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Oltre la cultura dell’odio che non “risarcisce” nessuno Sforzarsi di entrare nella testa e nel cuore degli altri, per cercare “sentimenti compatibili”, non è facile e neppure indolore: ma è il primo passo, e bisogna trovare il coraggio di compierlo
di Mauro Cester
Ho sentito parlare di mediazione penale quasi alla fine della mia carcerazione (iniziata quindici anni fa) e solo discutendo con i ragazzi della redazione di “Ristretti Orizzonti”. Naturalmente la cosa mi ha colpito molto, sia per ciò che la mediazione penale rappresenta, sia perché mi sembra che quasi nessuno, neppure tra gli “addetti ai lavori”, affronti mai questo argomento. Penso di aver avuto contatti e scambi di idee con molta gente, durante questo lungo periodo di carcerazione: con detenuti ma anche con persone esterne, il cui compito dovrebbe proprio consistere nell’orientarci a “sani propositi”, ma niente, nessuno che mi abbia mai parlato di mediazione penale. Io sono stato coinvolto in un fatto tragico quando avevo ventitré anni e tutto sommato ora potrei fregarmene, visto che mi mancano solo tre anni a finire la mia pena; spero però, con la mia testimonianza, di far riflettere qualcuno su quanto importante sia trovare un punto d’incontro, di dialogo, di discussione e comprensione tra le parti coinvolte in un reato, per non confinare certi problemi isolandoli alla singola colpa e alla relativa espiazione, che spesso a nulla conduce se non ad un ulteriore allontanamento dalla società. Indipendentemente dal fatto che il danno uno lo abbia subito o lo abbia provocato, che sia cioè vittima oppure carnefice, secondo me certe esperienze sono comunque drammatiche, da qualsiasi parte le si siano vissute, perché nella stragrande maggioranza dei casi in chi commette un reato non c’è la chiara determinazione a fare del male al prossimo. Capisco perfettamente che sia molto difficile, per la vittima di un reato, accettare un dialogo con chi ne è stato artefice, tanto più se quel reato ha comportato la perdita di una persona cara, ritengo però che il dialogo rappresenti comunque una straordinaria occasione di maturazione interiore per ciascuna delle due parti in causa. Durante la mia permanenza all’interno di numerosi carceri del Veneto e del Friuli ho avuto modo di conoscere tanti miei compaesani, giovani e anziani, condannati per reati maturati nell’ambito di autentici drammi famigliari; reati che non possono essere compresi senza conoscere il particolare e complesso contesto di rapporti interpersonali in cui sono accaduti, ma che il più delle volte giungono invece alla pubblica opinione attraverso resoconti semplificati e approssimativi, quando non addirittura fuorvianti, che hanno l’effetto di spogliare gli atti criminali del loro retroterra umano, rendendoli così molto più “mostruosi” e “bestiali” di quel che in effetti sono stati. Ho conosciuto persone che mai avrebbero pensato di trovarsi un giorno qui dentro, e che forse prima, sentendo in tivù i resoconti di gravi fatti di cronaca, si univano al coro della “gente per bene” dicendo anche loro: “In galera devono stare!”. Ma questa prontezza a lanciare la “prima pietra” non deve stupire, visto che anche in carcere mi è capitato più di una volta di sentire qualche detenuto augurare l’arresto e la galera al prossimo… Io stesso non ero mai stato in carcere, prima. Avevo una relazione seria da molti anni, lavoravo nell’azienda agricola familiare, mio padre era il presidente di una cooperativa. E so anche troppo bene cosa significa essere colpito negli affetti, visto che durante la carcerazione ho perso entrambi i genitori e gli altri parenti sono diventati ormai degli sconosciuti, lasciandomi del tutto solo. Per fortuna o per destino esistono però ancora persone come la mia attuale compagna (le donne sono spesso più lungimiranti e comprensive degli uomini), che oltre a sforzarsi di capirti ti aiutano a crescere. Se gente come noi trova la forza di cambiare, il merito è soprattutto loro: di persone assolutamente regolari, che soffrono, lavorano, non partono neanche in auto se non ti infili anche tu la cintura e che, prima di conoscere te, sentivano parlare di carcere solo in modo astratto.
Sforzarsi di entrare nella testa e nel cuore degli altri, per cercare “sentimenti compatibili”
Per tornare al punto di partenza di questa mia testimonianza, cioè alla mediazione penale, ricordo che sette-otto anni fa, quando mi si chiedeva la revisione critica del mio passato deviante, chiesi alla mia psicologa che senso aveva questa specie di esame di coscienza “su commissione”. Le raccontai anche che qualche anno prima, di mia spontanea volontà, avevo già scritto una lettera ai famigliari della vittima del reato che sto scontando in galera, per spiegargli che io e il mio coimputato ci siamo trovati in una situazione fuori controllo, alle prese con “forze” diverse e contrastanti, e che avrei fatto qualsiasi cosa per non essermi mai trovato lì, in quel terribile momento. Se vogliamo dirla tutta – e quel che affermo è stato testimoniato anche in Corte d’assise dai tre poliziotti presenti al fatto e che poi ci hanno arrestato – noi ci eravamo già arresi, ventre a terra, e non sarebbe accaduto proprio nulla se la guardia giurata non avesse improvvisamente estratto la pistola, armandola e puntandola contro il mio coimputato. A quel punto, per via di quella imprevedibile reazione “a scoppio ritardato”, accadde l’impensabile. La mia lettera era un atto profondamente sentito, da cui non mi aspettavo benefici giudiziari e che non aveva neppure lo scopo di mettermi la coscienza in pace. La scrissi con assoluta naturalezza, spinto soltanto dal bisogno di scriverla. Purtroppo non ebbe seguito, e per quanto ne abbia sofferto comprendo benissimo i sentimenti - e i risentimenti - che hanno impedito ai parenti della vittima di rispondermi. Tanto più alla luce della personale esperienza che ho raccontato, credo che la mediazione penale fra gli autori di un reato e le persone che lo hanno subito rappresenti una straordinaria opportunità di crescita, perché significa cominciare a muoversi oltre quella cultura dell’odio che non “risarcisce” nessuno e che invece continua a intossicare un po’ tutti, vittime o carnefici che siano. Sforzarsi di entrare nella testa e nel cuore degli altri, per cercare “sentimenti compatibili”, non è facile e neppure indolore: ma è il primo passo, e bisogna trovare il coraggio di compierlo. Per alcuni detenuti non sarà sicuramente facile ammettere certe responsabilità, e comunque ogni cosa andrà fatta a suo tempo. Ma se una persona è davvero disposta ad aprirsi al lungo e complesso percorso della mediazione penale, credo che compia un atto giusto e profondamente cristiano, che dà spessore al pentimento e contribuisce a trasformare la pena in un’occasione di crescita umana. Aggiungo, però, che a me pare un po’ assurdo che, anche a distanza di quindici o vent’anni da un reato, si continui a chiedere a un detenuto perché lo ha commesso e quali sono state le circostanze che lo hanno portato a commetterlo. Ma quand’è che si può ragionevolmente affermare che una persona ha pagato completamente per la sua colpa? Ed esiste un momento preciso il cui il “debito” possa dirsi saldato? E ancora: per quel che riguarda un reato gravissimo come l’omicidio, sono davvero molti i casi in cui si può ipotizzare una reiterazione del reato o sono invece di gran lunga più numerosi – come io credo – i casi in cui l’omicida, se per astratta ipotesi venisse scarcerato, tornerebbe alla sua vita e al suo lavoro, senza più creare problemi a nessuno? Parlare di questi argomenti, e in particolare di reati gravi come l’omicidio, costituisce un’autentica sfida, perché ci obbliga a misurarci con i “limiti” etici più profondamente radicati nella nostra coscienza. Ci obbliga inoltre a liberarci degli stereotipi che ci impediscono di guardare in faccia, per quello che in effetti sono, aspetti inquietanti della realtà che in genere ci sforziamo di non vedere, illudendoci così di escluderli dalla nostra vita. Credo che la mediazione penale sia anche un modo per vivere diversamente la sofferenza, e che questo valga sia per noi che abbiamo commesso i reati sia per le persone che ne sono state vittime. Perché, sebbene autori di reati magari gravissimi, non siamo degli extraterrestri: il male che abbiamo provocato si è ripercosso pesantemente anche sulle nostre vite, causandoci traumi, sofferenze, instabilità che il “circuito chiuso” della vita in galera non contribuisce certo a smorzare, ma che semmai amplifica. La sofferenza del carcere ha ben poco a che vedere con la sofferenza arrecata L’immagine dell’uomo rinchiuso in una gabbietta e che vive di privazioni non può coincidere con quella dell’uomo che riflette e capisce i suoi errori
di Stefano Bentivogli
Nella redazione di Ristretti Orizzonti di solito non siamo abituati a scantonare le questioni, anche le più spinose, anzi soprattutto questo forse ci distingue, perché non rifiutiamo mai di affrontarle e di metterci in gioco. Quindi provo a dare una risposta, che come sempre non chiude il problema, sul tema delle vittime del reato, rivolgendomi direttamente agli studenti, che l’hanno sollevato all’Università, durante una lezione del corso di sociologia in cui noi di Ristretti, invitati dal professor Pisapia, eravamo i relatori. Le vittime di reato ed il rapporto con queste è un argomento che da tempo invade le nostre discussioni di redazione, siamo sempre attenti a come ci presentiamo nei loro confronti perché sappiamo chiaramente, che il nostro stare in carcere non è casuale, ma quasi sempre legato a precise responsabilità nei confronti di singoli, gruppi, o l’intera società della quale abbiamo violato le leggi. Vorrei aggiungere però che dei reati denunciati ogni anno solo una piccolissima parte corrisponde poi ad un colpevole che sconta una pena: i numeri dicono che la criminalità è fuori dalle prigioni italiane, ma purtroppo c’è ancora l’illusione che l’essere molto duri nei confronti dei pochi che finiscono dentro sia legittimo, giusto e soprattutto utile. Questo non attenua minimamente le nostre responsabilità, però pone una questione di fondo: la tutela delle vittime dei reati comincia fuori o dentro le carceri? Io personalmente credo che accanirsi su chi è sotto processo o in esecuzione della pena risolva solo il bisogno di una soddisfazione momentanea, ed i casi più gravi, dove alla vittima è stata tolta la vita sono i più emblematici. Perché nemmeno togliendo la vita al responsabile del delitto si può retribuire un parente per la perdita della persona cara, tuttavia stabilire una misura retributiva, che spesso non è facilmente commensurabile al reato, resta una delle funzioni del nostro sistema penale.
L’omicidio di un barbone, senza famiglia né affetti costerebbe molto meno degli altri, perché nessuno reclamerebbe una retribuzione
Tornando alla tutela delle vittime di reato c’è chi spinge con forza affinché, sia in fase processuale, che di esecuzione della pena, venga data accoglienza alle istanze di chi è stato danneggiato, con il rischio di consegnare il colpevole alla sua misericordia o alla sua vendetta. Il risultato sarebbe automaticamente drammatico: l’omicidio di un barbone, senza famiglia né affetti costerebbe molto meno degli altri, perché nessuno reclamerebbe una retribuzione, oppure potremmo avere pene molto diverse a fronte di parenti della vittima più o meno vendicativi. L’aver delegato l’istituzione a fare giustizia ha un senso, che è anche quello di non consentire faide eseguite per legge. Questo solo per dire che non è un argomento semplice e che non si può affrontare in termini contabili, anche per quanto riguarda noi condannati. Perché è vero che si può arrivare a scontare tutta la pena ed illudersi di aver pagato il debito senza aver risarcito nulla nella reale direzione del danno arrecato. Anche da parte nostra la retribuzione è molto illusoria, il subire la sofferenza del carcere ha ben poco a che vedere con la sofferenza arrecata, la detenzione è un luogo distante dal contesto del danno procurato. Quindi anche qui esistono due estremi rappresentati da un lato dalla legge del taglione e dall’altro dalla perdita di contatto totale con il reato commesso. Queste sono un po’ le questioni di cui vorrei discutere, sperando di non cadere nel vittimismo ma facendo conoscere il punto di vista di un detenuto, anche perché in altri ruoli mi sentirei ridicolo, e soprattutto spiegando meglio che la mediazione penale mi sembra uno dei pochi tentativi seri di affrontare il problema, forse proprio perché è l’impostazione meno contabile e mercificabile di quelle che conosco. Il Professor Pisapia sosteneva che, a fronte di attività di riparazione del danno, previste dal nostro Ordinamento penitenziario per chi accede alla misura dell’affidamento in prova, noi condannati siamo molto leggeri, che spesso non c’è alcuna convinzione in quello che ci viene chiesto di fare. Ma forse qui la questione sta un po’ a monte, sta anche in un’impostazione della legge che avrebbe un senso a fronte di una modalità di esecuzione della pena che faciliti realmente un momento di riflessione sui propri comportamenti. Invece spesso quanto viene chiesto ai condannati diventa un prezzo da pagare a fronte di evidenti benefici, non più una dimostrazione concreta di consapevolezza dei danni arrecati.
È soprattutto una scelta di provare a riavvicinare, senza l’obiettivo obbligato di riconciliare, due storie, due persone e due sentimenti
La mediazione penale invece, che nel nostro Paese praticamente esiste soprattutto nell’ambito della giustizia minorile, si pone un obiettivo che non è da poco, anche se così non sembra. Tenta cioè, senza obbligarsi a riuscirvi per legge, di attenuare il conflitto che resta aperto tra la vittima ed il reo. Mi sembra che sia soprattutto una scelta di provare, senza obblighi per nessuno, a ricontestualizzare il più concretamente possibile il reato e le sue conseguenze, di riavvicinare, senza l’obiettivo obbligato di riconciliare, due storie, due persone e due sentimenti. Accetto però la critica del Professor Pisapia che citava il suo colloquio con il rapinatore il quale, dopo quindici anni di carcere, era convinto che nel suo reato non ci fossero vittime, perché anche se resto dell’idea che è una generalizzazione, per molti che si trovano in carcere questo è un pensiero corrente.
I ragionamenti deresponsabilizzanti non sono patrimonio esclusivo dell’uomo recluso
Soprattutto per le rapine in banca si sente dire talvolta che in realtà non si sono tolti i soldi dalle tasche di nessuno e che l’aver sequestrato dei liberi cittadini in uno stanzino non è una cosa così grave. Detto questo però, chiedo a tutti come sia possibile che dopo quindici anni di prigione una persona abbia ancora questo livello di superficialità. Cosa succede in realtà in molti casi, durante anni di detenzione? Forse è meglio chiedersi invece cosa non succede, come mai non ci sia stato il benché minimo cambiamento di atteggiamento verso i propri comportamenti. Ma come può l’immagine dell’uomo chiuso in una gabbietta e che vive di privazioni coincidere con quella dell’uomo che riflette e capisce i suoi errori? Poi però non vorrei che passasse la sensazione che ragionamenti deresponsabilizzanti, quali quelli del rapinatore di banche, siano patrimonio esclusivo dell’uomo recluso. Ma scusate, l’immensa popolazione che evade il fisco non ragiona un po’ allo stesso modo? Non si arriva addirittura a forme di giustificazione proposte nientemeno che da nostri eminenti politici? E l’abusivismo edilizio? Certo la modalità è diversa, ma la mentalità sottintesa ed i risultati sono proprio gli stessi, eppure sulle dichiarazioni di Berlusconi non tutti si sono scandalizzati, mentre per il rapinatore la condanna è categorica ed unanime. Il carcere stigmatizza sempre più male di quello che contiene. La domanda che mi era stata posta era più o meno “Ma se il carcere è così negativo, che risposta dare alla necessità di tutelare le vittime di reato?”. Molti studenti il 20 maggio sono entrati nella Casa di reclusione di Padova per partecipare a una Giornata di Studi sulla salute mentale e forse avranno intuito che non si tratta di trovare una risposta, ma tante e diverse, evitando generalizzazioni e luoghi comuni, e che bisogna conoscere bene quello di cui si parla. Il mio tentativo è stato solo quello di raccontare qualcosa che sia vita vissuta. La sera stessa del 20 maggio il mio compagno di cella, dopo tre giorni di sciopero della fame e della sete (attuato con rigorosa serietà), preso dalla disperazione si è bevuto il detersivo per i pavimenti. Mentre lui vomitava schiuma, steso per terra, ho premuto il campanello d’allarme che però era staccato.
I nostri reati e le nostre responsabilità restano lontani anni luce, come lontano sembra il mondo libero dal quale proveniamo
Ho cominciato a sbattere lo sportello del portone blindato della cella per far capire all’agente che c’era un’emergenza e mentre ero lì, impegnato nel farmi sentire, il mio compagno è riuscito a rialzarsi e a riattaccarsi alla bottiglia del detersivo. Nello stesso braccio dove c’è la mia cella, nella stessa serata, c’era uno che minacciava di impiccarsi ed un altro che si era tagliato le vene. Non mi dilungo nel racconto della serata perché non voglio sembrare “vittimista” e lascio alla vostra immaginazione a quale profondità arrivasse la mia riflessione e quella dei miei compagni. In quelle condizioni i nostri reati e le nostre responsabilità restano lontani anni luce, come lontano sembra il mondo libero dal quale proveniamo. Resto comunque ottimista, finché trovo qualcuno che abbia ancora voglia di conoscere e capire, fino a quando ci sarà ancora qualcuno disposto ad incontrarci e starci ad ascoltare. Che ne sarà dei CSSA? A trent’anni dalla riforma penitenziaria, con la nuova legge si pone l’accento solo sull’esecuzione della pena (e quindi sul controllo) e si considera la presa in carico dal punto di vista sociale solo un utile “accessorio” assistenziale. Ne abbiamo parlato con Anna Muschitiello, segretaria del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia
a cura di Marino Occhipinti
Quando abbiamo chiesto ad Anna Muschitiello, segretaria del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia, di parlarci dei CSSA, anche alla luce della legge “Meduri”, del ruolo degli assistenti sociali che lavorano nel campo dell’esecuzione penale interna ed esterna, della recidiva, lei ha accettato subito, perché “non se ne parla mai abbastanza, nonostante questi servizi esistano ormai da 30 anni”.
La legge Meduri e l’accentuazione delle funzioni di controllo del servizio sociale sul territorio rispetto a quelle di aiuto
Proprio quest’anno ricorre il trentennale della riforma penitenziaria: la legge n. 354 del 26 luglio del 1975, che istituisce i CSSA e introduce le misure alternative alla detenzione nel sistema delle esecuzione delle pene in Italia. Nonostante in 30 anni il sistema dell’esecuzione penale esterna sia cresciuto tanto da raggiungere dal punto di vista quantitativo quasi gli stessi numeri del sistema delle carceri (50.000 contro 60.000) le misure alternative sono ancora poco conosciute e ritenute meno importanti di quella che viene considerata ancora l’unica e vera pena: la detenzione. A distanza di 30 anni fare un bilancio e avviare una riflessione su cosa ha rappresentato la riforma Penitenziaria del 1975 e su come ha funzionato il sistema delle misure alternative e il servizio CSSA, è una scelta quasi obbligata. Occorre ricordare che gli anni in cui ha visto la luce la riforma dell’Ordinamento penitenziario erano anni di profonda trasformazione della società italiana, caratterizzati da riforme innovative in molti campi della società e soprattutto del mondo assistenziale; più generalmente nel modo stesso di concepire i rapporti tra cittadino e Stato. Per questo motivo la Riforma Penitenziaria ha avuto una carica ideale molto forte, con un valore trainante e anticipatorio nei riguardi della realtà non solo penitenziaria, ma sociale nel suo complesso. La stessa scelta da parte del legislatore di introdurre l’assistente sociale accanto ad altre figure trattamentali (psicologi e educatori) ha un valore di rottura con la tradizione dell’Istituzione carcere come si era delineata fino a quel momento. Ma aver previsto, “… un ruolo di servizio sociale, inserito in sedi autonome dagli istituti penitenziari”, diffuse su tutto il territorio nazionale, ha un significato particolare. Il legislatore ha voluto evidentemente sottolineare il carattere alternativo che tali strutture dovevano rappresentare, in rapporto al carcere, sia sul piano culturale sia operativo: A - sul piano culturale, stabilendo che la loro organizzazione dovesse avere come riferimento l’integrazione con il territorio e il radicamento con le stesse realtà locali, che il servizio era chiamato ad interpretare. Scelta confermata e rafforzata anche con il nuovo regolamento di esecuzione approvato nel 2000 (legge 230/2000). B - sul piano operativo, favorendo lo sviluppo di logiche gestionali diverse da quelle comuni alle istituzioni totali. Il tratto dominante in tal senso è costituito dall’aver concepito questo servizio come struttura propria di servizio sociale, caratterizzata dalla tipicità dell’approccio di servizio sociale nel progetto di un’esecuzione penale alternativa al carcere, che punti alla massima valorizzazione delle componenti di responsabilizzazione dell’utente e delle sue capacità di autodeterminazione. Dovrebbe quindi risultare ben chiaro che il trattamento esterno in alternativa al trattamento intramurario non si distingue per il fatto che gli operatori si muovano in un “carcere senza sbarre”, continuando a mutuare dalla cultura e dal sistema operativo del carcere “… ma si distingue per il deciso cambio di approccio culturale e operativo…”. È proprio questo il motivo per cui ci siamo opposti, noi assistenti sociali, ma anche molti esponenti della società civile e del volontariato che è impegnato in carcere, all’articolo 3 della cosiddetta legge “Meduri”, recentemente approvata in via definitiva al Senato. È il cambiamento di cultura che sottende a questa nuova normativa che apparentemente non modifica niente, in realtà pone l’accento solo sull’esecuzione della pena (quindi sul controllo) e considera la presa in carico dal punto di vista sociale un utile accessorio “assistenziale” (il titolo del capo terzo del titolo II della legge 354/75 diventa: Esecuzione penale esterna e assistenza”). Nell’anno quindi del trentennale della riforma, assistiamo a questo cambiamento di rotta della legislazione penitenziaria, che nel corso di questi 30 anni ha visto molti cambiamenti legislativi, ma mai era stata messa in discussione la cultura stessa della riforma, e gli operatori, nonostante gli sforzi per adattare periodicamente il proprio intervento ad indirizzi politici contraddittori e a mandati contrapposti, erano riusciti a mantenere intatta la propria identità professionale, ora non si sa.
Con l’approvazione della “legge Meduri” nessuno sa come si evolverà la situazione nel concreto
Non pensiamo certamente che gli assistenti sociali saranno sostituiti dal personale di polizia o amministrativo, ma è possibile che al servizio sociale si aggiunga il personale di polizia, e in questo caso è al servizio CSSA che si modifica il mandato istituzionale, accentuando le sue funzioni di controllo rispetto a quelle di aiuto, in una parola estendendo la logica carceraria all’esterno e diffondendola sul territorio. Non so se riesco a far comprendere la differenza, ritengo che con l’estensione del controllo diffuso è la libertà di chi sta fuori e del cittadino in generale che viene ad essere compromessa. Oggi i soggetti in misura alternativa, (tranne una piccola percentuale che contravviene agli obblighi o commette nuovi reati) sono circa 50.000 che vivono e lavorano quotidianamente accanto agli altri cittadini, che spesso non lo sanno e non se ne accorgono neanche, quindi sono ben integrati nel contesto sociale, e con un controllo soft sostanzialmente diverso da quello poliziesco riescono a scontare la loro “pena” senza grossi danni per sé e per gli altri e con un non trascurabile risparmio di risorse pubbliche (non dimentichiamo che un detenuto in carcere costa circa 150 euro al giorno); se i controlli nei confronti di queste persone si fanno più evidenti, più invadenti, più stigmatizzanti, quale aiuto possono averne? Quale il vantaggio per la società? È importante comunque informare che i controlli nei confronti di queste persone già oggi avvengono da parte delle forze dell’ordine territoriali nell’ambito del loro mandato di sicurezza e di prevenzione dei reati, per quale motivo bisogna moltiplicare tali controlli? Oggi non c’è nessuno che apertamente mette in discussione il sistema delle misure alternative in quanto tali, perché tutti sanno che sono utili a ridurre almeno in parte il sovraffollamento carcerario che raggiungerebbe, in caso contrario, livelli davvero ingestibili. Ci troveremmo a fare i conti con una popolazione carceraria al di sopra dei 100-150.000 detenuti, con strutture che a malapena ne contengono 40-45.000. Al di là delle affermazioni di principio però è attualmente in discussione in parlamento la proposta di legge “ex Cirielli”, che modificando le norme sulla recidiva rischia di azzerare il sistema delle misure alternative e di far viaggiare il sistema carcerario verso le cifre a cui sopra accennavo.
Ora provo a spiegare quali sono i compiti dell’assistente sociale che lavora nell’ambito del sistema delle pene
L’assistente sociale che lavora nel settore per adulti è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge 354/75, attraverso l’istituzione dei C.S.S.A. (centri di servizio sociale per adulti). Interviene solo nella fase successiva al processo, quando la condanna diventa definitiva, in tal caso può occuparsi sia di persone detenute, sia di persone che scontano la pena fuori dal carcere in misura alternativa alla detenzione (semilibertà, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, libertà vigilata…). In collaborazione con l’èquipe interna al carcere approfondisce la personalità della persona detenuta, effettua indagini socio familiari e lavorative per conoscere il contesto territoriale e personale da cui la persona proviene e dove probabilmente rientrerà dopo aver scontato la pena. L’assistente sociale controlla e aiuta la persona che esce dal carcere o è in misura alternativa a reinserirsi nella società. Lo fa attraverso colloqui, visite domiciliari, lavoro di rete con i servizi del territorio dove il soggetto e la sua famiglia risiedono con l’obiettivo di riallacciare relazioni, creare occasioni e opportunità di inserimento lavorativo, sociale, di terapia nel caso di persone con problemi di tossicodipendenza, alcoolismo, problematiche psichiche… L’assistente sociale lavora a stretto contatto con la magistratura di Sorveglianza per fornire elementi utili affinché il giudice possa decidere se mandare una persona detenuta in permesso premio, se avviarla ad una misura alternativa, se farla rimanere in carcere perché non dà garanzie di un comportamento corretto e sicuro per i cittadini. Attualmente nei C.S.S.A., a fronte di 1630 assistenti sociali previsti, ne lavorano 1223. Gli ultimi assistenti sociali sono stati assunti nel 2001, e contrariamente agli altri servizi sociali del territorio in forte crisi, quelli della giustizia appaiono oggi gli unici in espansione, anche se sono comunque sottodimensionati rispetto ai compiti assegnatigli. Ritengo che l’espansione di un servizio sociale come quello della giustizia sia strettamente collegato al ruolo che la nostra società sta dando al sistema penale. Noi assistiamo infatti all’estensione delle sanzioni penali ad un numero sempre più vasto di comportamenti e di fenomeni che riguardano fasce sempre più ampie di popolazione (immigrati, tossicodipendenti, malati psichici…) e contemporaneamente abbiamo una maggiore contrazione di interventi di tipo sociale rivolti alle fasce più deboli, una riduzione di fatto degl’investimenti di welfare con conseguente accrescimento di fasce di povertà e di devianza, che portano come ultima sequenza alla commissione di un reato perseguito penalmente.
La giustizia riparativa merita un discorso a parte
Negli ultimi anni si è andata diffondendo una nuova sensibilità nei confronti della vittima del reato, in realtà sempre trascurata sia nella fase processuale sia, ancora di più, nella fase dell’esecuzione della pena. L’esigenza della vittima, pur legittima, ritengo che però, in assenza di una vera e propria politica di presa in carico della stessa, sin dal momento della commissione del reato, si rischia con l’ottica riparativa di non risolverla, ma neanche di affrontare minimamente le sofferenze e il disagio reale da essa vissute, e contemporaneamente tutto questo finisce per pesare come una pena aggiuntiva e, in alcuni casi, veramente vessatoria, sul reo. In Italia sembra che oggi sia di moda parlare di “giustizia riparativa” che, in quanto tale, attrae sia i magistrati di sorveglianza sia gli operatori penitenziari. Ciò è provato dalle sempre più frequenti ordinanze dei Tribunali di Sorveglianza, che fanno riferimento al risarcimento del danno, per lo più considerato esclusivamente dal punto di vista economico, o ai lavori socialmente utili, e dai numerosi progetti, ricerche e riflessioni che su questo tema, sia a livello centrale sia in numerosi C.S.S.A., impegnano gli operatori. Sono in ogni modo consapevole che la questione esiste e che i modelli tradizionali non risolvono il problema della vittima, la quale vive comunque un sentimento di profonda ingiustizia, anche perché la pena e il carcere, pur avendo giustificazioni etiche, sotto il profilo della utilità sociale e della tutela della vittima si dimostrano del tutto inadeguate. Dunque, anch’io ritengo possibile fare riferimento a nuovi aspetti della pena, alternativi o concorrenti, che attraverso interventi di riparazione, conciliazione o anche mediazione integrino le altre forme di esecuzione della pena; una risposta riparatoria, secondo me, non può comunque prescindere dalle altre due (retributiva e riabilitativa), ma le integra all’interno della medesima logica sanzione/premio. Le attività di riparazione nell’ambito dell’esecuzione della pena, per esempio nell’affidamento al servizio sociale, attraverso il comma 7 dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, ritengo possano avere un senso solo se inserite in un progetto individuale di reinserimento educativo, rivolto essenzialmente al reo, con l’obiettivo di aumentare la sua consapevolezza e una responsabilizzazione più reale e concreta. La tendenza, invece, a prevedere solo un risarcimento economico della vittima, tra l’altro a distanza di anni dai fatti accaduti ed indipendentemente dall’attivazione di un contenzioso in ambito di diritto civile (che fornirebbe al reo anche garanzie di equità), appare un modo cinico e per niente rispettoso dei diritti e soprattutto delle sensibilità della vittima, della quale ci si ricorda tardivamente e in modo del tutto strumentale alla chiusura della vicenda penale da parte del reo. Occorrerebbe veramente che, a partire dalle problematiche delle vittime, un po’ tutti c’interrogassimo sull’attuale orientamento del sistema penale, sulla sua finalità e sui danni umani che può provocare sia alle vittime sia agli autori dei reati.
Dire in poche righe come si può abbattere la recidiva è un compito veramente impegnativo
Premetto che non mi risulta oggi in Italia uno studio serio e articolato che spieghi il fenomeno della recidiva e quindi l’utilità o meno della pena e la differenza tra le varie modalità di esecuzione. Esiste una ricerca recente del Gruppo Abele che quantifica i casi di recidiva a seconda delle modalità di esecuzione della pena e da tale studio emerge che il 12 per cento di recidivi è costituito da persone passate attraverso le misure alternative, il 61 per cento da chi non ha mai lasciato il carcere fino alla fine della pena e il 27 per cento sono tossicodipendenti. Anche se non so esprimermi sull’attendibilità di tale studio, non stento a credere alla sua veridicità in quanto è risaputo che la popolazione detenuta è oggi costituita prevalentemente dai soggetti più problematici e privi di risorse utili al reinserimento sociale, pertanto il carcere da solo senza l’offerta di opportunità trattamentali e di reinserimento non aiuta assolutamente a far modificare lo stile di vita che la persona detenuta aveva prima di entrare in carcere, piuttosto lo modifica in peggio in quanto gli fornisce nuove occasioni di relazioni sbagliate, distrugge quanto di buono la persona aveva fuori (famiglia, lavoro, relazioni affettive e amicali…) quindi non c’è niente di più vero del luogo comune “il carcere scuola di delinquenza”. Il carcere può assolvere alla sua funzione “rieducativa” solo nel momento in cui è in grado di offrire opportunità nuove utili a modificare gli stili di vita precedenti e a non ricadere, una volta fuori, negli stessi circuiti da cui si proviene. Secondo me il momento dell’uscita dal carcere è un momento fondamentale e delicato che va accompagnato, sostenuto da risorse concrete e opportunità reali, e infatti l’uscita graduale in misura alternativa può aiutare a ritrovare il giusto riequilibrio. A me risulta in particolare (ad esempio, ma sicuramente ne esisteranno altri in altre parti d’Italia) che il Comune di Milano sta finanziando un progetto “Punto e a capo” che consente l’accompagnamento all’uscita dal carcere di coloro che finiscono la pena senza una misura alternativa e si ritrovano da soli ad affrontare un momento così delicato e normalmente trascurato dagli operatori penitenziari, presi da altre emergenze. I risultati di tale progetto sul fenomeno recidiva è ancora tutto da valutare, intanto rappresenta un punto di partenza, soprattutto perché una città riconosce la necessità di farsi carico dei suoi cittadini più deboli proprio nel momento in cui ritornano in libertà, quindi nel territorio da dove provengono. La tossicodipendenza come motivo importante nella recidiva è altrettanto credibile, quindi i programmi terapeutici residenziali o territoriali possono essere una valida opportunità, anche se non sempre raggiungono lo scopo. Infine non possiamo non rilevare che al di là di tutte le opportunità offerte la volontà della persona è un elemento essenziale per ridurre la recidiva.
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