Capitolo
sesto: Vittime e carnefici della violenza delle parole
In un blog sulla violenza abbiamo letto:
“Bene o male, siamo tutti stati un po’ vittime e un po’ carnefici della
violenza delle parole. Tuttavia il passo che fa la differenza è utilizzare la
nostra sofferenza, ciò che ci ha insegnato, per non causarne agli altri. Qui
sta la consapevolezza di una persona rispetto ad un’altra”. Se chi è stato
offeso dalla violenza, e anche dalle parole di qualcuno riesce a trametterci la
sua sofferenza, forse ci aiuterà a risparmiare ad altri il dolore di parole
superficiali, rozze, che feriscono. Parole come un piccolo verbo,
“combinare”, che usato da chi ha commesso un reato grave, “l’ho
combinata grossa, ho combinato un disastro”, suona come una fastidiosa
minimizzazione della responsabilità.
Non
si può fare informazione raccontando l’odio, il rancore, il sentimento di
vendetta
È invece
quello che si cerca spesso di raccogliere da chi subisce il reato, generando
altro odio e altro rancore
di
Elton Kalica,
Ristretti Orizzonti
Questo
capitolo per noi è molto importante e delicato, perché si tratta di un
percorso iniziato nel 2008 con l’idea di costruire un dialogo con vittime o
con familiari di vittime di reati. Quindi un dialogo tra autori di reato e chi
il reato lo ha subito. Il nostro metodo è quello di offrire una narrazione
diversa del reato, degli autori di reato e dei percorsi che portano al reato. in
questo modo vogliamo fare un’informazione alternativa, opposta a quella che è
la narrazione ufficiale del reato, quella che si vede nei giornali e nei
telegiornali. Se abbiamo pensato che sarebbe stato interessante estendere questo
metodo anche a chi il reato lo subisce è perché noi crediamo che anche per le
vittime il trattamento che i mezzi d’informazione riservano è più o meno lo
stesso. Per raccontare il fatto, si cerca spesso di cogliere, di raccogliere da
chi subisce il reato, l’odio, il rancore, il sentimento di vendetta.
Quando
dico questo penso al giornalista che va a intervistare subito il familiare di
una persona uccisa e gli chiede: “Lei crede nella giustizia?”. Ovviamente
quello che raccogli è il dolore, l’odio, il rancore, il desiderio di
vendetta. Quindi dei sentimenti, delle sensazioni che sì, sono umane, ma che
non sempre mostrano l’umanità delle persone. Però non si può fare
informazione raccontando questo. Noi allora abbiamo pensato di invitare alcune
persone che hanno subito reati gravi e ci siamo fatti raccontare la loro
sofferenza. Questo si è trasformato in un percorso che ci ha fatto riflettere
molto.
Abbiamo
avuto qui Olga D’Antona, Manlio Milani, Agnese Moro, Silvia Giralucci,
Benedetta Tobagi, ne abbiamo incontrate tante, di persone che sono state vittime
di reati, in questi anni. Tante persone che hanno portato qui, di fronte a
centinaia di persone, una diversa narrazione della sofferenza. È stato utile ai
lettori più assidui di Ristretti Orizzonti, ma è stato molto importante anche
per i detenuti.
Ricordo
che all’incontro con Olga D’Antona c’era un ragazzo che aveva assistito
all’incontro e non la smetteva di piangere. Questa storia l’abbiamo anche
scritta. Il ragazzo era in carcere per aver ucciso un suo coetaneo, e mi ha
detto: “In dieci anni di carcere non ho mai pensato alla mamma della persona
che ho ucciso, ho tenuto in mente il litigio, l’aggressione che ho subito, la
rissa che ne è scaturita e quindi ho sempre pensato che mi ero difeso e che
avevo fatto bene; mentre ascoltavo Olga D’Antona, ho pensato a un’altra
vittima, alla mamma di chi ho ucciso”.
Ho
raccontato questo per far capire come questo tipo di narrazione può essere
utile per chi sta in galera perché fa riflettere sulle proprie responsabilità;
ma dovrebbe fare riflettere ancora di più chi pensa che la galera deve essere
un luogo di sofferenza e basta: quel ragazzo piangeva perché stava ragionando
sul male fatto, e quindi una galera diversa ci può essere, ed è il carcere che
fa riflettere. Oggi qui abbiamo Giovanni Ricci, si presenterà lui anche perché
è molto più bravo di me a raccontarsi.
Poi
un giorno ti guardi allo specchio e capisci che non c’è più motivo di
odiare…
Con
i ragazzi delle scuole spiegare la differenza tra il male e il bene laddove è
possibile è una cosa grande e utile
di
Giovanni Ricci,
criminologo e sociologo,
figlio
del maresciallo dei carabinieri Domenico Ricci,
che
come uomo della scorta dell’onorevole Aldo Moro
fu
assassinato nel rapimento di via Fani del 16 marzo 1978
Mi
chiamo Giovanni Ricci, vi racconto la storia che ha caratterizzato tutta la mia
vita. Il 16 Marzo del 1978 morì mio padre in via Mario Fani a Roma durante il
rapimento dell’Onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Mio padre era
uno dei 5 della scorta, era l’autista quello che da più anni, circa 22, era
con Aldo Moro. L’immagine che mi è rimasta per tanti anni di quel giorno,
un’immagine forte, è stata quella dell’edizione straordinaria di Repubblica
di quel pomeriggio in cui mio padre era stato fotografato senza lenzuolo
crivellato di colpi, decine di colpi. Quell’immagine me la sono portata fissa
in mente per tanti anni, premetto che avevo 11 anni quando successe. È
un’immagine con cui convivevo tutti i giorni e tutte le notti. Poi crescendo
viene voglia di conoscere le motivazioni, capire: chi era stato, per quali
motivi quei 5 uomini erano stati uccisi li, quel giorno e anche l’Onorevole
Moro dopo 54 giorni, ti fai una miriade di domande finché, un bel giorno di un
po’ di anni fa, ti svegli, ti guardi allo specchio e capisci che non c’è più
motivo di odiare o di avere rancore dentro di te. Perché purtroppo, l’odio,
il rancore ti lacerano, ti distruggono, ti dilaniano, ti uccidono dentro. È
proprio per dire basta a tutto questo che trovi la forza, la forza per dire
basta adesso voglio andare avanti. Non voglio più avere questa immagine di mio
padre fissa in mente, voglio ricostruire il film della mia vita, un film fatto
di ricordi di mio padre quando era ancora in vita e fatta di ricordi della mia
famiglia anche dopo che era morto. Non potevo più fossilizzare la mia intera
esistenza a un singolo fotogramma di quel giorno a quell’ora: alle 9.05.
Quindi ecco, la necessità di andare dai ragazzi nelle scuole a raccontare
quella che era stata la mia esperienza, come l’avevo vissuta. Spiegare ai
ragazzi che la violenza porta solo alla distruzione. Spiegare ai ragazzi che
anche la violenza verbale a volte crea attriti tra le parti, crea violenza
seppur di parole. Ma che in breve può divenire anche violenza fisica, una
violenza che ti annienta, ti distrugge. Ecco, allora cerco di spiegare a questi
ragazzi il senso della legalità, l’importanza del confronto seppur forte, ma
confronto tra le parti. Anche perché anche se i ragazzi delle scuole non sanno
nulla del terrorismo degli anni 70, quando comincio a raccontare i fatti della
mia vita mi riempiono di domande, vogliono sapere e capire. Posso sinceramente
dire, e oggi qui ne ho avuto testimonianza dai tanti ragazzi detenuti che sono
qui intervenuti, come sia importante che anche chi abbia commesso il male una
volta, e si sia reso conto di quello che ha fatto, porti la sua testimonianza
all’interno delle scuole, una testimonianza fatta di sentimenti, di voglia di
comunicare, di essere anche colui che ha sbagliato ma è e rimane un cittadino
del nostro Stato, un membro della nostra società.
Ritengo
importantissimo, laddove poi sia possibile poter portare le testimonianze della
vittima e di chi ha commesso il reato, che questo atto sia un qualcosa di unico.
Io spero vivamente che un giorno possa ritrovarmi io o le altre vittime del
terrorismo insieme agli ex terroristi a raccontare gli accadimenti di
trent’anni fa, di quarant’anni fa. Anche perché quello che i nostri ragazzi
rischiano realmente è che tra un paio di generazioni avranno un gap storico
incredibile, una totale mancanza di memoria collettiva di quello che sono stati
quegli anni. Quindi non solo si sente l’esigenza in questo caso, ma, a maggior
ragione proprio le testimonianze in generale delle vittime dei reati e di chi ha
commesso quei reati è fondamentale per spiegare ai ragazzi nelle scuole la
differenza tra il male e il bene; e laddove è possibile è una cosa grande e
unica.
Ringrazio
sentitamente la Redazione di Ristretti Orizzonti di Padova, il carcere di Padova
e la comunità che porta avanti questa voglia di non lasciare nessuno indietro.
Grazie!
Essere
vittime è anche un ergastolo
di
Silvia Giralucci
Mi
chiamo Silvia Giralucci e come forse sapete la mia storia assomiglia a quella di
Giovanni: il mio papà è stato ucciso dalle Brigate Rosse nel 1974 quando si
trovava all’interno della sede del Movimento Sociale. Ho raccontato diverse
volte questa storia ai convegni di Ristretti Orizzoni, ma oggi vorrei partire da
un po’ più lontano. Prima, mentre Mauro Grimoldi parlava della retorica del
mostro, io pensavo al fatto che esiste anche una retorica della vittima.
Pensiamo a una “piramide della cattiveria” con i più abietti in basso. Per
tutti è importante non trovarsi alla base: persino in un luogo di “scarti
sociali” come il carcere, si è trovato il modo di espellere quelli
dell’ultimo gradino, sono i protetti, gli autori di reati sessuali, che
vengono tenuti in sezioni distaccate per proteggerli dalla violenza degli altri
detenuti. Anche in un luogo come il carcere è importante trovare il modo di far
capire e dire a se stessi che il male, il vero male, è fuori di noi, in un
altro posto, più in basso.
Come
si fa a stare in alto nella piramide sociale? Il meccanismo è semplice:
dobbiamo individuare categorie a noi estranee e additare le persone che vi
appartengono come cattivi. Riflettevo sui casi di attualità, Kabobo per
esempio, il ghanese che qualche giorno fa ha ucciso a picconate tre persone a
Milano. Alcuni anni fa a Milano ci fu un’altra persona che ammazzò a colpi
d’ascia la fidanzata, era Ruggero Jucker, un rampollo della Milano bene: ma
allora tutti parlarono di un caso psichiatrico, per Kabobo invece il dibattito
si è concentrato sul tema dell’immigrazione clandestina, non si è parlato di
psichiatria, del fatto che di quella persona, che si trovava in Italia da un
anno e mezzo, nessuno si era accorto. No, l’unico problema era il fatto che
Kabobo fosse un immigrato clandestino. Perché? Perché noi non siamo immigrati
e quindi quella cosa orribile che ha fatto non ci può riguardare.
Pensavo
alla morte sospetta di Claudio Faraldi nel carcere di Grasse in Costa Azzurra.
Dopo il caso Franceschi è il secondo italiano che muore in modo poco chiaro
nello stesso carcere. Prime pagine dei giornali, servizi dei tg. Eppure, morti
sospette nelle carceri italiane ce ne sono tante, non parliamo soltanto dei
suicidi, ma delle morti per motivi non chiari, morti che talvolta si potrebbero
prevenire. Quali di queste morti fanno notizia nei nostri quotidiani? Se va bene
vengono dedicate loro cinque righe. Perché il trattamento è diverso quando il
fatto accade all’estero? Perché in questo caso sono le carceri degli altri
che funzionano male, non serve interrogarci. La violenza riguarda ciò che sta
all’esterno. Possiamo essere quelli che puntano il dito, e non serve
interrogarci, cambiare i nostri comportamenti.
Mi
è tornata in mente una riflessione uscita dal Gruppo di Discussione promosso da
Ristretti all’indomani del gravissimo ferimento del carabiniere di fronte a
Montecitorio. In quel caso alcuni detenuti hanno detto di non provare dolore per
quello che era successo al carabiniere, perché tale è l’odio accumulato
negli anni per quelli che ritengono soprusi subiti da parte delle forze
dell’ordine, che anche di fronte a un fatto così grave non scatta
l’immedesimazione con la vittima, la vittima diventa altro.
Questo
per riflettere su quanto sia importante scegliere per gli autori di reato
categorie a noi estranee e per le vittime invece categorie cui noi apparteniamo
per sentirci sicuri e gratificati.
In
questa ‘piramide della cattiveria sociale’ la vittima sta in alto. Ha subìto,
e per questo ha tutto il diritto di scagliare pietre. La vittima di reato è
nella posizione, diciamo privilegiata, in cui l’odio è non solo socialmente
accettato, ma anche desiderato. Se la vittima odia, per solidarietà hanno
diritto di odiare anche tutti gli altri, anche tutti coloro che non hanno subito
quel che ha subito lei, ma avrebbero potuto essere al suo posto. Per questo i
mezzi d’informazione si rivolgono alla vittima per chiedere che cosa prova:
perché può legittimamente dire che odia, che vorrebbe vendetta. Il paradosso
è che quando non lo dice o viene ignorata o le viene messo in bocca lo stesso.
Non deve uscire dalla parte assegnata perché metterebbe in crisi la struttura
della piramide.
Però
per chi è davvero al vertice della piramide, l’essere vittima è un ergastolo
e di questo poco si parla. Lì al vertice si è soli, si è intoccabili e anche
un po’ ci si vergogna perché si è delle persone lacerate, e questa
lacerazione in un contesto di vita normale va in qualche modo nascosta. Molti di
voi conosceranno, hanno letto i libri di orfani di vittime di terrorismo che
sono stati scritti negli ultimi anni, ha iniziato Mario Calabresi con il suo
bellissimo “Spingendo la notte più in la”, Benedetta Tobagi con “Come mi
batte forte il tuo cuore”, a mio modo io ho cercato di raccontare la Padova
degli anni 70 raccontando in parte anche la mia storia personale, è uscito poi
recentemente il libro di Luca Tarantelli. Diciamo che se prima c’era una
narrativa che riportava il punto di vista dei terroristi, negli ultimi anni c’è
stata anche una narrativa dei figli delle vittime, bambini molto giovani che
hanno risposto scrivendo, ciascuno lo fa con i suoi mezzi, a quel bisogno di
conoscenza e di riconoscimento. Per molti di noi è stato un modo molto
importante di riappropriazione della propria storia.
Qualche
mese fa è uscito un altro libro di una vittima che devo dire che mi ha colpito
moltissimo, il libro è di Massimo Coco, figlio di Francesco Coco, il magistrato
che riuscì a trovare un escamotage giudiziario per far liberare il giudice
Sossi: disse che avrebbe fatto lo scambio con i brigatisti detenuti se il
sequestrato Sossi fosse stato restituito incolume. Le Br accettarono e Sossi
venne liberato. A quel punto Coco spiegò che un prigioniero per definizione non
è mai “incolume” e che quindi non avrebbe fatto nessuno scambio con i
brigatisti in carcere. Per questo venne ucciso.
Il
figlio ragazzino di Coco soffrì moltissimo non solo per la perdita del padre,
ma anche perché il padre già in vita e ancora di più da morto è stato
considerato il magistrato fascista, quello che in qualche modo si è meritato di
fare quella fine. E immagino che questa sia stata una condizione di assoluta
solitudine e non riconoscimento. Nel suo libro “Ricordare stanca”, parla
degli altri libri di figli di vittime, e in particolare se la prende con la
categoria di quelli che chiama i “figli baby” , molto piccoli quando i
genitori morirono in anni lontani. Vi leggo qualche passo: “Leggo ciò che
hanno scritto e riconosco il dolore, i rimpianti questo sì, il senso di
solitudine, come no?, è una vecchia conoscenza comune. Mi identifico
perfettamente in quel misurarsi quotidiano con gli altri, quando ricevi
l’insofferenza nell’ascoltare i tuoi diritti, le tue ragioni, la tua storia.
Quando quasi nessuno vuole comprendere che una persona ammazzata con un progetto
umano implica un dramma diverso da chi muore per malattia o fortuito incidente
stradale. Un dramma che non può essere accettato come tutto ciò che appartiene
ai capricciosi disegni del destino. Comprendo l’idea di una ricerca paterna
seguendo il calvario solitario di una persona che è stata abbandonata a se
stessa sino alla morte scoprendo la sua dedizione al lavoro sempre svolto. Ma,
porca miseria e la rabbia dove cavolo l’avete messa? Dissimulate l’odio o
avete trovato un antidoto? Possibile che tutto possa, che tutto si possa
risolvere in una semplice, e qui cito “sorda voglia di prendere tutto a
calci”, vi ha forse aiutato l’essere giovanissimi nel momento in cui avete
perso il papà e quindi portate con voi meno ricordi e meno rimpianti? È
possibile che sia stato solo questo a rendere più semplice e rimuovere,
superare e accettare tutto quanto? Basta davvero leggere la frase di un filosofo
per capire improvvisamente il senso di tutte le cose? Ma funziona solo con voi
la rimozione, il superamento del trauma per mezzo di passeggiate in bici lungo
strade aperte di campagna? O scalando un assolato remoto ghiacciaio alpino fino
a trovarne la solitudine la concentrazione la memoria? O scrivendo lettere
all’adorato figliolo come seduti davanti al caminetto, o semplicemente
sterzando, cambiando di colpo direzione perché “c’è sempre un’altra
strada”? Apro e leggo a caso da un altro libro: Il rancore è un veleno che
corrode le tue ossa, mai quelle degli altri. La fregatura del rancore è che si
mangia tutto: amore, passione, energia. Non dimenticare ma non odiare,
comprendere anche le ragioni di chi ti è stato nemico, è la mia via per
guardare con serenità al futuro. Guardare avanti, camminare, impegnarsi per
voltare pagina nel rispetto della memoria. Ma vi siete messi d’accordo tra di
voi, avete ricevuto delle istruzioni, o avete fatto tutti quanti un corso
collettivo di rielaborazione del lutto? E chi vi ha nominati in vita docenti di
vita da vittima? Come potete cercare di comprendere le ragioni di un delitto?
Invece io vi dico com’è il mio punto di vista personale, premesso che non ho
la pretesa di essere professore per nessuno. Per favore ascoltate con
attenzione, da trentasei anni a questa parte e dico trentasei, non c’è stato
un giorno nemmeno uno che fosse, uno in cui io non abbia pensato a mio padre.
Non c’è stato finora un solo giorno in cui io non me lo sia rivisto riverso
sulle pietre della salita di Santa Brigida in una pozza di sangue, lui e gli
altri agenti morti insieme a lui, e sto parlando di trentasei anni una fetta
enorme di vita, oltre 10 mila giorni, e finché continuerò a vivere e sarò
cosciente immagino che sarà sempre la stessa cosa”.
Io
devo dire sono rimasta ferita e turbata quando ho letto questo libro, e poi nei
mesi successivi ho cercato di interrogarmi. Innanzi tutto credo che ci sia una
responsabilità collettiva nel non essere stati capaci di stare vicino alle
vittime, nell’averle lasciate sole. Qualcuno ce l’ha fatta con i suoi mezzi
e qualcuno non ce l’ha fatta. L’altra cosa che mi sono detta è che
probabilmente è più facile, è la strada più dritta quella di rimanere
nell’odio. Perché la strada che abbiamo scelto, quella di cercare di non
farci divorare dal rancore, è un terreno molle nel quale ogni giorno devi
cercare l’equilibrio. Perché in chi ti ha fatto del male tu riconosci anche
del bene, perché lo riconosci come persona e riconosci la sua storia, non la
giustifichi ma la riconosci, riconosci il suo diritto a sbagliare, riconosci
anche che il male che c’è in te diventa ogni giorno veramente una decisione
da prendere, una strada da scegliere ed è molto più complicato anche per le
vittime.
Penso
che quello che ci consente di trovarla ogni giorno forse questa strada o almeno
di provarci è proprio lo sforzo di parlare, sia di ascoltare ma anche di
parlare raccontando la nostra storia. Questo ho pensato qualche mese fa, quando
ho avuto l’occasione di parlare con Suela, la figlia di Dritan, che è il
detenuto che vi ha raccontato che è entrato in carcere per una faida familiare
quando la sua bambina non aveva ancora due anni. Ecco, mentre Suela mi
raccontava la sua storia riconoscevo tantissimi tratti della mia: l’essere
privati del padre, l’essere vittima e il non poterne nemmeno parlare perché
in questa storia c’è qualcosa di cui vergognarsi. E quando ci siamo parlati
io ho cercato d’invitarla a rompere questo muro di silenzio, perché solo
mostrandosi con la propria lacerazione si può ritrovare il modo di ricucirla,
ma bisogna accettare il fatto che non siamo dei superuomini capaci di odiare
tutti e di stare lì sopra a questa piramide da soli sfidando gli altri. Bisogna
essere capaci di mostrarci nella nostra vulnerabilità per uscire da questa
condanna all’ergastolo che è l’essere vittime.
Tutti
mi chiedevano perché non parlavo mai di mio padre
di
Suela,
figlia di Dritan
Io
sono Suela, non mi sono preparata un discorso ma mi collego un po’ a quello
che diceva Silvia. Il fatto che mio padre è in carcere, tutti i problemi che ci
sono stati poi per questo, il fatto di crescere da sola, sola con la mamma in un
paese straniero tra l’altro, visto che io sono albanese, non è stato per
niente facile, non è stato facile dover mentire a tutti gli altri bambini delle
elementari, che comunque mi chiedevano perché non parlavo mai di mio padre, e
poi ricordo tutte le domande: i tuoi stanno insieme sono separati dove come? e
la mia risposta è sempre stata: ma no, ma qui, ma là… Si, no, era tutto uno
sviare, tutto un peso, era veramente un peso. Addirittura neanche le mie
migliori amiche lo sapevano, neanche il mio fidanzato, mi sono fidanzata
ufficialmente in casa e lui non lo sapeva ancora, l’ha saputo dopo proprio
perché mi vergognavo, ma mi vergognavo del fatto di essere giudicata, di essere
emarginata perché la gente, non tutti hanno la mentalità aperta, o magari
cercano di capire ma la prima cosa che si fa è quella di giudicare. E niente…
quando alla fine ho parlato con il mio fidanzato, lui non mi ha neanche fatto
delle domande, ma sono stata io a parlare, a raccontargli tutto dalla A alla Z e
sinceramente se l’ho fatto Silvia è anche grazie a te. Quando ne abbiamo
parlato, mi hai sbloccato perché era brutto il doversi nascondere, il dover
mentire in continuazione. Il fatto di crescere senza una figura maschile in casa
non è facile, non è facile per niente, non è facile perché il papa è il
papa, non è un fratello il papa, è il centro della casa, non so come
spiegarlo. Naturalmente chi l’ha avuto sempre a casa sa di che cosa parlo
La
fatica di raccontare di avere un genitore in carcere
di Ornella Favero
Oltre
a Suela è presente oggi qualche altra figlia, c’è Barbara per esempio, la
figlia di Carmelo. Ecco, quando incontriamo i ragazzi delle scuole succede
spesso una cosa strana. I ragazzi, sentendo che le persone mettono davvero a
loro disposizione le loro storie, pezzi della loro vita anche terribili, trovano
loro stessi il coraggio di raccontare. Io ricordo una ragazza che ha raccontato
lì, di fronte ai suoi compagni che non lo sapevano, eppure vivevano fianco a
fianco con lei da anni, di avere il padre in carcere. Quindi mi domando quanto
la nostra società comprime e reprime il bisogno di verità, sempre per questa
cosa terribile del giudicare, del non capire ma giudicare. E per la vergogna, il
sentimento della vergogna è opprimente, è terribile, e richiama tutti noi alle
nostre responsabilità, perché siamo un po’ tutti, con il nostro vizio di
giudicare, che tante volte costringiamo gli altri a nascondersi. Io da quando mi
occupo di carcere sono sempre molto colpita dal fatto che si rivolgono a noi
genitori, persone “perbene” a cui succede che arrestano un figlio, per
problemi di droga, per un furto: ebbene, ho la sensazione che quei genitori, in
un certo modo, sarebbero più preparati alla notizia del ferimento o della morte
di un figlio, magari per un incidente stradale, che all’idea dell’arresto e
del carcere. E quando ti succede, scatta inesorabile il meccanismo di NON DIRE,
di nascondere la verità, di non far sapere agli altri.
Allora
io spero che anche i ragazzi come Suela, i figli che hanno avuto un genitore in
carcere trovino, come lei si è raccontata oggi, la forza di scrivere e di
raccontare queste cose. È un’illusione pensare che raccontarsi sia
“liberatorio”, però aiuta e aiuta anche noi forse a
giudicare un po’ meno.
Adolfo
Ceretti
Io
vorrei ancora sentire Giovanni Ricci. Giovanni, noi volevamo approfittare della
tua presenza per ridarti la parola. Ho avuto la fortuna di conoscerti meglio in
questi ultimi mesi, e forte di questa conoscenza ti invito a riflettere ad alta
voce, con noi, sul percorso che sei riuscito a fare per trasformare il
linguaggio del rancore in un linguaggio capace di includere l’altro/nemico.
Vorrei che tu ci parlassi di come ti sei allontanato dal fotogramma del 16 marzo
del 1978, dalla fotografia di tuo padre riverso nell’auto che guidava per
accompagnare l’on. Aldo Moro, da poco rapito.
Un
ragionamento che condivido spesso con alcune persone che sono qui e con molte
persone che oggi non ci sono riguarda proprio la differenza tra la metafora del
film e quella del fotogramma. Per i parenti delle vittime di omicidi – ripete
spesso Gherardo Colombo – la vita ripropone quotidianamente e senza scampo il
fotogramma che inquadra la perdita del proprio congiunto, mentre il film della
propria vita continua...
Facendo
riferimento alle parole che Silvia Giralucci ha letto citando il libro di
Massimo Coco, apprendiamo che egli ha reputato opportuno fermarsi su quel
fotogramma, e su quel fotogramma rivendicare una sorta di diritto al rancore.
Tu, come Silvia, seppure con percorsi diversi, hai provato ad andare oltre
quell’immagine fissata in quel fotogramma. Non ti lasciamo tornare a Roma se
non ci dici qualcosa in merito....
Se
un giorno mio figlio potesse incontrare i figli di qualche terrorista
Io mi sono
sempre detto dentro di me: perché non possono essere amici loro? Perché
dovrebbero odiarsi?
di
Giovanni Ricci
Diciamo
che per quanto riguarda il punto in cui ho lasciato l’odio e il rancore fluire
fuori di me, mi ha aiutato tantissimo conoscere, studiare quello che successe
nel periodo del terrorismo in Italia, in particolare poi in quegli anni cosi
cruenti, si pensi che solo nel ‘78 ci furono più di 248 attentati (in totale
tra omicidi e stragi, ci furono più di 400 caduti e oltre 2500 feriti per un
totale di vittime del terrorismo che ci fa essere secondi solo alla Colombia
delle FARC), proprio per questo mi sono impegnato a cercare di conoscere quegli
eventi e a cercare di comprenderli.
Certamente
stiamo parlando di avvenimenti di 35 anni fa, lontani dalle nostre menti, dove
ormai la verità giudiziaria c’è tutta, come sicuramente nel caso di mio
padre, d’altro canto invece ci sono casi come quelli delle stragi che hanno
insanguinato il nostro Paese dove ancora la verità giudiziaria non c’è.
Egoisticamente parlando per me, per il caso di mio padre io la verità
giudiziaria l’ho conosciuta tutta e mi sento quasi fortunato, ma sentivo la
necessità che dovesse essere riscritta la verità storica di quegli anni perché
non se ne parla, non se ne vuole parlare, si cerca ogni volta di dare un colpo
di spugna.
Io mi sono sempre immaginato una cosa, mi sono sempre immaginato mio figlio, che ha 17 anni e che si chiama Domenico come mio padre, che un giorno potesse incontrare i figli di qualche terrorista. Mi sono sempre detto dentro di me: perché non possono essere amici loro? Perché dovrebbero odiarsi? Perché i figli devono pagare le colpe dei loro padri, soprattutto laddove comunque il percorso giudiziario sia stato completato, in particolar modo laddove è lapalissiana la volontà e la voglia, come oggi qui testimoniata da tanti detenuti, di essere cambiati da parte di chi ha commesso i reati, di volere anzi essere loro stessi a parlare e far comprendere ai ragazzi delle scuole come sia imperante la necessità di legalità, di far capire le proprie scelte sbagliate. Ecco tutto questo ragionamento mi ha portato a non voler più pensare in maniera negativa a quel giorno, ma a ricreare tutto il film della mia vita. Per quanto mi riguarda, sono diversi anni che posso dire sinceramente che questo bel film me lo vedo dalla mattina alla sera riscoprendo le cose più belle che mi sono mancate per più di trent’anni, riscoprendo anche nuovi ricordi, riscoprendo quella che è stata una vita che mi sono perso. È gioco forza che un giorno arrivi il momento in cui si deve scegliere, il bivio della tua vita, o prendi la strada della solitudine e del dolore estremizzato all’interno di te stesso, lancinante e dilaniante, o decidi che ne devi parlare, devi esternare, devi far capire e devi essere capito, come dice l’amico Mario Calabresi nel suo libro “Spingendo la notte più in là!”. Io spero veramente e vivamente che un giorno io possa sedere qui a questo tavolo insieme ad ex terroristi a parlare di quegli anni come oggi lo hanno fatto i detenuti. Io lo spero vivamente, perché questi ragazzi che sono di fronte a me, questi detenuti che considero cittadini al mio pari mi hanno insegnato oggi una cosa bellissima: “Se si vuol cambiare, si può cambiare”.