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La pelle ruvida della ruota Il racconto di un lungo viaggio verso l’ignoto compiuto nella totale incoscienza, un viaggio che, per qualcuno, si interrompe per un incidente mortale e, per altri, per l’orrore di avervi assistito, impotenti
di Elton Kalica
Mentre osservo dal mio balcone di casa un cane randagio sdraiato sul cemento riscaldato da un pezzo di sole, decido di partire per l’Italia seduta stante. È febbraio e l’insolita neve di quest’anno non si è ancora sciolta, perciò il sole debole non riesce a riscaldare le ossa chiaramente visibili del cane che continua a tremare. Comunico la decisione ai miei genitori che mi consigliano di riflettere ancora e di non fare cose affrettate. Ho finito il liceo l’estate scorsa e non sono riuscito ad iscrivermi all’università, quindi, mentre l’inverno stanco lascia il posto al verde e ai fiori, io sto completando il primo anno senza scuola, chiuso in camera: la scuola ha riempito le mie giornate per dodici anni, e la sua improvvisa assenza mi ha causato un vuoto, di idee e di iniziative. Parto un giorno d’aprile con lo zaino sulle spalle, dove mia madre ha infilato di tutto, e con in tasca tutti i risparmi di mio padre. So che il viaggio che mi appresto a fare sarà difficile: i miei tentativi di avere un visto sono falliti e l’unica possibilità rimane quella di attraversare il mare con un gommone. L’autobus puzza di sigarette e d’alcool, così metto un fazzoletto sul naso, ma la donna che è seduta accanto a me chiede indignata se per caso mi dà fastidio il suo profumo, quindi mi tolgo il fazzoletto per educazione. Appoggio la testa sul vetro e guardo le immagini che scorrono così veloci che non mi permettono di dare un viso agli uomini, un colore agli animali, un nome alle piante. È la prima volta che percorro la strada per Valona e tutto mi è nuovo. Chiudo gli occhi per evitare di riempire la vista di colori sfuggenti, di campi coltivati non so di cosa, e di luoghi secolari della mia terra, carezzati e calpestati costantemente da milioni di uomini, per non ammalarmi di nostalgia poi, quando sarò lontano. Una volta, nelle mie camminate mattutine che mi portavano a scuola guardai una lucertola senza la coda che si muoveva a fatica. La presi in mano per portarla all’angolo della strada, poi tirai fuori dallo zaino la mia merenda cercando di nutrirla con delle briciole. Alla fine decisi di lasciarla andare, ma la libertà che le regalai le fu fatale: mentre attraversava la strada zigzagando passò un camion che la schiacciò. Il suo corpo senza coda si appiccicò alla ruota del camion, che la portò via con la pelle ruvida della sua gomma lasciando sull’asfalto soltanto una macchia nera. Mi sedetti sul ciglio della strada e vi rimasi immobile per tutta la giornata guardando le ruvide ruote delle macchine che leccavano la macchia nera sull’asfalto, come se volessero far sparire il ricordo della lucertola. L’urlo del conducente che annuncia l’arrivo a Valona mi sveglia interrompendo il sogno che mi ha portato indietro nel tempo a ricordare qualcosa che soltanto io, unico testimone, ho visto, e che la ruota ruvida del tempo non è riuscita a cancellare. Il mare è calmo e il gommone taglia il buio della notte senza rimbalzi. Io mi sono posto sul lato sinistro, tengo le ginocchia strette al petto e guardo divertito l’acqua. Questa notte il mare riposa e pare ignorare il nostro gommone carico di trenta uomini che scivolano sopra la sua pancia nera; forse finalmente anche lui, stanco di uccidere, si è fermato a meditare, o forse ha osservato la mia faccia svagata e si è concesso un gesto di clemenza. Lo sbarco è di tipo militare: salto nell’acqua bassa e percorro il pezzo di mare piatto che porta alla terra tenendo lo zaino sulla testa. Silenziosi attraversiamo la spiaggia per addentrarci nella pineta e ci fermiamo per cambiare i nostri panni bagnati con degli altri asciutti, che ciascuno provvidenzialmente ha portato con sé. Pochi passi e troviamo una strada asfaltata. Stando carponi ci nascondiamo ai fari delle auto che con le loro ruvide gomme leccano l’asfalto rumorosamente. Dobbiamo attraversare la strada alternandoci con le auto che passano veloci sparendo nel buio, seguite soltanto dalla musica dello stereo di bordo. I primi tre saltano veloci, mentre io devo fermarmi per aspettare il passaggio di un furgone, che passa silenzioso, senza musica. Comincio a correre e in un batter d’occhio sono già dall’altra parte della strada nascosto dietro un pino, in compagnia dei primi tre. Mi accorgo che sono stato seguito da altre cinque persone che ora abbracciano ciascuna il tronco di un albero, uomini silenziosi, disegni scuri senza un volto o un nome. Aspettiamo il resto del gruppo cercandolo con gli occhi. Una fila di camion sta percorrendo veloce la striscia d’asfalto aprendo un varco di luci attraverso l’oscurità. Ma alcuni nostri compagni attraversano ugualmente la strada e ci raggiungono. La nostra guida, il cui viso è rimasto costantemente ombreggiato da un cappellino della Nike, nero, si accorge che manca uno degli uomini e sussurra nervosamente: “Dove è rimasto l’altro?”. Una delle ombre scure che è arrivata per ultima dice velocemente, usando delle frasi brevi e precise: “Un camion è giunto all’improvviso ed era molto veloce. Quello che era dietro di me è stato travolto dal camion. Ho sentito il botto. Io ho continuato a correre per seguire gli altri”. La guida, dopo un attimo di silenzio, dichiara: “Tra poco qualcuno si fermerà e darà l’allarme. Su moviamoci! Di corsa!”. Mentre tutti seguono in fila indiana l’ordine impartito, io non riesco a comandare le gambe e osservo la colonna di uomini che viene inghiottita dal buio. Torno indietro. Trovo un corpo sul ciglio della strada, è intatto, anche se un ginocchio si piega in avanti. Quindi, mi avvicino con l’impressione di andare a trovare un uomo che il sonno ha colto all’improvviso mentre camminava lungo la strada e che, stanco, si è sdraiato proprio sul ciglio per riposare. Penso di sussurrargli qualcosa. Sprofondo in ginocchio e lo tiro su, mentre le sue braccia pendono abbandonate sull’asfalto. Il suo viso sconosciuto dimostra all’incirca la mia età, e gli occhi verdi brillano di lacrime asciutte. La fronte è coperta da un ciuffo di capelli del colore del grano. Il viso è freddo e dall’angolo della bocca cola con intensità un rivolo di sangue scuro e denso. Gli domando come sta e scuoto il suo corpo pesante, ma lui continua a guardarmi, come se cercasse di vedersi, rispecchiato nei miei occhi. Supplicando in silenzio e sperando in qualche soccorso sollevo la testa e fisso il tunnel di pini che si perde in entrambe le direzioni della strada asfaltata. In entrambe le direzioni c’è il buio. L’asfalto è pulito, niente sangue. Forse la pelle ruvida delle gomme l’ha leccato con insistenza per cancellare le tracce. Sento caldo, un calore strano che non viene dal corpo per trasmettersi agli arti ma che parte dalla mano e risale il braccio. La mia mano è rimasta immobile reggendogli la testa pesante che ora si è incollata alle dita. Spaventato, le sento staccarsi a fatica dalla sua testa con cui sono diventate un corpo unico e appiccicoso. Guardo il ragazzo negli occhi come per chiedere conferma dell’orrore ancora ipotizzato mentre il suo viso, abbastanza magro da far intravedere le ossa degli zigomi, continua ad essere immobile. Lentamente, spingo il suo corpo lontano dalle mie ginocchia, e lo faccio rotolare per vedere meglio la parte posteriore del suo cranio. I lunghi capelli si sono inzuppati di un liquido scuro e denso, che ora emana un forte odore di gomme e di asfalto bagnato da una pioggia d’agosto, e sembrano fasci di giunchi infangati e calpestati. Cerco di muovere i ciuffi induriti, ma mi accorgo che c’è un pezzo dove i capelli mancano. Lui guarda per terra e forse pensa che io lo sto salvando, forse si immagina già in cammino verso un posto da lui prescelto e vede la sua gente aspettarlo con le braccia aperte: un fratello o un padre che ha percorso questa strada prima di lui. Passa un mezzo pesante, che io non vedo, ma che con i suoi fari illumina la testa che tengo tra le mani e vedo la ferita: un buco profondo si perde nel sangue che continua a sgorgare. Non so se il pezzo mancante del cranio è sprofondato all’interno della testa, ma quel buco lucido sembra una bocca aperta che sbava spaventosamente sangue. Inorridito lo giro e non so se devo raccontargli oppure nascondergli la verità. Il suo viso freddo, le sue lentiggini coperte dal buio e le sue palpebre ormai chiuse mi negano la possibilità di una conversazione, salvandomi dal dovergli raccontare delle bugie sulla sua vita, ormai finita. Mi trovano con la sua testa sulle mie ginocchia insanguinate soltanto all’alba. Ci portano al caldo di un ospedale, per me accogliente e per lui inutile. Le autorità badano a riportarmi in patria facendomi ripercorrere lo stesso mare quieto e silenzioso, ma che non vedo poiché sono chiuso nella cabina-cella di un traghetto di linea; invece il ragazzo, del quale non so il nome, deve aspettare lo svolgersi di un altro iter procedurale e ritornerà a casa dopo quasi un mese. Sono passati anni da allora, ma spesso mi succede di guardare dalla finestra un pezzo di autostrada. Sulla striscia d’asfalto che porta migliaia di mezzi verso Venezia, guardo le gomme assassine dei camion che, con la loro pelle ruvida, leccano l’asfalto nascondendo le tracce dei loro crimini sconosciuti agli uomini e ignorati dal tempo complice della morte, e respiro quello stesso, permanente odore caldo del disprezzo di questa terra straniera nei nostri confronti.
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