’ore, ero tutto bagnato e stavo per morire dal freddo, avevo bisogno di coprirmi”, mi spiega. Un’altra volta ancora ha rubato due fette di torta dalla cucina di un ristorante: “Avevo i crampi allo stomaco, erano due giorni che non mangiavo”, racconta, e poi ancora tre bibite Red Bull da un bar. Per ogni furto, anche a causa degli inasprimenti di pena previsti dalla legge ex-Cirielli sulla recidiva, la condanna oscilla tra i sei mesi e un anno, ma anche due. Gli episodi contestati a Mark sono talmente tanti che, quando i processi vengono celebrati – sempre con avvocati d’ufficio, ogni volta diversi perché non può certamente permettersene uno di fiducia – il suo fine pena si allontana sempre più nel tempo, fino a diventare un minuscolo puntino nero, una data inaccettabile per un giovane che, come lui, sprizza energia e voglia di vivere da tutti i pori. Mi rendo conto che il tribunale della città dove viveva Mark in fatto di condanne scherza poco (non che altrove siano molto più clementi, nonostante l’idea d’impunità che i media inculcano nell’opinione pubblica) quando, sfogliando le varie sentenze, ne trovo una che raggruppa tre furti, sulla quale ci sarebbe da sorridere se soltanto la situazione non fosse drammatica. “Imputato… 1) del delitto di furto per essersi, al fine di trarne profitto, impossessato di una porzione di formaggio… 2) del delitto di furto di una parrucca… 3) del delitto di furto di un portafoglio contenente l’importo in contanti di euro 5,00 (cinque)…”. Per questi reati Mark è stato condannato, solo perché ha limitato i danni scegliendo di patteggiare e beneficiando quindi di un consistente sconto di pena, a due anni e sei mesi di reclusione e 400,00 euro di multa. Nei 5 anni in cui Mark ha vissuto in Italia da libero, è stato denunciato alcune volte. In altre occasioni invece è stato arrestato, ma dopo pochi giorni, in attesa della fissazione della data del processo, è stato scarcerato. Ora, pian piano, gli sta arrivando il conto, anche per tutti i furti per i quali non era mai stato fermato ma dei quali – o per le impronte digitali o per i mozziconi di sigarette analizzati dai RIS di Parma – risulta essere responsabile. Durante tutti quegli anni, ad eccezione delle forze dell’ordine, nessuno si è mai interessato a lui, e la sua situazione giudiziaria si è man mano aggravata. Riflettendo sulle considerazioni del Magistrato Canevelli, penso che se ci fosse stata una “presa in carico” immediata da parte di qualche ente, allo stesso modo in cui il condannato viene affidato in prova ai servizi sociali, dove gli assistenti sociali “controllano e sostengono” la persona condannata, probabilmente si sarebbero evitati numerosi reati e, di conseguenza, anche parecchi anni di galera a Mark. Che, pochi giorni fa, mi ha portato l’ennesima “carta” da leggere perché lui non ne è capace. Anche questa gli è arrivata dalla stessa procura del Trentino. Da quando l’ho conosciuto, e sono trascorsi soltanto pochi mesi, i processi ancora da celebrare nei suoi confronti non sono più tre, ma nel frattempo sono saliti ad una decina. Stavolta la procura gli ha inviato la richiesta di rinvio a giudizio per furto in abitazione: 80 euro il bottino…
Eppure, proprio recentemente, ho letto una statistica sulla permanenza media in carcere, divisa per reati, e sono rimasto sconcertato. Sembra infatti che per i furti il carcere non se lo faccia nessuno: la media è di 43 giorni in custodia cautelare e 167 per la pena definitiva… Ma questa è un’altra storia.
|