Capitolo
quarto: Quanto costa guardare in faccia la sofferenza
Il
carcere è pieno di persone che hanno ucciso, e molte di loro però non si sono
nemmeno mai confrontate con quello che significa un lutto per una morte che non
ha niente di naturale come l’omicidio. Quando è venuta in redazione Benedetta
Tobagi, in un percorso di confronto tra autori di reato e vittime, tanti si sono
meravigliati che, dopo più di trent’anni, lei piangesse ancora parlando del
padre ucciso. In carcere allora si deve parlare di più del lutto, e la
responsabilizzazione delle persone, e quindi la “riconciliazione” con la
società passa anche da questo. Affrontare il tema del lutto traumatico forse può
aiutare anche chi è autore di atti violenti a confrontarsi con la sofferenza
causata ai sopravvissuti.
Il
carcere crea innocenza e il colpevole lo trasforma in vittima
di
Qamar Abbas,
Ristretti Orizzonti
Sono
entrato in carcere quasi sei anni fa, e non sapevo niente di questo luogo, io
vivevo con la mia famiglia in questo Paese in modo del tutto regolare. Quando ho
commesso il reato, cioè un omicidio in occasione di una rissa, io ho pensato
solo di andarmene dall’Italia e di farla franca, però i miei genitori mi
hanno fermato. Mi sono costituito per “pagare il mio debito”, ma la
riflessione vera sulla sofferenza che ho provocato è venuta molto dopo.
Io
ritengo che per avere il diritto
di pensare alla riconciliazione, bisogna partire dalla propria responsabilità
del male fatto.
Quello
che il carcere al giorno d’oggi non ti permette di fare, se rimani chiuso in
una cella di tre metri per tre, 22 ore al giorno; in quelle condizioni nessun
detenuto parla criticamente del proprio reato, anzi al contrario, sono tante le
persone detenute che cominciano a sentirsi vittime del sistema carcerario.
Anche
per me l’impatto con il carcere è stato molto duro: senza far niente dalla
mattina alla sera ero solo arrabbiato, mai pensavo al male fatto, riuscivo solo
a incattivirmi verso le istituzioni, non sentivo alcun senso di colpa, però
quando sono arrivato qui a Padova ho avuto l’opportunità di frequentare la
redazione di Ristretti Orizzonti, e aderire al progetto di confronto tra le
Scuole e il Carcere, dove dialoghiamo con gli studenti e con altre persone
esperte in materia, per esempio con un mediatore penale. Ascoltando i loro
ragionamenti ho cominciato a pormi delle domande, perché non mi sentivo tanto
colpevole del mio reato, e mi giustificavo con il fatto che mi ero solo difeso,
e pensavo “Pago la mia condanna e poi sarò libero”. Quando ho cominciato a
partecipare agli incontri con le scuole, all’inizio non ritenevo di poter
raccontare la mia storia, perché pensavo: “Non riesco a raccontare il mio
reato, sento che è troppo brutto, e poi i ragazzi mi considereranno solo un
ASSASSINO”.
Ma
pian piano sono stato coinvolto, per un semplice motivo, che ho pensato che
magari raccontando la mia esperienza agli studenti loro possono percepire dove
io ho sbagliato e forse fermarsi se qualche loro comportamento è a rischio.
Questo percorso mi è servito molto, ho avuto una grande crescita interiore
confrontandomi con questa piccola parte della società, che ti mette davanti
alla tua responsabilità, facendo delle domande molto profonde, e adesso sto
cercando di capire come si poteva evitare quella rissa. Ho causato la morte di
una persona, e il reato di omicidio è un reato che ti rimane dentro come una
piaga per tutta la vita, non esiste la parola ex assassino, come ex ladro o
tossicodipendente, si vive ogni istante questo lutto. Soprattutto quando io
racconto ai ragazzi la mia storia mi passano ogni volta le immagini davanti agli
occhi, oggi capisco di avere creato un lutto che non ha niente di
“naturale”, che non può chiudersi in fretta dentro alla famiglia di quel
ragazzo. Ma in un certo senso anche avere un figlio che ha ucciso è stato
vissuto come un lutto dentro la mia famiglia, che per anni è condannata a
soffrire, e sono io che ho creato la loro condanna. Se rimanevo nelle condizioni
iniziali, in quel tipo di carcere passivo dove ero stato portato, sarei uscito
peggio di prima. Ecco cosa comporta una cattiva punizione.
Però
adesso apro una parentesi, dopo aver commesso il reato mi sono costituito, oggi
sto pagando con lunghi anni di carcerazione, ma una volta finita la mia condanna
non so che fine farò, perché nella sentenza c’è scritto che alla fine della
pena sarò espulso dal territorio italiano. Questo mi fa pensare molto, perché
sono arrivato in Italia da bambino, sono cresciuto qui fino a 22 anni di età,
prima di entrare in galera, ho tutta la famiglia qui che sta facendo una vita
regolare. Se io dopo la carcerazione verrò espulso nel mio Paese, penso che sarò
più straniero là che in Italia. Va bene, ho sbagliato e sto pagando, ma perché
questa decisione dello Stato italiano di cacciarmi alla fine della pena? E
questo non vuol dire che io non voglio tornare nel mio Paese, forse lo farei
come prima cosa appena uscito dal carcere, però con i miei mezzi, come mia
scelta, come mia volontà, e non perché costretto.
Ma
quali sono le domande “graffianti” degli studenti?
Se
il reato che avete commesso fosse successo a un vostro famigliare, come vi
comportereste con le persone che lo hanno commesso? Avete mai pensato
all’angoscia delle vittime dei vostri reati? Quando uscite non pensate a come
si sente quel figlio a cui avete ucciso un genitore? Come si può convivere con
il pensiero di avere ucciso qualcuno? Possibile che non ci sia stata la
consapevolezza della gravità di quell’atto e la possibilità di fermarsi
prima? Siete riusciti a perdonarvi? Chi ha commesso un reato di sangue come si
sente ad avere dei progetti, dei desideri, ad aprirsi di nuovo alla vita?
Quanto
durano la sofferenza e la paura provocate da un atto violento?
di
Adolfo Ceretti
Quanto
costa guardare in faccia la sofferenza? Questa domanda è incapace di ricevere
una risposta significante.
Durante
gli incontri alla Redazione di Ristretti Orizzonti abbiamo discusso sulla
durata, nel corso del tempo, della sofferenza e della paura provocate da
un atto violento nella vita della vittima.
Quello
su cui si dibatte, aiutando ciascuno a implementare un’autoriflessione, è
quello di cui Qamar si è dichiarato molto orgoglioso. Ornella, in particolar
modo, ha tematizzato da molti anni, ascoltando prolungatamente chi ha inflitto
un gesto distruttivo, che il tempo del dolore provocato nell’altro/a –
faccio riferimento alla sofferenza psichica inflitta, ovviamente – sia
percepito dal perpetratore come un dolore che ha la stessa durata della
propria azione criminosa.
Per
portare un esempio, tenere una persona per mezz’ora sotto il tiro di una
pistola al fine di ottenere informazioni sulla combinazione di una cassaforte
raramente è vissuto dal suo autore come un’azione capace di lacerare
un’esistenza, ma piuttosto come un male che ha una dimensione temporale
circoscritta alla propria azione criminosa.
Il
carcere è pieno di persone che hanno tenuto condotte aggressive, ma molte di
loro non si sono mai trovate a doversi confrontare con il significato della
parola trauma o con il lutto che i parenti delle vittime devono intraprendere
per la morte del loro congiunto.
Il
filo di questi ragionamenti sarà ripreso dalle parole del Professor Diego De
Leo, Full Professor di psichiatria alla Griffith University, in
Australia. De Leo, dopo aver perso due figli in un tragico incidente
automobilistico, ha dedicato la sua esistenza ad aiutare a elaborare i loro
lutti coloro che sono sopravvissuti a eventi traumatici. Insieme ad altri tre
psichiatri, che a loro volta hanno perso i loro figli, ha scritto il libro Lutto
traumatico. L’aiuto ai sopravvissuti. Scrive De Leo: “Chi ha
subito un grave lutto non ha voglia di sentirsi dire sciocchezze, né luoghi
comuni, non può sopportare atteggiamenti pietistici o affettati. La credibilità,
la sincerità fanno la differenza”.
Ascoltandolo
parlare del lutto traumatico la sfida è aiutare anche chi è autore di atti
violenti a confrontarsi con la sofferenza causata ai sopravvissuti.
La
morte assume caratteri d’insopportabilità se avviene in modo traumatico
E
infatti la prima reazione di chi sopravvive e di chi apprende della morte è
quella dello shock, dell’incredulità, dell’incapacità di ritenere che
questo sia realmente avvenuto
di
Diego De Leo, Professore
Ordinario di Psichiatrialla Griffith University, Australia,
dopo
che ha perso due figli in un tragico schianto in auto, ha dedicato la sua
esistenza
a
sostenere i sopravvissuti ai lutti traumatici. È autore del libro Lutto
traumatico.
L’aiuto
ai sopravvissuti, realizzato con altri tre psichiatri, che a loro volta hanno
perso i figli
Chi
mi ha preceduto, molte delle persone che sono qui presenti oggi, comprese le
persone che sono forzate a essere presenti, ha già introdotto alcune delle
caratteristiche più importanti di una fine prematura, di una morte inferta
oppure auto-inferta. In realtà io da sempre mi dedico a due situazioni
intimamente legate. Sono uno psichiatra, mi sono sempre occupato di depressione,
mi sono sempre occupato di suicidio; sono stato a Padova a lungo prima di andare
in altri Stati e negli ultimi sedici anni in Australia.
Da
sempre ho avuto abbastanza chiara la distinzione tra una perdita legata a cause
naturali e quella dovuta a morte violenta. Le malattie, in particolare quelle
devastanti, improvvise, come il cancro, sono quelle che in qualche modo ci hanno
insegnato come abitualmente si reagisce alla morte.
L’hanno
fatto soprattutto attraverso gli occhi e il modo di intendere di Elizabeth Kübler
Ross, che per prima ci ha descritto le varie fasi che si succedono alla morte di
una persona cara quando questa è stata colpita da cancro. Le discipline
scientifiche che si occupano di questa materia sono relativamente recenti: non
sono passate forse più di 4-5 decadi da quando abbiamo iniziato a occuparci di
questi aspetti con un po’ di metodo, da quando stiamo prestando attenzione in
modo sistematizzato alle conseguenze della morte.
È
doloroso subire un lutto dovuto a una malattia che accorcia la vita, che lascia
le persone a soffrire, attonite e arrabbiate, per la scomparsa prematura della
persona amata. Ma la morte assume caratteri di particolare insopportabilità
quando avviene in modo traumatico e violento, quando è inaspettata, quando è
dovuta – nel linguaggio asciutto dei demografi - a una causa ‘esterna’
come gli omicidi, i suicidi, i disastri naturali, gli incidenti stradali. Quando
una persona viene a mancare senza permettere alcuna forma di preparazione, senza
alcun avvertimento, senza informazioni precedenti, senza quindi che ci si
potesse preoccupare in anticipo, nel senso anche di pre-allarmarci, ebbene in
tutte queste situazioni ci si ritrova completamente spiazzati. Infatti, la prima
reazione di chi apprende della morte ed è costretto a sopravvivervi è quella
dello shock, dell’incredulità, dell’incapacità di ritenere che quanto
appreso sia realmente avvenuto; reazione spesso accompagnata anche dalla
fantasia che ciò non sia vero, che sia un brutto sogno, che tutto ritornerà
presto come prima, che le persone verranno a scuoterti e a dirti “guarda che
era uno scherzo, guarda che era un brutto sogno, sei stato male per un po’ ma
adesso tutto torna a posto, stai tranquillo”.
E
invece le cose non tornano come prima, non è un brutto sogno, nessuno tornerà
a casa, nessuno ribusserà alla porta, nessuno sarà nel letto come ogni notte o
a tavola come ogni sabato a mezzogiorno, quando si riuniva tutta la famiglia.
Quindi allo shock e all’incredulità segue poi una reazione di sgomento su cui
s’innesta presto un’emozione, molto violenta, molto pesante, che si chiama
rabbia, e che ti fa sentire la vittima innocente di qualche cosa che non ti
meritavi, e che invece ti rende assolutamente unico, il più disgraziato tra gli
uomini, una persona che di certo non ha colpa per quello che è accaduto, una
persona che quindi subisce una sorta di pena capitale, anzi una condanna a vita
nel senso che il soggetto sarà costretto a sopportare per il resto
dell’esistenza le conseguenze di quella morte; insomma, un vero e proprio
ergastolo delle emozioni.
Se
depressione, ansia, inquietudine, disperazione, perdita di senso sono gli
effetti più comuni di natura psicologica, non mancano di certo conseguenze di
natura cognitiva e fisica: le persone non si sentono bene fisicamente, non hanno
energia, non dormono più, non si concentrano, non hanno l’equilibrio che
avevano prima, non ricordano le cose, non si prendono cura di sé, vivono in una
sorta di bolla di irrealtà che assolutamente non si sentono in grado di poter
fronteggiare, quindi in qualche modo chiedono e vorrebbero ottenere un aiuto
capace in qualche modo di pacificare almeno alcune delle tensioni, delle
sofferenze, delle drammatiche mancanze che l’evento ha comportato. Segue poi
un’altra fase, abbastanza incredibile nei suoi risvolti quasi magici, una fase
di patteggiamenti con l’Altissimo o con il Destino: se la morte si potesse
annullare e il morto potesse ritornare, io farei questo e quell’altro, mi
impegnerei a cambiare completamente le cose, mi impegnerei a cambiare vita,
diventerei un’altra persona, sarei capace di cose straordinarie…
“Se
io potessi solo avere un breve contatto con la persona che mi è mancata,
incontrarlo di notte, anche solo nel corso di un sogno, se io potessi
abbracciare ancora questa persona, avere la possibilità di un contatto fisico
con lei, di nuovo poterne sentire l’odore, il calore, la sua presenza, ah, non
so che cosa darei!”. E di fatto molte persone raccontano, me compreso, di
situazioni che con una parola tecnicamente appropriata, ma nella realtà forse
poco convincente, si definiscono “parapsicologiche”: percepiscono, avvertono
qualcosa, che purtroppo non può esistere, che non ha fondamento scientifico ma
che si fa presente sotto forma di ‘contatti’, di odori, di sensazioni che
rimandano alla persona scomparsa. A volte tali sensazioni trascendono queste
manifestazioni e acquisiscono una dimensione onirica o simbolica, che ci spinge
a interpretare magari il volo di uccelli o certe concatenazioni di eventi come
forme di comunicazioni con l’aldilà, dove si trova la persona che si è
perduta.
In
altre occasioni la ‘prova’ dell’esistenza di una comunicazione con la
persona deceduta è costituita da un sasso a forma di cuore trovato per caso
oppure dall’incontro con una certa persona che non si vedeva da tempo…
Insomma, c’è un bisogno enorme di ottenere un segno della presenza benevola
nell’aldilà del caro estinto, con l’implicita promessa di ricongiungimento
futuro.
Io
non mi sento veramente d’accordo con chi parla di “accettazione”
E
poi c’è la fase che alcuni autori (che forse non hanno subito lutti veramente
importanti) definiscono come la fase dell’accettazione, la fase in cui si
continua nella vit in qualche modo, in cui finalmente si ricostruisce un nuovo
futuro.
In
realtà, come già vi ha detto uno dei relatori precedenti, Carlo Arnoldi, per
chi ha subito un lutto inaspettato e violento, la tragedia perde la sua reale
collocazione nel tempo ed è come se fosse capitata il giorno prima, e questo
anche a distanza di molti anni dall’evento. Io non mi sento veramente
d’accordo con chi parla di “accettazione”; non credo che questo tipo di
tragedie personali si possa veramente accettare. Si tratta piuttosto di una
sorta di registrazione, di consapevolezza che il fatto è realmente avvenuto ed
io non posso farci niente, se non struggermi nel mio dolore. Questa non è
propriamente ‘accettazione’; al contrario, io schiumo rabbia e risentimento
contro Dio e gli uomini, contro il destino che mi ha reso orfano della persona
amata.
I
miei figli sono morti nel 2005, era il 5 aprile; se ne sono andati entrambi in
un istante in un’auto guidata da un loro amico, morto anch’egli. Non ho
altri figli; mia moglie è qui in sala oggi. Avevano 17 e 18 anni, erano
chiaramente tutta la nostra vita; erano il nostro significato per la vita, perché
non c’è niente di più immediato, semplice, naturale che il dare un senso ai
nostri affanni quotidiani sapendo che lo facciamo per i nostri figli, per il
loro futuro. Facciamo parte di un universo la cui vastità ci è del tutto
incomprensibile; abitiamo un pianeta chiamato Terra che ruota attorno al suo
asse e poi intorno al sole: ci accorgiamo molto poco di questo, e di certo non
comprendiamo molto bene il significato della nostra esistenza. Sappiamo però
che nella nostra piccola vita di individui di sicuro un senso lo danno i figli
che ci crescono intorno; noi li aiutiamo a formarsi, a essere pronti a superare
le difficoltà, e facciamo del nostro meglio per rendere la loro vita magari
migliore della nostra stessa vita, e quindi cerchiamo di procurare loro il
miglior futuro possibile. Ecco, questo aiuta a vivere le persone, questo da’
loro un significato. E spesso si è così presi dal nostro compito di genitori
che tutte le grandi tematiche esistenziali rimangono disattese, non c’è tempo
per loro perché i figli vengono prima, hanno la priorità assoluta. Ma quando i
figli ti vengono strappati, portati via, quando non ci sono più, non c’è più
neanche la tua identità, non c’è più un senso in questa vita e quindi
diventa davvero difficile, se non impossibile, poter ‘accettare’ quanto è
successo. Quindi quello che è accaduto lo patisci, lo soffri, e lo soffrirai
per sempre, magari con atteggiamenti diversi, in modi diversi, disperatamente
cercando di trovare un po’ di significato nella vita che ti resta. Ti sarà
difficile portare un piede avanti all’altro giorno dopo giorno; ti sembrerà
assurdo continuare a fare quello che facevi prima; ti risulterà facilissimo
lasciare spazio ai sentimenti di avvilimento, abbattimento, annichilimento e
disperazione.
A
me come a molte altre persone è capitato di cercare di trasformare questa
sofferenza in qualche cosa di utile, porgendo aiuto ad altri. Devo però dire
che né io né mia moglie abbiamo mosso un dito per anni. Sono stati alcuni miei
colleghi statunitensi a voler creare una fondazione all’estero che si
occupasse di quello di cui mi sono occupato io per tutta la vita, e cioè di
strategie di prevenzione del suicidio. Quando è accaduta la nostra tragedia io
avevo da poco finito il mio mandato di presidente dell’Associazione
Internazionale per la Prevenzione del Suicidio. Poi le persone più vicine a
noi, i nostri amici di sempre, decisero che siccome i nostri ragazzi erano morti
qui in Italia e Padova era la loro città, doveva essere creata anche una Onlus
che si occupasse di aiutare le persone disgraziate come noi, e di fatto questo
oggi facciamo. E lo facciamo già da qualche anno; cerchiamo di far sentire le
persone che hanno subito un lutto traumatico meno sole, facciamo sapere loro che
noi possiamo comprenderle perché l’abbiamo vissuto anche noi. E di fatto
questa è una delle cose più importanti del lutto. Chi non ha subito un lutto
non può veramente capire di che cosa si tratti, anche qualora la morte sia
sopraggiunta per causa naturale come per malattia, oppure un infarto, un tumore,
ecc. In questi casi, chi sopravvive alla persona scomparsa ha avuto generalmente
qualche avvisaglia dell’evoluzione fatale del disturbo e, quindi, qualche
tempo per la preparazione.
Una
sofferenza che purtroppo non ha data di scadenza
Le
cause violente e improvvise (le cause esterne di cui parlavo prima) non danno
questo tipo di segnali anticipatori, e tutto quello che ne deriva sul piano
esistenziale e psicologico è qualche cosa di veramente difficile da capire;
quindi solo le persone che hanno avuto lo stesso tipo di esperienza
precedentemente possono riuscire a stabilire un contatto efficace con te. Questo
è importante a ogni livello. Prima della perdita dei miei figli mi capitava di
provare a dare aiuto a persone che avevano subito un lutto. Magari avevo
competenza tecnica, avevo esperienza di persone diverse, ma non potevo avere la
credibilità di chi ha vissuto emozionalmente, sulle proprie spalle,
l’esperienza del lutto. Infatti, le persone spesso mi dicevano: ma lei pensa
davvero di potermi capire? Oppure, lei non sa che cosa vuol dire aver perso
all’improvviso una persona cara perché non l’ha mai provato, lei è uno
contento, felice, ha tutto dalla vita. È quando si è a contatto con una
persona che ha avuto un lutto e contemporaneamente si è una persona che ha
subito un lutto che si può stabilire una vera comunicazione. Una delle attività
che svolgiamo alla nostra fondazione è di mettere insieme queste persone, di
aiutarle ad aiutarsi in gruppo. Il gruppo è molto importante proprio perché
permette di rendersi conto, e di toccare di persona che non si è gli unici al
mondo, che non si è soli, che altre persone hanno avuto lo stesso tipo di
esperienza drammatica. All’inizio si partecipa con riluttanza, con difficoltà,
perché si pensa che possa essere molto difficile cominciare a entrare
nell’ingranaggio del gruppo; però c’è la curiosità di vedere che cosa
hanno fatto gli altri, che cosa si sono inventati per continuare a vivere, che
cosa si portano dietro, che cosa può essere utile appunto per dare di nuovo un
po’ d’interesse alla vita. Devo dire che queste attività di gruppo
funzionano bene, danno un grande aiuto, riescono a instillare un po’ di
speranza in persone che si sentivano le più disgraziate, le più reiette, le più
sfortunate, le più ingiustamente condannate a una sofferenza che purtroppo non
ha data di scadenza, non c’è una fine.
Il
lutto non ha un termine, se non quello socialmente ritualizzato dalla cultura di
appartenenza: un anno nella nostra cultura, tre anni per gli Ortodossi, sette
anni nella tradizione cinese.... Ci sono dunque degli spazi temporali che
appartengono alle diverse tradizioni per contrassegnare quanto una persona
meriti rispetto e attenzione a causa del lutto subito, ma poi all’interno di
se stessi i riti non esistono, all’interno di sé esiste una sofferenza che
non accetta tempistiche predesignate, ma che invece rappresenta una piaga che
non cicatrizza mai completamente, che ti farà sempre un po’ soffrire.
Magari a questa piaga un po’ ci si abitua, come si impara a convivere con una zoppia o qualche altra imperfezione o lesione fisica. Però questo non implica, come dicevo prima, la completa accettazione di quello che è avvenuto, ma solo che si accetta di andare avanti. Di continuare. Vi ringrazio per l’attenzione.