Capitolo secondo: La verità che non si raggiunge mai

 

Scriveva Leonardo Sciascia che “il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.

Carlo Arnoldi, che ha perso il padre nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, è impegnato da allora a mantenere viva la memoria di quel periodo storico: “Da quel giorno la mia vita e la vita di tutta la mia famiglia è cambiata. Ci siamo trovati (proprio come aveva fatto mio padre a 15 anni, dopo la morte di suo padre) ad affrontare difficoltà enormi, ma grazie all’abnegazione di mia mamma, che non ringrazierò mai abbastanza, oggi siamo ancora qui a vivere e lottare. Non solo per lui, ma anche per fare avere ai nostri figli e alle future generazioni le verità storiche che i tanti processi non sono riusciti a darci in modo definitivo”.

 

 

 

 

 

È sempre una società malata quella che vuole un colpevole a ogni costo

 

di Ornella Favero

 

Per aprire il capitolo successivo, dedicato alla “verità che non si raggiunge mai”, oggi per me è un momento importante perché è strano che un capitolo, in cui il protagonista sarà una persona che non ha mai conosciuto fino in fondo la verità della strage di Piazza Fontana, io lo introduca con una persona detenuta, Roverto Cobertera, che proclama la sua innocenza.

Ora io vorrei fare una riflessione prima di dargli la parola: di solito le persone della redazione, nel loro percorso con le scuole, partono sempre da un’assunzione di responsabilità rispetto al loro reato. Si ironizza molto spesso sul fatto che i detenuti si sentono tutti innocenti, ma a prescindere dal fatto che il carcere com’è oggi purtroppo trasforma spesso in vittima anche chi non lo è, io non voglio ironizzare su questo, perché certamente ci sono persone che si professano innocenti e non lo sono, però io credo che ci siano anche persone che sono vittime della Giustizia, specie quando succede che si voglia “cercare una verità a tutti i costi” e “avere un colpevole a tutti i costi”. Io ho sentito invece vittime, come Manlio Milani o come Carlo Arnoldi, che non si sono fatte tentare da questa idea di avere un colpevole a tutti i costi, quindi voglio aprire questo capitolo con una persona detenuta che dice di essere innocente. Io non lo so se Roverto è davvero innocente, e non ritengo che sia giusto credere o non credere a lui, fare un atto di fiducia nei suoi confronti, no! Della possibile innocenza di Roverto a me interessano due piccole cose: la prima è che è sempre pericolosa una idea di giustizia dove si vuole uscire da un processo per forza con un colpevole, e questo lo dico a chi fa informazione, perché c’è spesso questo bisogno di sbattere in prima pagina “il mostro”, è sempre una società malata quella che vuole UN colpevole e per averlo passa sopra a ogni dubbio, meglio non averlo un colpevole, che averlo così. La seconda osservazione parte da un incontro che di recente abbiamo fatto con gli studenti, dove c’era una classe un po’ arrabbiata, non tanto con “i delinquenti”, quanto piuttosto con le istituzioni, una classe un po’ anarchica, che ha posto una domanda: ma qualcuno di voi si ritiene innocente? Io ero in difficoltà perché temevo che si arrivasse a discorsi disfattisti sulla Giustizia che non funziona.

Ha risposto Roverto, raccontando la sua storia e proclamando la sua innocenza, e un ragazzo allora è intervenuto e gli ha detto: al posto tuo io spaccherei tutto. E lì c’è stata una cosa che mi ha colpito: Roverto, che è arrabbiato con il mondo, per la prima volta ha sentito che la sua rabbia doveva passare in secondo piano, rispetto a quel ragazzo che rischiava di uscire con questa idea, che nel nostro Paese fa tutto schifo, che la Giustizia fa schifo, e ha deciso di intervenire dicendo: no guarda, io stesso ho capito che bisogna lottare con altri mezzi, che non bisogna farsi travolgere dalla rabbia e non bisogna farlo non tanto per proteggere se stessi, quanto per i propri familiari, per le persone che ci stanno accanto, per loro bisogna cercare la forza di lottare diversamente.

Nel progetto con le scuole, noi dobbiamo sforzarci di avere sempre verso le istituzioni rispetto, e dove non funziona lavorare perché funzionino meglio, ma non innescare un meccanismo di rabbia e basta, ecco perché oggi ho voluto che parlasse Roverto.

 

 

 

 

Sarebbe la migliore delle morti, morire per cercare di far emergere la verità

 

di Roverto Cobertera, Ristretti Orizzonti

 

Mi chiamo Roverto, sono “figlio” del terzo mondo, nato a Santo Domingo ma cresciuto in una grande città dall’altra parte del mondo, New York. Oggi qui si parla della verità e della riconciliazione. La verità è un tema che mi tocca da vicino, mi tocca da vicino perché nel mio caso la verità non è stata appurata, non è stata accertata e mi ha trasformato la vita e mi ha tolto il senso stesso della vita. Anche la riconciliazione, intesa come incontro tra vittima e autore di reato, è una cosa che non sento da vicino perché non ho una vittima, non ho un volto, non ho una famiglia di una vittima a cui dover chiedere scusa, perdono o comprensione. In questo caso la vittima sono io perché mi si è negata la verità, perché hanno tolto a me e alla mia famiglia la voglia di vivere.

Io penso che il più grave difetto della Giustizia italiana per me è stato forse quello di considerare che sono un uomo di colore, e condannarmi in maniera incomprensibile alla pena dell’ergastolo per un omicidio che non ho commesso. È tanta la rabbia e l’amarezza che porto dentro che a volte non riesco a controllarmi, ma grazie alla Redazione di Ristretti Orizzonti e al suo progetto di confronto tra Scuole e Carcere sto cercando di sforzarmi fortemente per cambiare questa rabbia, questa amarezza che ho dentro in qualcosa di positivo per aiutare altri e non deludere le persone che mi stanno vicino in questa tragica vicenda. È vero che sono tanti i detenuti che affermano di essere stati condannati da innocenti, però questo non esclude che come nel mio caso ci siano persone che stanno scontando davvero da innocenti la pena in carcere. Io mai mi sono sottratto alla necessità di assumermi le responsabilità dei miei errori e delle mie mancanze, ma non sono un assassino, non ho mai ucciso nessuno. E accertare questa mia innocenza doveva essere una conseguenza logica dell’aver stabilito la verità in un giusto e trasparente processo, eppure sono stato condannato in via definitiva.

Mi sono dichiarato sempre innocente, innocente perché lo sono. Penso che condannare una persona, o seppellire viva una persona significa avere prove certissime, inconfutabili. Il mio processo è stato un processo approssimativo, e credo che le carte lo dimostrino. Questa mia paradossale storia è dovuta secondo me, ma chi ha voglia di leggersi quelle carte forse se ne convincerebbe, più ad un accanimento di un Pubblico Ministero e della sua capacità di influire pesantemente su giudici, avvocati, agenti e testimoni che alla volontà della ricerca della verità. Non ho santi in paradiso, né soldi per avere gli avvocati di Berlusconi, ma il Dio in cui io credo non è bianco né nero. Sono deciso ad andare avanti in questa mia lotta ponendo in gioco la mia vita, penso che sarebbe la migliore delle morti, morire per cercare di fare emergere la verità. Grazie per avermi ascoltato.

 

 

 

 

 

 

Piazza Fontana, anni di mezze verità, di menzogne, di depistaggi

 

di Adolfo Ceretti

 

Lottare per la verità e la riconciliazione, come hanno saputo fare Nelson Mandela, Desmond Tutu e tutto il popolo sudafricano è un gesto lontano milioni di anni luce da quello che è accaduto e accade in Italia rispetto ai tragici eventi storici che, a partire dal 1969, e per molti anni – parlo naturalmente delle stragi – si sono susseguiti in Italia.

Bene hanno fatto Ornella Favero e la Redazione di Ristretti Orizzonti a intitolare questa sezione del Convegno La verità che non si raggiunge mai, e a usare quale exergo la frase di Leonardo Sciascia: “Il nostro è un Paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.

Per un milanese doc come il sottoscritto evocare Piazza Fontana significa agitare memorie personali – ricordo perfettamente dove ero e cosa stavo facendo quel giorno alle 16.37 – e interfacciarle con questi 45 anni di storia, di mezze verità, di menzogne, di depistaggi.

Per comprendere, in poche battute, quanto sia difficile mettere la parola fine sulla verità storica, processuale, personale di questa vicenda basta riportare alcune frasi pronunciate dal Giudice Guido Salvini il 28 marzo 2012, in occasione dell’uscita del coraggiosissimo film di Marco Tullio Giordana intitolato Romanzo di una strage, che ha interpretato e ripercorso una delle ipotesi che si contendono il primato della verità su quanto accaduto quel 12 dicembre, quando hanno trovato la morte 17 persone, e altre 88 sono state ferite. Salvini, come è noto, è il giudice che ha condotto l’ultima istruttoria in ordine di tempo sulla strage, dal 1989 al 1997. Afferma Salvini: “È … un film che sposa la tesi delle due bombe, quella anarchica a scopo dimostrativo e quella fascista devastante finite sotto lo stesso tavolo. Anche se fosse provato, questo però non cambierebbe la responsabilità della destra nel massacro”.

La tesi della doppia bomba non convince fino in fondo il magistrato, che ha sempre ritenuto i sospetti sull’ex ballerino anarchico Valpreda privi di riscontri. “Però è vero – sostiene ancora Salvini – che la sola gelignite della versione ufficiale forse non avrebbe potuto provocare il disastro che avvenne. E se è vero che si trovò anche un pezzo di miccia, sarebbe uno strano secondo innesco visto che certamente c’era il timer. La verità è che non è stata mai disposta una nuova perizia sull’esplosivo, quando si riaprì l’inchiesta”. Ecco, a quasi 45 anni dalla strage, lo stato della verità! Misteri irrisolti, ipotesi ancora aperte e molti fantasmi che aleggiano dovunque.

Con questa premessa la parola va ora a Carlo Arnoldi, figlio di Giovanni Arnoldi, morto nella strage di Piazza Fontana. Carlo è Presidente dell’Associazione Familiari Vittime di Piazza Fontana e combatte da una vita perché nessuno dimentichi: “Ci interessa comunicare con i ragazzi, che pur avendo strumenti di conoscenza come Internet e Facebook hanno altri interessi. Piazza Fontana non sanno nemmeno che sia esistita. E questo ci fa male. È da anni che il 12 dicembre leggiamo il nome dei nostri morti. E ci rendiamo conto che sono un numero. Però la forza della nostra associazione è di non far dimenticare”.

 

 

 

 

 

La verità che non si raggiunge mai

La verità processuale sulle stragi non è mai stata raggiunta, ma il nostro compito è quello di non far dimenticare, noi non abbiamo voglia di vendetta, non ci interessa, noi vogliamo andare nelle scuole, nelle università a raccontare che la verità storica su Piazza Fontana esiste

 

di Carlo Arnoldi, figlio di Giovanni Arnoldi, morto nella

strage di Piazza Fontana, è Presidente dell’Associazione

Familiari Vittime di Piazza Fontana

 

Il 12 dicembre 1969 era un giorno che poteva cambiare la storia del nostro Paese, per fortuna non sarà così, però sicuramente è un giorno che ha cambiato la mia vita, la vita della mia famiglia e la vita delle altre sedici famiglie, che sono state coinvolte in quel giorno.

Il 12 dicembre ’69 era un venerdì e il venerdì a Milano si svolgeva il mercato degli agricoltori in Piazza Fontana. Era un mercato molto importante e da tutta la provincia di Milano e dintorni, Lodi, Brescia, Pavia, Novara si trovavano per fare le loro contrattazioni. La Banca nazionale dell’Agricoltura era l’unica banca di Milano che teneva aperti gli sportelli anche dopo l’orario consentito. Alle 16:37, come ha ricordato prima Ceretti, scoppia una bomba ad alto potenziale e uccide 17 persone, fra queste anche mio padre. Io allora avevo 15 anni, mia mamma 39 e mia sorella 8 anni. A raccontarlo oggi dopo 45 anni è come fosse riviverlo, come fosse successo ieri. Mio padre, come la maggior parte delle altre persone morte, era un agricoltore di origine bergamasche. Anche lui, casualmente, ha perso il padre come me a 15 anni: stava tornando dai campi quando cadendo dal carro ha trovato la morte in mezzo a un campo purtroppo.

Dopo la morte di suo padre, insieme alle sorelle porta avanti l’azienda e piano piano si avvicina a un mondo che, non riesco ancora oggi a spiegarmi il perché, lui amava. Era il cinema. Lui negli anni, appena dopo la guerra, appena può, quando il tempo glielo permette, scappa in una sala cinematografica per vedere dei film. Il suo desiderio era avere una sala cinematografica tutta per sé.

Negli anni Cinquanta conosce mia madre, si sposa e realizza il suo sogno, si fa liquidare dall’azienda di famiglia e compra il cinema nel paese dove vivo tuttora e si dedica a questo suo amore diciamo.

Questo fin quando nasce mia sorella nel ’61 e fino a quando con l’avvento della televisione gli incassi del cinema cominciano a diminuire per cui per mantenere la famiglia (lui era l’unico sostegno della nostra famiglia) rincomincia di nuovo a fare quello che era il suo vero lavoro, l’agricoltore e il mediatore, e questo lo porta a quel maledetto giorno del venerdì 12 dicembre ’69, ad essere presente anche lui, quasi come se l’avessero chiamato. Mio padre fra l’altro quel giorno non stava molto bene, non doveva andare in Piazza Fontana, aveva disdetto degli appuntamenti perché aveva un po’ di febbre e, una mattina, incontra un agricoltore di Magherno, gli dice “guarda io oggi non vengo in Piazza Fontana perché non sto bene”, ma purtroppo una telefonata cambierà la vita a lui e soprattutto alla nostra famiglia. Verso le ore 14 - 14 e 30, mi racconta mia madre, che un agricoltore di Lodi lo chiama e lo supplica di andare a Milano perché in quel giorno doveva essere presente perché come mediatore doveva fargli vendere la cascina. Mio padre cerca di non andare perché dice che non sta bene, però questo signore lo supplica, mio padre prende la macchina, si avvia verso piazza Fontana e purtroppo arriverà alle 16.30 in piazza Fontana, questo lo testimonia l’agricoltore di Magherno che lo incontra sulla porta della banca, e quando gli chiede se ha visto l’agricoltore di Lodi lui gli dice no, purtroppo entra in banca e non ne uscirà più.

Io quel giorno ero a scuola, perché il venerdì avevo il rientro. Arrivo a casa intorno alle 17 - 17.30, mi nonno paterno, che viveva vicino a noi, verso le 18 corre a casa nostra e dice che il Gazzettino Padano, per radio, parlava di una caldaia che era scoppiata in Piazza Fontana e voleva sapere se mio padre era ritornato.

Naturalmente mio padre, quando andava a Milano, tornava sempre piuttosto tardi. Qualche minuto dopo suona il campanello di casa nostra. Era il medico di famiglia che era stato avvisato dalla questura di Milano, che ci racconta che mio padre purtroppo era tra i feriti. Mia madre in quel periodo non stava molto bene e comincia a pensare male, comincia a piangere. Il medico le dice di stare tranquilla, è tra i feriti. Mia madre allora pensa di chiamare il fratello a Milano e di andare a vedere in Piazza Fontana cos’era successo. Mio zio, che c’è ancora, si reca in Piazza Fontana e vede tutto il casino, cerca di avere informazioni, ma purtroppo non ne ha, allora comincia a girare gli ospedali.

Arriva al FatebeneFratelli che è un ospedale molto grande di Milano e chiede di mio padre e gli dicono che è lì, tra i morti. Lui entra e non lo riconosce esce e dice “no, Giovanni non è qua”, purtroppo lo fanno rientrare e lui lo riconosce da un paio di scarpe perché le avevano comprato insieme poco tempo prima.

Per farvi capire com’era ridotto mio papà. Telefona, rispondo io al telefono e mi comunica che mio padre purtroppo è morto. Quando mia mamma lo sa, si sente male, c’è ancora lì il medico, la rianima. Nel frattempo erano venute tante persone in casa nostra perché il paese era piccolo e la gente cominciava a venirlo a sapere. Un amico di famiglia ci accompagna a Milano, andiamo all’obitorio, ma purtroppo era chiuso.

Ci fermiamo a Milano a casa di mio zio, la mattina dopo andiamo all’obitorio e per la prima volta cominciamo a vedere facce che poi diventeranno comuni, perché sono tutti i familiari delle altre 16 famiglie. Noi siamo Arnoldi, quindi siamo i primi a essere chiamati al riconoscimento. Io, che allora avevo 15 anni, non potevo entrare però riesco a sgattaiolare insieme a una mia zia ed entrare e vedo mio padre in condizioni disastrose. Uscendo abbraccio mia madre e prendo la decisione, oggi mia madre mi ringrazia ancora per quella mia decisione, prendo la decisione di fermarla e di non farla entrare perché le dico “mamma aspetta lo vediamo al giorno dei funerali, oggi è troppo conciato male, tu non stai bene” e lei, piangendo, si siede e mi ascolta.

Torniamo al nostro paese e il giorno dei funerali che è il 15, ritorniamo a Milano. Quel giorno a Milano era quasi in lutto anche il tempo, perché il cielo era plumbeo, alla mattina alle dieci c’erano i lampioni accesi, piovigginava e quasi il cielo voleva piangere anche lui insieme a noi. Purtroppo c’era molto traffico anche, arriviamo in camera mortuaria e, per la faccenda che mio padre si chiama Arnoldi, era stato il primo a essere chiuso e quel giorno mia madre, purtroppo, non lo vede più. Nonostante questo, comunque, ancora oggi mi ringrazia perché lei se lo ricorda bello come l’aveva conosciuto.

Ecco da quel giorno io, ragazzo non impegnato politicamente, comincio a interessarmi, a capire perché, cos’era successo, capire chi poteva essere stato. Fin dai primi giorni le indagini vanno verso gli anarchici di Milano. Il mostro viene trovato quasi subito, naturalmente noi crediamo a quello che dicono i giornali, le televisioni, il Valpreda viene dipinto come il mostro della strage di Piazza Fontana. Faccio un inciso, quel giorno la bomba non ci fu soltanto in Piazza Fontana, c’era un’altra bomba alla Banca Commerciale inesplosa e volutamente fatta esplodere poi nel cortile della stessa Banca per cominciare a depistare; c’erano state altre tre bombe a Roma, due all’altare della Patria e una alla Banca Nazionale del Lavoro, dove fecero dei feriti. Ecco i miei dubbi cominciarono a crescere già dai giorni dopo i funerali, perché la sera stessa purtroppo in questura una persona che era entrata con le sue gambe seguendo il commissario Calabresi, Giuseppe Pinelli, dopo 3 giorni di fermo illegale, ne esce da una finestra. Quindi questo, insieme a tanti libri, specialmente Strage di Stato, che comincio a leggere, cominciano a portare dei dubbi ad un ragazzo di 15 anni che affronta per la prima volta una questione molto più grande di lui. Io mi ricordo il giorno dei funerali, tornando un attimo indietro, che Piazza del Duomo era gremita di gente, si parlava di 300-400.000 persone. Io mi ricordo che quando siamo arrivati in Piazza noi eravamo purtroppo come ho detto prima, per la faccenda del cognome, i primi ad arrivare in Piazza Duomo, c’era talmente silenzio, non c’erano bandiere, non c’erano striscioni, c’era tutta Milano presente, dagli studenti agli operai e impiegati, non c’era nessuno slogan, non c’era niente, c’era un assoluto silenzio al contrario di quello che purtroppo succede oggi ai funerali e mi ricordo benissimo che, mentre accompagnavo la bara di mio padre in Duomo, i nostri passi sul selciato si sentivano proprio distintamente, quindi proprio un silenzio, io ricordo un silenzio rumoroso. Questo per farvi capire che quel giorno probabilmente diede un forte impulso a chi voleva portare paura e probabilmente un colpo di Stato in Italia, ma quel giorno, la città di Milano e l’Italia intera, non lo permise. Io da quel giorno insieme a mia mamma e alle tante mamme che, non tutte però diverse famiglie, cominciarono a trovarsi in quella che non era un’associazione ma era un trovarsi insieme per farsi coraggio, per cercare di capire tra di noi cosa poteva essere successo, naturalmente la maggior parte delle nostre mamme erano convinte che fossero gli anarchici, anche l’avvocato che c’era stato assegnato, l’avvocato Odoardo Ascari allora molto importante perché aveva difeso le vittime della diga del Vaiont, lui era convinto che fossero gli anarchici e che il processo nel giro di pochi anni avrebbe dato ragione, che saremmo arrivati alla verità.

Noi volevamo una verità, la giustizia, e con il passare degli anni soprattutto non dimenticare i nostri morti.

 

La nostra voglia di avere giustizia e verità, non vendetta, giustizia e verità

 

I processi saranno tanti: il primo è a Roma nel ’72 e per la prima volta, io avevo 18 anni, vengo a Roma, non per visitarla, ma per assistere al processo. Per la prima volta vedo Valpreda. Ero seduto vicino a mia madre, mia madre mi indica Valpreda e mi dice “Vedi quello lì è l’uomo che ha ucciso il papà”. Io non la contraddico, perché non osavo contraddire mia madre, però vedo una persona molto spaesata, molto impaurita e dentro di me, avendo già diversi dubbi, mi dico: ma come mai una persona così, da sola, può aver combinato tutto quel casino che era successo in Piazza Fontana e nelle altre città? Il processo a Roma durerà praticamente pochi giorni, verrà spostato subito a Milano per fortuna.

Noi come familiari, siamo naturalmente felici che il processo venga spostato a Milano, perché ci dà la possibilità di assistere senza doverci muovere, perché nel ’72 andare a Roma erano una decina di ore, non è come oggi che ci sono i treni ad alta velocità e quindi in tre ore si può arrivare. Quindi quando viene spostato a Milano siamo ben contenti. Purtroppo a Milano non si aprirà neanche, perché l’allora Procuratore De Peppo ritiene Milano una città a rischio di tumulti che possono mettere in pericolo il processo stesso e decide di spostarlo in una città “piuttosto vicina”, Catanzaro, 1300 chilometri. Noi allora quando veniamo chiamati a Catanzaro, diverse famiglie, tra cui la mia, mia mamma e io, non manchiamo mai al processo, perché come detto prima, per noi il nostro dovere era quello di avere verità, giustizia e non far dimenticare i nostri morti.

A Catanzaro il processo finirà nel ’79, un giudice molto coraggioso che si chiamava Scuderi, prende tutto il faldone degli anarchici, nel frattempo arriva anche la pista nera di Padova, di Ordine Nuovo, nelle persone di Freda, Ventura, con la copertura dei Servizi Segreti nel nome di Giannettini. Già nel ’79 vengono tutti condannati all’ergastolo Freda, Ventura e Giannettini e anche il colonnello di cui raccontava prima Ceretti, prendono due anni e quattro anni sia Maletti che Labruna e saranno gli unici che saranno condannati perché nelle fasi successive praticamente vengono assolti tutti e senza farla lunga i processi saranno tanti. Noi assisteremo, da Catanzaro ci sposteranno a Bari, a Bari li assolvono tutti, passeremo degli anni bui, degli anni bui dove ci troviamo, ci facciamo coraggio tra di noi, il 12 dicembre cerchiamo di gridare in piazza la nostra voglia di avere giustizia e verità, non vendetta, giustizia e verità. Finalmente agli inizi degli anni 90 come ricordava prima Adolfo Ceretti, un pentito comincia a parlare, De Giglio e racconta la sua verità, dice di avere visto la bomba costruita da Ordine Nuovo e finalmente si riapre il processo, finalmente a Milano e noi familiari non perdiamo un’udienza. Naturalmente i primi imputati Franco Freda e Giovanni Ventura dal processo escono e sono stati assolti due volte. Entrano altri imputati Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Rognoni e lo stesso De Giglio.

Il 30 giugno del 2001, era un sabato, mi ricordo come se fosse ieri, eravamo presenti in Tribunale, io Francesca Dendena e altri familiari, Francesca Dendena era la nostra presidente storica che è venuta a mancare quattro anni fa purtroppo, quel giorno quando tutti vengono condannati all’ergastolo i nuovi imputati, non nascondo che ci siamo messi a piangere, perché pensavamo che finalmente dopo 30 anni, 32 anni potessimo dire la parola fine a quello che noi avevamo passato, purtroppo non sarà così. Anche su questo processo, in appello e poi in Cassazione il 3 maggio del 2005, verrà messa la pietra tombale, per cui praticamente a Piazza Fontana non è stato nessuno. Da quel processo noi come associazione potevamo veramente dire basta, siamo stufi, fermiamoci, invece ci diede la forza, la sentenza che riconosceva i mandanti della strage di Piazza Fontana e di tutte le bombe di quell’anno a Milano, perché c’erano state le bombe anche alla stazione, dove non fecero morti ma fecero solo dei feriti, altre bombe il 25 aprile, comunque furono stati riconosciuti colpevoli i mandanti Franco Freda e Giovanni Ventura che già nel ’79 erano stati riconosciuti colpevoli a Catanzaro, però non più processabili perché per due volte erano stati assolti. Per di più, noi familiari eravamo stati condannati a pagare le spese processuali, quindi oltre al danno pure la beffa.

Ecco questa sentenza ci ha dato la forza di portare avanti la verità storica per non far dimenticare i nostri morti e da quel giorno io e i pochi rimasti ancora nell’associazione, perché purtroppo gli anni passano e le persone vengono a mancare, siamo veramente rimasti in pochi, il nostro compito è quello di non far dimenticare e non abbiamo voglia di vendetta come diceva prima Ornella, non ci interessa, noi vogliamo andare nelle scuole, nelle università, oggi sono qui a parlare con voi e questo per me è molto importante anche se molto emozionante, perché la verità storica su Piazza Fontana esiste e noi lo raccontiamo nelle scuole perché vogliamo che i ragazzi, che purtroppo non la studiano, non sanno nulla, sappiano.

Da un recente sondaggio di qualche anno fa chiedendo ai ragazzi, non ai bambini, ai ragazzi di 18-20 anni, a Piazza Fontana chi è stato? La maggior parte dicevano “le Brigate rosse”: a noi familiari che sono state le Brigate rosse o l’Ordine nuovo non ci cambia nulla, mio padre e i genitori delle altre vittime non ce li ridà indietro nessuno però, la verità storica è importante. Noi la vogliamo portare avanti e soprattutto vogliamo portare avanti il nome dei nostri morti perché, i morti delle stragi, adesso entro in un discorso molto difficile però, non ci sono morti di serie A o morti di serie B, però chi ha un nome famoso viene ricordato, chi come i nostri morti, i morti di Brescia, i morti di Bologna o delle altre stragi come l’Italicus sono solo dei numeri, a Piazza Fontana 17, a Piazza della Loggia 8 e così via. Noi ci teniamo molto a ricordarle invece con i nomi e cognomi e lo ricordiamo sempre il 12 dicembre che è il giorno della ricorrenza e il 9 maggio che è il giorno delle morti di tutte le vittime di terrorismo, perché ognuno di loro aveva alle spalle una famiglia, aveva alle spalle dei figli, aveva degli affetti che in questi anni a me sono mancati. Io sono cresciuto senza un padre e non sono di certo il primo e non sono di certo l’ultimo che perde un padre però, a perdere un padre come l’ho perso io è difficile farsene una ragione. Quando hai dei figli, quando ti sposi e capisci che ti manca qualcosa e quindi il mio compito e il compito dell’associazione è quello di non dimenticare e questo lo facciamo tutti gli anni il 12 dicembre ricordando uno a uno i nostri morti e soprattutto lo facciamo tutti gli anni il 12 dicembre facendo un bellissimo concerto, a Milano, quest’anno è già il quinto anno che lo facciamo in memoria dei nostri morti. Ecco noi non vogliamo dimenticare, anche se gli anni sono tanti non vogliamo dimenticare, vogliamo portare la nostra verità storica nelle scuole. Oggi sono qui a parlare con voi e vi ringrazio per avermi ascoltato. Grazie.