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Questi suicidi sono anche “nostri” non dimentichiamocene Dopo che in pochi mesi nel carcere di Padova si sono tolti la vita quattro detenuti, bisogna muoversi e andare a vedere chi erano queste persone che si sono uccise, cosa facevano, quanti altri ce ne sono come loro, di cosa hanno bisogno, cosa gli si può offrire per evitare questi gesti disperati
Qualche giorno fa il dirigente sanitario del carcere di Sulmona, intervistato dopo l’ennesimo suicidio (sei in un anno e mezzo) avvenuto in quel carcere, ha chiesto al giornalista perché mai i giornali si occupassero solo di Sulmona e non, per esempio, di Padova e dei suoi quattro suicidi in pochi mesi. Quella dichiarazione ci ha colpito: e non perché non avessimo scritto dei suicidi di Padova, ma perché forse non ci abbiamo ragionato abbastanza, noi che operiamo in un carcere considerato fra i più “decenti”, più attivi, più ricchi di iniziative, e non vogliamo però dimenticarci che sempre di galera si tratta. Così, abbiamo deciso di non accontentarci di monitorare caso per caso ormai da tre anni, per il nostro Dossier “Morire di carcere”, i suicidi che avvengono nelle carceri italiane, ma di tornare a parlare in redazione del perché la gente si uccide in carcere, e a cercare di capire se davvero si può fare qualcosa per chi sta così male da vedere solo nella morte una via d’uscita.
Stefano Bentivogli: Tanto per cominciare vorrei sapere se è una sensazione solo mia quella che bisogna riprendere il tema dei suicidi, e anche vedere se lo stiamo affrontando nella maniera giusta, se davvero siamo stati capaci di occuparcene andando più a fondo del problema, e non fermandoci alle solite considerazioni sul disagio della detenzione. Ornella Favero: L’idea che se ne debba parlare di più, che si debba fare una analisi più puntuale, proprio a partire dai casi di Padova, mi pare che sia condivisa da tutti. Paolo Moresco: Io ho qualche perplessità ad affrontare una discussione su questi temi. Da un lato bisogna senz’altro parlarne, di queste cose, per carità, però stiamo attenti che la prima reazione può essere quella che qui ci blindano ancora di più, nel senso che finisce che il filo della luce non lo puoi più tenere perché teoricamente ti puoi impiccare. Il rischio cioè è quello di innescare un effetto securitario da parte del carcere, che finirebbe per toglierci quel poco che abbiamo… Un esempio è il controllo di notte nelle celle: io ho il mio compagno tunisino che per dormire si avvolge, ed è bravissimo a farlo, dentro il lenzuolo, tipo insaccato, e sparisce completamente. Per me è una meraviglia perché a una certa ora scompare e riemerge al mattino, il problema è che gli agenti la notte accendono la luce per vedere se respira, ed io ogni volta mi sveglio, e non riesco mai a dormire decentemente.
I volontari chiamano e parlano in privato soltanto con chi ne fa richiesta, che difficilmente è qualcuno che ha deciso di suicidarsi
Sandro Calderoni: Loro hanno l’obbligo di fare la conta, non so ogni quante ore, ma passano spesso, accendono la luce o entrano in cella. Ornella Favero: Si potrebbe paradossalmente dire che invece di tutelarsi l’amministrazione si pone a rischio di essere denunciata per istigazione al suicidio, perché se uno che soffre, sta male, non dorme, viene anche sottoposto a una serie di controlli come quelli usati per “evitare” i suicidi, secondo me si rischia che gli saltino i nervi. Se poi dovessimo fare le solite considerazioni sui suicidi, Padova non è riconducibile all’immagine del carcere sovraffollato, dove la gente passa le giornate in branda, dove c’è solo desolazione e zero attività. Padova dal punto di vista delle attività è un carcere decente, nel senso che dà discrete possibilità di lavorare, di frequentare l’intero ciclo scolastico, dai corsi di alfabetizzazione all’università, c’è molta gente impegnata in iniziative diverse. C’è anche una magistratura di sorveglianza attenta, che i permessi e le misure alternative li concede abbastanza, anche agli stranieri, e questo lo dico perché quella dei benefici è una questione da tener d’occhio: una delle motivazioni degli atti di autolesionismo è infatti quella di richiamare l’attenzione sulle difficoltà ad accedere ai permessi e ad altri benefici. Sulla situazione influisce invece in modo pesantemente negativo la scarsità di personale, soprattutto di educatori e psicologi, tanto più qui in una Casa di reclusione, dove la gente ha da reggere una carcerazione spesso lunga e quindi ha bisogno di intravedere un percorso di “avvicinamento” graduale alla libertà per non lasciarsi andare del tutto. Il secondo problema è che è mancata una riflessione seria su quello che è successo. Se sei in un carcere dove avvengono quattro suicidi in pochi mesi, e anche un’aggressione ad una educatrice, evidentemente nonostante tutto non puoi soltanto dire: noi lavoriamo prevalentemente sul versante del dare delle prospettive, del creare e sostenere delle attività. Tutto questo non basta, se poi il presidio dei problemi della salute mentale è inesistente: non basta perché, se è vero che la metà dei detenuti presenti è impegnata in attività di qualche tipo, ce n’è altrettanti che sono davvero la “zona grigia” del carcere, per i quali bisogna pensare di fare qualcosa. Paolo Moresco: Secondo me un problema centrale è che se qui uno non bussa, nessuno lo va a cercare, nel senso che uno è completamente abbandonato a se stesso e alle sue risorse personali. Se ha voglia di fare, il carcere può offrirgli tante cose, ma se dentro di lui la molla non scatta è completamente abbandonato. Io non ho mai visto neanche il cappellano girare in sezione. Anche a San Vittore ricordo che, quando sono arrivato, pensavo che venisse a trovarmi il prete, perché l’immagine che hai della galera è quella, tu sei dentro poi arriva lui, il prete che viene a trovarti, e invece niente. Qui se uno si chiude in cella nessuno va a bussare e a chiedere come sta. Elton Kalica: Concordo pienamente anch’io. Mi ha da sempre infastidito questa assenza di un sostegno “morale” studiato appositamente per quei detenuti che si chiudono in cella e si disperano. Nelle carceri circondariali dove sono stato detenuto, ho visto una presenza quasi costante di religiosi che visitano le celle una per una e chiedono se possono fare qualcosa. Sono suore, frati e anche il cappellano. Aiutano con francobolli, buste, matite e vestiario, ma se vedono che c’è uno che sta veramente male, si preoccupano e richiamano l’attenzione degli operatori. Qui l’operato interno del prete non prevede giri per le sezioni, e i volontari chiamano e parlano in privato soltanto con chi ne fa richiesta, che difficilmente è qualcuno che ha deciso di suicidarsi. Anzi, spesso a fare domande per vedere i volontari sono proprio quelli che si impegnano già nelle varie attività culturali, allargando così il divario tra chi si chiude in cella lontano da tutti, e chi ha l’attenzione di tutti gli operatori presenti.
Al quarto piano ad esempio c’è un abbandono totale, sono buttati là, gente che può uscire con l’indultino e non lo chiede neanche…
Mauro Cester: È proprio questo il problema. In passato io mi ricordo che c’era molta più gente che veniva su a fare colloqui, e invece mi sembra che ultimamente ci siano veramente poche persone che vadano ai piani per parlare coi detenuti. Il cambiamento che ho visto io in questi anni è appunto che il carcere è diventato un dormitorio, c’è tanto abbandono, c’è rassegnazione, forse tanta gente legge i giornali che parlano di persone che non vanno in galera nonostante i reati commessi, e così cresce un malcontento generale che porta a non parlare con nessuno e a deprimersi e basta. Io sono d’accordo con chi sostiene che qui ci sono tantissime attività, però non è che il dire “vado a scuola” basta, sono contento e non mi serve altro. Dalle due-tre del pomeriggio, quando vai su in sezione, cos’è che fai? Fai la doccia e poi sei in cella e sei da solo. Non siamo tutti uguali, c’è chi si prende un libro o scrive alla fidanzata, cioè si dà comunque da fare, ma ce ne sono tanti che queste cose non le fanno o non le hanno. Al quarto piano ad esempio c’è un abbandono totale, sono buttati là, gente che può uscire con l’indultino e non lo chiede neanche… Io mi incazzo, loro mi dicono che non hanno il posto dove andare: ma come, con tutti i volontari che vengono qui, non essere capaci di trovare un posto, magari appoggiati dal Ser.T.? Io quando mi hanno messo in una struttura protetta fuori mi sono dato da fare. Penso che, se la cerchi, ci sia qualche persona disposta a darti una mano in questo senso, ma a loro non gliene frega niente neanche di questo, si sono talmente buttati giù che non hanno la forza di reagire. Flavio Zaghi: Mauro ha centrato il problema, nel senso che si sente proprio nelle sezioni questo clima di abbandono, e anche ciò che dice Paolo è giusto: è vero che qui ci sono diverse attività come la scuola, opportunità lavorative e altro, e quelli che le frequentano hanno anche qualcosa di cui parlare, ma se già si sono attivati vuol dire che non hanno appunto quel genere di problema che spinge ad isolarsi e anche a pensare al suicidio. Sono quelli che proprio non fanno niente che a mio avviso vanno guardati e che dovrebbero essere al centro dell’attenzione. Ad esempio, io mi ricordo, è dal ‘96 che bazzico questo posto, prima le celle erano aperte e già questo era sufficiente, io non ho mai sentito parlare di suicidio a quei tempi, i suicidi sono avvenuti soprattutto dopo, quando le celle sono state chiuse. Anche perché chi non parlava molto, non socializzava tanto con le persone, comunque era lì nel corridoio, era in saletta, quindi avevi modo di scambiare con lui due parole, di coinvolgerlo in qualche maniera. Gianfranco Gimona: Per come lo vedo io il problema è sostanzialmente la mancanza di personale e le poche risposte che riusciamo ad avere da parte di quel poco personale che c’è. Io qualche tempo fa ho fatto due lettere e quattro richieste per parlare con uno psicologo e non mi ha mai chiamato nessuno. Ma cosa devo fare per parlare con qualcuno? Devo fare come quelli che si tagliano o compiono comunque qualche atto di autolesionismo? Devo passare a questo tipo di minacce, e per farmi riconoscere devo dare segni di squilibrio? È tutto assurdo, per cui quando sento dire che hanno spostato molte persone da un carcere perché ci sono stati troppi casi di suicidio, mi chiedo effettivamente secondo quale criterio hanno preso queste persone e perché non le hanno messe comunque in osservazione prima. Questo secondo me è il grande problema, non c’è quasi mai un’analisi di chi è effettivamente il detenuto, si viene a sapere solo che quello si è suicidato perché probabilmente si sentiva solo, perché aveva altri tipi di problemi, perché “giocava” con il gas e via dicendo, però non si va mai a vedere qual è l’origine del suo star male, tanto che uno può rimanere qui dieci anni ed essere un perfetto sconosciuto se non si dà da fare da solo. Entri da numero ed esci da numero. Arqile Lalaj: A Vicenza l’educatrice ti chiamava e chiacchieravi mezz’oretta, qui se ti chiama ha tempo solo per chiederti: cosa vuoi? Sembra di essere ad un interrogatorio. Questo se sei fortunato, è ovvio che uno se ha veramente qualche problema e non riesce a parlare né con l’educatrice né con lo psicologo a un certo punto si trova costretto a fare certe cose. Flavio Zaghi: Già solo il fatto che comunque ti chiama a mio avviso è positivo, anche se poi ti dice che purtroppo può dedicarti solo cinque minuti, e comunque è lì, ma quando invece non ti danno proprio retta, è quella la cosa peggiore, perché sei completamente chiuso e abbandonato e non riesci a incontrare nessuno, non parli con nessuno. E qui c’è gente che magari ha anche condanne molto lunghe e si chiude in se stessa, e di conseguenza poi commette le cazzate, tipo tagliarsi, tirare gas, o peggio arrivare a impiccarsi, ed è per questo che io vorrei sentire anche la direzione, per capire se loro questo problema lo sentono e cosa intendono fare in merito a questa questione, perché se non c’è l’educatrice, allora ci vorrà una psicologa, o qualche volontario di sostegno, qualcuno che sia presente per parlare di queste cose con chi sta male.
È mai possibile che dopo il quarto suicidio non ci sia stato qualcuno che abbia preso e sia andato a vedere chi erano questi quattro
Mauro Cester: Io prenderei il problema del carcere nell’insieme, cioè il carcere è diventato come cento anni fa, una vera discarica. Mi ricordo quando sono arrivato qui a Padova e sono stato nella sezione dei Giovani adulti per cinque anni: bene, in cinque anni ho fatto tre colloqui con l’educatrice, mi sembra che sia un po’ poco. Non ero mai stato in carcere e mi sono ritrovato ad affrontare tutti i problemi da solo: magari uno può anche riuscire a superarli, ma può succedere che da solo non ce la faccia, e finisca allora in azioni estreme come il suicidio, o anche più semplicemente la passività più totale, il ricorrere all’alcol e altre reazioni simili. Insomma, vivi la carcerazione sulle basi che ti crei da solo, mentre ci vorrebbe un minimo di orientamento da parte degli operatori interni. Le attività, certo che ci sono, ma se le attività non sono finalizzate e non danno risultati concreti la gente continua a lamentarsi: non mi fanno la sintesi, mi manca un anno e mezzo e potrei essere già in semilibertà, non so cosa farò quando sarò fuori… tutte queste piccole cose sono come mettere un mattone sopra l’altro e alla fine vien fuori una catasta di problemi che poi possono sfociare in atti sconsiderati. Ora ti trovi anche a convivere in una sezione con troppi problemi tutti insieme, mentre una volta c’erano le sezioni aperte, i detenuti erano più intraprendenti, facevano mille cose per sopperire alla noia. Adesso entri in sezione e trovi solo buio e silenzio. Il trenta per cento della popolazione detenuta è costituita da tossicodipendenti, un altro trenta per cento sono extracomunitari con tutti i problemi che ne derivano. Quelli dichiarati realmente pericolosi saranno intorno al dieci per cento. C’è una percentuale troppo alta di detenuti che probabilmente non dovrebbero neppure stare qui dentro, e alla fine ne verrà fuori una bomba atomica. Stefano Bentivogli: Io vorrei tornare alla questione suicidi, suicidi a Padova, perché è vero quanto si diceva prima, cioè che qui al penale è difficile avere anche solo un colloquio con il prete. Al circondariale ti segni alla sera e alla mattina dopo l’educatore ti chiama subito, lì atti di autolesionismo ce n’è tanti, però di suicidi non si sente parlare da un po’. Il problema che io sollevavo è: noi rispetto a Padova, rispetto al carcere nel quale siamo, in che maniera dobbiamo porci? Perché poi alla fine se si tratta di fare un discorso generico sui suicidi e sull’autolesionismo, ho l’impressione che abbiamo già discusso abbastanza… Vorrei invece andare un po’ più nello specifico, perché le condizioni strutturali di un carcere secondo me sono una parte del problema, la presenza o meno di attività sono un’altra parte, ma c’è una cosa che mi urge chiedere in questa situazione: è possibile che dopo il quarto suicidio non ci sia stato qualcuno tra gli educatori, gli psicologi, il personale, che abbia preso e sia andato a vedere chi erano questi quattro, cosa facevano, quanti altri ce ne sono come loro, di cosa hanno bisogno, cosa gli si può offrire? Quelli che restano in cella, bisognerebbe capire che bisogni hanno, e probabilmente si può anche vedere se il carcere è in grado di dargli qualche cosa. Però quello che a me spaventa un po’ del nostro modo di gestire finora tutta la questione suicidi qui a Padova è che non è partito niente, cioè su questa situazione possiamo andare a fare verifiche, analisi sugli orari di apertura delle celle, sulla disponibilità di qualcuno con cui parlare, sulla possibilità di vedere l’educatore una volta ogni sei mesi, ma probabilmente ci sono persone che, anche dandogli la possibilità di vedere di più l’educatore, non modificherebbero la loro situazione, perché non sono neanche in grado di chiedere qualcosa. Anche se facciamo arrivare altri dieci psicologi, non cambia niente se poi questi psicologi lavorano su domandina. Possibile che noi, rispetto a quello che succede qui dentro, arriviamo a limitarci a rilevare delle cose che ci sono, però non riusciamo a fare quel passaggio in più e dire: qui non serve solo l’aumento dell’organico e delle attività e una qualità della detenzione diversa, serve un metodo, un approccio che sia diverso, serve gente che cerca, che va a vedere dove il disagio è diventato veramente pesante e interviene in maniera mirata: perché se io inauguro una nuova attività, ma quella attività non è funzionale a un bisogno della gente che se ne sta blindata in branda da mattina a sera, non ho risolto niente.
Il fatto che qui ci siano molte e buone attività finisce per far dimenticare alle persone che questo non basta, e che c’è comunque metà carcere che rischia di essere “dato per perso”
Antonella Barone (educatrice): Mi sono chiesta spesso se nelle carceri vivibili, dove si fanno attività utili e interessanti e dove, tuttavia, ci si suicida come e più di dove si sta peggio, non si crei un’altra forma di esclusione interna che finiamo per trascurare. C’è gente che non ha più nulla da perdere o da aspettare, che non trova la forza di alzarsi dal letto e di lavarsi, figuriamoci chiedere di partecipare alle attività. Io stessa ho “scoperto” di recente un uomo solo perché è arrivato il suo turno di “osservazione”: era qua da due anni, non aveva mai fatto “domandina” e nel carcere da cui proveniva aveva tentato il suicidio cinque volte. Ornella Favero: Certo è indiscutibilmente positivo che ci siano attività che tengono impegnati in modo utile parecchi detenuti, ma questo naturalmente non risolve il problema delle persone a rischio. Io vedo alla Giudecca che la grande offerta di iniziative non cambia la condizione delle persone che non si sollevano dalla branda: succede allora che ci sono venti - trenta donne che fanno tutto, e le altre settanta “ammazzano il tempo”, non perché siano escluse, ma perché si auto-escludono. Il carcere così come è oggi non è in grado di affrontare seriamente il problema delle persone che non hanno le risorse per risollevarsi da sole. A Padova poi non c’è, per esempio, nessuna iniziativa per il coinvolgimento del territorio sulla questione della salute mentale. L’esperienza di Torino ci dice che è importante attivarsi su questo fronte e, se non ci sono mezzi per occuparsi di tutto questo disagio crescente, bisognerebbe cercare in tutti i modi la collaborazione con il Dipartimento di salute mentale, ma anche puntare all’organizzazione di gruppi di attenzione che sfruttino al massimo tutte le risorse esistenti, comprese quelle del volontariato. E per finire sul fronte della tossicodipendenza io ho l’impressione che si sia ridotta l’attenzione: quando sono venuta qui, nove anni fa, c’era, per quanto discutibile, una sezione a custodia attenuata e c’erano molte attività e un Ser.T. abbastanza presente, ora non so se sono io cieca, ma tutto questo non lo vedo più. Quindi tutti assieme questi fattori mi fanno dire che il fatto che qui ci siano molte e buone attività finisce per far dimenticare alle persone che questo non basta, e che c’è comunque metà carcere che rischia di essere “dato per perso”. Antonella Barone: Ci sono anche delle strategie ormai obsolete nella gestione delle carceri per quanto riguarda la concessione di opportunità ai detenuti. Ad esempio il sospetto generalizzato che qualsiasi manifestazione esasperata della sofferenza sia strumentale all’ottenimento di qualcosa che è considerato evidentemente prezioso, tipo un lavoro, un cambio di cella, una telefonata, un riavvicinamento ai familiari, richieste che vengono negate per paura di emulazioni di azioni dimostrative. Sono convinta, mi riferisco ad un caso di pochi mesi fa, che se ad un giovane detenuto, con trent’anni da scontare e senza neanche i soldi per un francobollo, fosse stato assegnato il lavoro che aveva chiesto, prima con ordinaria insistenza, poi con scioperi della fame e minacce varie, gli si sarebbero risparmiati pellegrinaggi per altre carceri e OPG. Il principio dell’individualizzazione del trattamento dovrebbe rispettare la complessità degli esseri umani, mentre in carcere finisce che tutto sia bianco o nero. Questo anche per quanto riguarda la malattia mentale: i pazzi certificati vanno in OPG, per tutti i portatori di una vastissima gamma di altri disturbi anche molto gravi la cura è il carcere. La legge secondo me eccede in “riservatezza”, determinata dall’ottimismo trattamentale del tempo, quando chiede che il detenuto debba volontariamente partecipare all’osservazione. Gli stimoli vanno portati invece là dove c’è più silenzio, nelle “zone grigie”, nelle sezioni che si stanno gradualmente precludendo agli operatori. Credo che l’esperienza dei gruppi di attenzione di Torino sia da imitare, primo perché va ad operare e, spero, a radicarsi, proprio in quegli spazi che altrimenti finiranno per diventare una specie di “riserva”; secondo perché coinvolge risorse già esistenti, come i volontari, evitando che venga bloccata per mancanza di operatori del trattamento istituzionali; terzo perché offre una lettura dei bisogni reali sempre attuale. Anzi, mi viene in mente che questa esperienza possa offrire un cambiamento anche terminologico, affiancando il concetto di “attenzione” a quello di “osservazione”, che tra l’altro, dato il numero di detenuti e quello degli operatori, siamo ormai in molti a trovare imbarazzante. Graziano Scialpi: Capisco l’urgenza di fare qualcosa, ma personalmente nutro dei seri dubbi sulla possibilità di risolvere o ridurre il problema. Perché ci si uccide anche in un carcere come quello di Padova, dove le condizioni non sono disumane? Secondo me alla base di questi gesti c’è senz’altro il carcere, ma solo come fattore che acuisce uno stato di solitudine e disperazione. I gruppi di attenzione, andare a vedere di cosa hanno bisogno quelli che trascorrono la carcerazione stesi in branda è sicuramente una cosa da fare, in ogni caso, anche se non si verificano suicidi. Perché per uno che si toglie la vita ce ne sono centinaia che in carcere si abbrutiscono e non credo che questo sia nell’interesse della società. Ma quanto al fatto di riuscire ad evitare i suicidi… solitudine e disperazione non assumono solo la forma di una figura piangente rannicchiata in un angolo buio, anzi, spesso hanno il volto sorridente. Io ho vissuto e lavorato a Trieste, una città che ha, o perlomeno aveva, livelli altissimi di suicidi. Il mio primo impatto con questa realtà l’ho avuto da studente. Frequentavo da alcuni mesi una palestra e avevo iniziato a fare amicizia con gli altri frequentatori e tra questi c’era un uomo simpatico sui quarant’anni. Abbiamo preso confidenza e una sera abbiamo passato due intere ore a parlare ridere e scherzare. La mattina seguente apro il giornale e vedo la sua foto. Dopo aver riso e scherzato con me era tornato a casa, aveva aperto il rubinetto del gas e poi, lui e sua moglie avevano infilato la testa nel forno, morendo insieme. Mi sembrava impossibile. Poi ho iniziato a lavorare come giornalista e ne ho viste decine di questi casi e in tutti mi colpiva l’incredulità di amici, parenti e familiari che, il più delle volte, negavano che si fosse trattato di un suicidio e giungevano a ipotizzare l’intervento di una mano estranea o incidenti fantascientifici per spiegare quello che per loro era del tutto inaspettato. Nel 1994 in seguito all’ennesima ondata cruenta e devastante di suicidi si è riunita l’intera redazione per discutere il problema, proprio come noi adesso. Parlandone e riesaminando tutti i casi capitati, abbiamo constatato che ogni volta che accadeva un suicidio e ne scrivevamo, il giorno dopo si uccidevano altre due persone. Noi ne scrivevamo dando gran risalto alla notizia e il giorno successivo si toglievano la vita in tre… Quello che abbiamo deciso, quello che potevamo fare e abbiamo fatto è stato di rinunciare al nostro diritto-dovere di cronaca per non contribuire a quel perverso effetto emulativo. Da quel giorno non abbiamo più riportato le notizie dei suicidi. Con questo voglio dire che sicuramente bisogna fare qualcosa, studiare il modo di prevenire questi gesti disperati, ma che bisogna fare molta attenzione perché è un terreno delicato, dove il clamore può avere effetti esattamente contrari a quelli che ci si prefigge.
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