Donne Dentro

 

Il percorso di reinserimento deve essere graduale

Oggi parto dalla felicità a sentirmi di nuovo una persona libera

 

Non si può “scaraventare” una persona di colpo in una società che non la vuole, che la vede come “diversa”. C’è bisogno assoluto di queste benedette “misure alternative”!

 

di Paola Marchetti

 

Non voglio dire ancora delle misure alternative cose che sono già state dette e ridette, penso che conti di più raccontare qualcosa sulla propria esperienza, vissuta sulla propria pelle. Forse le proprie sensazioni e le proprie sofferenze si possono ancora usare come punto di partenza per un discorso più ampio, che non sia solo tecnico, e che tenga conto dei fattori psicologici, che sono poi quelli che ci spingono a scegliere un certo tipo di vita anziché un altro, e poi a seguire un certo percorso invece che un altro anche durante l’espiazione della propria pena.

Allora da qui parto, dalla felicità che provo a sentirmi di nuovo una persona LIBERA, dopo sei anni e mezzo di galera, pur se con gli ultimi sei mesi vissuti lavorando all’esterno, con un articolo 21 datomi dalla direzione, che per me è stato un riconoscimento importante del mio impegno in un percorso di cambiamento. Libera di farmi un documento d’identità; libera di portarmi a casa da mangiare quello che voglio e non solo “le cose nella lista”; libera dalle perquisizioni delle celle, dal vedersi le proprie cose, dagli abiti alle mutande alle fotografie, toccate, spostate; libera dalle perquisizioni degli astucci degli occhiali da vista ogni sera quando, rientrando dal lavoro per dormire in carcere, viene accuratamente controllato ciò che ci si porta in cella; libera dal dover fare la “domandina” anche per respirare; libera dal dover dare ragione a persone che magari sai che non ce l’hanno, solo per evitare ritorsioni, perché “il coltello dalla parte del manico” finché sei in carcere ce l’hanno sempre gli altri, mai tu. Ma felice anche perché tutto il lavoro, tutta la fatica di questi sei anni e mezzo sono stati riconosciuti con l’accoglimento della mia richiesta di affidamento ai servizi sociali.

Il carcere è faticoso anche se non si fa nulla, figuriamoci poi se si tenta di fare un lavoro su se stessi, lavoro che per come sono strutturate le carceri italiane diviene a volte titanico, perché spesso ci si sente circondati dalla volontà che tutto rimanga com’è, che il detenuto non scocci più di tanto, che non pretenda di studiare, di pensare, di progredire, di diventare qualcosa di diverso da ciò che era.

La fatica immane che io ho fatto, con l’aiuto di qualcuno e il boicottaggio da parte di altri, per affrontare gli studi universitari, che già di per sé è duro in una situazione di detenzione (anche se c’è ancora chi, senza conoscere la situazione reale, ti dice che tanto in carcere non si fa nulla per cui c’è tutto il tempo per studiare…), fatica che solo la mia ferrea volontà di proseguire e l’aiuto di pochi “illuminati” mi hanno permesso di superare; il fatto che ho preparato tutti gli esami universitari senza l’aiuto di alcun professore; il fatto che ho sempre lavorato, magari part time; il fatto che malgrado le avversità, che non sono state poche – dalla grave malattia di mio padre, all’errore del laboratorio di analisi che mi ha trovato positiva ad una sostanza che non prende più nessuno e che mi ha bloccato i permessi premio per quasi quattro mesi – non ho mai smesso di alzarmi presto la mattina per andare a studiare e a lavorare: tutto ciò, insieme a molto altro, ha dimostrato la mia volontà di cambiare vita. E questo credo sia il fine ultimo di un percorso di recupero carcerario: che il detenuto, arrivato a fine pena, si reinserisca nella società come cittadino onesto e non compia più reati.

 

Bisogna affidarsi soprattutto a se stessi

 

I meriti vanno riconosciuti e premiati e le “marachelle” vanno punite. È regola basilare nell’educazione di un bambino, ma è regola basilare anche nel recupero di una persona che ha sbagliato. Se si dimostra con i fatti che quelli senza meriti vengono premiati, allora non ci sarà alcuno sforzo a migliorarsi. E purtroppo molto spesso è ciò che accade nelle nostre carceri.

Non vi sono sufficienti educatori, non vi sono sufficienti psicologi, non vi sono sufficienti figure che sostengano e che tengano monitorato il reale percorso di un detenuto. Ci sono Magistrati di Sorveglianza che conoscono le persone di cui poi si trovano a dover decidere le misure alternative da concedere oppure no, ma ce ne sono altri che si basano molto spesso sul tipo di reato commesso non tenendo forse in conto il “dopo processo” cioè tutto ciò che è stato fatto dal momento della condanna in poi, se non usando ciò che di negativo c’è stato. Allora dobbiamo metterci d’accordo: le buone intenzioni sono molte, i bei discorsi anche, i fatti sono spesso tutta un’altra cosa.

Non si fanno grandi sforzi per far decollare questo benedetto “recupero” (non uso il termine “rieducazione” che mi ricorda molto i campi di lavoro della Cina maoista), si vive sul “già fatto e già visto”, c’è, anzi, chi rema contro, non per volontà ma per semplice ignoranza o impreparazione. Il detenuto che vuole “riemergere” deve affidarsi poco all’istituzione, e molto al volontariato o a coloro che con spirito quasi masochistico credono ancora di poter cambiare qualcosa, come gli insegnanti che lavorano in carcere. E soprattutto deve affidarsi a se stesso. Il che, assicuro, non è assolutamente facile, e chi non ha alle spalle un vissuto, un carattere, una volontà molto forti cederà. Ma proprio il fatto di essere finiti lì è una dimostrazione che forse chi è da recuperare questa gran forza non ce l’ha! Io credo che soprattutto le misure alternative siano necessarie, direi essenziali per un reale processo di reinserimento nella società. Le statistiche lo stanno a dimostrare.

E per darle mi piacerebbe che i magistrati tenessero un po’ meno in conto l’opinione pubblica che, gonfiata da media non certo obbiettivi e ogni giorno più superficiali nel dare le notizie, diviene sempre più giustizialista senza peraltro conoscere veramente ciò di cui si parla.

Il processo di reinserimento deve essere graduale, lunghezza della pena permettendo, perché, comunque, non è semplice neppure per chi è stato per del tempo dentro un’istituzione così “totale” rapportarsi nuovamente con il mondo esterno, dove non c’è nessuno che decida per te. Quindi ben venga prima il permesso premio, seguito dal lavoro esterno dove il denaro dello stipendio te lo gestisce ancora l’istituzione, per poi però essere seguito dai vari tipi di affidamento, perché solo così si arriva a gestire, almeno in parte, la propria vita, ad imparare a camminare di nuovo con le proprie gambe, a fare i conti con uno stipendio che non basta mai, a vivere cioè una vita “normale”, con qualcuno, nella fattispecie l’assistente sociale, che ti aiuta, che ti sta vicino.

Immaginiamo infatti una persona che per due, tre, quattro anni – se è andata bene – è rimasta fuori completamente dal mondo, e immaginiamo che sia improvvisamente “scaraventata” in una società che, oltre al fatto che lei stessa non la riconosce più come sua – perché forse anche prima ne era un poco ai margini – non la vuole, la vede come “diversa”, come elemento da emarginare. Come reagirà questa persona se non tornando ai “margini” e quindi tornando a vivere come o forse peggio di prima? No, c’è bisogno assoluto di queste benedette “misure alternative”!

 

 

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