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Finalmente si è ricominciato a parlare di carcere
A denti stretti. Ancora troppo poco... e tutti pronti a tacere di nuovo, quando si spegneranno le rare luci che si sono accese sulle proteste dei detenuti
È dall’anno del Giubileo che la stampa nazionale e locale se ne occupava solo per darci i numeri: 56.000 - 58.000 detenuti, e poi le statistiche, le proporzioni: quanti i tossicodipendenti, quanti gli immigrati…; o tragicamente per annunciare il suicidio di chi non ce l’aveva fatta. Notizie allarmanti per chi si occupa di carcere e per tutte le persone coinvolte: i detenuti, i loro familiari, gli amici. Notizie che "fuori" per lo più interessavano ben pochi o pressoché nessuno. Per noi che ci occupiamo da anni di informazione dal carcere il problema di suscitare l’attenzione esterna è un problema quotidiano. Come interessare la sociètà e i politici? Come accendere i riflettori su questo serbatoio umano di miseria e disagi che un muro di indifferenza tiene separato dal "resto del mondo"? Partecipare a dibattiti, organizzare occasioni di incontro dentro e fuori, incontrarsi con gli altri che da anni hanno gli stessi scopi. Scambiarsi informazioni, riflessioni, progetti. Invitare e sollecitare sulle questioni legate al carcere i politici, gli amministratori locali e nazionali, i giornalisti, gli scrittori. Collegarci dove e quando possibile con il resto del territorio. Cercare di trovare un varco per far arrivare le notizie. Farci sentire, vedere… far parlare di noi. E poi ancora la frustrazione, ma al tempo stesso la tenacia di continuare a sperimentare. Ora, grazie a una serie di occasioni contemporanee, e soprattutto alla pacifica protesta dei detenuti, anche se con poche, pochissime casse di risonanza, e grazie anche, perché non dirlo?, alle dichiarazioni del Ministro di Giustizia sulla sinistra fomentatrice di rivolte, qualche riflettore si è acceso, ahimè per spegnersi sempre troppo rapidamente. Ma è proprio in questa occasione, con le carceri "in movimento" e un po’ di attenzione da parte dei giornali e delle televisioni, che dovremmo trovare un terreno comune di discussione superando le divisioni nel nostro agire. Senz’altro la piattaforma proposta dall’associazione Papillon, che ha avuto la capacità di dare ai detenuti la voglia e la forza di farsi sentire, ha molti punti sui quali siamo d’accordo e non pensiamo sia interesse di nessuno, in questo momento, fare le pulci punto per punto per suggerire piccoli cambiamenti o criticare le scelte non condivise. Ci interessa di più essere coesi e mantenere viva l’attenzione di chi agisce politicamente e della sociètà. Per cui ben vengano gli onorevoli che visitano le carceri, e altrettanto benaccetti sono i, purtroppo pochi, interventi di chi da anni fa informazione sul carcere. E ben venga chi ha cercato di far capire, a tutti quelli che in questi giorni parlano di Giustizia, che la soluzione non è più carcere per i potenti, ma più giustizia e meno carcere per tutti. Abbiamo sempre apprezzato e sollecitato l’auto-organizzazione di chi soffre di una condizione di disagio, ma se essa sconfina nell’isolamento e nell’auto-referenzialità, rischia di essere abbandonata a se stessa. Per cui ben vengano tutte le proposte e le iniziative comuni, senza particolarismi e auto-promozione. Noi da parte nostra dobbiamo cercare di interagire con tutti coloro che sul territorio si occupano dei temi del disagio in ogni sua forma: tossicodipendenze, stranieri, povertà sociale e culturale…e dobbiamo trovare luoghi di incontro, terreni di confronto per sollecitare iniziative comuni. La proposta è quella di aprire virtualmente le porte del carcere a chi da anni si muove sul terreno dei diritti universali e di cercare assieme quali possono essere gli obiettivi comuni. È per questo che, da quando siamo nati come giornale, e poi con il sito che ha allargato la nostra capacità di raggiungere il mondo esterno, ci muoviamo per uscire dall’isolamento, che caratterizza un po’ tutte le realtà che operano in carcere. Lo facciamo con i mezzi che abbiamo, consci dei nostri limiti, che sono un po’ quelli che richiama Adriano Sofri su Repubblica del 25 settembre a proposito dei giornali del carcere, che pure fanno apprezzabili sforzi per informare e far uscire le voci dei detenuti: l’autocensura, della quale cerchiamo da sempre di "liberarci", l’intempestività, perché non abbiamo la forza di essere presenti con la regolarità e la frequenza che sarebbero necessarie, e aggiungiamo la precarietà, perché molti giornali "escono" dalle carceri circondariali, dove c’è grande ricambio di detenuti e pochissima stabilità nelle attività che si possono organizzare. È per questo che, là dove la voce dei detenuti è più debole, dovrebbe essere più forte l’azione del volontariato per rendere il carcere più visibile all’esterno. Ma non succede sempre così, perché il volontariato penitenziario sconta forti ritardi su questo terreno: l’abitudine ad occuparsi dei problemi del singolo detenuto, più che dei "problemi dei detenuti"; la sottovalutazione del ruolo che può avere l’informazione in una realtà chiusa e isolata come il carcere; la difficoltà a lavorare insieme. Ma se non si vuole avere solo il ruolo di alleviare il disagio, "puntellando" così in qualche modo l’istituzione, bisogna darsi gli strumenti per unire le forze e contare di più, noi esterni che entriamo in carcere, per far contare di più chi il carcere lo vive, anzi lo subisce da detenuto. Dice Alessandro Margara, uno dei padri della Legge Gozzini: "Se l’area del carcere si identifica con l’area della precarietà sociale, non siamo più davanti a un carcere, ma a un campo di concentramento. Non siamo più davanti alla espiazione di una pena, ma ad una operazione di pulizia sociale". È per questo, per ostacolare questa tendenza a gettare in carcere tutto quello che dà fastidio fuori, che è fondamentale uscire dall’isolamento e accettare di collaborare con chiunque abbia voglia di impegnarsi perché il carcere sia più aperto e trasparente, e perché la città, che dovrebbe accoglierlo e invece lo respinge e lo nasconde, diventi invece un po’ meno ostile. Ci sembra allora fondamentale l’idea, sempre di Alessandro Margara, di lavorare a una Carta dei diritti degli esclusi e, per noi che ci occupiamo di carcere, dei diritti di una "categoria", quella dei detenuti, nella quale confluiscono un po’ tutti gli esclusi, i tossicodipendenti, gli immigrati, le persone che soffrono di un disagio psichico.
Ornella Favero e Paola Soligon Una protesta fantasma
La cagnetta americana che corre sulle due zampette che le sono rimaste ha avuto più spazio sui TG di 58.000 detenuti che cercano disperatamente di farsi sentire
Un fantasma si aggira per l’Italia, il fantasma della protesta nelle carceri. Per giorni e giorni novanta istituti penitenziari, decine di migliaia di detenuti hanno rifiutato il vitto, hanno sbattuto pentole e pentolini contro le sbarre per attirare l’attenzione sulle insostenibili condizioni della loro vita, ma nessuno ne ha parlato. O meglio: è uscito qualche trafiletto sui giornali, ma le principali reti televisive nazionali hanno mantenuto il silenzio più rigoroso. Nessun accenno, nemmeno una parola. Il che, in una nazione che detiene il record negativo di lettori di giornali nel mondo occidentale, equivale a dire che la protesta non esiste. Certo, si può obiettare che la scelta dei tempi è stata infelice. Che la concomitanza con le celebrazioni del tragico attentato dell’11 settembre, l’elezione di miss banalia e il concorso per le nuove veline hanno fatto passare in secondo piano tutto il resto. Eppure negli stessi giorni i nostri telegiornali hanno trovato decine di minuti di spazio da dedicare alla cagnetta americana che continua a correre sulle due zampette che le sono rimaste. Senza dubbio una storia edificante, e ai cani va tutta la nostra simpatia, ma era davvero una notizia talmente importante da essere riproposta per due giorni e da oscurare le grida di aiuto di migliaia di esseri umani? E questo è solo un esempio di quello che i telegiornali italiani hanno mandato in onda, ma si potrebbero citare le lacrime di Miguel Bosè, l’orca del film Free Willy, che vuole tornare in cattività, le anteprime di Max e Tux e altre amenità del genere che, ai tempi della TV lottizzata, erano relegate alle rubriche del tipo Strano, ma vero sulla Settimana Enigmistica. Perché questo silenzio? La risposta è molto semplice: autocensura. Pura e semplice autocensura per compiacere un potere politico che forse nemmeno si sogna di chiedere simili favori. Persino quando lo stesso Ministro della Giustizia ha parlato delle proteste nelle carceri, il problema è stato ignorato. Si è parlato della polemica tra il ministro e i partiti dell’opposizione, accusati di fomentare la rivolta, ma non della protesta. La prova del nove che si è trattato di autocensura è venuta dal Tg4 di Emilio Fede, l’unico telegiornale che ha trattato in modo approfondito la notizia con servizi sul disagio nei penitenziari. Ma le simpatie politiche di Emilio Fede sono talmente di dominio pubblico e talmente fuori discussione, che lui qualche volta può permettersi di fare il giornalista e di trattare le notizie in modo professionale, a differenza di tanti che i sentono più liberi perché la censura se la fanno da soli. Una delle definizioni che sono state date del terzo millennio è che rappresenta l’era dell’informazione. Mai come in questi tempi l’informazione ha rivestito un’importanza così capitale, soprattutto in una democrazia dove la conoscenza e l’informazione corretta sono strumenti essenziali per poter esercitare appieno il diritto di scelta. Ma quando ci si trova di fronte a esempi così eclatanti di informazione manipolata, perché il tacere delle notizie rappresenta una grave forma di manipolazione, viene da chiedersi quale valore rivesta veramente tale libertà di scelta. E sarebbe un gravissimo errore ritenere che, dato che in fondo riguarda dei detenuti, questo silenzio rappresenti un peccatuccio veniale. Oggi è capitato a noi. Ma domani a quale altra categoria potrà capitare? Una volta infranto il tabù della deontologia giornalistica, nessuno può sentirsi al sicuro dalla censura. Ben lo sanno negli Stati Uniti dove più volte giornalisti ed editori di prestigio sono scesi in campo compatti per impedire la chiusura di riviste pornografiche di quarta categoria, in nome di una libertà di stampa e di opinione che non può conoscere distinguo ed eccezioni. Un’ultima considerazione sulle bizzarrie del sistema informativo italiano: che fine ha fatto l’emergenza criminalità che fino alle ultime elezioni monopolizzava quotidianamente ogni telegiornale? È davvero "scomparsa" come qualcuno vorrebbe farci credere?
Graziano Scialpi Eppur si muove...
In carcere la situazione è così drammatica, che solo un miracolo di ragionevolezza fa sì che non esploda
Dobbiamo essere grati al Ministro della Giustizia, ingegner Castelli, se qualcuno si è accorto che in carcere qualcosa si muove, che non tutto è morto, che la delusione per quell’amnistia, che doveva arrivare col Giubileo e non è mai arrivata, non ha comunque cancellato la voglia dei detenuti di farsi sentire. Se Castelli non avesse parlato di un presunto tentativo di strumentalizzare la protesta dei detenuti, che nel frattempo è arrivata a coinvolgere più di 100 istituti carcerari su un totale di 205, la protesta stessa sarebbe probabilmente passata in sordina. Delle manifestazioni pacifiche che dal giorno 9 settembre con diverse modalità stanno portando avanti migliaia di detenuti, non si sarebbe parlato. A parte pochi giornali, le televisioni non avevano affrontato l’argomento, semplicemente lo avevano ignorato. Sicuramente non è un atteggiamento tranquillizzante: tacere di un avvenimento equivale a negarne l’esistenza. Il carcere fa notizia solo quando il sangue scorre a fiumi? Gli anni passano ma i problemi del carcere restano, ingigantiscono, incancreniscono, sino a diventare "tragicamente normali". Tragica normalità, in cui versano molti degli Hotel a 5 stelle sparsi per la penisola. Quando il Ministro ha parlato di qualcuno che "fomenta" le rivolte nelle carceri, il primo pensiero che ci è venuto è che nelle carceri c’è poco da fomentare, è una situazione così drammatica che solo un miracolo di ragionevolezza fa sì che non esploda. Sono 12 anni che non viene concessa un’amnistia. Molti di noi stanno scontando anni ed anni di galera, a cui sono stati condannati in un particolare periodo storico, quello della cosiddetta emergenza, prima per l’allarme terrorismo, poi per la mafia, ma le batoste le abbiamo prese in larga maggioranza noi "piccoli", quelli che vengono definiti "piccola criminalità", quelli che nulla c’entrano con terrorismo e mafia, semmai sono portatori di problemi sociali, ragazzi delle grosse periferie urbane, emarginati, tossicodipendenti, immigrati, ladruncoli di quartiere, e siamo la stragrande maggioranza. Quello che ha spinto molti detenuti ad aderire alla piattaforma presentata dall’associazione culturale Papillon di Rebibbia, oltre che le condizioni di vita all’interno della stragrande maggioranza degli istituti, è anche la certezza per chi ha effettuato già da tempo i processi di aver subito un torto, un danno, nel senso che, se si vuole essere onesti, bisogna riconoscere che chi fa un processo ora, ed ha la possibilità di chiedere il patteggiamento o il rito abbreviato, ha un terzo di pena scontato. Se queste leggi fossero state in vigore quando fui arrestato, avrei 10 anni in meno di galera da scontare. Quindi un indulto e un’amnistia farebbero giustizia, pareggiando questa disparità almeno in parte, visto che le leggi in questione non erano retroattive. Mi trovo rinchiuso da 24 anni (a parte una breve interruzione) e da sempre ho visto entrare in carcere parlamentari di destra e di sinistra, e la loro presenza è sempre stata per noi molto rassicurante perché sta ad indicare che non tutta la società e i politici che la rappresentano ci hanno relegati in un contenitore ermetico di devianza e problemi sociali. Sono in molti che ancora ci considerano persone, cittadini, che certo hanno sbagliato, ma che in ogni modo prima o poi torneranno nella società e per questo vanno aiutati. L’essere al momento detenuto non deve significare perdere i diritti fondamentali che ogni essere umano ha in una società democratica e pluralista, come è appunto la nostra. Ho avuto il piacere di incontrare, nel corso della mia lunga detenzione, deputati radicali, verdi, di alleanza nazionale, assessori leghisti (a Milano - Opera), democratici di sinistra. Visitare il carcere, è stato detto da più parti, è un diritto, ma anche un dovere di chi rappresenta le istituzioni e il popolo italiano.
"Forme di sensibilizzazione pacifica ai nostri problemi" o forme di lotta?
Personalmente non mi sono sentito strumentalizzato, né in passato né ora, ho aderito per mia scelta, come molti amici e compagni di detenzione, a quelle che qualcuno, attento alle sfumature, mi suggerisce di chiamare: "Forme di sensibilizzazione pacifica ai nostri problemi". Chiamarle forme di lotta può apparire troppo forte, in un luogo in cui si è costretti ad avere paura anche delle parole. Qui a Padova la "sensibilizzazione" sui nostri problemi si è svolta tutta nel reciproco rispetto tra detenuti e operatori, perché certo non dimentichiamo che in carcere ad avere problemi sono in tanti: gli Agenti, che segnalano la scarsità di personale che li costringe a turni di lavoro massacranti; le Educatrici, che qui alla Casa di Reclusione di Padova sono rimaste in due a seguire oltre 600 persone detenute. Tutti sostengono la necessità di dare una "boccata d’ossigeno" al carcere, e questo si può fare esclusivamente con un indulto. Ci sono proposte presentate da alcuni parlamentari di schieramenti diversi, tra i quali Pisapia, Taormina e Biondi, e gli stessi sindacati di Polizia Penitenziaria non sono contrari, essendo in prima persona testimoni di una situazione insostenibile. A questo punto non è più così importante se uno o 25.000 detenuti rifiutano il vitto, fanno rumorose manifestazione, rinunciano all’ora d’aria, o magari rifiutano di fare acquisti al sopravvitto, come hanno proposto alcuni detenuti sul modello dello sciopero della spesa, attuato da molti cittadini per attirare l’attenzione sugli aumenti ingiustificati dei prezzi. Non è importante che forma pacifica, e sottolineo, pacifica, si è usata o si userà, per "sensibilizzare ai nostri problemi, ai problemi del carcere in generale", ora l’intera questione è sotto gli occhi di tutti, e la parola passa alla politica. A questo punto, alle parole, ai proclami, al frastuono di pentole e gavette battute sulle sbarre, si devono sostituire i fatti, ed i fatti non possono che giungere da chi ha l’onere e l’onore di guidare il nostro Paese, e quindi anche le nostre sorti. Quando i problemi sono di questa portata, la volontà di trovare soluzioni accettabili dovrebbe prevalere sulle divisioni degli schieramenti e diventare punto d’incontro tra le varie componenti politiche. Nella piattaforma dell’associazione Papillon c’è la richiesta dell’amnistia, di innalzare a 4 mesi l’anno la liberazione anticipata, l’abolizione del 41/bis, ma se si vuole che il carcere di domani non sia di pura reclusione e custodia, serve al più presto l’assunzione di operatori, che affianchino gli attuali 588 educatori "superstiti" che lavorano per 56.000 detenuti. Pochissimi. Se si vuole dare corso reale all’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale il carcere deve tendere al recupero sociale del detenuto, non si può, non si dovrebbe restare insensibili alla richiesta di attenzione e all’invito alla società a provare un po’ di indignazione, che escono dalle carceri italiane.
Nicola Sansonna Come cambia un carcere quando arriva un nuovo direttore?
Abbiamo cercato di capirlo "interrogando" il nuovo direttore della Casa di Reclusione di Padova
Salvatore Pirruccio è il nuovo direttore della Casa di Reclusione di Padova. Arriva dal carcere di Tolmezzo, che ancora dirige. L’abbiamo incontrato in redazione, e "interrogato" sul ruolo dell’informazione dal carcere, sulle misure alternative, sui problemi dei detenuti stranieri, sul volontariato, sul rapporto tra sicurezza e trattamento.
Vorremmo cominciare chiedendole che ruolo attribuisce alla nostra attività. Il fatto è che, facendo informazione, un po’ dappertutto si è bersagliati, fuori ma ancora di più all’interno di un’istituzione rigida come il carcere. Noi crediamo che in questa situazione sia molto importante avere un riconoscimento del proprio ruolo, anche per lavorare con maggiore serenità, e vorremmo sapere da lei che ruolo attribuisce alle realtà dell’informazione in un contesto come questo. Quello dell’informazione è sempre stato un campo molto delicato, perché con l’informazione si raggiungono e si modificano i modi di pensare soprattutto di quelle persone che hanno una strutturazione non forte, non carismatica. Dicevate che l’informazione dà fastidio, può suscitare critiche. Certo, perché è uno strumento molto forte, molto più forte della forza fisica, se vogliamo. Per quel che riguarda l’informazione che proviene da un ambiente chiuso, ristretto come può essere il carcere, non c’è ombra di dubbio che vi è una componente maggiore che ingenera critiche da parte di tutti, perché sappiamo bene, per esempio, come a volte la società esterna la pensi sull’esecuzione penale. Quante persone cosiddette "civili", quando gli parli di detenuti, dicono: "Quello ha sbagliato, sta in carcere, lasciatelo li, buttate la chiave, deve pagare…". Bisogna allora dire che, venendo da un ambiente come il carcere, l’informazione incontra notevoli ostacoli nel far breccia, come qualsiasi altra problematica connessa al carcere, almeno fino a quando la persona a cui è rivolta questa informazione non ha fatto un passo avanti. Cioè fino a quando non ha conosciuto la realtà carceraria, non dico dall’interno come operatore, non come detenuto naturalmente, ma non abbia affrontato e non abbia avuto a che fare con i problemi che provengono dal carcere. Le persone che parlano in questo modo sono quelle che non conoscono e non vogliono conoscere il carcere, né le problematiche di chi ci vive dentro, e allora uno dei modi di operare per avere meno critiche possibili ed essere apprezzati nella propria qualificazione, è quello di essere il più obiettivi possibili, di avere una libertà di pensiero tale da criticare determinate prese di posizione, determinate aree della società esterna, ma se necessario occuparsi seriamente e dunque fare critica anche di quello che riguarda l’altra parte, in questo caso la parte vicina ai detenuti.
Chi viene da fuori deve inserirsi in modo armonico, non deve andare a turbare quella che è la vita interna.
Parliamo del ruolo del volontariato, della sua importanza. Questa è una Casa di Reclusione, con un volontariato molto attivo e molto poco tradizionale, lei si sarà fatto senz’altro una sua opinione in proposito. In una Casa di Reclusione, avendo persone che devono scontare lunghe pene, è giusto avere molte attività, è giusto che la società esterna sia sensibile, perché se dobbiamo risocializzare, non dico rieducare perché la parola non è bella, ma restituire alla società esterna persone che non tornino a fare quello che hanno fatto prima, bisogna che la società esterna si occupi di queste persone. Il problema è semmai come si può entrare da volontari in una struttura così difficile, chiusa, protetta. La struttura penitenziaria vive 24 ore al giorno, è come un ospedale, non si ferma mai, è una struttura pesante, chiusa, con delle regole talvolta ferree, anche se ci sono le eccezioni. Allora chi viene da fuori, secondo me, deve inserirsi in modo armonico, non deve andare a turbare quella che è la vita interna, non deve assumere comportamenti che sono in contrasto con la vita interna. Questo non vuol dire che deve passivamente adeguarsi: si può discutere, si possono prendere iniziative e cambiare determinate cose, però questo va fatto sempre in maniera adeguata, in maniera concorde a coloro che sono qui per mantenere in piedi la struttura, altrimenti si rischia di finire nel caos. Poi c’è un’altra considerazione: molte volte, ma sia chiaro che non mi riferisco a Padova, anche perché conosco da poco questo carcere, i volontari si inseriscono in una struttura penitenziaria credendo, in maniera errata, di andare a fare gli avvocati dei detenuti, la difesa dei diritti civili dei detenuti. Questo è quanto di più sbagliato possa fare un volontario, perché per la legalità in carcere, per la difesa dei diritti dei cittadini, detenuti in questo caso, ci sono le istituzioni, e non siamo nelle galere in cui si somministravano chissà quali punizioni. Insomma, per quanto brutto possa essere il carcere non siamo più a quei tempi. Diciamo che a volte possono esserci delle lacune in questa difesa dei diritti. Basta ricordare i fatti di Sassari, ad esempio (N.d.R.: agenti accusati di aver pestato dei detenuti). Quegli episodi fanno tornare indietro di cento anni la società civile, tanto per cominciare. È giusto che la magistratura intervenga ed è giusto sanzionare i colpevoli, buttarli fuori, perché non possiamo lavorare facendoci coadiuvare da quelle persone.
È giusto che ci siano solo due-tre educatori? Ce ne vorrebbero 25 - 30...
Ma c’è anche da dire che le attività cosiddette trattamentali spesso si reggono sull’apporto del volontariato, perché l’istituzione non riesce a provvedere. Si reggono sul volontariato, ed è vero, perché purtroppo l’amministrazione non è in grado di garantire un numero cospicuo di operatori trattamentali all’interno delle carceri. Tanto per fare un esempio, visto che siamo a Padova ed è una Casa di Reclusione, che dovrebbe essere favorita rispetto al circondariale, è giusto che ci siano solo due-tre educatori? Ce ne vorrebbero 25-30, perché se io ho 6-700 definitivi e li devo "trattare", a parte le pratiche burocratico-amministrative, osservazione, sintesi etc, che consentono ai detenuti di ottenere misure alternative, oltre a questo la vita giornaliera del detenuto deve essere seguita dagli operatori del trattamento, che sono gli educatori. Un’esperienza abbastanza buona, ma che da dieci anni oramai non conosco più, è quella dei carceri minorili. Io ho prestato servizio per circa 10 anni al Malaspina di Palermo, e lì gli educatori cominciavano a lavorare la mattina alle 8 e terminavano la sera alle 20, in due turni ovviamente, però stavano tutto il giorno, anche di domenica, coi ragazzi. Conversavano e giocavano a pallone con loro, studiavano assieme etc. Naturalmente l’adulto ha necessità diverse, su questo non c’è dubbio, però dobbiamo pensare, se vogliamo che qualcosa funzioni, all’inserimento della figura dell’educatore - e dello psicologo, che l’amministrazione non ha ancora potuto incardinare nei suoi ruoli, perché come sapete è una figura in convenzione - in maniera più massiccia, assumendo migliaia di educatori, perché io possa prenderne 4-5 e metterli in ogni sezione. Quando ad un educatore affidi 10 detenuti è tutta un’altra cosa, sarà utopia però è così.
Ci piacerebbe definire i ruoli degli operatori e dei volontari, nell’ipotesi che ci fossero più educatori. Anche noi siamo assolutamente contrari ad una visione dell’attività del volontariato come sostitutiva di quella dell’educatore. Per noi il ruolo del volontariato è soprattutto quello di portare dentro al carcere la società esterna, nel nostro caso poi facciamo volontariato per portare informazioni fuori e dentro. Questa è una cosa che va bene, dal mio punto di vista, è una cosa che un educatore non potrebbe fare, perché i compiti sono altri, ecco allora che "soccorre" il volontario, che in questo campo fa conoscere la realtà penitenziaria alla società esterna; e magari quando i detenuti si apprestano ad uscire può aiutare a prepararne la dimissione, l’uscita. Quante persone ci sono che escono dal carcere e non sanno dove andare? Io ho visto gente tornare dentro, aver paura di uscire, allora i volontari, o almeno una parte di loro, potrebbero occuparsi anche di questo. E dei rapporti con le famiglie. A Tolmezzo ci sono alcuni volontari che regolarmente hanno contatti con le famiglie, le aiutano, perché si tratta di famiglie che vengono da lontano e non possono spendere somme esagerate per andare in albergo. Questo potrebbe essere un aspetto interessante, anche perché c’è un corpo di volontari, qui a Padova, che è molto numeroso.
Gli unici che credono alla risocializzazione del detenuto sono quelli che lavorano in carcere
Volevamo rivolgerle una domanda apparentemente banale: ci crede veramente e quanto, nel trattamento? Le chiediamo questo perché abbiamo avuto altri incontri nei quali è emerso che, con la recidiva al 70%, sembra che il trattamento abbia un po’ fallito. Quando le chiediamo se crede al trattamento, naturalmente ci riferiamo ad un trattamento che non sia quello attuale, perché con due educatrici per 700 detenuti non è che si possa pretendere molto. Io credo che, se facciamo un’indagine, gli unici che credono alla risocializzazione del detenuto sono quelli che lavorano in carcere, al dettato costituzionale dell’articolo 27, 3° comma non ci crede nessuno tranne noi. Io credo nella possibilità di redimere ed emendare l’uomo, e le attività trattamentali sono un mezzo. Altrimenti la pena sarebbe solo afflittiva. Ora, perché la recidiva è così alta? Perché i grossi problemi non stanno nel carcere, sono nella società esterna, e spesso la società esterna purtroppo non è in condizione di aiutare. Qui nel nord-est siamo un po’ un’eccezione, ma in linea generale è difficile trovare lavoro fuori. Se la società ha questi problemi, se colui che sta in carcere non ha famiglia, non ha nessuno fuori che lo attende, che lo possa aiutare quando esce, purtroppo in molti casi tornerà dentro. La recidiva è una cosa che è un po’ distaccata dalle attività trattamentali, perché con le attività trattamentali noi poniamo in essere un processo interiore, tentiamo, per carità, di porre in essere un processo interiore che faccia rivedere criticamente il proprio passato e che convinca la persona che quella strada là non andava bene, che magari ne possa intraprendere un’altra, ma questo vuol dire arrivare fino a dietro la porta. Dall’altra parte della porta non c’è niente da fare: ci vuole la società, ci vuole il lavoro, la famiglia. Quando il detenuto cittadino è in carcere non ha grandi problemi per la sopravvivenza, per la sanità etc., è quando è fuori che gli cominciano i problemi. Allora lì bisogna rivolgersi alla società di fuori, bisogna lavorare per sensibilizzarla.
La popolazione detenuta andrebbe divisa per posizione giuridica, per reati commessi, per personalità, per tipologia
Lei adesso è passato da una Casa Circondariale ad una Casa di Reclusione: quali pensa che dovrebbero essere le differenze di gestione tra le due realtà, anche come gestione del detenuto, quello che sul regolamento è chiamato trattamento personalizzato ed individualizzato? Il problema è di fondo: la Casa Circondariale serve per determinate finalità, la Reclusione per altre, e le sappiamo tutti, inutile elencarle. Allora, quand’è che queste finalità non sono più così nette? Quando abbiamo un sovraffollamento che non ci consente di spostare persone con determinate posizioni in determinati posti. La differenza che vi può essere attualmente tra un Circondariale ed una Reclusione, è solamente quella di una qualche attività in più, una maggiore considerazione e una maggiore prevalenza, rispetto al Circondariale, delle attività trattamentali su quelle di sicurezza, su quelle di custodia. Il Circondariale ha altre necessità, ma comunque se il sovraffollamento in ipotesi non ci fosse, la popolazione detenuta andrebbe divisa per posizione giuridica, per reati commessi, per personalità, per tipologia, cosa che la legge dice ma che è difficile da fare con la popolazione che abbiamo. Bisognerebbe fare una distinzione per fasce d’età, prima ancora che per reati, perché una persona che ha raggiunto i 50-60 anni non può stare con una che ne ha 25. Non perché quella sia chissà che cosa, ma perché hanno caratteri diversi, hanno modi di pensare ed abitudini diverse.
Perché alcune cose sono consentite in un carcere e vietate in altri, tipo i libri con la copertina rigida, o quello che si può ricevere con i pacchi? C’è differenza di trattamento, in queste cose, tra un istituto e l’altro. Sì, questo c’è sempre stato e ci sarà sempre. Noi abbiamo avuto, nel 2000, l’emanazione del nuovo regolamento, e uno degli scopi di questo regolamento era quello di uniformare un po’ le abitudini, e in qualche modo ci siamo riusciti: colloqui, telefonate, al di là dell’ampliamento sono state in qualche modo uniformate, ma ogni istituto è una struttura a sé, è un ente come dire… autonomo, se vogliamo usare una parola impropria, dove le regole di base sono tutte uguali, poi ci sono una serie di sfaccettature che sono diverse a seconda della struttura, delle persone, dei comportamenti, ma questo non potrà mai essere cambiato.
Le leggi italiane sono uguali per tutti coloro che si trovano nella stessa posizione sul territorio nazionale
Oramai nelle carceri c’è una forte componente di stranieri: lei come crede sia possibile, anche alla luce delle nuove leggi, continuare a parlare di reinserimento e di misure alternative anche per loro? Intanto bisogna partire dal presupposto che le leggi italiane sono uguali per tutti coloro che si trovano nella stessa posizione sul territorio nazionale. Anche l’applicazione dovrebbe essere uguale, ma obiettivamente i presupposti delle misure alternative sono quelli di avere un radicamento sul territorio, cioè avere dei punti di riferimento fuori, e avere come finalità l’inserimento su quel territorio, altrimenti che senso ha porre in essere una misura alternativa per una persona che non può essere reinserita in quel tessuto sociale?
Non possiamo chiudere gli occhi, è ovvio che è una difficoltà maggiore per lo straniero ottenere una misura alternativa
Quindi casa, lavoro e famiglia sono una questione determinante per poter iniziare? Vorremmo ci chiarisse che cosa succede se uno straniero trova un alloggio e un lavoro, ma naturalmente non ha la famiglia vicina… Il fatto che non siano radicati sul territorio è una difficoltà. Io ho distinto prima quello che dice la legge da quello che poi è materialmente l’applicazione della legge. Non possiamo chiudere gli occhi, è ovvio che è una difficoltà maggiore per lo straniero ottenere una misura alternativa, perché non ha punti di riferimento. Non parlo dello straniero che si è sposato qui, comunque che ha la moglie qui, i figli, il permesso di soggiorno, quelli no, quelli sono trattati e possono ottenere le stesse cose degli italiani, non c’è dubbio, ma obiettivamente è difficile sostenere la causa di una persona che desidera andar fuori, ma per far cosa? per fare una passeggiata in piazza? Che valenza trattamentale ha?
Se la finalità è quella di restituire al paese di origine il soggetto, allora la misura alternativa forse non ha senso
Ma uno straniero, in ogni caso, è una persona che deve, come un italiano, cercare di reinserirsi nella società, ed un primo passo è quello di vivere dentro la società. Se lui lavora in semilibertà, la risocializzazione può in ogni caso prescindere dal fatto se lui poi abiterà lì, in quel posto. Quanti italiani che lavorano in semilibertà poi a fine pena se ne vanno da quella zona e tornano nella città d’origine? Ciò che intendevo sottolineare io è che vi è una difficoltà oggettiva nel far fruire le misure alternative a queste persone. Purtroppo è così, inutile che ci nascondiamo, è vero. Quello che manca sono i presupposti, nel senso del lavoro, del radicamento sul territorio. Io non so come questa nuova legge sull’immigrazione verrà applicata, ma se la finalità è quella di restituire al paese di origine il soggetto, allora la misura alternativa forse non ha senso, forse è meglio fargli fare dei corsi che possano poi essergli utili nel suo paese d’origine.
Ma non è neppure pensabile che gli stranieri abbiano una espiazione pena totalmente in carcere, mentre gli italiani hanno altre possibilità. No, io ho inteso porre in evidenza le difficoltà oggettive che si incontrano da parte degli operatori del trattamento e da parte della magistratura, nell’attribuire, nel favorire una misura alternativa nei confronti di uno straniero.
La concessione di misure alternative alla detenzione deve avere una finalità, uno scopo, e lo scopo è quello previsto dalla Costituzione
Vuol dire, direttore, che nel momento in cui le condizioni ci sono, lo straniero ha le stesse opportunità? Perché è vero che fuori ci sono difficoltà oggettive, però ci sono molte situazioni nelle quali si creano le condizioni anche per gli stranieri, per esempio a Padova c’è un detenuto straniero che lavora in articolo 21 nella biblioteca di Limena. Volevamo capire come la pensa lei, nel caso ci siano i presupposti per le misure alternative per uno straniero, che del resto devono esserci anche per un italiano, perché se è uno sbandato e non ha niente è chiaro che ci sono difficoltà a pensare per lui a un percorso esterno. Se i presupposti sono apprezzabili, sono validi, sono ritenuti utili, si può accedere alle misure alternative, vi si deve accedere, la legge lo consente. È lì la difficoltà, valutare in maniera apprezzabile qualche opportunità che si presenta. Può essere apprezzabile per una persona, non lo è per un’altra. La finalità è uguale, ma la valutazione dei presupposti è completamente diversa. Io vorrei fosse chiara una cosa: la concessione di misure alternative alla detenzione deve avere una finalità, uno scopo, e lo scopo è quello previsto dalla Costituzione, quello del reinserimento e dell’emenda del detenuto. La misura alternativa non può mai essere fine a sé stessa, non ha senso. Noi dobbiamo fare tanti piccoli passi per arrivare a realizzare quell’obiettivo.
Le misure alternative sono tutte molto discrezionali, e quello che ci interessava capire è il suo orientamento: Per esempio, per avere l’articolo 21 è un ostacolo la pena molto lunga oppure anche qui c’è una valutazione individuale? Non è un ostacolo in sé e per sé. Bisogna tener conto che il soggetto che è in esecuzione penale comunque deve avere scontato la pena base, che è quella prevista dalla legge, e poi bisogna che abbia un’aspettativa non molto lunga, perché l’articolo 21 è comunque una di quelle misure che serve per reinserire il detenuto nella società. Certo, possiamo anche cominciare a reinserirlo 20 anni prima del fine pena, ma è un po’ difficile.
Spero che tolgano l’ergastolo il prima possibile perché non ha senso
E per un ergastolano, ad esempio? Spero che tolgano l’ergastolo il prima possibile perché non ha senso, e comunque c’è la pena minima che deve aver scontato, 10 anni.
Vorremmo tornare un attimo sul trattamento e chiedere che ruolo dovrebbe avere, secondo lei, su questa questione la custodia, la Polizia Penitenziaria. La Polizia Penitenziaria per legge è parte integrante del trattamento. Ma naturalmente è qui per custodire i detenuti, è qui per la sicurezza, oltre che per il trattamento, e allora le due cose vanno contemperate. Al di là di questo rimane sempre il fatto che la Polizia Penitenziaria è composta da uomini. Teniamo conto che gli uomini non sono tutti uguali, così come non sono uguali tutti i detenuti, e non sono uguali tutti gli agenti. C’è chi condivide le idee di cui stiamo discutendo, c’è chi le condivide un po’ meno. Dobbiamo tentare di coinvolgerli, cercando di modificare il loro modo di pensare.
La formazione potrebbe certamente essere più pregnante, potrebbe essere indirizzata verso altre motivazioni, verso altri fini.
Allora c’è un problema di preparazione, di formazione? Esatto. Io ho premesso che la legge parla di interventi rieducativi anche da parte del personale di custodia, ho detto che questi interventi vanno contemperati con la sicurezza, perché loro sono qui per garantire la sicurezza. La Polizia ha questo obbligo preminente, poi la legge dice che deve partecipare all’opera di rieducazione. La partecipazione al trattamento è di grado diverso tra un agente, l’educatore, l’assistente sociale, il direttore, ed è diverso anche tra l’agente semplice e un ispettore, un sovrintendente. I gradi di partecipazione e di condivisione sono diversi, e la formazione potrebbe certamente essere più pregnante, potrebbe essere indirizzata verso altre motivazioni, verso altri fini, ma questa è una questione che riguarda la politica generale della gestione dello Stato.
Ci possono essere agenti che non credono, che non condividono l’idea del trattamento, però c’è un regolamento, c’è una legge.
Ma non c’è modo di confrontarsi sui diversi punti di vista? Quando lei prima parlava del fatto che ci possono essere agenti che non credono, che non condividono l’idea del trattamento, però c’è un regolamento, c’è una legge, per cui perlomeno devono adeguarsi, non è la struttura che deve adeguarsi a loro. Non pensa allora che sia importante un ambito di confronto tra volontariato, operatori ed anche agenti? Un’interazione, un confronto con il personale di Polizia e con gli operatori in genere, può portare solo buoni frutti, su questo non c’è dubbio.
A cura della redazione Due radicali in redazione
...a parlare dei disastri della Giustizia, del carcere, del 41 bis. Un’intervista a Daniele Capezzone, segretario dei radicali italiani, e Marco Cappato, europarlamentare.
Daniele Capezzone: Mi chiamo Daniele Capezzone e sono il segretario dei Radicali italiani. Noi Radicali ci caratterizziamo per avere una costante attenzione verso i problemi delle carceri… a differenza di quello che fanno gli altri partiti politici. Se ricordate, un paio di anni fa l’intera politica italiana fece il giro delle carceri: l’anno del Giubileo vide la destra, la sinistra, quelli di mezza destra e di mezza sinistra, promettere tutto a tutti, innanzitutto amnistie e indulti. Portarono anche il Papa, in processione, a Regina Coeli, con tanto di diretta televisiva. Passato il Giubileo sono svaniti tutti quanti, con i relativi progetti di amnistia e indulto, ma i problemi del carcere non sono svaniti e non sono svaniti neanche i Radicali che prima, durante e dopo il Giubileo continuano a svolgere le loro attività. L’onorevole Cappato, che è deputato europeo della Lista Bonino, credo abbia visitato tutte le carceri di quest’area e, nel 2002, i nostri parlamentari europei e i nostri consiglieri regionali hanno già fatto più di cento visite alle carceri di tutta Italia. Ora c’è anche un fatto nuovo: il presidente dei deputati radicali al Parlamento europeo, Maurizio Turco, e Sergio D’Elia, segretario di "Nessuno Tocchi Caino", nel giro di due mesi hanno incontrato tutti i 650 detenuti che sono in regime di "41 bis"... e il giorno dopo c’è il ministro che spiega che le carceri sono dei grand’hotel. Così il 14 agosto abbiamo presentato un rapporto complessivo sulla situazione delle carceri… e il giorno dopo c’è il ministro che, forte della visita di un quarto d’ora al carcere di Cagliari, spiega che le carceri sono dei grand’hotel… comunque, oltre a questo rapporto, Turco e D’Elia presenteranno presto un dossier dettagliato sulle condizioni detentive in Italia. Nel 2002 abbiamo contribuito a depositare in Parlamento sei proposte di legge, in materia di giustizia, alcune delle quali riguardano direttamente la realtà carceraria (riduzione dei termini di custodia cautelare, liberazione anticipata e condizionale), e altre riguardano temi come la separazione delle carriere in magistratura, la responsabilità civile dei magistrati, i termini ordinatori e perentori dei processi, che con il carcere hanno comunque a che fare.
Alzi la mano chi di voi si sente vicino ai temi dei girotondisti, o degli avvocati-deputati.
Intanto però, in Parlamento, assistiamo ad una vera e propria rissa sui temi della giustizia: da una parte ci sono quelli che fanno i girotondi, dall’altra ci sono gli avvocati-deputati. Non voglio polemizzare, né con gli uni né con gli altri, ma resta il fatto che entrambi gli schieramenti sono del tutto indifferenti ai problemi del carcere e alla condizione dei detenuti: alzi la mano chi di voi si sente vicino ai temi dei girotondisti, o degli avvocati - deputati…
Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Proprio in questi giorni anche la nostra redazione sta cercando di capire cosa si profila all’orizzonte della politica, e non è facile, perché sembra che nessuno voglia entrare nel merito delle proposte di legge sulla giustizia in discussione al Parlamento. Daniele Capezzone: Riflettendo sulla situazione della giustizia in Italia, serve ricordare che in agosto abbiamo conseguito un successo, sia pur piccolo piccolo: abbiamo portato fuori dal carcere Stefano Surace (N.d.R.: Stefano Surace, giornalista settantenne, era in carcere per scontare una pena di due anni, sei mesi e 12 giorni di reclusione, per quattro vecchie condanne inflittegli per altrettante diffamazioni a mezzo stampa dai tribunali di Napoli, Monza e Firenze. I più vecchi tra gli articoli che gli sono costati la prigione risalgono al 1963, i più recenti al 1973: quasi 30 anni fa). Se in Italia fosse abolita la contumacia, che c’è solo da noi. In fondo, la vicenda di Surace - e delle migliaia di Surace di cui nessuno parla - da cosa è prodotta? Dalla non-riforma della giustizia. Per esempio, se in Italia fosse abolita la contumacia, che c’è solo da noi e non c’è da nessun’altra parte, se fosse modificato il sistema delle notifiche, il "caso Surace" non sarebbe mai nato.
56.000 detenuti pagano sulla loro pelle il prezzo della non-riforma
E, su un piano diverso, se ci fossero la separazione delle carriere in magistratura, un sistema serio di ricusazione, l’abolizione degli incarichi extragiudiziari dei magistrati, ogni cittadino potrebbe avere qualche garanzia in più, rispetto a ciò che accade oggi in qualsiasi tribunale italiano. Il risultato finale è che 56.000 detenuti pagano sulla loro pelle il prezzo della non-riforma, mentre sulla giustizia prosegue la rissa tra bande… gli interessi, evidentemente, sono altri. Se permettete, io avverto un senso di dolore per tutto questo. Infatti, se guardo agli ultimi 20 anni di storia radicale, ci sono almeno 12 proposte referendarie e una decina di proposte di legge che, se fossero applicate, capovolgerebbero il sistema della giustizia nel nostro paese, ma non riesco a trovare un cane, di qua o di là, tra i girotondisti o gli avvocati-deputati, che voglia andare al cuore dei problemi. Il 14 settembre è un’altra sceneggiata, un altro girotondo, poi avremo il contro-girotondo degli avvocati di Berlusconi, e così via, ma non riesco proprio a capire cosa questo abbia a che fare con voi, con i 56.000 cittadini italiani ospitati negli "alberghi di lusso" di Castelli.
Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Avete girato entrambi le carceri italiane. Beh, anch’io ne ho girate parecchie, 25 in oltre 20 anni, e ci sono carceri in cui si sta quasi bene, in altri si sta benino, in altri si sta male. Una situazione "a macchia di leopardo", insomma. Non pensate che dovrebbero esserci degli standard validi su tutto il territorio nazionale, pur con le dovute distinzioni, e stabiliti per legge?
Credo che il problema degli standard di vita in carcere sia inaffrontabile se si mantengono queste condizioni di affollamento.
Marco Cappato: Sì, ma forse oggi, con l’aria che tira, le carceri le farebbero andare tutte al livello peggiore! A questo punto non credo sia un problema di normativa, perché basta vedere il nuovo regolamento, che però è un sogno, perché in buona parte prescinde dalla realtà delle strutture e degli investimenti necessari. Io credo che il problema degli standard di vita in carcere sia inaffrontabile se si mantengono queste condizioni di affollamento: anche in quelle che oggi sono le peggiori carceri, con la metà o un terzo della popolazione detenuta tornerebbero ad essere possibili delle attività di trattamento. (Da questo punto di vista, a Padova, mi sembra siamo messi meglio, rispetto a moltissimi altri istituti). Per questo penso che, più che la normativa, il problema sia di come effettivamente si riesce a gestire un istituto.
Ma questa storia della carenza di organico, che viene costantemente denunciata, è al tempo stesso vera e falsa.
Daniele Capezzone: Io ho un’impressione, che sta diventando più di un’impressione, attraverso i dati che raccolgo girando le carceri, ed è che vi sia un problema serio che riguarda gli agenti di polizia penitenziaria, che svolgono un lavoro straordinario, eccezionale… ma questa storia della carenza di organico, che viene costantemente denunciata, è al tempo stesso vera e falsa. È vera nel senso che questa carenza la constatiamo, ma è falsa nel senso che, se si considerano i permessi sindacali, le malattie, le altre forme di assenza dal servizio, abbiamo un numero elevatissimo di agenti che non sono disponibili. Posso dirvi che qui la situazione è migliore di altrove, ma i dati che ho raccolto, in giro per l’Italia, sono francamente imbarazzanti. Ripeto, tra permessi sindacali, malattia, e altro, c’è un numero notevole di persone che, quotidianamente, non sono a disposizione della direzione del carcere. Questo è un primo punto che io considero importante.
Nelle carceri vi sono persone, magari giovani, magari con gioventù difficili, che stanno a farsi seghe dalla mattina alla sera
La seconda cosa che volevo dirvi è che, in realtà, non sono sorpreso dal fatto che voi abbiate scelto, per un numero del vostro giornale, il tema dell’affettività. Credo che su questo anche noi Radicali dobbiamo dire e fare di più. Rispetto al buio che, sul mondo delle carceri, si è scelto di mantenere, questo aspetto si tiene ancora più al buio: il fatto che nelle carceri vi sono persone, magari giovani, magari con gioventù difficili, che stanno a farsi seghe dalla mattina alla sera… Questa è una realtà che non si può nascondere e che va affrontata così come l’ho descritta, perché credo di non aver dato una immagine alterata della realtà.
Francesco Morelli: Vorremmo sottoporvi ora un’altra questione. Noi abbiamo cercato di fare un’indagine sulla qualità della vita nelle carceri, ma nelle carceri del sud troviamo un muro. Voi che siete andati anche lì, avete trovato la stessa difficoltà ad avere delle informazioni? Marco Cappato: Io sono stato a Napoli, Poggioreale e Bari, e confermo. È più difficile stabilire una forma di comunicazione, sia con gli operatori che con i detenuti. È difficile anche dire cosa c’è che non funziona, a parte che a Poggioreale la situazione del sovraffollamento è veramente pazzesca.
Sulla droga e sulla prostituzione, ci sarebbero dei margini per legalizzazioni e depenalizzazioni davvero notevoli
Marco Cappato: A proposito di sovraffollamento, io volevo dire una cosa molto più generale: cercando di prendere i problemi a monte è da ricordare, rispetto al nostro impegno, che ci sono innanzitutto le battaglie antiproibizioniste perché, quando si parla di carcere, si deve parlare di giustizia, certamente, ma si deve anche parlare di quello che sta davvero alla radice: una legge proibizionista, che produce criminalità, invece di combatterla. Sulla droga e sulla prostituzione, ci sarebbero dei margini per legalizzazioni e depenalizzazioni davvero notevoli. Pensando al sovraffollamento, all’intasamento del sistema, ai magistrati di sorveglianza che non ci sono, forse bisogna affrontare questo nodo, altrimenti rimane solo da costruire più carceri, da rilanciare l’edilizia carceraria.
Francesco Morelli: Cosa sta succedendo negli altri paesi europei sul fronte della legalizzazione e depenalizzazione? Perché anche su questo ci sono notizie contrastanti, ma sarebbe importante avere delle esperienze a cui fare riferimento, come quella olandese, ad esempio. Marco Cappato: Non c’è una direzione di marcia definita. C’è chi fa passi avanti e c’è chi fa passi indietro. Sicuramente l’esperienza olandese significa molto, soprattutto sulle droghe leggere, però non è nemmeno quella una legalizzazione, perché è piuttosto una tolleranza: di fatto, il mercato rimane nelle mani della criminalità e, secondo noi, questo è il vero problema da affrontare. Poi, è senz’altro meglio la tolleranza, piuttosto che mettere in galera il diciottenne per uno spinello, però una riforma nel senso di legalizzazione vera non l’ha fatta ancora nessuno.
Agli inizi degli anni ‘90 c’erano 13.000 detenuti che lavoravano, su 26.000. Oggi siamo sempre a 13.000 occupati, però su 56.000.
Francesco Morelli: Un problema di cui non si parla molto è l’aumento del disagio psichico in carcere, cioè del numero di persone portatrici di disagio psichico che sono detenute, anche per piccoli reati, e per le quali non si trova un’alternativa… Daniele Capezzone: Io sono convinto che una mano consistente nella direzione sbagliata la dà - e voi rappresentate un’eccezione positiva - il fatto che nelle carceri non si lavora. Una persona detenuta sta per 20 o 24 ore al giorno in cella, e questo aggrava anche la sua situazione psichica. C’è un dato, che io considero terrificante: agli inizi degli anni ‘90 c’erano 13.000 detenuti che lavoravano, su 26.000 totali. Oggi siamo sempre a 13.000 occupati, però su 56.000 detenuti e, da quest’anno, col dimezzamento delle spese nel settore carcerario, quei 13.000 lavorano per la metà del tempo e con la metà dello stipendio. In queste condizioni, anche chi il disagio mentale non ce l’ha, lo innesca. Rispetto a quello che si diceva, poco fa, sull’antiproibizionismo, c’è sempre qualcuno, in particolare sul "41 bis", che sta col ditino alzato e dice: "Voi radicali siete ingenui, perché la mafia è pericolosa e va combattuta con ogni mezzo…!". Davvero? Ma non c’è uno di loro – gli antimafiosi "che lottano con tutti i mezzi" - che pronunci la parola "antiproibizionismo". Qualcuno è davvero convinto che la lotta alla mafia si fa mettendo un catenaccio in più e lasciandole, poi, fiumi di denaro, decine di migliaia di miliardi l’anno, con la droga? Davvero io vorrei che, ogni volta che qualcuno di questi pronuncia la parola "41 bis", ci fosse un giornalista che gli domandasse: "Ma, scusi, e la droga?".
Non c’è nessuna categoria sociale... che abbia dato un contributo di civiltà e di impegno politico come quello dato dai detenuti
Francesco Morelli: Negli incontri con i detenuti sottoposti al regime di 41 bis, che situazioni avete trovato? Daniele Capezzone: Situazioni incredibili. Ci sono persone sottoposte da 10 anni al regime di 41 bis. Ci sono bambini di 10 anni che non hanno mai potuto, non dico abbracciare, ma anche soltanto dare la mano al proprio padre. Io voglio ricordare solo questo, poi ciascuno può farsi la sua idea. Vorrei aggiungere una cosa conclusiva, generalissima, riguardante i 12 mesi che abbiamo alle spalle: quando c’è stato da raccogliere firme per le proposte di legge i detenuti hanno firmato, quando c’è stato da digiunare con Pannella i detenuti hanno digiunato, quando c’è stato da porre la questione della Corte Costituzionale l’hanno posta i detenuti… Ammesso che quella dei detenuti sia una categoria, non c’è nessuna categoria sociale, politica, intellettuale, religiosa, che abbia dato, in quest’anno trascorso, un contributo di civiltà e di impegno politico come quello dato dai detenuti. Mi piacerebbe poter dire un decimo, di quello che posso dire dei detenuti italiani, a proposito degli editorialisti della grande stampa italiana. Questo tenevo a dirlo, anche con il relativo "grazie".
A cura di Francesco Morelli e Nicola Sansonna
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