Piccoli assurdi

 

La fabbrica dei "clochard"

 

Quando il carcere ti trasforma in un "senza fissa dimora"

 

Ho provato ad immaginarmi mentre, come il vagabondo impersonato da Charlie Chaplin, gironzolo per la città in compagnia di un fedele randagio. Poi, in un’aspra contesa per una panchina-letto nei pressi di un ponte. È una visione fantasiosa, eppure… da quando ho scoperto di essere diventato un senzatetto, quest’immagine che spesso viene resa poetica, divertente, o drammatica in tanti films, è quella che per un po’ mi ha creato piccole crisi esistenziali. Naturalmente, esagero sulle prospettive poco confortanti del mio futuro, ma non sulla pirandelliana vicenda che mi è toccata.

Durante un colloquio settimanale con la mia compagna si parlò di pratiche commerciali trascurate dopo il mio improvviso arresto, e di multe non pagate. Dopo l’ennesima visita dell’ufficiale giudiziario, con ingiunzioni di pagamento che mi riguardavano, lei era esasperata: "Lo sai che potrebbero venire a pignorare tutto quello che c’è in casa? Io non posso correre dietro a tutte queste cose. Ho inviato una dichiarazione al comune; ho scritto che non intendo più ricevere o ritirare ingiunzioni a tuo nome, e di spedirtele all’indirizzo del carcere… Ho fatto bene?"

"Hai fatto benissimo", risposi, per scrollarmi di dosso qualche senso di colpa che mi pesava sempre di più. Dopo qualche anno, mentre fruivo di un permesso premio, mi sono recato all’ufficio anagrafe della città in cui vivo. Avevo bisogno di alcuni certificati e di una nuova carta d’identità: quella vecchia, con la patente ed il tesserino del codice fiscale, era stata smarrita mentre ero in carcere.

Un’impiegata dall’aria annoiata, dopo aver digitato i miei dati sulla tastiera di un computer, ha subito cambiato espressione. Prima ha cominciato a guardarmi male, poi ad essere immotivatamente scortese mentre m’informava che non poteva rilasciarmi nessun certificato, né una nuova carta d’identità, poiché non risultavo più abitante in uno dei quartieri più belli e tranquilli della città: anzi non abitavo in nessun posto.

"Dal terminale risulta che dal ‘97 lei abita in Senza Fissa Dimora n. 1".

"Senza… E in che zona si trova? Se c’è un numero civico, ci sarà pure un luogo dove...". La donna, senza badare alla mia incazzata ironia, mi ha liquidato con arroganza: "Io non sono autorizzata a dirle altro, e non ho tempo da perdere. Si rivolga all’ufficio competente!". Detto questo, mi ha piantato in asso come un cretino e ha lasciato il posto ad una sua collega.

Avrei voluto "semplicemente" strozzarla, ma un detenuto in permesso premio non può permettersi il lusso di dare in escandescenze. Alla sostituta ho chiesto a quale ufficio rivolgermi per avere spiegazioni; intanto, sentivo addosso lo sguardo delle poche persone che avevano i numeri d’attesa successivi al mio. Due giovani immigrati con uno splendido bambino, che forse avevano capito il mio piccolo dramma di novello senzatetto, mi guardavano con solidale comprensione mentre mormoravo a me stesso: "Non è possibile, non può essere possibile". Intanto, pensavo a tutte le volte che ho dato ospitalità un po’ a tutti. Che paradosso! Ero diventato una persona senza fissa dimora, probabile candidato alla lotta per il possesso di una panchina all’ombra di un albero secolare. E, per di più, non avevo neppure uno straccio di documento, tranne un foglio rilasciato dal carcere, con sopra una foto digitale che nemmeno mia madre riconoscerebbe.

Quella realtà, totalmente nuova, la respingevo anche a livello inconscio, soprattutto (lo confesso, anche se non è una cosa di cui essere fiero) quando ho visto la famigliola extracomunitaria che si allontanava allegramente dopo aver ritirato due carte d’identità nuove di zecca e alcuni certificati: tutto ciò che a me era stato appena negato.

Ero decisamente incazzato, e mi chiedevo quanti sono, in Italia, i senzatetto prodotti dalla "premiata ditta" Carcere & Uffici Comunali, mentre mi recavo presso l’ufficio indicatomi rimuginando spiacevoli intenzioni: "Fanculo al permesso e alla buona condotta… Mò, se non mi danno una spiegazione valida, e se non sarò trattato con un minimo di cortesia, pianto un casino memorabile…"

 

Ma quanti siamo ad abitare in via dell’Ospitalità n. 663?

 

Alla fine, ho scoperto che solerti funzionari comunali, a seguito della dichiarazione inoltrata a suo tempo dalla mia compagna (l’intento era ben diverso dal risultato finale!), non avevano perso tempo. Una volta accertato che ero detenuto (e prima ancora che fossi giudicato), avevano provveduto alla cancellazione dei miei dati dall’anagrafe cittadina. Chi era responsabile del fatto che nessuno si era preso la "civilissima" briga di inviarmi, nelle patrie galere, uno straccio d’avviso? Non avevo, forse, il diritto di sapere che l’ufficio anagrafico stava modificando il mio "status residenziale"? Non avevo il diritto di eleggere, se proprio fosse stato (estremamente) necessario, un diverso domicilio? Ma che razza di procedura discriminatoria era stata adottata? C’erano state delle inadempienze o, addirittura, un abuso d’ufficio? Queste, e tante altre ancora, sono state le mie domande, finché non ho ventilato l’eventualità di adire le vie legali.

"Sistemeremo tutto… Stia tranquillo! Siamo dispiaciuti per questo malinteso, ma sa… nell’ultimo censimento lei non risultava in casa…".

"E per forza! Ero, anzi, sono in carcere… Ma questo non giustifica l’annullamento della mia residenza. Il mio stato di detenzione è una condizione temporanea… Mica sto scontando una condanna a vita!".

"Le assicuro che sistemeremo tutto. Ma sa, ora dovremo accertare che lei, anche se detenuto, abita effettivamente in via… A settembre sistemeremo tutto".

"A settembre? Ho portato la denuncia di smarrimento inoltrata alle autorità carcerarie, e le foto-tessera. Abito all’indirizzo di sempre, dove ho una famiglia…".

Mentre parlavo, mi è venuta un’idea. Ho indicato il telefono sulla scrivania ed ho chiesto di poter fare una telefonata. Ho precisato che si trattava di un’emergenza famigliare, e ho chiesto se si poteva attivare il "vivavoce". Subito, ha risposto mia figlia, e la nostra conversazione si è diffusa nell’ufficio.

"Papà, la mamma vuole sapere quando arrivi… Ti stiamo aspettando".

"Senti Ilaria… mi dici l’indirizzo di casa?".

"Ma, papà… non lo conosci il nostro indirizzo? Via delle… ma perché me l’hai chiesto?".

Allora mi sono rivolto agli impiegati: "Spero che ora non ci siano dubbi sul fatto che io, pur essendo detenuto, ho ancora un indirizzo e una famiglia".

"Chiariremo quest’increscioso equivoco, e rimetteremo a posto la sua posizione… Possiamo darle una carta d’identità con una residenza provvisoria. Darò subito disposizioni".

"Mi darete un documento nuovo con un indirizzo qualsiasi?".

"No. Non è proprio così! Il comune ha un indirizzo che mette a disposizione di chi…".

"Praticamente è un dormitorio pubblico?".

"Beh, in effetti, è così… Lei avrà un documento con quest’indirizzo provvisorio. Le do la mia parola che a settembre risolveremo questo increscioso problema".

Se mi fossi impuntato, sono certo che avrebbero sistemato tutto entro quella stessa giornata, invece, ho accettato quella soluzione. L’indirizzo "gentilmente offerto" dal comune avrebbe tenuto lontano (da "casa mia") certe sgradite ingiunzioni (con relative "minacce" di pignoramento) per mancato pagamento di multe o di spese giudiziarie. Insomma, nessuna rottura di scatole da parte degli ufficiali giudiziari che, come segugi, non mollano mai la traccia degli ex detenuti. E poi… perché non approfittare dell’occasione, per ritrovare (una volta fuori) il bandolo di quella matassa intricata che è la mia vita strettamente privata e affettiva?

Il giorno dopo avevo la mia nuova carta d’identità con un indirizzo che ha qualcosa di beffardo: via dell’Ospitalità n. 663; è lo stesso dei tanti che, ogni sera, entro una determinata ora, devono mettersi in fila per non perdere il posto-letto. Fortunatamente, la possibilità che io possa vivere da "senza fissa dimora" è molto remota, e poi, ho diverse "opzioni" da valutare. Tra queste ce n’è una che non ho mai scartato del tutto: tornare, quasi cinquantenne, da papà e da mamma.

 

Eugenio Romano

 

Precedente Home Su Successiva