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Alta Sicurezza, l’alternativa, che non c’è I detenuti del circuito di Alta Sicurezza tagliati fuori da tutto, anche dal carcere
di Elton Kalica
Nel bel mezzo del convegno che ha avuto luogo all’interno del carcere di Padova, mentre eminenti personalità discutevano sulle misure alternative al carcere e 150 e più detenuti seguivano attenti, nella speranza di capire finalmente perché la maggior parte dei Tribunali di Sorveglianza applica queste misure con il contagocce, per un momento il mio pensiero è andato ai detenuti di Alta Sicurezza, che non avevano nemmeno potuto chiedere di partecipare al convegno. Quegli stessi detenuti che, oltre ad essere esclusi dalle attività del carcere, non possono beneficiare nemmeno delle misure alternative. Qualcuno potrebbe pensare che sarebbe stato un paradosso invitarli, in quanto esclusi per legge da quelle misure alternative che costituivano, appunto, il tema del convegno. Ma a ben pensarci il vero paradosso è un altro: che senso ha proclamare la rieducazione come un obiettivo da perseguire per tutti i detenuti (e questo come vedremo è lo spirito della Costituzione italiana) e poi escludere alcuni di essi da ogni attività e beneficio di legge? Non posso fare a meno di ripassare mentalmente quali sono i detenuti cui la legge impedisce di beneficiare delle molto-discusse-misure-alternative. L’ordinamento penitenziario afferma che tutti i detenuti possono accedere ai benefici di legge, fatta eccezione per quelli che sono stati condannati per ben precise tipologie di reato. D’altro canto, però, l’ordinamento penitenziario prevede un percorso rieducativo di tutti i detenuti e un trattamento mirato al reinserimento di essi nella società. Norme, queste, che si ispirano ai principi fondamentali della Costituzione italiana, che, oltre a proclamare l’uguaglianza di tutte le persone e condannare ogni forma di discriminazione, definisce anche il senso e la natura della detenzione. Ma qui emerge l’assurdo: se la Costituzione dapprima e l’ordinamento penitenziario poi pongono come fine della pena la rieducazione, con tutto ciò che essa comporta, perché dal percorso di reinserimento deve essere esclusa tutta una serie di categorie di detenuti, che sono stati condannati per reati come l’associazione mafiosa, il traffico internazione di stupefacenti, il sequestro di persona a scopo di estorsione, il traffico di clandestini, lo sfruttamento della prostituzione? Sono esclusi da ogni beneficio, inoltre, i condannati per terrorismo e sovversione. In realtà, non è stato sempre così. All’esclusione di tutte queste categorie si è giunti infatti in modo graduale, man mano che in Italia la scena politica e sociale veniva agitata dalle cosiddette "emergenze": dapprima l’emergenza del terrorismo, poi l’emergenza mafia, seguita da quelle dei sequestri di persona, del traffico di droga, fino ad arrivare alle più recenti emergenze legate al traffico dei clandestini e delle prostitute. Evidentemente a tutti questi eventi lo Stato ha fatto fronte nello stesso modo, cioè usando come strumento una politica sostanzialmente solo repressiva. Così, da un lato sono state introdotte leggi che inasprivano le pene e, dall’altro, sono state promulgate altre leggi che costringevano i condannati per i reati via via considerati "emergenziali" a forme di detenzione più dure. Ed il carcere duro, appunto, non si limita soltanto a confinare questa categoria di detenuti in un "girone" a parte, separati dal resto del carcere, ma impedisce anche la creazione di un percorso di reinserimento nella società.
Quei reati gravi commessi spesso in giovanissima età
C’è da dire però che non tutti i condannati per terrorismo o per associazione mafiosa continuano ad avere quell’atteggiamento antagonistico che li aveva caratterizzati negli anni delle emergenze. Molti dei condannati di oggi (poniamo come esempio i condannati per traffico di droga) hanno commesso i reati in giovanissima età, e quindi, dopo il carcere duro già espiato, hanno capito di essere stati attratti da una ideologia sbagliata di vita. Sicuramente la maggior parte di loro vorrebbe avere la possibilità di ricostruirsi una vita normale. Anche i condannati per sequestro di persona non sono tutti "incorreggibili", né tutti hanno portato il sequestrato su per le montagne, incatenato e incappucciato, oppure gli hanno tagliato un orecchio. Molti sequestri sono stati commessi da stranieri, e consistono sostanzialmente nell’avere tenuto chiusi in un appartamento altri immigrati. Nelle carceri italiane, per fare un esempio concreto e attuale, sono reclusi molti cinesi condannati sì per sequestro di persona a scopo di estorsione, ma che tale reato hanno consumato come conseguenza di un altro reato, il traffico di clandestini (i clandestini trafficati, in sostanza, vengono tenuti chiusi in un appartamento finché i loro famigliari non provvedono a pagare il loro viaggio). Per quanto anche questa forma di sequestro di persona sia un reato crudele, e quindi sia giusto venga punito severamente, ha con tutta evidenza ben poco da spartire con i clamorosi sequestri a scopo di estorsione che hanno riempito in passato le cronache italiane. Domanda: è giusto mettere questi due tipi di reato sullo stesso piano per quel che concerne l’esclusione dai benefici dei loro autori? Ma anche tra i trafficanti di droga, pochi sono criminali violenti e pericolosi. Gli associati di queste organizzazioni sono spesso giovani e a volte donne (si provi a pensare alle donne colombiane che trasportano gli ovuli di cocaina nello stomaco, oppure ai giovani dell’Est europeo che trasportano in spalla borse d’eroina). Di sicuro, queste persone non meritano tutto quell’accanimento dello Stato italiano, e possono benissimo essere messe nella stessa condizione degli altri detenuti per avere la possibilità di cambiare. Normalmente una persona accusata di omicidio viene condannata dai sedici ai venticinque anni, e a metà pena potrà cominciare ad usufruire delle misure alternative per preordinare così il suo reinserimento nella società. Invece una persona accusata di terrorismo, di mafia, di sequestro di persona, di traffico di droga di solito si prende una condanna che varia tra i venti e i trent’anni di reclusione, condanna per di più aggravata dal fatto che non potrà mai usufruire delle misure alternative al carcere e dovrà espiare tutta la pena. Ecco che la domanda si ripete: se la giustizia è uguale per tutti (art. 3 Cost.) e se il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.) perché devono esistere simili differenziazioni di trattamento? Con tutto il consenso che ognuno può dare al legislatore per aver risposto tempestivamente a tutti questi fenomeni criminosi, si ha però l’impressione che con queste leggi non siano stati colpiti soltanto coloro che con i propri atti avevano minato la stabilità dello Stato, ma la stessa Costituzione, di cui tali leggi hanno sostanzialmente violato lo spirito. Naturalmente, vedendo che dopo tanti anni di legislazione emergenziale non si decide più di fare marcia indietro, mi viene da osservare che forse qualcuno dovrebbe cominciare a prendere atto di aver sostanzialmente cambiato la Costituzione, provvedendo quindi a correggerne l’articolo 27 con la seguente specificazione: "Il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato se questo non è un terrorista, un mafioso, un sequestratore, un trafficante di droga oppure uno sfruttatore di prostitute". Chiaramente, in questo modo, si porrebbe fine a questa specie di revisione occulta e si deliberebbe anche la revisione formale dell’articolo 27 della Costituzione: non si può continuare a predicare una cosa e farne un’altra quando si tratta delle leggi fondamentali dello Stato. Ovviamente questo è soltanto un modo un po’ estremo per mettere in risalto gli effetti perversi che rischiano di avere le leggi d’emergenza. Per fortuna è impensabile che la Costituzione italiana un giorno cambi in questa direzione, mentre rimane certamente il fatto che esiste una certa difformità tra il fine della pena sancito dalla Carta fondamentale e l’effettiva punizione riservata ad una bella fetta dei condannati. A questo punto, sembra che si sia arrivati ad un vicolo cieco e che non si trovi via d’uscita. Invece a mio avviso un modo ci sarebbe, e molto semplice. Il segreto sta nella Carta fondamentale dei diritti dell’uomo. Se si arrivasse ad affermare la rieducazione e il reinserimento del condannato come un diritto inviolabile dell’uomo, non dovrebbe più essere possibile per qualsiasi stato emanare leggi discriminatorie, punitive solo per determinate categorie di detenuti.
Come sono nate le leggi "emergenziali" che hanno introdotto gli articoli 4 bis e 41 bis
I detenuti che sono stati condannati per reati di "criminalità organizzata" non possono accedere alle misure alternative alla detenzione, a meno che collaborino con la giustizia (o dichiarino, comunque, la propria disponibilità a collaborare, nel caso che tutti i fatti siano già accertati e, nel concreto, non possano più rivelare nulla di nuovo). Questa è la situazione ormai da 12 anni, cioè dal biennio 1991 – 1992, gli anni della legislazione "emergenziale" contro la mafia. Ma come si arrivò a fare le leggi che introdussero gli articoli "4 bis" e "41bis" nell’ordinamento penitenziario? A partire dal 1989 c’erano state alcune evasioni di detenuti mafiosi, che avevano destato grande scalpore nell’opinione pubblica. In realtà quasi nessuno di questi casi aveva a che fare con la legge penitenziaria (si trattava spesso di detenuti in attesa di giudizio, quindi non in grado di usufruire di permessi e misure alternative), tuttavia, i Ministri dell’Interno del tempo - Gava e Scotti - ne incolparono la Legge "Gozzini". In questo contesto, successivamente aggravatosi soprattutto a causa dell’allarme sociale suscitato dagli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prendono origine la legge 203/1991 e la 356/1992. La Legge 203/91 ha istituito un regime differenziato nei confronti dei condannati per i reati di associazione mafiosa ed eversiva, i quali possono fruire delle misure alternative solo dopo aver dimostrato di non avere più alcun rapporto con l’organizzazione di appartenenza. Con la Legge 356/92, invece, si decise di usare le misure alternative come strumento di pressione per spingere i mafiosi a collaborare con la giustizia. Queste leggi rappresentarono soprattutto un messaggio politico, per "rassicurare" la società italiana circa l’efficacia repressiva dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, ma anche per "invitare" la Magistratura di Sorveglianza a dare priorità alle esigenze di difesa sociale, rispetto a quelle del reinserimento sociale dei condannati.
I nuovi orientamenti della politica criminale tra risarcimento del danno e rieducazione del reo Ma c’è il rischio che, più che l’effettiva gravità del reato, conti l’allarme sociale, così come è percepito dalla comunità
di Adriano Morrone criminologo e autore del libro "Trattamento penitenziario e misure alternative alla detenzione"
Vorrei fare alcune considerazioni sui nuovi orientamenti della politica criminale soprattutto di quest’ultimo decennio. Ci troviamo effettivamente dinanzi ad una crisi della pena classica, della pena detentiva, intesa come sanzione che di fatto poi manca di quell’effettività che le si chiederebbe di avere, tant’è vero che c’è ormai un costante richiamo alla certezza della pena. Ora, è vero che il nostro ordinamento penitenziario, anche se abbiamo spesso detto che è molto avanzato, di fatto è stato introdotto nel ‘75, in un momento in cui l’ideologia del trattamento, almeno nel suo modello correzionale, inteso come tecnica d’intervento tesa alla modifica della personalità, era già in piena crisi nei sistemi anglosassoni, e quindi c’era già un venir fuori delle istanze retributive, della pena intesa come retribuzione. Ma in questi tempi ci troviamo soprattutto davanti a nuove tendenze della retribuzione, che sono un po’ diverse dalla classica retribuzione, perché la retribuzione poi in sé non è un danno, la retribuzione è comunque un elemento della pena che dà garanzia, garantisce appunto pene che sono determinate e che sono proporzionate alla gravità del reato. Ora il richiamo alla retribuzione che si fa invece all’interno degli attuali orientamenti di politica criminale è un richiamo non tanto alla retribuzione legata alla effettiva gravità del reato, quanto un richiamo all’allarme sociale, alla gravità del reato così come percepita dalla comunità. E quindi si rischia anche di andare a proporzionare le pene a questo allarme sociale, che spesso non è lo specchio di una reale offensività del reato. In questi anni il legislatore si muove in un certo senso sentendo troppo l’opinione pubblica in generale, o meglio l’emotività che la contraddistingue: per capirlo, è sufficiente analizzare nell’ultimo decennio, a cominciare dal ‘91-’92, le molte leggi restrittive introdotte, almeno per alcuni reati. È vero che nel ‘98 c’è stata l’apertura della legge Simeone-Saraceni, ma si tratta di una legge che ha introdotto soprattutto modifiche nell’accesso alle misure alternative, che poi, a giudicare un po’ anche dal dibattito che è immediatamente seguito all’introduzione della legge stessa, e, considerando il momento storico in cui è intervenuta, almeno a qualche criminologo fa venire il sospetto che si sia trattato di una soluzione per superare una certa difficoltà nell’applicare le pene ai colletti bianchi, e quindi a tutto quello che veniva da tangentopoli. A distanza di qualche anno, è stata poi introdotta la legge n. 40 del 2001 con la detenzione speciale per le detenute madri, che però non fa quasi testo, nel senso che è una misura finalizzata, a mio parere, soprattutto all’assistenza dei figli minori, più che a un reinserimento del condannato. Abbiamo infine la stabilizzazione del regime differenziato e quindi del 41 bis con la legge del 2002 e questo indultino, introdotto nel 2003, che riguarda pene molto brevi e quindi probabilmente una fascia di soggetti che non sono quelli che poi effettivamente gravitano con una certa frequenza all’interno del carcere. Oggi c’è il rischio di una giustizia che sia una giustizia che tenda alla rieducazione solamente per una fascia di soggetti, che sono quelli più socialmente inseriti, più marginali rispetto all’area della criminalità. In questo panorama si collocano le istanze di giustizia riparativa, intesa proprio come palliativo a questa crisi della pena detentiva: a questo proposito, non conoscendo ancora a fondo i risultati cui è pervenuta la commissione Nordio, possiamo richiamare più che altro le indicazioni della commissione di riforma del Codice Penale precedente, quella presieduta da Grosso, e poi le norme sulla competenza penale del Giudice di pace. Già la commissione Grosso, dopo una premessa dove aveva appunto evidenziato la crisi della pena detentiva in termini di effettività, aveva richiamato soluzioni del tipo di quella del lavoro di pubblica utilità, del community service (= lavoro non retribuito a vantaggio della comunità), e queste sono idee che poi sono state sostanzialmente recepite per quanto riguarda i reati di competenza del Giudice di pace, dove sono previsti la sanzione della detenzione in casa e il lavoro di pubblica utilità. Mi sembra però che i reati di competenza del Giudice di pace siano reati che non riguardano l’area della criminalità che gravita nel carcere, e quindi non sono una risposta alle problematiche del reinserimento dei detenuti, o meglio una risposta comunque incisiva. I progetti di legge attualmente all’esame del Parlamento sono sostanzialmente centrati sul lavoro di pubblica utilità; ce n’è uno in particolare che vorrebbe applicare il lavoro di pubblica utilità a tutte le contravvenzioni, quindi a tutti i reati contravvenzionali o comunque a pene detentive non superiori ai quattro anni. Ma sostanzialmente tutti questi disegni di legge prevedono il lavoro di pubblica utilità come sostituzione di pene detentive medio-brevi, tre o quattro anni. C’è solamente un disegno di legge che si riferisce a un programma di reintegrazione sociale, a cui hanno lavorato anche l’Onorevole Franco Corleone e il Presidente Sandro Margara, che riguarda invece pene superiori ai quattro anni, ma per una categoria specifica di detenuti, cioè i tossicodipendenti. Quindi in questo momento non abbiamo un’ipotesi di community service pensata realmente come alternativa per la criminalità comune.
Una giustizia riparativa che rischia di mascherare una sorta di pena pecuniaria
C’è però un aspetto importante da sottolineare, quando si parla di giustizia riparativa: senz’altro ogni misura di decarcerizzazione deve essere vista con favore sia per gli effetti che ha proprio sul penitenziario, sia in termini di prevenzione speciale e di rieducazione. Però il pensare ad un lavoro che comunque è un lavoro di tipo gratuito, che spesso si esplica in attività che non sono corrispondenti alle capacità professionali del soggetto, rischia di mascherare una sorta di pena pecuniaria, pagata attraverso questa attività lavorativa. Anche perché questa attività lavorativa magari non è neanche agganciata alle esigenze del mercato del lavoro, in continua e rapida evoluzione, quindi non è neanche in grado di fare acquisire al soggetto quella qualificazione professionale, che poi può essere spendibile sul mercato del lavoro e quindi avere un effetto benefico in termini di reinserimento sociale dopo la pena. Un altro aspetto problematico credo che sia riferito al fatto che si parla appunto di prestazione di attività gratuita, proprio per compensare il danno sociale derivante dal reato e dare una risposta a questo bisogno di giustizia della collettività. Ora però, andando a connotare la pena con questo contenuto economico-patrimoniale, si rischia di introdurre un concetto di retribuzione un po’ nuovo, e appunto la retribuzione non è più vista semplicemente come castigo per l’illecito che non doveva essere commesso, e per il quale quindi il soggetto viene colpito in un bene come quello della libertà personale, ma diventa un risarcimento economico che si avvicina un po’ al risarcimento del danno conseguente alla responsabilità civile per fatto illecito, con una modifica della concezione della pena molto rilevante. La pena assume quindi sempre più questo significato economico e inevitabilmente rischia di diventare una pena indubbiamente utile per quei soggetti che solo occasionalmente si trovano a commettere reati e per quei soggetti appunto legati alla criminalità economica, o comunque per soggetti socialmente inseriti, ma rischia di non essere applicabile alla stragrande maggioranza dei detenuti. Un’ultima considerazione riguarda i detenuti stranieri. Visto che oggi molti detenuti all’interno delle carceri sono extracomunitari, quali possono essere le alternative, se noi parliamo di decarcerizzazione e risarcimento del danno, di fronte ad una Cassazione che, interpretando forse l’attuale contesto storico della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, ci dice che per gli immigrati clandestini, che si trovano a scontare una pena detentiva nel nostro paese, non devono essere comunque applicate le misure alternative alla detenzione? Allora mi chiedo: quali saranno le prospettive di decarcerizzazione e di progressione del trattamento? Dinanzi agli sforzi che l’Amministrazione Penitenziaria fa per garantire comunque un trattamento individualizzato che tenga conto delle caratteristiche etniche, culturali e religiose di questi soggetti, alla fine del percorso viene a mancare proprio quella ulteriore fase che è legata al trattamento extramurario. Forse, mi viene da dire, c’è chi non si ricorda o non ha mai saputo che cosa significa il trattamento, la speranza è solo che certe sentenze non vengano poi applicate dalla magistratura.
Nils Christie un grande criminologo che crede poco all’utilità del carcere La mediazione penale e le tante possibili alternative alla galera
di Francesco Morelli
Docente di criminologia dell’Università di Oslo e maggior esponente della "Teoria abolizionista", Nils Christie è arrivato a Padova per tenere alcune conferenze sul tema della mediazione penale. L’ho incontrato al primo degli incontri programmati, al Dipartimento di sociologia. Sono abituato a partecipare a convegni per "addetti ai lavori", quindi con la presenza di un numero limitato di persone, ma ad ascoltare Christie eravamo davvero in pochi, ed è stato un peccato. Ci siamo seduti intorno a un tavolo (non aveva senso una disposizione più accademica) e le facce un poco perplesse si sono trasformate in sorrisi di complicità… ci siamo sentiti un po’ privilegiati. Christie ha preferito rinunciare alla relazione e, dopo essersi brevemente presentato, ci ha invitato a fargli delle domande. "L’intervista" che ne è risultata (se così si può definire) è fatta in collettivo.
Tutte le società moderne usano il carcere come strumento per punire chi ha trasgredito certe regole e per dissuadere le altre persone dal trasgredirle. Ma lei crede all’utilità del carcere? Io credo che il carcere possa essere utilizzato soltanto quando sono falliti tutti gli altri metodi di ricomposizione del conflitto, quindi la mediazione penale, il risarcimento della parte offesa. Secondo me gli Stati potrebbero ridurre del 90% le dimensioni dei propri sistemi penitenziari senza alcun rischio di aumento della criminalità, anzi… rinchiudere una persona in carcere rende più probabile che questa commetta altri reati, quando ha terminato la pena. Se ci pensate bene, noi mandiamo i nostri figli a scuola perché abbiano una vita sociale che gli insegni delle cose… ma se li mandiamo in prigione, che cosa impareranno, come ne usciranno? Alcuni anni fa ho scritto un libro dal titolo "Il business penitenziario, la via occidentale al gulag", dove prospettavo il rischio che i sistemi carcerari si trasformassero in enormi campi di concentramento, dai quali tutte le persone "scomode" per la società non uscissero più. Ed è proprio quello che sta accadendo negli Stati Uniti e nella Russia occidentalizzata, dove ogni 120 persone libere ce n’è una detenuta. Ma la pena carceraria non funziona nemmeno come deterrente: la probabilità che una persona non compia un’azione perché per un atto analogo un’altra persona è stata arrestata è molto bassa. Se agisce d’impulso, in quel momento non pensa certo a quale condanna rischia. Se agisce per bisogno economico, o perché vive in un contesto nel quale la violenza è il solo modo per affermarsi, la paura del carcere non è sufficiente a controbilanciare la gratificazione che ottiene con il suo gesto. Allora non serve la minaccia della punizione, serve una battaglia culturale, su più fronti.
Ho notato che lei non usa termini come "crimine", "reato", ma parla di "gesti", "azioni"… è una scelta precisa, suppongo, o no? Il "crimine" non è un concetto dal valore assoluto: dipende da che cosa, in una data società, viene considerato tale. Esiste l’azione ed esiste la persona che la compie, però a questa azione va dato un significato e va considerato anche il contesto nel quale viene compiuta. Se per un contadino afgano il coltivare del papavero da oppio non ha nulla di riprovevole e per noi occidentali è una cosa raccapricciante, le parti s’invertono prendendo in considerazione il "gesto" di sganciare bombe cluster sulle valli dove quel contadino abita. Questi "gesti" sono reati da punire, oppure comportamenti da capire? Quali sono le condizioni sociali e personali che ne determinano la lettura nell’una e nell’altra direzione? Se vogliamo che la comunità in cui viviamo sia fatta di persone responsabili, dobbiamo impegnarci a diffondere l’idea che il "delitto" è qualcosa di relativo, che "l’illegale" e il "legale" sono nient’altro che opinioni.
Però ogni Stato ha delle leggi, che stabiliscono quello che è consentito e vietato… Le leggi dipendono dalla politica che, ormai priva d’ancoraggi ideologici, va alla deriva verso la filosofia assolutista dei soldi e del mercato. In questa situazione la paura della criminalità diventa il terreno preferito per scaldare gli animi, per raccogliere consensi. Per il resto non c’è più dibattito, perché i "valori sociali" sono più o meno gli stessi in tutti, non ci sono portavoce di valori in antitesi al sistema. Chi propone visioni alternative, come nel mio caso, non è ascoltato da nessuno. Se la tua immagine di politico è troppo debole nei confronti della "criminalità", sei finito, sei amico dei nemici del sistema… Quindi le leggi finiscono per scaturire da un processo di esasperazione dei conflitti sociali, anziché derivare dalla esigenza di ricomposizione degli stessi.
Che ruolo hanno i media in quest’opera di manipolazione dell’opinione pubblica? I media sovraespongono i fatti criminali, li rendono talmente centrali da spaventare la gente. E credo che il ruolo più significativo sia quello della televisione che, oltre tutto, riduce il nostro tempo sociale, la partecipazione alle varie attività che ci fanno stare assieme agli altri. Quando, la sera, cammino per le strade vuote di Oslo, vedo dietro le finestre una luce blu. Là dentro c’è un’intera nazione, che guarda la televisione. La gente sta chiusa in casa. Guarda la TV e ha sempre più paura: a causa di quello che vede in TV, ma anche perché fuori non c’è nessuno, fuori nel buio c’è solo la minaccia criminale. Ci vorrebbero nuovi spazi di riflessione e non le suggestioni "primitive" che ci offrono oggi i politici ed i mass media.
In Italia è da poco tempo che si è iniziato a parlare di "giustizia riparativa", non senza sollevare dubbi o critiche. Qual è il sistema che utilizzate in Norvegia, per risolvere le controversie senza andare in tribunale? In Norvegia abbiamo una "Camera dei conflitti", alla quale la Procura di Stato trasferisce, con l’accordo di entrambe le parti, le cause concernenti i reati minori. Ma le cause che finiscono a questo sistema alternativo sono troppo poche e di scarsa rilevanza: si arriva, al massimo, ai piccoli furti nei negozi. E così però si continua a recare danni sociali, utilizzando la giustizia penale. Poi, se guardiamo ai conflitti che nascono nel mondo della finanza, o tra i gruppi industriali, ci accorgiamo che molto spesso si adottano forme di mediazione proprio per evitare di andare in tribunale, prospettiva che danneggerebbe l’immagine delle aziende coinvolte. La stessa cosa dovrebbe valere per le persone comuni, però sembra che non lo si voglia capire...
Cos’è che ostacola l’affermarsi di forme di soluzione dei conflitti alternative ai processi penali? Le ragioni sono tante. Prima di tutto c’è lo Stato (ed ogni istituzione che da esso dipende) che vuole poter governare e giudicare gli individui. Se perdesse questa prerogativa sarebbe svuotato di buona parte dell’autorità che oggi gli è riconosciuta. Un secondo problema riguarda la "proprietà" dei conflitti: sarebbe naturale che essi appartengano ai relativi protagonisti, non agli avvocati, non ai giudici… che, da questo punto di vista, si possono considerare quasi dei "ladri professionisti", perché sottraggono alla gente la possibilità di occuparsi delle proprie controversie. Queste categorie professionali vivono dei conflitti sociali: più ce ne sono, meglio è, per loro… se la gente fosse messa nelle condizioni di risolvere consensualmente la maggior parte delle "questioni", avremmo un esercito di giuristi senza lavoro. Ma c’è anche il fatto che la nostra tradizione culturale è molto legata all’idea del castigo, della sofferenza fisica e psichica come forma di risarcimento. A chi crede in questo io dico di andare ad assistere ad una seduta alla Camera dei Conflitti. Vedrebbero che spesso a soffrire sono sia la vittima sia l’accusato, che magari non riesce a capire quanto sia stata grave la sua azione (per la parte lesa) e cerca di spiegarsi. Lì si renderebbero conto di come, piano piano, con il dialogo, le due persone cercano di farsi capire. La vittima comincia un po’ alla volta a rendersi conto che l’aggressore è una persona normale e questi comincia a capire quel che ha combinato. Può finire con una stretta di mano, e questo mi sembra l’epilogo più accettabile moralmente, di sicuro di più che affidare la pratica ad un funzionario del sistema penale.
Quindi lei ritiene che il sistema penale debba essere gradualmente abbandonato e sostituito con questi sistemi alternativi? L’abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo che da un lato si debba arrivare a metodi di soluzione alternativi, come il Giudice di Pace, per la gran parte dei reati, ma che dall’altro si debba conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più debole) possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso con un pugno e poi tu "che sei socialmente più attrezzato e potente" pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni, un risarcimento che mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un’aula del tribunale. Insomma, non dico di gettare alle ortiche la forma di difesa dei diritti individuale sviluppata nel corso dei secoli, dico che bisogna migliorarla.
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