Capitolo
secondo: La verità che non si raggiunge mai
Scriveva
Leonardo Sciascia che “il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io
per questo cerco di non dimenticare”.
Carlo
Arnoldi, che ha perso il padre nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre
1969, è impegnato da allora a mantenere viva la memoria di quel periodo
storico: “Da quel giorno la mia vita e la vita di tutta la mia famiglia è
cambiata. Ci siamo trovati (proprio come aveva fatto mio padre a 15 anni, dopo
la morte di suo padre) ad affrontare difficoltà enormi, ma grazie
all’abnegazione di mia mamma, che non ringrazierò mai abbastanza, oggi siamo
ancora qui a vivere e lottare. Non solo per lui, ma anche per fare avere ai
nostri figli e alle future generazioni le verità storiche che i tanti processi
non sono riusciti a darci in modo definitivo”.
È
sempre una società malata quella che vuole un colpevole a ogni costo
di
Ornella Favero
Per
aprire il capitolo successivo, dedicato alla “verità che non si raggiunge
mai”, oggi per me è un momento importante perché è strano che un capitolo,
in cui il protagonista sarà una persona che non ha mai conosciuto fino in fondo
la verità della strage di Piazza Fontana, io lo introduca con una persona
detenuta, Roverto Cobertera, che proclama la sua innocenza.
Ora
io vorrei fare una riflessione prima di dargli la parola: di solito le persone
della redazione, nel loro percorso con le scuole, partono sempre da
un’assunzione di responsabilità rispetto al loro reato. Si ironizza molto
spesso sul fatto che i detenuti si sentono tutti innocenti, ma a prescindere dal
fatto che il carcere com’è oggi purtroppo trasforma spesso in vittima anche
chi non lo è, io non voglio ironizzare su questo, perché certamente ci sono
persone che si professano innocenti e non lo sono, però io credo che ci siano
anche persone che sono vittime della Giustizia, specie quando succede che si
voglia “cercare una verità a tutti i costi” e “avere un colpevole a tutti
i costi”. Io ho sentito invece vittime, come Manlio Milani o come Carlo
Arnoldi, che non si sono fatte tentare da questa idea di avere un colpevole a
tutti i costi, quindi voglio aprire questo capitolo con una persona detenuta che
dice di essere innocente. Io non lo so se Roverto è davvero innocente, e non
ritengo che sia giusto credere o non credere a lui, fare un atto di fiducia nei
suoi confronti, no! Della possibile innocenza di Roverto a me interessano due
piccole cose: la prima è che è sempre pericolosa una idea di giustizia dove si
vuole uscire da un processo per forza con un colpevole, e questo lo dico a chi
fa informazione, perché c’è spesso questo bisogno di sbattere in prima
pagina “il mostro”, è sempre una società malata quella che vuole UN
colpevole e per averlo passa sopra a ogni dubbio, meglio non averlo un
colpevole, che averlo così. La seconda osservazione parte da un incontro che di
recente abbiamo fatto con gli studenti, dove c’era una classe un po’
arrabbiata, non tanto con “i delinquenti”, quanto piuttosto con le
istituzioni, una classe un po’ anarchica, che ha posto una domanda: ma
qualcuno di voi si ritiene innocente? Io ero in difficoltà perché temevo che
si arrivasse a discorsi disfattisti sulla Giustizia che non funziona.
Ha
risposto Roverto, raccontando la sua storia e proclamando la sua innocenza, e un
ragazzo allora è intervenuto e gli ha detto: al posto tuo io spaccherei tutto.
E lì c’è stata una cosa che mi ha colpito: Roverto, che è arrabbiato con il
mondo, per la prima volta ha sentito che la sua rabbia doveva passare in secondo
piano, rispetto a quel ragazzo che rischiava di uscire con questa idea, che nel
nostro Paese fa tutto schifo, che la Giustizia fa schifo, e ha deciso di
intervenire dicendo: no guarda, io stesso ho capito che bisogna lottare con
altri mezzi, che non bisogna farsi travolgere dalla rabbia e non bisogna farlo
non tanto per proteggere se stessi, quanto per i propri familiari, per le
persone che ci stanno accanto, per loro bisogna cercare la forza di lottare
diversamente.
Nel
progetto con le scuole, noi dobbiamo sforzarci di avere sempre verso le
istituzioni rispetto, e dove non funziona lavorare perché funzionino meglio, ma
non innescare un meccanismo di rabbia e basta, ecco perché oggi ho voluto che
parlasse Roverto.
Sarebbe
la migliore delle morti, morire per cercare di far emergere la verità
di
Roverto Cobertera,
Ristretti Orizzonti
Mi
chiamo Roverto, sono “figlio” del terzo mondo, nato a Santo Domingo ma
cresciuto in una grande città dall’altra parte del mondo, New York. Oggi qui
si parla della verità e della riconciliazione. La verità è un tema che mi
tocca da vicino, mi tocca da vicino perché nel mio caso la verità non è stata
appurata, non è stata accertata e mi ha trasformato la vita e mi ha tolto il
senso stesso della vita. Anche la riconciliazione, intesa come incontro tra
vittima e autore di reato, è una cosa che non sento da vicino perché non ho
una vittima, non ho un volto, non ho una famiglia di una vittima a cui dover
chiedere scusa, perdono o comprensione. In questo caso la vittima sono io perché
mi si è negata la verità, perché hanno tolto a me e alla mia famiglia la
voglia di vivere.
Io
penso che il più grave difetto della Giustizia italiana per me è stato forse
quello di considerare che sono un uomo di colore, e condannarmi in maniera
incomprensibile alla pena dell’ergastolo per un omicidio che non ho commesso.
È tanta la rabbia e l’amarezza che porto dentro che a volte non riesco a
controllarmi, ma grazie alla Redazione di Ristretti Orizzonti e al suo progetto
di confronto tra Scuole e Carcere sto cercando di sforzarmi fortemente per
cambiare questa rabbia, questa amarezza che ho dentro in qualcosa di positivo
per aiutare altri e non deludere le persone che mi stanno vicino in questa
tragica vicenda. È vero che sono tanti i detenuti che affermano di essere stati
condannati da innocenti, però questo non esclude che come nel mio caso ci siano
persone che stanno scontando davvero da innocenti la pena in carcere. Io mai mi
sono sottratto alla necessità di assumermi le responsabilità dei miei errori e
delle mie mancanze, ma non sono un assassino, non ho mai ucciso nessuno. E
accertare questa mia innocenza doveva essere una conseguenza logica dell’aver
stabilito la verità in un giusto e trasparente processo, eppure sono stato
condannato in via definitiva.
Mi
sono dichiarato sempre innocente, innocente perché lo sono. Penso che
condannare una persona, o seppellire viva una persona significa avere prove
certissime, inconfutabili. Il mio processo è stato un processo approssimativo,
e credo che le carte lo dimostrino. Questa mia paradossale storia è dovuta
secondo me, ma chi ha voglia di leggersi quelle carte forse se ne convincerebbe,
più ad un accanimento di un Pubblico Ministero e della sua capacità di
influire pesantemente su giudici, avvocati, agenti e testimoni che alla volontà
della ricerca della verità. Non ho santi in paradiso, né soldi per avere gli
avvocati di Berlusconi, ma il Dio in cui io credo non è bianco né nero. Sono
deciso ad andare avanti in questa mia lotta ponendo in gioco la mia vita, penso
che sarebbe la migliore delle morti, morire per cercare di fare emergere la
verità. Grazie per avermi ascoltato.
Piazza
Fontana, anni di mezze verità, di menzogne, di depistaggi
di
Adolfo Ceretti
Lottare
per la verità e la riconciliazione, come hanno saputo fare Nelson Mandela,
Desmond Tutu e tutto il popolo sudafricano è un gesto lontano milioni di anni
luce da quello che è accaduto e accade in Italia rispetto ai tragici eventi
storici che, a partire dal 1969, e per molti anni – parlo naturalmente delle
stragi – si sono susseguiti in Italia.
Bene
hanno fatto Ornella Favero e la Redazione di Ristretti Orizzonti a intitolare
questa sezione del Convegno La verità che non si raggiunge mai, e
a usare quale exergo la frase di Leonardo Sciascia: “Il nostro è un
Paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.
Per
un milanese doc come il sottoscritto evocare Piazza Fontana significa
agitare memorie personali – ricordo perfettamente dove ero e cosa stavo
facendo quel giorno alle 16.37 – e interfacciarle con questi 45 anni di
storia, di mezze verità, di menzogne, di depistaggi.
Per
comprendere, in poche battute, quanto sia difficile mettere la parola fine sulla
verità storica, processuale, personale di questa vicenda basta riportare alcune
frasi pronunciate dal Giudice Guido Salvini il 28 marzo 2012, in occasione
dell’uscita del coraggiosissimo film di Marco Tullio Giordana intitolato Romanzo
di una strage, che ha interpretato e ripercorso una delle ipotesi che si
contendono il primato della verità su quanto accaduto quel 12 dicembre, quando
hanno trovato la morte 17 persone, e altre 88 sono state ferite. Salvini, come
è noto, è il giudice che ha condotto l’ultima istruttoria in ordine di tempo
sulla strage, dal 1989 al 1997. Afferma Salvini: “È … un film che sposa la
tesi delle due bombe, quella anarchica a scopo dimostrativo e quella fascista
devastante finite sotto lo stesso tavolo. Anche se fosse provato, questo però
non cambierebbe la responsabilità della destra nel massacro”.
La
tesi della doppia bomba non convince fino in fondo il magistrato, che ha sempre
ritenuto i sospetti sull’ex ballerino anarchico Valpreda privi di riscontri.
“Però è vero – sostiene ancora Salvini – che la sola gelignite della
versione ufficiale forse non avrebbe potuto provocare il disastro che avvenne. E
se è vero che si trovò anche un pezzo di miccia, sarebbe uno strano secondo
innesco visto che certamente c’era il timer. La verità è che non è
stata mai disposta una nuova perizia sull’esplosivo, quando si riaprì
l’inchiesta”. Ecco, a quasi 45 anni dalla strage, lo stato della verità!
Misteri irrisolti, ipotesi ancora aperte e molti fantasmi che aleggiano
dovunque.
Con
questa premessa la parola va ora a Carlo Arnoldi, figlio di Giovanni Arnoldi,
morto nella strage di Piazza Fontana. Carlo è Presidente dell’Associazione
Familiari Vittime di Piazza Fontana e combatte da una vita perché nessuno
dimentichi: “Ci interessa comunicare con i ragazzi, che pur avendo strumenti
di conoscenza come Internet e Facebook hanno altri interessi. Piazza Fontana non
sanno nemmeno che sia esistita. E questo ci fa male. È da anni che il 12
dicembre leggiamo il nome dei nostri morti. E ci rendiamo conto che sono un
numero. Però la forza della nostra associazione è di non far dimenticare”.
La
verità che non si raggiunge mai
La
verità processuale sulle stragi non è mai stata raggiunta, ma il nostro
compito è quello di non far dimenticare, noi non abbiamo voglia di vendetta,
non ci interessa, noi vogliamo andare nelle scuole, nelle università a
raccontare che la verità storica su Piazza Fontana esiste
di
Carlo Arnoldi,
figlio di Giovanni Arnoldi, morto nella
strage
di Piazza Fontana, è Presidente dell’Associazione
Familiari
Vittime di Piazza Fontana
Il
12 dicembre 1969 era un giorno che poteva cambiare la storia del nostro Paese,
per fortuna non sarà così, però sicuramente è un giorno che ha cambiato la
mia vita, la vita della mia famiglia e la vita delle altre sedici famiglie, che
sono state coinvolte in quel giorno.
Il
12 dicembre ’69 era un venerdì e il venerdì a Milano si svolgeva il mercato
degli agricoltori in Piazza Fontana. Era un mercato molto importante e da tutta
la provincia di Milano e dintorni, Lodi, Brescia, Pavia, Novara si trovavano per
fare le loro contrattazioni. La Banca nazionale dell’Agricoltura era l’unica
banca di Milano che teneva aperti gli sportelli anche dopo l’orario
consentito. Alle 16:37, come ha ricordato prima Ceretti, scoppia una bomba ad
alto potenziale e uccide 17 persone, fra queste anche mio padre. Io allora avevo
15 anni, mia mamma 39 e mia sorella 8 anni. A raccontarlo oggi dopo 45 anni è
come fosse riviverlo, come fosse successo ieri. Mio padre, come la maggior parte
delle altre persone morte, era un agricoltore di origine bergamasche. Anche lui,
casualmente, ha perso il padre come me a 15 anni: stava tornando dai campi
quando cadendo dal carro ha trovato la morte in mezzo a un campo purtroppo.
Dopo
la morte di suo padre, insieme alle sorelle porta avanti l’azienda e piano
piano si avvicina a un mondo che, non riesco ancora oggi a spiegarmi il perché,
lui amava. Era il cinema. Lui negli anni, appena dopo la guerra, appena può,
quando il tempo glielo permette, scappa in una sala cinematografica per vedere
dei film. Il suo desiderio era avere una sala cinematografica tutta per sé.
Negli
anni Cinquanta conosce mia madre, si sposa e realizza il suo sogno, si fa
liquidare dall’azienda di famiglia e compra il cinema nel paese dove vivo
tuttora e si dedica a questo suo amore diciamo.
Questo
fin quando nasce mia sorella nel ’61 e fino a quando con l’avvento della
televisione gli incassi del cinema cominciano a diminuire per cui per mantenere
la famiglia (lui era l’unico sostegno della nostra famiglia) rincomincia di
nuovo a fare quello che era il suo vero lavoro, l’agricoltore e il mediatore,
e questo lo porta a quel maledetto giorno del venerdì 12 dicembre ’69, ad
essere presente anche lui, quasi come se l’avessero chiamato. Mio padre fra
l’altro quel giorno non stava molto bene, non doveva andare in Piazza Fontana,
aveva disdetto degli appuntamenti perché aveva un po’ di febbre e, una
mattina, incontra un agricoltore di Magherno, gli dice “guarda io oggi non
vengo in Piazza Fontana perché non sto bene”, ma purtroppo una telefonata
cambierà la vita a lui e soprattutto alla nostra famiglia. Verso le ore 14 - 14
e 30, mi racconta mia madre, che un agricoltore di Lodi lo chiama e lo supplica
di andare a Milano perché in quel giorno doveva essere presente perché come
mediatore doveva fargli vendere la cascina. Mio padre cerca di non andare perché
dice che non sta bene, però questo signore lo supplica, mio padre prende la
macchina, si avvia verso piazza Fontana e purtroppo arriverà alle 16.30 in
piazza Fontana, questo lo testimonia l’agricoltore di Magherno che lo incontra
sulla porta della banca, e quando gli chiede se ha visto l’agricoltore di Lodi
lui gli dice no, purtroppo entra in banca e non ne uscirà più.
Io
quel giorno ero a scuola, perché il venerdì avevo il rientro. Arrivo a casa
intorno alle 17 - 17.30, mi nonno paterno, che viveva vicino a noi, verso le 18
corre a casa nostra e dice che il Gazzettino Padano, per radio, parlava di una
caldaia che era scoppiata in Piazza Fontana e voleva sapere se mio padre era
ritornato.
Naturalmente
mio padre, quando andava a Milano, tornava sempre piuttosto tardi. Qualche
minuto dopo suona il campanello di casa nostra. Era il medico di famiglia che
era stato avvisato dalla questura di Milano, che ci racconta che mio padre
purtroppo era tra i feriti. Mia madre in quel periodo non stava molto bene e
comincia a pensare male, comincia a piangere. Il medico le dice di stare
tranquilla, è tra i feriti. Mia madre allora pensa di chiamare il fratello a
Milano e di andare a vedere in Piazza Fontana cos’era successo. Mio zio, che
c’è ancora, si reca in Piazza Fontana e vede tutto il casino, cerca di avere
informazioni, ma purtroppo non ne ha, allora comincia a girare gli ospedali.
Arriva
al FatebeneFratelli che è un ospedale molto grande di Milano e chiede di mio
padre e gli dicono che è lì, tra i morti. Lui entra e non lo riconosce esce e
dice “no, Giovanni non è qua”, purtroppo lo fanno rientrare e lui lo
riconosce da un paio di scarpe perché le avevano comprato insieme poco tempo
prima.
Per
farvi capire com’era ridotto mio papà. Telefona, rispondo io al telefono e mi
comunica che mio padre purtroppo è morto. Quando mia mamma lo sa, si sente
male, c’è ancora lì il medico, la rianima. Nel frattempo erano venute tante
persone in casa nostra perché il paese era piccolo e la gente cominciava a
venirlo a sapere. Un amico di famiglia ci accompagna a Milano, andiamo
all’obitorio, ma purtroppo era chiuso.
Ci
fermiamo a Milano a casa di mio zio, la mattina dopo andiamo all’obitorio e
per la prima volta cominciamo a vedere facce che poi diventeranno comuni, perché
sono tutti i familiari delle altre 16 famiglie. Noi siamo Arnoldi, quindi siamo
i primi a essere chiamati al riconoscimento. Io, che allora avevo 15 anni, non
potevo entrare però riesco a sgattaiolare insieme a una mia zia ed entrare e
vedo mio padre in condizioni disastrose. Uscendo abbraccio mia madre e prendo la
decisione, oggi mia madre mi ringrazia ancora per quella mia decisione, prendo
la decisione di fermarla e di non farla entrare perché le dico “mamma aspetta
lo vediamo al giorno dei funerali, oggi è troppo conciato male, tu non stai
bene” e lei, piangendo, si siede e mi ascolta.
Torniamo
al nostro paese e il giorno dei funerali che è il 15, ritorniamo a Milano. Quel
giorno a Milano era quasi in lutto anche il tempo, perché il cielo era plumbeo,
alla mattina alle dieci c’erano i lampioni accesi, piovigginava e quasi il
cielo voleva piangere anche lui insieme a noi. Purtroppo c’era molto traffico
anche, arriviamo in camera mortuaria e, per la faccenda che mio padre si chiama
Arnoldi, era stato il primo a essere chiuso e quel giorno mia madre, purtroppo,
non lo vede più. Nonostante questo, comunque, ancora oggi mi ringrazia perché
lei se lo ricorda bello come l’aveva conosciuto.
Ecco
da quel giorno io, ragazzo non impegnato politicamente, comincio a interessarmi,
a capire perché, cos’era successo, capire chi poteva essere stato. Fin dai
primi giorni le indagini vanno verso gli anarchici di Milano. Il mostro viene
trovato quasi subito, naturalmente noi crediamo a quello che dicono i giornali,
le televisioni, il Valpreda viene dipinto come il mostro della strage di Piazza
Fontana. Faccio un inciso, quel giorno la bomba non ci fu soltanto in Piazza
Fontana, c’era un’altra bomba alla Banca Commerciale inesplosa e volutamente
fatta esplodere poi nel cortile della stessa Banca per cominciare a depistare;
c’erano state altre tre bombe a Roma, due all’altare della Patria e una alla
Banca Nazionale del Lavoro, dove fecero dei feriti. Ecco i miei dubbi
cominciarono a crescere già dai giorni dopo i funerali, perché la sera stessa
purtroppo in questura una persona che era entrata con le sue gambe seguendo il
commissario Calabresi, Giuseppe Pinelli, dopo 3 giorni di fermo illegale, ne
esce da una finestra. Quindi questo, insieme a tanti libri, specialmente Strage
di Stato, che comincio a leggere, cominciano a portare dei dubbi ad un ragazzo
di 15 anni che affronta per la prima volta una questione molto più grande di
lui. Io mi ricordo il giorno dei funerali, tornando un attimo indietro, che
Piazza del Duomo era gremita di gente, si parlava di 300-400.000 persone. Io mi
ricordo che quando siamo arrivati in Piazza noi eravamo purtroppo come ho detto
prima, per la faccenda del cognome, i primi ad arrivare in Piazza Duomo, c’era
talmente silenzio, non c’erano bandiere, non c’erano striscioni, c’era
tutta Milano presente, dagli studenti agli operai e impiegati, non c’era
nessuno slogan, non c’era niente, c’era un assoluto silenzio al contrario di
quello che purtroppo succede oggi ai funerali e mi ricordo benissimo che, mentre
accompagnavo la bara di mio padre in Duomo, i nostri passi sul selciato si
sentivano proprio distintamente, quindi proprio un silenzio, io ricordo un
silenzio rumoroso. Questo per farvi capire che quel giorno probabilmente diede
un forte impulso a chi voleva portare paura e probabilmente un colpo di Stato in
Italia, ma quel giorno, la città di Milano e l’Italia intera, non lo permise.
Io da quel giorno insieme a mia mamma e alle tante mamme che, non tutte però
diverse famiglie, cominciarono a trovarsi in quella che non era
un’associazione ma era un trovarsi insieme per farsi coraggio, per cercare di
capire tra di noi cosa poteva essere successo, naturalmente la maggior parte
delle nostre mamme erano convinte che fossero gli anarchici, anche l’avvocato
che c’era stato assegnato, l’avvocato Odoardo Ascari allora molto importante
perché aveva difeso le vittime della diga del Vaiont, lui era convinto che
fossero gli anarchici e che il processo nel giro di pochi anni avrebbe dato
ragione, che saremmo arrivati alla verità.
Noi
volevamo una verità, la giustizia, e con il passare degli anni soprattutto non
dimenticare i nostri morti.
La
nostra voglia di avere giustizia e verità, non vendetta, giustizia e verità
I
processi saranno tanti: il primo è a Roma nel ’72 e per la prima volta, io
avevo 18 anni, vengo a Roma, non per visitarla, ma per assistere al processo.
Per la prima volta vedo Valpreda. Ero seduto vicino a mia madre, mia madre mi
indica Valpreda e mi dice “Vedi quello lì è l’uomo che ha ucciso il papà”.
Io non la contraddico, perché non osavo contraddire mia madre, però vedo una
persona molto spaesata, molto impaurita e dentro di me, avendo già diversi
dubbi, mi dico: ma come mai una persona così, da sola, può aver combinato
tutto quel casino che era successo in Piazza Fontana e nelle altre città? Il
processo a Roma durerà praticamente pochi giorni, verrà spostato subito a
Milano per fortuna.
Noi
come familiari, siamo naturalmente felici che il processo venga spostato a
Milano, perché ci dà la possibilità di assistere senza doverci muovere, perché
nel ’72 andare a Roma erano una decina di ore, non è come oggi che ci sono i
treni ad alta velocità e quindi in tre ore si può arrivare. Quindi quando
viene spostato a Milano siamo ben contenti. Purtroppo a Milano non si aprirà
neanche, perché l’allora Procuratore De Peppo ritiene Milano una città a
rischio di tumulti che possono mettere in pericolo il processo stesso e decide
di spostarlo in una città “piuttosto vicina”, Catanzaro, 1300 chilometri.
Noi allora quando veniamo chiamati a Catanzaro, diverse famiglie, tra cui la
mia, mia mamma e io, non manchiamo mai al processo, perché come detto prima,
per noi il nostro dovere era quello di avere verità, giustizia e non far
dimenticare i nostri morti.
A
Catanzaro il processo finirà nel ’79, un giudice molto coraggioso che si
chiamava Scuderi, prende tutto il faldone degli anarchici, nel frattempo arriva
anche la pista nera di Padova, di Ordine Nuovo, nelle persone di Freda, Ventura,
con la copertura dei Servizi Segreti nel nome di Giannettini. Già nel ’79
vengono tutti condannati all’ergastolo Freda, Ventura e Giannettini e anche il
colonnello di cui raccontava prima Ceretti, prendono due anni e quattro anni sia
Maletti che Labruna e saranno gli unici che saranno condannati perché nelle
fasi successive praticamente vengono assolti tutti e senza farla lunga i
processi saranno tanti. Noi assisteremo, da Catanzaro ci sposteranno a Bari, a
Bari li assolvono tutti, passeremo degli anni bui, degli anni bui dove ci
troviamo, ci facciamo coraggio tra di noi, il 12 dicembre cerchiamo di gridare
in piazza la nostra voglia di avere giustizia e verità, non vendetta, giustizia
e verità. Finalmente agli inizi degli anni 90 come ricordava prima Adolfo
Ceretti, un pentito comincia a parlare, De Giglio e racconta la sua verità,
dice di avere visto la bomba costruita da Ordine Nuovo e finalmente si riapre il
processo, finalmente a Milano e noi familiari non perdiamo un’udienza.
Naturalmente i primi imputati Franco Freda e Giovanni Ventura dal processo
escono e sono stati assolti due volte. Entrano altri imputati Delfo Zorzi, Carlo
Maria Maggi, Rognoni e lo stesso De Giglio.
Il
30 giugno del 2001, era un sabato, mi ricordo come se fosse ieri, eravamo
presenti in Tribunale, io Francesca Dendena e altri familiari, Francesca Dendena
era la nostra presidente storica che è venuta a mancare quattro anni fa
purtroppo, quel giorno quando tutti vengono condannati all’ergastolo i nuovi
imputati, non nascondo che ci siamo messi a piangere, perché pensavamo che
finalmente dopo 30 anni, 32 anni potessimo dire la parola fine a quello che noi
avevamo passato, purtroppo non sarà così. Anche su questo processo, in appello
e poi in Cassazione il 3 maggio del 2005, verrà messa la pietra tombale, per
cui praticamente a Piazza Fontana non è stato nessuno. Da quel processo noi
come associazione potevamo veramente dire basta, siamo stufi, fermiamoci, invece
ci diede la forza, la sentenza che riconosceva i mandanti della strage di Piazza
Fontana e di tutte le bombe di quell’anno a Milano, perché c’erano state le
bombe anche alla stazione, dove non fecero morti ma fecero solo dei feriti,
altre bombe il 25 aprile, comunque furono stati riconosciuti colpevoli i
mandanti Franco Freda e Giovanni Ventura che già nel ’79 erano stati
riconosciuti colpevoli a Catanzaro, però non più processabili perché per due
volte erano stati assolti. Per di più, noi familiari eravamo stati condannati a
pagare le spese processuali, quindi oltre al danno pure la beffa.
Ecco
questa sentenza ci ha dato la forza di portare avanti la verità storica per non
far dimenticare i nostri morti e da quel giorno io e i pochi rimasti ancora
nell’associazione, perché purtroppo gli anni passano e le persone vengono a
mancare, siamo veramente rimasti in pochi, il nostro compito è quello di non
far dimenticare e non abbiamo voglia di vendetta come diceva prima Ornella, non
ci interessa, noi vogliamo andare nelle scuole, nelle università, oggi sono qui
a parlare con voi e questo per me è molto importante anche se molto
emozionante, perché la verità storica su Piazza Fontana esiste e noi lo
raccontiamo nelle scuole perché vogliamo che i ragazzi, che purtroppo non la
studiano, non sanno nulla, sappiano.
Da un recente sondaggio di qualche anno fa chiedendo ai ragazzi, non ai bambini, ai ragazzi di 18-20 anni, a Piazza Fontana chi è stato? La maggior parte dicevano “le Brigate rosse”: a noi familiari che sono state le Brigate rosse o l’Ordine nuovo non ci cambia nulla, mio padre e i genitori delle altre vittime non ce li ridà indietro nessuno però, la verità storica è importante. Noi la vogliamo portare avanti e soprattutto vogliamo portare avanti il nome dei nostri morti perché, i morti delle stragi, adesso entro in un discorso molto difficile però, non ci sono morti di serie A o morti di serie B, però chi ha un nome famoso viene ricordato, chi come i nostri morti, i morti di Brescia, i morti di Bologna o delle altre stragi come l’Italicus sono solo dei numeri, a Piazza Fontana 17, a Piazza della Loggia 8 e così via. Noi ci teniamo molto a ricordarle invece con i nomi e cognomi e lo ricordiamo sempre il 12 dicembre che è il giorno della ricorrenza e il 9 maggio che è il giorno delle morti di tutte le vittime di terrorismo, perché ognuno di loro aveva alle spalle una famiglia, aveva alle spalle dei figli, aveva degli affetti che in questi anni a me sono mancati. Io sono cresciuto senza un padre e non sono di certo il primo e non sono di certo l’ultimo che perde un padre però, a perdere un padre come l’ho perso io è difficile farsene una ragione. Quando hai dei figli, quando ti sposi e capisci che ti manca qualcosa e quindi il mio compito e il compito dell’associazione è quello di non dimenticare e questo lo facciamo tutti gli anni il 12 dicembre ricordando uno a uno i nostri morti e soprattutto lo facciamo tutti gli anni il 12 dicembre facendo un bellissimo concerto, a Milano, quest’anno è già il quinto anno che lo facciamo in memoria dei nostri morti. Ecco noi non vogliamo dimenticare, anche se gli anni sono tanti non vogliamo dimenticare, vogliamo portare la nostra verità storica nelle scuole. Oggi sono qui a parlare con voi e vi ringrazio per avermi ascoltato. Grazie.