Capitolo
terzo: La verità che nessuno sopporta
“Chi
ha scelto di lavorare con le parole – il più arduo dei materiali, il più
difficile da modellare secondo il proprio desiderio – sa che, a volte, le
parole mentono: travestono, travisano, trasformano”: le parole che mentono
sono per Bianca Stancanelli, la giornalista che ha raccolto 21 storie di Rom nel
libro ”La vergogna e la fortuna”, quelle che tutti prima o poi usiamo quando
parliamo di Rom, perché “il carico di pregiudizio e di ignoranza che c’è
in questo paese sulla questione rom è davvero micidiale”. Per questo è
importante trovare il coraggio di raccontare anche le storie che nessuno vuole
sentire, le verità che respingono, che infastidiscono, che spaventano.
Come
rendere raccontabili anche le storie più “respingenti”
di
Lorenzo Sciacca,
Ristretti Orizzonti
Non
avrei mai pensato di avere la possibilità di ritrovarmi di fronte a persone che
fanno parte di quella società che ho sempre visto come nemica, e a far cosa? A
raccontarmi, a raccontare il mio vissuto, le mie scelte di vita. A raccontare la
verità di quello che sono stato e di quello che oggi voglio essere.
L’ambiente del carcere lo conosco molto bene avendo avuto un padre carcerato
in tenera età. L’ho conosciuto dietro a un bancone e per una volta a
settimana, quando andavo con mia madre a trovarlo. Sono cresciuto provando
l’umiliazione di una perquisizione, solamente che essendo piccolo credevo che
fosse la normalità. Questi sono stati i miei primi dieci anni di vita. Ho
cominciato a commettere piccoli reati già all’età di dodici anni e
sicuramente il quartiere del sud dove vivevo non mi ha aiutato. Fino a quando ho
voluto fare un “salto di qualità”, forse perché il reato che stavo andando
a commettere era lo stesso di mio padre, una rapina.
È
così che è iniziata la mia “carriera criminale”. Ho dato per scontato che
quella era l’unica possibile scelta che la vita mi stava mettendo davanti, non
avevo nessuno attorno a me a dimostrarmi il contrario. Per me io ero nato per
essere un emarginato, un qualcosa che a priori la società voleva nascondere.
Così ho fatto la mia scelta. Nonostante tutte le mie detenzioni ho deciso di
crearmi una famiglia, avere una moglie, un figlio, ma neanche questo mi ha
fermato, i sentimenti di odio, di rivalsa che ho coltivato grazie al carcere
sono stati un elemento fondamentale per arrivare ad avere oggi una condanna di
oltre 30 anni di carcere sulle spalle.
Nella
mia vita ho subito perdite importanti come la morte di un figlio e dal dolore
sono sempre riuscito a venir fuori credendo che un giorno mi sarei vendicato, ma
alla fine oggi mi chiedo: su chi veramente mi volevo vendicare? Sembra un po’
contorto, ma la verità è che mi sono sempre voluto vendicare su me stesso. Non
penso di essere una persona più cattiva di tante altre, dentro di me ho anche
del buono e solo oggi riesco a riconoscermelo.
Ultimamente
ho letto il libro “La vergogna e la fortuna. Storie di Rom” di Bianca
Stancanelli. C’è una storia che mi ha molto colpito. Un ragazzo rom di nome
Baraba partecipa a un incontro con gli studenti in un liceo e mentre è seduto
in questa aula magna, nota delle ragazzette che lo fissano fino a quando una gli
dice: “Ma come vi vendicherete?”. Baraba a sua volta le chiede di che cosa
si dovrebbero vendicare i Rom e la ragazza gli risponde: “Di come vi
trattiamo”. E a quel punto la risposta di Baraba è semplice e chiara: “Non
ci vendicheremo.
Noi
rom non abbiamo mai fatto una guerra”. Io invece da una parte di società ho
sentito spesso parole vendicative, i classici luoghi comuni, le cattiverie, a
volte anche di fronte a un suicidio di un carcerato ho sentito qualcuno dire con
cinismo “uno in meno”. È questo che mi ha portato a volermi sempre
vendicare contro una società che ha gli stessi pregiudizi che ho avuto io nei
suoi confronti. Oggi è diverso, e questo lo devo alla redazione di Ristretti
Orizzonti, e solo grazie al progetto che vede entrare migliaia di studenti ogni
anno per confrontarsi con noi, ho raggiunto un profondo desiderio di
riconciliazione con me stesso e nei vostri confronti.
Raccontare
la propria storia agli studenti ha un effetto demolente
Io
nella sfortuna ho la fortuna di fare parte di questa Redazione. Ogni giorno, la
nostra Direttrice porta la Rassegna Stampa con tutti gli articoli che riguardano
il mondo delle carceri. Leggendo quella dell’8 maggio la mia attenzione è
stata attirata da un articolo che riguarda la storia di Riccardo Francesco Cordì,
figlio di una famiglia calabrese, con un padre ucciso in un agguato, un fratello
ergastolano sottoposto al regime di tortura del 41bis e altri due sempre in
carcere per ‘ndrangheta. Questo articolo come titolo ha “Il figlio
del boss che sceglie lo Stato.” Non voglio stare a polemizzare su questo
titolo, perché personalmente non credo che sì tratti di scegliere lo Stato o
la delinquenza, ma questa è solo una mia opinione personale.
C’è
un passaggio molto interessante nelle parole scritte da Francesco: “Di me
hanno scritto in molti, anche se non hanno mai fatto il mio vero
nome. È capitato che scrivessero cose sbagliate: certo non era la loro
storia, è la mia. Ora ho deciso di raccontarla”. Credo
che questo passaggio sia molto significativo e, per chi usa una penna come
lavoro, dovrebbe far capire molte cose.
Vedete,
di ragazzi come Francesco, in giro per le carceri, è pieno, solamente che a
Francesco gli è stata data la possibilità di scelta. Di ragazzi che sono
convinti ch l’unica scelta possibile per loro è la strada, la delinquenza, è
strapieno il mondo. Io ero uno di quelli, ma solo oggi che ho 37 anni e con un
vissuto carcerario alle spalle molto lungo, 17 anni in varie detenzioni, riesco
a riconsiderare le scelte fatte in età adolescenziale. Questo accade solo oggi
perché non mi è mai stata data un’opportunità, non solo durante le
detenzioni, ma anche fuori dal carcere, perché ero sempre etichettato come
“il figlio di un ex detenuto”.
Gli
incontri con gli studenti che la nostra redazione fa iniziano con il racconto di
tre nostre storie, tra cui una è spesso la mia. Come avete capito la mia è una
storia di una scelta di vita. Raccontare la propria storia agli studenti ha un
effetto demolente, perché chiaramente devi essere onesto con loro e soprattutto
rispondere onestamente alle loro domande. Dunque crolla quel muro che per anni
ti sei costruito, crollano tutti quegli alibi che per una vita intera ti sei
dato guardandoti allo specchio, crollano tutte quelle sicurezze che ti sei
costruito, quello che tu credevi bene diventa il male e quello che pensavi fosse
il male diventa il bene. È per questo che ho usato l’aggettivo
“demolente”, perché l’effetto è quello, allora devi trovare la forza di
ricominciare dalle fondamenta per ricostruire una nuova persona. Ma perché mi
devo considerare un eletto? Eletti non ne dovrebbero esistere quando si parla di
reinserimento per persone che hanno sbagliato.
In
maniera diversa, oggi, sia io che Francesco Cordì vediamo la società sotto
tutta un’altra prospettiva, questo grazie a delle opportunità che ci sono
capitate e che ovviamente abbiamo saputo cogliere al volo. Ma queste opportunità
non devono essere rare, devono essere dei diritti che riguardano tutti, perché
a tutti può capitare di cadere in una rete fatta di male.
Vedete
a volte basta anche un piccolo segnale di fiducia, anche un banalissimo gesto,
per aiutarci a credere in noi, a credere che possiamo fare parte ancora di quel
mondo che cercate di proteggere estromettendoci. In questo caso è bastato
narrare la propria storia, la propria VERITA’, per portare a riflettere su
delle possibili scelte sbagliate e per rendere raccontabili anche le storie più
“respingenti”.
La verità
che nessuno sopporta
Albert Einstein ha detto che “è più facile
disintegrare un atomo che un pregiudizio”, e a proposito di Rom, i pregiudizi
sono moltissimi, ma se è vero che siamo riusciti a
di
Bianca Stancanelli,
giornalista e scrittrice.
È
inviato speciale per il settimanale “Panorama” e autrice di molti libri,
fra
i quali La vergogna e la fortuna. Storie di Rom e A testa alta.
Don
Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario
Buongiorno
a tutti, sono molto contenta di essere qui con voi oggi. E ringrazio molto
Ornella Favero e la redazione di Ristretti Orizzonti per questo invito, perché
mi ha dato l’occasione di riflettere su un tema centrale per questo paese: la
Verità e la Riconciliazione.
Ciò
che mi ha colpito dal primo istante è la data che avete scelto per questa
giornata di riflessione, perché questa giornata coincide con il 22°
anniversario della strage di Capaci, in cui trovarono la morte il giudice
Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Antonio Montinaro,
Vito Schifani e Rocco Dicillo. E’ una coincidenza forse, ma Leonardo Sciascia
ha evocato, in una sua bella pagina, la “causalità della casualità” e a me
piace pensare che non sia un caso trovarci qui, nell’anniversario di una
strage, l’ennesima strage italiana, a ragionare di un tema decisivo per la
nostra democrazia com’è appunto il tema della verità. Si è parlato, questa
mattina, di piazza Fontana – un’altra strage, e impunita. Io penso che la
prima riconciliazione che questo paese ha il dovere di tentare è la
riconciliazione con la verità: con l’idea stessa che sia possibile conoscere
e affermare la verità.
Si
è parlato oggi anche di informazione. E’ questo il tema che mi riguarda da
vicino, come giornalista. L’informazione ha il compito di ricostruire quella
che viene chiamata la verità dei fatti. Non è un compito facile, perché la
verità non è poi così evidente come ci piace pensare.
Oggi
il nostro incontro si svolge in un carcere, in un luogo, cioè, dove vige la
verità giudiziaria, che è una declinazione particolare della verità e attiene
al riconoscimento della colpa, all’identificazione del colpevole e della
vittima.
Ora,
quello che vorrei proporvi, attraverso tre gruppi di storie che riguardano i Rom
e gli “altri”, quelli che Rom non sono, è una riflessione sul modo in cui
la cosiddetta verità dei fatti varia secondo il racconto che di quei fatti si
fa. Provo a spiegarmi: la verità, o quello che si ritiene essere la verità,
dev’essere espressa in parole, dunque va raccontata. Quello che vorrei
mostrarvi è come, cambiando il racconto, cambiano i fatti.
Le
prime due storie parallele che vi propongo riguardano genitori e figli.
Piacenza, estate del 2013, un uomo di 38 anni esce di casa con il figlio di due
anni. Deve portarlo all’asilo nido e poi proseguire verso il suo posto di
lavoro. Il padre fa sedere il piccolo sul seggiolino, sul sedile posteriore, e
lo lega al seggiolino.
Così
prevede la legge: per sua garanzia e sicurezza, il bambino deve stare dietro.
Succede che il padre non lascia il bambino al nido. Se lo dimentica. E’
estate, c’è caldo, forse il bambino si addormenta lungo la strada, non lo
sappiamo. Il padre se ne dimentica, parcheggia, va al lavoro. Se ne rende conto
nove ore dopo, quando sua moglie gli telefona, spaventata, perché il nonno è
andato a prendere il piccolo al nido e non l’ha trovato. Il padre corre verso
la macchina: il bambino è lì ed è morto.
La
magistratura apre un’inchiesta. E’ un atto dovuto, si fa sempre in casi del
genere. L’8 maggio scorso sui giornali compare la notizia di una prima perizia
psichiatrica sul padre. Vi leggo la ricostruzione del Fatto Quotidiano: secondo
i periti, il padre sarebbe stato vittima di una “amnesia dissociativa
transitoria”.
Questa
perizia - leggo nella cronaca del Fatto Quotidiano – è la premessa di una
possibile archiviazione dell’inchiesta. Nell’articolo si ricorda il moto di
solidarietà fortissimo che fece vibrare l’Italia nei giorni in cui questo
fatto accadde. Era successo altre volte che dei padri dimenticassero i figli in
macchina e che questi bambini morissero. Quando è accaduto a Piacenza,
l’Italia intera – questa Italia stressata, incattivita nella quale viviamo
– ha provato pena e pietà. Ci si è detti: “Poteva accadere anche a me” e
tutti si sono sentiti vicini a questo padre, al suo dolore, al suo smarrimento.
Un anno dopo possiamo dire che l’inchiesta si avvia probabilmente verso
l’archiviazione.
E’
la soluzione migliore, quei genitori hanno sofferto perfino troppo. Adesso
facciamo un passo indietro: nello spazio e nel tempo. Livorno. Un’altra
estate: l’agosto del 2007. Periferia della città: alcune famiglie Rom, che
vengono dalla Romania, si sono accampate sotto un cavalcavia dell’Aurelia.
Hanno occupato
Le
vecchie gabbie in cui dormono sono state coperte con materiali di fortuna per
ripararsi dal freddo, perché anche d’estate, se dormi sotto un cavalcavia e
accanto a un corso d’acqua, la notte c’è freddo. Sono state ricoperte di
cartone, di vecchie coperte, di fogli di carta. Una sera, uno dei Rom lì
accampati parte con uno dei tanti pullmini che vanno e vengono tra l’Italia e
la Romania. E’ tardi, i bambini si sono addormentati, gli adulti salgono sul
cavalcavia per salutare il parente che parte. E mentre loro stanno lassù, le
gabbie vanno a fuoco.
Perché
succede non si sa, anche perché il rogo è talmente violento che restano solo
macerie fumanti. Muoiono quattro bambini. Tre di loro sono fratelli e sorelle. I
vigili del fuoco, una volta spento l’incendio, vedranno una massa: sono i tre
bambini, fusi insieme in un ultimo abbraccio. Muore, sola, anche un’altra
bambina. I padri e le madri non si accorgono del rogo. La caratteristica degli
accampamenti di fortuna costruiti dai Rom è di essere collocati in maniera da
rendersi quasi invisibili. E’ una precauzione ispirata da secoli di
persecuzioni: i Rom sono, per definizione, l’Altro, i nomadi, i ladri, gli
invasori… Succede così che i padri e le madri di quei quattro bambini restano
sul cavalcavia finché vedono arrivare il camion dei Vigili del fuoco. A quel
punto capiscono, si precipitano giù, dove sono le loro baracche. Ma non c’è
più niente da fare. Cercano di spiegare ai Vigili del fuoco che ci sono i
bambini in quelle baracche, ma lo dicono nella loro lingua, il romanes, e i
Vigili del fuoco non capiscono, li mandano via. Mentre stanno davanti alle
baracche in fiamme, questi padri e queste madri vedono una bambina del loro
gruppo allontanarsi con i suoi genitori.
Pensano
allora che anche i propri figli siano riusciti a scappare e corrono a perdifiato
verso la stazione, che era il luogo dei loro appuntamenti, il punto dove tutti
dovevano ritrovarsi dopo la giornata passata a mendicare in angoli diversi della
città. Davanti alla stazione vengono arrestati. I genitori dei quattro bambini
morti vengono portati in carcere: la magistratura li accusa di aver abbandonato
i loro figli. L’Italia non se ne accorge: è una notizia che scivola via senza
lasciare traccia. Io me ne accorgo perché ascolto la notizia degli arresti al
telegiornale e vedo apparire sullo schermo il Pubblico Ministero. E mi pare che
questo Pubblico Ministero sia pervaso da un sacro fuoco e che il suo desiderio
sia tenere questi padri e queste madri in galera il più a lungo possibile.
Dalla sua foga, credo di capire che si sia convinto che se i genitori di quei
quattro bambini non erano con i figli quella sera, ciò accadeva perché erano
andati a rubare.
Ora,
nessuno di questi padri e di queste madri era stato denunciato per furto. Non
c’era alcuna ragione di credere che fossero dei ladri. Comunque il Pubblico
Ministero ritenne che bisognava tenerli in galera. Ci restarono per sette mesi.
Vennero portati fuori, dopo un mese, solo per andare al funerale dei loro
bambini e si deve all’umanità degli agenti di polizia penitenziaria il fatto
che non siano entrati nel Duomo di Livorno con le manette ai polsi. Gli agenti
penitenziari avevano chiesto e ottenuto di poterli accompagnare in borghese,
perché non fosse evidente che questi genitori venivano da un carcere e
sarebbero tornati in un carcere. Al ritorno dal funerale, uno dei padri tenta di
uccidersi: viene salvato. Finalmente, dopo mesi, un avvocato d’ufficio spiega
ai quattro Rom che cosa vuole da loro la giustizia: vuole che si dichiarino
colpevoli: che dicano, cioè, che se questi bambini sono morti, la colpa è
loro. A quel punto si celebra il processo, le parti accettano il patteggiamento,
dunque le pene sono scontate.
La
madre che ha perso tre figli viene condannata a un anno e sei mesi. La madre che
ha perso una sola bambina viene condannata a un anno e cinque mesi. Per i padri,
pena più mite: un anno e quattro mesi ciascuno. Una volta condannati, tutti e
quattro possono uscire di galera. Sui giornali nazionali, non c’è una riga.
Ne scrivono i quotidiani locali.
Mentre
lavoravo al libro sui Rom, ho letto, appunto, una cronaca del giorno dei
funerali. Veniva citato il commento di una signora italiana, sprezzante verso i
Rom: «Fosse successo a noi, ci saremmo gettati nel fuoco per salvare i nostri
figli». Ho chiesto all’avvocato: «Se questi genitori fossero stati italiani,
come sarebbe andata l’inchiesta?» Mi ha guardato sbalordito, mi ha detto: «E’
impossibile rispondere, nessun italiano vive in quelle condizioni». Il secondo
gruppo di storie riguarda due incidenti stradali. Fiumicino, febbraio 2008. Vi
leggo la cronaca dal sito di Rai News 24. Il titolo: “Strage sulle strade di
Fiumicino, 5 morti. Una tragedia annunciata”. Il sommario dice: “Un maxi
tamponamento che ha coinvolto otto autovetture ha causato la morte di 5 persone,
tutte donne. Tre ragazzine di 7, 13, 14 anni e due donne di 20 e 37 anni”.
Erano madri e figlie: una donna rumena con due bambine e un’italiana con una
figlia adolescente. Vi sottopongo qualche passaggio della ricostruzione di Rai
News 24. Premessa: a provocare la tragedia, è una Fiat Stilo. Ecco la
ricostruzione: “Si è trattato di una vera e propria carambola di autovetture.
La Fiat Stilo, condotta da un ventenne ora ricoverato in ospedale, probabilmente
a causa dell’alta velocità, si è scontrata frontalmente con una Jeep
Mitsubishi.
La
stessa Fiat Stilo ha poi urtato alcuni cassonetti della spazzatura e ha finito
la sua corsa contro una Fiat 600. La Jeep, dopo l’impatto con la Fiat Stilo,
è andata invece a sbattere contro una Volkswagen Golf. E’ stata poi
quest’ultima a travolgere una Toyota Yaris che si trovava sul ciglio della
strada, provocando la morte di una donna di 37 anni e della figlia tredicenne.
La Golf è finita poi nel piazzale della fermata dell’autobus dove ha travolto
e ucciso una donna rumena di 30 anni e le sue figlie di 7 e 14 anni. Ci sono
anche 8 feriti”.
E’
un passaggio lungo. L’ho voluto leggere per intero perché, come avete
sentito, sembra la cronaca di un videogioco: ci sono delle macchine, che
colpiscono altre macchine, che vanno a sbattere contro altre macchine, che poi
finiscono sugli esseri umani. Non è prevista la presenza dell’uomo alla
guida. Tranne il ventenne senza nome che viene vagamente evocato, è come se
queste macchine si muovessero motu proprio.
E’
interessante anche la reazione alla strage. Rai News 24 registra il commento
della presidente dell’Associazione italiana familiari vittime della strada. La
presidente sostiene che la tragedia è dovuta «a comportamenti irresponsabili
di conducenti e di istituzioni che non hanno provveduto ad attivare controlli e
segnaletica adeguati». Uomini e istituzioni, dunque.
E
ora torniamo alla periferia di Roma, sette mesi dopo, per un altro incidente
stradale. La cronaca è del sito Repubblica. it. Il titolo: “Ubriaco e drogato
investe 13 persone alla fermata del bus: tre sono gravi”. Il sommario dice:
“Alla guida dell’auto, un nomade. Fermato l’investitore, che ha rischiato
il linciaggio”.
L’articolo
comincia così: “Ha investito i pedoni che stavano aspettando l’autobus alla
fermata di viale Romagnoli, sulla strada per Ostia. Un nomade del vicino campo
di Dragona, pregiudicato di 26 anni, ubriaco e positivo al test per la cocaina,
è piombato contro le persone”. Di questo “nomade”, viene subito fatto il
nome. Vorrei farvi notare che quest’uomo è Rom ma non è nomade, o lo è
almeno quanto lo sono io.
Io
sono siciliana, sono nata a Messina, ho lavorato a Palermo, ora vivo e lavoro a
Roma. Il “nomade” in questione è figlio di genitori croati ma è nato a
Torino. Al momento dell’incidente risiede da 15 anni a Roma. Diciamo, quindi,
che la quota di nomadismo tra lui e me è esattamente identica, però
nell’articolo viene subito indicato come “un nomade”.
E’
interessante sottolineare un altro dettaglio: sia in questo caso che per
Fiumicino, si tratta di un incidente a una fermata d’autobus. Ma a Fiumicino
ci sono stati 5 morti, in viale Romagnoli 13 feriti.
Per
sapere con quale macchina sia avvenuto l’incidente bisogna scorrere
pazientemente tutto l’articolo. Alla fine si scopre che si trattava di una BMW
320. Lo dico per par condicio, dopo avervi annoiato con tutte quelle marche
d’automobile... Ma qui la macchina non importa, perché è il “nomade”,
ubriaco e drogato, che ha investito la gente alla fermata dell’autobus: un
uomo, non un’automobile. L’investitore viene salvato dai vigili urbani perché
la folla lo vuole linciare: lui è ferito, ma gli si avventano contro. Viene
portato all’ospedale. E lì accade che si presenti il padre del “nomade” e
anche lui viene sottratto per un pelo al linciaggio. La prima reazione che i
cronisti registrano è una rivolta contro i Rom al grido di “se ne devono
andare, non ne possiamo più, non sanno fare altro che ubriacarsi e rubare”.
La
stessa sera dell’incidente viene organizzata una fiaccolata per chiedere più
severità contro chi si mette al volante ubriaco. La guida l’allora sindaco di
Roma, che definisce l’incidente “un vero e proprio tentato omicidio colposo
plurimo”. La fiaccolata viene fatta sul cavalcavia che sovrasta il campo Rom
di Dragona.
Chiariamo
subito che il campo non è abusivo: è un insediamento autorizzato dal Comune di
Roma, c abitano sessanta persone, per la metà bambini. Siamo a novembre, dunque
la fiaccolata si svolge quando è ormai buio. Decine di persone con le fiaccole
sfilano sopra il cavalcavia, urlano, tirano pietre. I bambini sono terrorizzati.
Se
doveste avere curiosità di sapere come è andata a finire questa storia, la
potreste seguire passo passo su Internet. E lì scoprireste che il Rom alla
guida dell’auto che ha investito quelle tredici persone viene arrestato, resta
in galera 20 giorni, poi viene mandato agli arresti domiciliari. Un anno dopo,
viene processato e condannato a tre anni. Non c’è alcuna traccia, invece, del
primo incidente. La strage di Fiumicino svanisce nel nulla. Non si riuscirà
neppure a sapere chi era il giovane di 20 anni portato via in ambulanza. Nelle
prime cronache si lesse che una delle macchine aveva il tachimetro inchiodato
sui 200 chilometri l’ora, ma non si è mai saputo se siano stati identificati
dei responsabili, se vi siano state delle condanne. Io penso che se fosse venuto
fuori il nome di quel ragazzo di 20 anni e qualcuno dei familiari delle vittime
o di una associazione di familiari delle vittime della strada avesse pensato di
organizzare, non dico una fiaccolata, ma un sit in sotto la casa di questo
ragazzo e se qualcuno fosse andato a parlare con l’amministratore del
condominio per chiedergli di cacciare la famiglia dell’investitore dal
palazzo, sarebbe stato preso per pazzo. E’ assolutamente ovvio che sarebbe
stata ritenuta una richiesta irricevibile.
Il
terzo gruppo di storie riguarda vicende di stupro. La prima storia accade a
Torino, nel dicembre 2011. Per ricostruirla, ho scelto la cronaca on line del
sito Dire Donna. Una ragazza di 16 anni fa l’amore con il suo ragazzo. Lo fa
in condizioni molto precarie, all’aperto, in maniera avventurosa, se volete.
Mentre sta tornando a casa, la ragazza incontra suo fratello. Il fratello
capisce al primo sguardo che le è successo qualcosa, non riesce a capire che
cosa, comincia a bombardarla di domande. La ragazzina piomba in uno stato di
confusione, di panico. I suoi genitori sono molto severi e lei pensa che se
racconta al fratello che cosa è successo, quello di sicuro spiffererà ogni
cosa a casa e lei prenderà una quantità di botte da ricordarsele per tutta la
vita. In un attimo la ragazza si rende conto che può salvarsi solo mentendo, e
che cosa le salta in mente di dire? Che è stata violentata da due Rom. Indica
un gruppo di baracche di Rom rumeni che si sono accampati in uno slargo di
periferia. Il fratello diventa una furia, chiama in aiuto i suoi amici: vuole
dare una lezione agli stupratori. In pochissimo tempo si raduna un branco intero
di persone decise a dare l’assalto all’accampamento dei Rom stupratori. Il
branco vuole dare fuoco alle baracche, cacciare “gli zingari” una volta per
tutte. È una spedizione punitiva talmente grossa che, quando la ragazzina si
accorge di quello che ha combinato con la sua bugia, piomba nel panico per la
seconda volta e comincia a dire che non è vero niente, si è inventata tutto,
non è mai stata stuprata. Racconta la verità, la dice a suo fratello, ma ormai
né lei né lui hanno la forza di fermare il branco. E il campo viene dato alle
fiamme e quella povera gente, che in qualche mese di vita torinese aveva
rimediato di che costruirsi una baracca, perde tutto. È interessante la
reazione del sindaco di Torino, un sindaco di sinistra. Richiesto di commentare
la vicenda, il primo cittadino dice così: «Il raid è la spia di una
situazione di grande difficoltà e di disagio. Bisogna affrontare le ragioni che
hanno provocato questo scoppio di ira». Il sito Dire Donna riferisce il
commento, aggiunge qualche considerazione sul razzismo, inserisce nella cronaca
anche questa frase “allo choc si accompagna la paura di rappresaglie da parte
dei nomadi” e infine si concentra sull’arretratezza di un ambiente familiare
che ha costretto una ragazzina di sedici anni che ha fatto l’amore per la
prima volta a mentire per paura di essere punita. E’ inutile dire che, nei
molti casi di incendi o di sgomberi di accampamenti Rom, non vi sono mai state
azioni di rappresaglia di alcun genere.
La
seconda storia risale al marzo 2007 e si svolge a Montalto di Castro, provincia
di Viterbo. C’è una festa per i 18 anni di un ragazzo; una sedicenne beve
fino a ubriacarsi, in otto la prendono da parte e la stuprano a turno. Lei li
denuncia. Nel paese si scatena una mezza insurrezione contro la ragazzina. I
commenti sono quelli che si sentono di solito in queste circostanze: lei ci
stava, è tutta colpa sua, gli otto sono tutti bravi ragazzi, che ragione
c’era di rovinarli. Il sindaco – anche questo di sinistra: dell’Ulivo –
per prima cosa si dichiara garantista, ricorda che vale sempre il principio di
presunzione d’innocenza e conclude che gli otto ragazzi hanno diritto a essere
difesi. Risultato: il municipio paga le spese per gli avvocati dei violentatori.
E’ un conto di 5000 euro per ciascuno: fanno 40.000 euro in tutto, che per il
Comune di Montalto sono tanti. Il sindaco spiega: «Abbiamo deciso di aiutare
questi ragazzi perché sono operai, apprendisti, gente con poche possibilità
economiche». La ragazzina, che oggi naturalmente non è più una ragazzina, ha
dovuto andar via da Montalto. Ha rilasciato più di un’intervista, sempre più
amareggiata, raccontando la sua solitudine, il dolore di vedersi trattata come
una poco di buono.
È
tempo di concludere questa carrellata di fatti. Fatti identici, come avete
sentito, ma trattati in maniera radicalmente differente. Mi sembra di poter dire
che ciò che chiamiamo la verità dei fatti è un’illusione e, nel
ricostruirla, siamo potentemente influenzati dall’identità dell’Altro, dei
protagonisti dei fatti. Esserne consapevoli è il modo migliore per costruire un
racconto onesto: per arrivare alla verità.
Vorrei
lasciarvi con una bellissima frase di Albert Einstein. Questa: «E’ più
facile disintegrare un atomo che un pregiudizio». Quando si parla di Rom, i
pregiudizi sono moltissimi. Vorrei dirvi, però: se è vero che siamo riusciti a
disintegrare l’atomo, allora possiamo pure provare a disintegrare i
pregiudizi. Di certo dobbiamo provarci. Strenuamente.
Si
può parlare di “razzismo democratico”?
di
Adolfo Ceretti
Volevo
solo, a commento di questo intensissimo intervento, porre a me stesso e a tutti
voi una domanda: quando parliamo dei Rom siamo di fronte – nella migliore
delle ipotesi – a forme di razzismo democratico?
Detto
in altri termini, siamo di fronte a un processo avanzato di razzializzazione
della nostra società e delle nostre istituzioni?
Una
delle parole che si sentono molto spesso associate alla popolazione Rom è
“disgusto”. Marta Nussbaum ha scritto dei saggi filosofici decisivi nei
quali analizza come la parola disgusto possa essere adottata quale punto di
partenza per costruire politiche e legislazioni di emarginazione.
Per
portare un esempio, nel 2006, alla periferia di Milano, a Opera, è stato
appiccato, da parte della popolazione autoctona, un incendio a un campo, e 150
tra uomini, donne e bambini Rom che vi si erano insediati, dopo aver avuto il
via libera dalle istituzioni politiche locali, sono stati costretti alla fuga.
Quello che io mi chiedo, come criminologo, come ricercatore nel campo sociale,
è come si possa spiegare il passaggio da sentimenti assai diffusi – quale
appunto il disgusto – ad azioni violente e viscerali (leggi: degli incendi
dolosi) se non pensando che in quei contesti avviene una forma di cancellazione
collettiva dell’altro, una vera e propria deumanizzazione, che nasce
dall’interruzione del sentire, come individuo, qualcuno che ci è prossimo.
Questi fatti accadono assai spesso, accadono anche sotto i nostri occhi ma noi li lasciamo scorrere, senza opporre resistenza. Grazie di cuore per quello che è stato detto, allora, e cerchiamo di riflettere collettivamente, non solo individualmente, su questi orrori, e anche su quella che è stata definita da più studiosi discrimination with smile, la discriminazione con un sorriso.