Capitolo
terzo: È possibile uscire dalla
violenza senza infliggere ai violenti la “cura Ludovico”?
“È
preferibile un mondo di Violenza scelta come atto volontario a un mondo
condizionato, programmato “dall’alto” per essere buono o inoffensivo”,
scrive Anthony Burgess, autore del romanzo “Arancia meccanica” da cui è
stato tratto l’omonimo film. Un film sulla Violenza, quella orrenda e spietata
di Alex, il giovane criminale protagonista, ma anche quella di uno Stato che per
curare applica la terapia del “disgusto per la Violenza”, legando il
ragazzo, con gli occhi forzatamente sbarrati davanti ad immagini cruente, e
iniettandogli una sostanza dolorifica che gli torce lo stomaco. È la “cura
Ludovico”, così chiamata perché rende ad Alex insopportabile, oltre alla
Violenza, anche la Nona sinfonia di Beethoven, da lui tanto amata, in quanto la
utilizza per accompagnare le orribili immagini a cui il ragazzo è costretto ad
assistere.
Ma
non possiamo almeno sperare che la violenza si possa “scardinare” senza che
lo Stato usi altrettanta crudeltà nella sua risposta?
Adolfo
Ceretti introduce
Marina Valcarenghi
Che
cosa pensano di se stessi i pedofili, gli stupratori? Quali sono le loro storie
e come sono diventati sessualmente violenti? A questo tema Marina Valcarenghi,
psicoanalista, ha dedicato gran parte della sua vita. Marina è laureata in
giurisprudenza ma poi ha fatto un percorso lontanissimo dal suo titolo di
studio, nel senso che ha compiuto un percorso di formazione in psicologia
analitica a Milano e a Zurigo, e si è accostata all’indirizzo junghiano. Ha
scritto numerosi volumi tra i quali voglio citare Ho paura di me. Il
comportamento sessuale violento, basato sull’attività sperimentale di
psicoterapia che Marina Valcarenghi ha promosso, tra il 1994 e il 2002,
all’interno del reparto di isolamento maschile del carcere di Opera, dirigendo
il suo intervento verso i condannati per violenza sessuale.
Nessuno
si senta fuori dal male, nessuno pensi di non fare il male
di
Marina Valcarenghi, psicoterapeuta
e psicoanalista,
è
docente di Psicologia clinica e presidente dell’associazione VIOLA
per
lo studio e la psicoterapia della violenza. Tra le sue pubblicazioni,
“Ho
paura di me”, frutto di un’esperienza di nove anni in cui ha guidato
un
gruppo sperimentale di psicoterapia presso il reparto di isolamento del carcere
di Opera
Grazie
di avermi voluta qui. E quindi ringrazio tutta l’organizzazione di questo
evento. Sono contenta di essere qui oggi. E rivolgo un saluto a tutti voi
che siete presenti. In particolare voglio esprimere un saluto molto affettuoso a
tutti quelli che stanno scontando una pena. Il titolo della Giornata è
“Il male che si nasconde dentro di noi”. Va bene, parliamone. Ma per poter
parlare di qualche cosa bisognerebbe sapere che cos’è. Che cos’è il male?
Non è facile definire il male come si definisce, una volta per sempre, che ne
so, un cocomero, una nave o il teorema di Pitagora. Il male è sfuggente. Si
pensa che la prepotenza, l’avarizia, l’ingiustizia, la vigliaccheria,
l’egoismo, siano sempre male, siano in ogni caso male. Queste cattive qualità
però non sono valutate allo stesso modo nel tempo e nello spazio. Non
sono valutate nello stesso modo neanche da persona a persona. Per esempio,
l’idea di violenza di Attila e la vostra, immagino che non sia molto uguale,
molto simile, no? L’idea di vigliaccheria di un vecchio soldato prussiano e di
un giovane obiettore di coscienza spagnolo, o di un pacifista, sono diverse. E
allora, chi è vigliacco? Chi è egoista? Chi è violento? Il male cambia forma,
nel tempo. Tuttavia si dice, da parte di molti, che ci sono dei valori
irrinunciabili, degli argomenti su cui non c’è discussione possibile,
qualcosa che è un preteso diritto naturale al quale ci si sottomette da sempre
in modo universale. È stato sostenuto da Antigone nella tragedia di Sofocle. È
stato ripetuto, in seguito, da molti, nel corso del tempo, partendo da Hegel,
per arrivare fino a Claudio Magris, con meno rischio di Antigone, indubbiamente.
Ma, se andiamo a guardare bene, neanche questi pretesi valori universali, così
universali non sono. Facciamo un esempio, un esempio che fa Magris, quindi lo
riprendo: il rispetto dell’infanzia. Il rispetto dell’infanzia ha valore
universale? In che senso? In Europa la pedofilia è un tabù. Ma una ricerca
dell’ONU ci dice che sono 60.000.000, attualmente, le bambine tra gli 8 e i 14
anni che sono sposate nel mondo. Allora? Senza contare, ovviamente, quelle che
non sono sposate. E allora chi ha ragione? Chi fa l’arbitro? Chi decide chi
sta dalla parte del bene e chi sta dalla parte del male?
Io
questo problema me lo sono sempre posto. E non ho mai trovato una risposta
definitiva, e non posso portarla qui. Pensate, nell’antica Creta, per esempio,
si facevano i sacrifici umani. Io sono stata a Creta. Sono entrata in quelle
grotte. Ho visto, lì dove uccidevano i bambini, o anche le donne, o anche gli
uomini, per propiziarsi la dea della terra e della fecondità. Ho rabbrividito
in quelle caverne. Come tutti. Ma a Creta c’era il tabù della guerra. Che
cosa direbbero delle mattanze delle nostre aviazioni? Non sono sacrifici umani?
Non uccidono bambini, donne, innocenti, civili? Non è semplice. Ma, allora, se
il male è un concetto mutevole e fluttuante, non possiamo che definirlo
così. Per esempio, azzardo una definizione, il male è l’insieme dei
comportamenti che sono considerati intollerabili dalla coscienza collettiva in
una data comunità e in un dato tempo. Ma potreste proporne delle altre voi. Non
è un valore assoluto, in nessun caso io propongo il male come valore assoluto,
ma come un valore relativo. È per quello che è così difficile, è per quello
che tutte le leggi, tutte le civiltà, tutte le culture, dall’orda primitiva
in poi hanno cercato di regolamentare questo confine tra il male e il bene,
proprio perché è così diverso a seconda dei momenti e a seconda dei luoghi.
A
partire da questa definizione provvisoria io sostengo che il male è necessario.
Perché il male è necessario? Facciamo un passo indietro. Noi sappiamo che il
confine, l’idea di confine è un’idea archetipica, è un’idea universale,
quella sì, c’è da sempre. Inizia col bambino piccolo quando stabilisce il
confine tra io e tu, io e il resto del mondo, e poi prosegue. L’idea di
confine ha la funzione di separare gli opposti per poterli descrivere e
comprendere. Allora, io - tu, buio - luce, prima - dopo, indigeno – straniero,
giusto - sbagliato, bene - male, vita - morte. Sono i primi modi in cui si
comincia a conoscere e a fare i conti con una realtà.
Allora
lo vedete già, io penso che il male sia necessario perché se non ci fosse il
male non potremmo sapere che cos’è il bene. Ma questa idea non è mia, questa
idea comincia nella Bibbia con l’episodio di Adamo ed Eva che mangiano il
frutto proibito. Perché è attraverso la trasgressione e quindi attraverso il
male che loro cominciano a fare la differenza, a conoscere il bene e il male,
non a caso l’albero è quello della conoscenza del bene e del male. E quindi
escono dalla condizione animale per sempre per accedere alla condizione umana e
uscire dal paradiso terrestre, altrimenti saremmo ancora nella dimensione
totalmente inconscia del paradiso terrestre, ma non sapremmo chi siamo. Dunque
il male è necessario. Hanno bisogno l’uno dell’altro per essere immaginati,
descritti, accolti o rifiutati.
Ma
il male è necessario anche per un altro motivo, più sgradevole da accettare,
è necessario semplicemente perché c’è, e fa parte della vita di ognuno di
noi, nessuno si senta fuori dal male, nessuno pensi di non fare il male, che lo
sappiamo o no tutti facciamo del male. E questo è uno dei motivi per cui mi ha
sempre interessato nel mio mestiere di occuparmi di quelli che
“ufficialmente” fanno del male. Perché tanto so che lo facciamo tutti. In
questa universalità sta un possibile senso, perché se noi accogliamo il nostro
male invece e cerchiamo di riconoscerlo, cerchiamo di combatterlo, ma sapendo
che non è eliminabile mai del tutto, questo può diventare una formidabile
palestra per la nostra forza morale. Può diventare anche un contributo alla
tolleranza nei confronti del male che fanno gli altri, se lo facciamo anche noi.
Può diventare anche una capacità di provare pietà per noi stessi e per gli
altri.
Il
male non viene riconosciuto e sofferto e allora viene proiettato
Una
delle frasi più geniali che siano state scritte a questo proposito è : “Chi
è senza peccato scagli la prima pietra”. Noi invece assistiamo a una
lapidazione costante da parte di tutti contro tutti. Forse sarebbe il momento di
smetterla. Ma questo succede perché il male non viene riconosciuto e sofferto e
allora viene proiettato. Facciamo un esempio che riguarda qui, che è la
questione del reparto protetti. Io so benissimo che forse la maggioranza qui
dentro pensa che il reparto protetti sia una necessità. Io ritengo che sia un
male. Dunque vedete che anche qui dentro fra di noi in questo caso l’idea del
bene e del male è diversa. Il reparto protetti è un reparto speciale che
sopravvive in quasi tutte le carceri, in Italia, e dove si raccolgono i detenuti
che hanno commesso dei reati che sono considerati particolarmente odiosi e
particolarmente infamanti e particolarmente insopportabili, per cui devono
essere isolati dagli altri detenuti per evitare che ci possano essere screzi,
violenze, aggressioni nei loro confronti. Allora qual è il meccanismo psichico
che c’è alla base di queste sezioni divise dalle altre? Dicevo, quando il
male viene proiettato sugli altri, ecco un esempio è
questo: se io sono colpevole, ma trovo un altro un po’ più colpevole di me,
se io sono cattivo, ma trovo un altro un po’ più cattivo di me, se io mi
sento emarginato, ma io riesco a emarginare qualcuno a mia volta, se mi
disprezzano ma io riesco a disprezzare qualcuno ancora di più, io sto un po’
meglio. Sì? Questo è
quello che c’è al fondo di questa discriminazione. Su questo sbaglio io? Me
lo chiedo tante volte. A me sembra una grande trappola questa, e mi rivolgo
adesso alle persone in prigione, mi sembra una grande trappola in cui voi cadete
perché state facendo quello che fanno contro di voi, state usando gli stessi
sistemi che stanno usando contro di voi, ma che senso ha? Siccome c’è una
mancanza di empatia, che vuol dire saper soffrire insieme, voi non sapete
soffrire insieme a dei vostri compagni di pena, a me questo sembra male.
È
importante riconoscere le nostre ombre nere, perché questo abbatte
verticalmente il delirio di onnipotenza che ci fa credere che possiamo essere
perfetti, non lo ammettiamo mai ma poi in fondo la fantasia è questa. E
incoraggia invece l’accettazione di una realtà che è per sua natura
contraddittoria, noi siamo portatori di bene e di male impastato insieme. C’è
un film di Woody Allen in cui uno scrittore di successo a un certo punto non
riesce più a scrivere. Non riesce più a scrivere perché è un uomo troppo
per bene, perché ha troppo successo, perché tutto fila liscio nella sua
vita, la sua ombra non si vede, i suoi lati negativi non si vedono, e allora non
c’è l’ispirazione. La genialità di Woody Allen è di far vedere che
attraverso un cambiamento nella sua vita in cui lui vive la sua parte cattiva,
la sua parte underground, la sua parte melmosa, pericolosa, violenta,
trasgressiva, ritrova l’ispirazione per scrivere. Ma perché? Perché era
falsa questa parzialità che lui viveva prima, perché non è vero che noi siamo
buoni, e quando ci raccontiamo qualcosa che non è vero manchiamo l’atto
creativo, non è più possibile. Facendo esperienza del suo male e riconoscendo
che dietro il male c’è anche il suo bene, lo scrittore riesce a recuperare
l’energia creativa, riesce a diventare una persona a tutto tondo, una persona
complessa, e quindi più ricca. Il problema non è eliminare il male. Quando
invece il male diventa monopolio degli altri, meglio se diversi, meglio se
stranieri, meglio se in prigione, meglio se lontani, allora cosa succede? Da una
parte il male è proiettato all’esterno, dall’altro è spedito
nell’inconscio, perché il nostro male dove va? Dentro, dove non si vede più,
è davvero nascosto dentro di noi. Ma questo non è solo ingiusto nei confronti
del nostro prossimo, è anche ingiusto nei nostri stessi confronti. Perché?
Perché quello che abbiamo nell’inconscio non muore, rimane lì, e può
emergere in qualunque momento, ma emerge in un altro modo, emerge con la
violenza dei contenuti rimossi, e coi contenuti rimossi noi abbiamo pochi
margini di trattativa, mentre se lo guardiamo, il nostro male, ci possiamo
trattare, se non lo guardiamo quando esplode la coscienza esplode attraverso dei
sintomi, per esempio dei comportamenti inaccettabili, e allora non abbiamo
margini di manovra perché di fronte ai sintomi noi siamo in balia di qualche
cosa che non possiamo controllare.
Mi
è stato chiesto di dire due parole anche sul mio lavoro al carcere. Ebbene sì,
io sono quella che ha portato la psicoanalisi nel carcere. Non lo aveva fatto
nessuno nel nostro paese, non lo sta facendo nessuno salvo noi, nel senso che il
mio lavoro solitario di nove anni è poi sfociato nella creazione di una
associazione e adesso ci sono altri colleghi che insieme a me vanno in carcere a
fare gli psicanalisti. Ma che cosa c’è di strano, continuo a pensare. In
realtà di strano c’è solo che non era mai stato fatto. Perché l’ho fatto?
Primo, perché mi hanno chiesto di farlo. Un vice direttore che non si rendeva
bene conto, secondo me, di dove saremmo arrivati con questo sistema mi ha
invitato perché nel reparto protetti del carcere di Opera c’era veramente
troppa aggressività, troppa violenza, e quindi voleva qualcuno che secondo lui
poteva calmare un po’ gli animi.
Il
secondo motivo per cui ho accettato è che io ho un conto aperto col carcere da
quando avevo due anni, quindi questo conto andava in qualche modo saldato. Un
conto aperto col carcere e con la violenza che allora mi ha portato via
le persone che amavo di più, quindi era un discorso per me importante da
affrontare, andarci io dentro, e così ero contenta di farlo. Poi perché mi
interessano gli ultimi, quelli che nessuno vuole, quelli di cui nessuno si vuole
occupare, quelli che sono dimenticati, quelli che sono dietro le sbarre. E poi
perché questo mi dava una grande opportunità, mi dava l’opportunità di
imparare qualcosa che non potevo fare nello studio, e cioè, capire, parlando
con queste persone, come si poteva fare lavoro nei confronti soprattutto della
violenza, certo della violenza sessuale, ma non solo, perché nel gruppo che si
era volontariamente formato e col quale lavoravo in carcere, c’erano certo dei
pedofili, c’erano degli stupratori, c’erano però anche dei rapinatori
seriali, c’erano degli omicidi, degli omicidi seriali, c’era anche un
matricida, c’era una varia umanità anche dal punto di vista del reato
commesso.
In
nove anni di lavoro da sola però mi sono costruita un metodo, un modo di
lavorare in carcere, perché le persone sono le stesse, fuori e dentro,
l’anima è uguale dentro e fuori, l’intelligenza, la capacità e la voglia
di mettersi in discussione sono uguali dentro e fuori, non è quello che cambia.
Quello che cambia nel lavoro psicologico in carcere è che loro sono dentro e io
sono fuori, che io poi esco e loro non escono, che i pazienti in studio hanno
una famiglia, amici, bar, lavoro con cui poi confrontarsi. Loro non hanno
nessuno, solo il loro gruppo, col quale si stabilisce infatti una grande
solidarietà, ma è tutto lì. Allora ecco che per me era una grande occasione
per elaborare un metodo, che io ho elaborato, e che adesso viene utilizzato dai
colleghi della nostra associazione, VIOLA si chiama la nostra associazione, per
la quale lavoro. L’Amministrazione Penitenziaria comincia ad essere sensibile
a questo lavoro, ma perché? Perché questo lavoro ha dato una recidiva pari a
zero, dal 2002, quando ho smesso questo lavoro nel carcere di Opera, fino ad
oggi. E questo è un dettaglio che all’Amministrazione Penitenziaria interessa
molto. A me interessa molto perché mi sembra prevenzione sociale questa. Però
nello stesso tempo a me interessa molto, e anche di più, che un uomo quando
esce libero dal carcere esce libero davvero, esca libero dentro. Non più
occupato dai fantasmi della sua storia, dagli incubi del suo senso di colpa,
basta. Esce davvero libero e può provare ad avere una vita diversa da prima.
Non
potete immaginare che cos’è di meraviglia, di sorpresa e di bellezza questo
tipo di lavoro nel carcere, quale senso di utilità immediata offre e come fa
sentire che definitivamente il delitto non definisce una persona, il delitto è
stato commesso, il prezzo viene pagato, ma quella persona non è il suo delitto,
la possibilità di riscatto morale e sociale c’è sempre, in ogni caso, basta
che lo si desideri, basta che si vada nel nostro male. Mi ricordo una frase che
uno di loro mi ha detto una volta, dopo aver pianto, io stavo in silenzio e lo
guardavo e lui mi ha detto : “Come fa bene e come fa male andare dentro nel
nostro male”.
Adolfo
Ceretti
Marina
Valcarenghi ha avvicinato questo tema, che è caro a tante persone che sono qui,
che è quello della conversazione interiore, di come noi possiamo parlare con
noi stessi delle cose peggiori che facciamo. Questo è uno dei momenti decisivi
per chi vuole veramente affrontare una possibilità di cambiamento.
Ho
incontrato in alcune mie esperienze carcerarie indifferenza e violenza
Ci sono
carceri dove come strumento “rieducativo” conoscono soprattutto l’uso di
un atteggiamento e di un linguaggio violenti
di
Luigi Guida,
Ristretti Orizzonti
Questo
capitolo nasce da una domanda: “Ma non possiamo almeno sperare che la violenza
si possa “scardinare” senza che lo Stato usi altrettanta crudeltà nella sua
risposta?”.
Senza
dubbio ci sarebbero molte cose da dire da parte mia sulla violenza, visto che ha
caratterizzato buona parte della mia vita, sia all’esterno quando mi sono reso
responsabile dei reati facendola diventare uno stile di vita, che poi è lo
stesso che mi ha portato a varcare la soglia del carcere, e a vivere in modo
violento all’interno dell’esperienza carceraria stessa, dico questo perché
molto spesso la decisione di mantenere un certo atteggiamento violento anche
all’interno del carcere è stata usata da me come salvagente per sopravvivere
all’interno di un ambiente, dove il linguaggio e l’atteggiamento violento
imperano ogni giorno da entrambe le parti. Molto probabilmente se sono finito in
carcere qualcosa da cambiare c’è, e se oggi sono qui a parlare con voi questo
dimostra la mia consapevolezza, ma nonostante siano tre anni ormai che sono nel
carcere di Padova, passando ad un uso della pena diverso, fatto di attività
come, nel mio caso, quella con la redazione di Ristretti Orizzonti, acquisendo
strumenti e consapevolezze diverse rispetto al passato, faccio ancora molta
fatica a non ricordare l’indifferenza e la violenza che ho incontrato da parte
di alcune istituzioni nelle mie esperienze precedenti, che poi sono le stesse
che stanno incontrando oggi molti detenuti che non hanno le possibilità che io
ho in questo momento.
Dico
questo perché non posso pensare che un detenuto all’interno di un carcere
debba diventare una persona peggiore di come è entrata, magari prendendo altri
anni di carcere aggiuntivi alla pena che gli avevano erogato per i reati che
aveva commesso all’esterno. Ma questo accade quando una istituzione distratta
non ha il tempo e la voglia di ascoltare, come in passato è successo con me. Io
penso che non dovrebbe accadere più una cosa simile per nessuno, ecco perché
ritengo che noi tutti insieme dovremmo indignarci e fare una lunga riflessione
sulle modalità detentive che oggi si vivono all’interno delle carceri, in
particolare là dove come strumento “rieducativo” conoscono soprattutto
l’uso di un atteggiamento e di un linguaggio violenti, reprimendo cosi la
persona fino all’inverosimile, spogliandola di qualsiasi scelta e
responsabilità, negandole di fatto la possibilità di un cambiamento e nei casi
più estremi riducendola a meno di un essere umano.
Adolfo
Ceretti introduce
Mauro Grimoldi
“Un
aspetto fondamentale della prevenzione è che, siccome noi stiamo parlando di
ragazzi che dentro conservano un nucleo di grande fragilità, indipendentemente
dal fatto che fuori abbiano vestito la maglietta del trasgressivo, allora noi più
li facciamo parlare, raccontare e tirare fuori le loro paure, le loro angosce
rispetto al futuro, più stiamo facendo qualche cosa di comunque buono per
loro”. Queste parole sono di Mauro
Grimoldi, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, già
coordinatore responsabile dei servizi psicologici destinati per il Tribunale dei
minorenni di Brescia; autore di Adolescenze estreme. Il perché dei ragazzi
che uccidono, e di Prima del digiuno, infanzia e cultura delle nuove adolescenti.
Grimoldi è stato anche collaboratore dell’Istituto Minotauro, e ha assistito
le Cattedre di psicologia dinamica e di Psicodinamica delle relazioni familiari
della facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca.
L’ospite
inquietante, indesiderato
Noi
crediamo di essere in grado, con la ragione, con la nostra capacità di
analizzare le cose, di controllare tutto quello che ci succede. Il delitto
minorile è una realtà che dimostra che non è così
di
Mauro Grimoldi,
Presidente
dell’’Ordine degli Psicologi della Lombardia,
coordinatore
responsabile dei servizi psicologici destinati al Tribunale Penale
per
i Minorenni di Brescia, autore di “Adolescenze estreme. I perché dei ragazzi
che uccidono”
Ci
sono cinque ragazzi. È una fredda serata di Ottobre, una sera come tante di
quelle che trascorrono lungo le rive del lago di Garda. I ragazzi sono molto
diversi tra loro, ma uniti da una forte amicizia. E’ tardi, hanno bevuto e
fumato hashish, quando incontrano una persona. Si tratta di una persona senza
dimora fissa, di uno straniero. Uno di loro dice agli altri qualcosa: “Ecco,
lo vedete quello, quello è una persona che alcuni anni fa, quando ero bambino,
tentò di stuprarmi, tentò di abusare di me”.
Gli
altri ragazzi non l’avevano mai visto, eppure, al termine degli eventi che si
sono rapidamente susseguiti dopo quella persona non è mai più tornata a casa.
E’ deceduto nelle acque del lago. Un omicidio commesso da minori.
In
un’altra situazione che ha avuto un esito analogo, la storia è completamente
diversa, ci sono tre ragazzi tra i 14 e i 16 anni e un adulto. I tre ragazzi
fanno commenti su una coetanea che in paese era nota per la sua bellezza,
desiderata, da qualcuno forse perfino un po’ amata in un certo modo e tempo.
Tutti e tre avevano tentato degli approcci con lei ma tutti e tre erano stati
rifiutati in momenti diversi. L’adulto interviene e promette: se i ragazzi
fossero riusciti a portarla in quella cascina lui si dichiara sicurissimo di
convincerla ad avere dei rapporti sessuali con tutti loro. Anche questo è un
evento che ha avuto una conclusione tragica.
La
natura dell’incontro con l’altro ha una caratteristica particolare per
l’essere umano. Uno psicanalista geniale, Jacques Lacan quando parla
dell’amore come modo costituente di relazionarsi con l’altro lo scrive a-mur:
scinde le due parti della parola e descrive l’incontro con l’altro come
ostacolo. Tutti noi nel mondo sociale siamo costantemente in relazione con
qualcuno, ma quando l’altro diviene oggetto d’interesse, di desiderio tende
ad apparire come muro, a fare muro, a divenire invalicabile. La natura della
relazione è con qualche cosa che è duro, che non si modifica, che non senti di
poter valicare, qualcosa di complesso, qualcosa di difficile che non puoi
aggirare, che non puoi scavalcare.
Ritroviamo
il concetto anche nel testo che Ceretti ha scritto con Lorenzo Natali,
straordinario, “Cosmologie Violente” a proposito di questo parlamento
affettivo che ci portiamo dentro e con il quale continuiamo ad avere una
relazione. Parliamo costantemente con le persone che ci portiamo dentro, con gli
altri significativi della nostra vita presente e passata, e qualche volta in
questo dialogo costante, in questo stream of consciousness* (*flusso
di coscienza, che consiste nella libera rappresentazione dei pensieri di una
persona così come compaiono nella mente, prima di essere riorganizzati
logicamente in frasi) prevale l’idea del muro, la percezione che la persona
che tu ti ritrovi di fronte ti debba suscitare una sensazione di paura, o di
frustrazione estrema e intollerabile, o di odio. E’ di fronte a questi
sentimenti muri che sembrano invalicabili, di un’idea che non può essere
detta, che non può più essere socializzata e simbolizzata che l’azione
aggressiva prende corpo e prende atto.
In
“Cosmologie violente” si riprende il pensiero del criminologo Lonnie Athens
che dedica pagine poderose a descrivere la funzione di una comunità fantasma
interna, residuo identificatorio la cui funzione è di giudizio rispetto ad un
altro che si può fare ostacolo e dal quale può sembrare non ci sia più via
d’uscita se non quella dell’azione criminosa, dell’annientamento
dell’estraneo non più simbolizzabile.
Se
per un attimo ci sforziamo di esplicitare alcuni pregiudizi, ci accorgiamo che
fra questi ce ne sono che impediscono una corretta analisi dell’azione
trasgressiva. La retorica del mostro ad esempio. E’ questo un teorema
manicheo, parzialmente automatico, basato su un meccanismo di difesa tra i più
antichi. Secondo questo mito individuale esisterebbero due tipologie di uomini,
i buoni e i cattivi. I buoni hanno la caratteristica della prossimità, sono
quelli vicino a noi, i cattivi sono distanti, diversi. Il cattivo assume
preferibilmente le fattezze, in questa forma di difesa quasi delirante di una
persona senza fissa dimora, uno straniero, un omosessuale, un handicappato, uno
che ha un colore di pelle diverso. E’ rassicurante la dicotomia
vicino-lontano: quello che c’è vicino a me, mio figlio, i miei amici, le
persone che stanno attorno alla mia famiglia, quelli non possono essere cattivi.
A questo serve la retorica del mostro, a pensare che ci sia una straordinaria
diversità tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è mio e tra ciò
che appartiene all’altro. Non è così. Le persone che lavorano tra chi ha
commesso dei reati sanno benissimo che questa è una distinzione fittizia, non
funziona.
La
possibilità del male è una possibilità del reale, è una possibilità
ontologica di qualche cosa che può accadere, che si da nelle cose che accadono
non per caso. La seconda retorica, quella dell’errore, corrisponde all’idea
che l’uso corretto della ragione consenta di sviluppare la capacità di
analizzare le cose e di controllare tutto quello che succede, di determinare gli
eventi.
Questo
è un tema assolutamente importante, perché quando si esaminano i fatti di
violenza, quando ci si affaccia sull’abisso, ebbene si vede qualche cosa
rispetto alla quale il livello di controllo che si ha è molto labile. Qualche
cosa che fa stare male, che chi vive, soprattutto da molto giovane, tende a
interpretare, a rivivere come una specie di automatismo. La consapevolezza dei
moventi, la natura dei perché non è mai in questi casi il punto di partenza,
ma il risultato di un lavoro che può e deve essere fatto, non si parte da li.
La responsabilità è l’esito di un processo.
Ciò
che abita il soggetto, che fa succedere il male, si presenta come un ospite
inquietante, indesiderato, qualche cosa che c’è e che l’attore del gesto
criminale non conosce razionalmente.
Per
gli adolescenti che delinquono è questo un tema centrale. Agli psicologi questo
tipo di vissuto ricorderà molto da vicino il concetto di sintomo. Il sintomo
come compromesso, come risultato di un conflitto, ha il vantaggio di essere
qualche cosa di noto, di conosciuto, di trattabile. Un trattamento che somiglia
ad una cura, là dove la pacificazione del rapporto tra sé e l’altro sociale
produce la riduzione a zero della probabilità di reiterazione del reato: questo
interessa molto anche alle istituzioni.
Non
c’è da stupirsi. Ciò che non è rinunciabile, che resiste a ogni possibilità
di compromesso, nel momento in cui mettiamo in atto un lavoro di un certo tipo,
è un fatto, che ha a che fare con la competenza, la serietà, l’impegno, la
presenza di risorse, tempo, formazione adeguata. Per riuscire a comprendere
quale senso evolutivo ha un reato nella mente di chi in quel momento lo sta
compiendo il lavoro di indagine diagnostica è complesso, richiede un’analisi
approfondita e attenta perché possa essere metto in atto.
Foucault
in “Sorvegliare e Punire” sottolinea il fatto che esiste una forma di
ortopedia morale, come se gli psicologi e gli psichiatri che entrano nelle
carceri e che lavorano con i minori e con gli adulti che hanno commesso dei
reati li “aggiustino” dal punto di vista morale. L’idea dello psicologo
come sostituto del boia e di chi un tempo era incaricato di somministrare
punizioni fisiche è certo inaccettabile e repellente.
C’è
però certamente sottointeso in questo un modo diverso di concepire e di
trattare il reato, considerandolo come sintomo, segnale di un conflitto non
simbolizzato. Questo permette di realizzare il superamento della dimensione
meramente retributiva della pena. E’ un fatto politico decidere se il primo
interesse sociale è la punizione, intesa come restituzione del male, o
recuperare al sociale, scongiurando la probabilità di recidive. Cosa sta al
centro?
La
naturalezza del desiderio di vendetta sociale nei confronti del soggetto che ha
commesso un reato porta a dare sollievo a chi è stato toccato direttamente dal
male e al sociale che viene danneggiato nella lesione di diritti fondamentali,
del patto sociale di cui troviamo ampie tracce in Beccaria e negli empiristi
inglesi.
Se
questa deve essere l’incarnazione del desiderio sociale, dell’anelito di
un’intera civiltà, vi è ampio spazio di discussione. Il recupero del
criminale è in ogni caso fuori-centro, perde la dimensione di scopo
dell’intervento, con conseguenze importanti dal punto di vista della sicurezza
e dei costi sociali di una criminalità arginata solo dai muri fisici delle
carceri.
L’alternativa è di mettere in atto un’attività per cui, attraverso un’operazione di tipo diagnostico, si possa capire - non giustificare - al fine di garantire al Paese e all’autore del crimine le migliori probabilità che in futuro quell’evento non si possa più ripetere. In questa cornice si situano le proposte di estensione dell’istituto della messa alla prova per i soggetti adulti, che personalmente saluto con entusiasmo in attesa di una sperimentazione.