Capitolo
secondo:
La violenza che cancella le donne
Quando si parla di reati in famiglia, e di
violenza contro le donne, sappiamo che ci sono dietro spesso storie di uomini
violenti, ma ci sono anche relazioni che si sfasciano, vite che deragliano per
un conflitto, per una separazione, per l’immagine della famiglia felice che va
in frantumi, non facciamone allora un’unica fotografia del mostro, andiamo a
ragionarci dentro, a scavare… Noi non crediamo che sia meno interessante per
la stampa raccontare una storia anche da questo punto di vista, per capire, per
indagare perché è successo, per smontare i meccanismi di una cultura che fa
male alle donne.
Gli studenti che ascoltano le
testimonianze di uomini che hanno compiuto gesti violenti imparano proprio a
vedere quanto è complessa la realtà, imparano a capire che bisogna saper
chiedere aiuto, che bisogna avere la forza di parlarne, di condividere la
sofferenza con altre persone.
Ma se l’idea è di rispondere alla
violenza contro le donne con una pena di altrettanta violenza come
l’ergastolo, allora non ci stiamo, e però ne vogliamo parlare.
Una
persona che distrugge la sua famiglia non fa calcoli di pena
di
Ulderico Galassini,
Ristretti Orizzonti
Oggi
si parla di violenza che “cancella le donne”, io appartengo all’altra
parte, quella che si trova ad aver commesso il crimine, il più assurdo,
definire la morte della persona che ha condiviso progetti importanti di vita
assieme: costruire una famiglia, proporsi obiettivi, raggiungerli, esserne
orgogliosi e poi… perché ti trovi imprevedibilmente ed incredibilmente ad
aver distrutto tutto?
Non
so neppure dire come avviene, ma a me è successo, e come a me penso sia
successo ad altri, di fare qualcosa che non avevo mai neppure lontanamente
immaginato, e tanto meno quindi avevo riflettuto sulla pena, su quanti anni
avrei preso se avessi commesso un gesto così violento.
Spesso
ci viene chiesto: ma non potevi pensarci prima?
Magari
si fosse verificata questa possibilità, sarei ancora con mia moglie e con mio
figlio e lui avrebbe ancora sua mamma, o se ci fossero stati problemi tra di
noi, avrei scelto la separazione, il divorzio. Ma non c’era nessun motivo per
separarci, anzi avevamo ancora tanti progetti futuri.
Da
anni, il mio primo pensiero è la consapevolezza che si è manifestata troppo
tardi, subito dopo aver commesso il reato, di quale atto mostruoso ha subito mia
moglie, 35 anni assieme distrutti per cosa? Poi, l’altro pensiero va a mio
figlio, ai parenti di mia moglie, a chi ha avuto modo di apprezzarla nel suo
essere stata oltre che moglie, madre, insegnante, amica e parte attiva della
società.
Quando
sento parlare di fare prevenzione aumentando le pene, e chiedendo l’ergastolo,
come se questo servisse a prevenire quei reati, posso dire che una persona che
distrugge la sua famiglia non fa calcoli di pena perché non ha un progetto per
il futuro, se non quello di porre fine a tutto, per paura forse, paura a volte
di non farcela, di non essere più in grado di reggere la responsabilità.
Vorrei
allora che piuttosto che parlare di ergastolo si parlasse invece di come trovare
una possibilità di prevenzione, di attenzione verso la persona e la famiglia
nel suo percorso di vita e prima che giunga eventualmente ad annullarsi se
qualcosa non funziona più.
Con
questo io certo non voglio dire che chi uccide deve rimanere impunito, ma
bisogna fare in modo che chi ha commesso quel terribile reato si racconti,
spieghi, ricostruisca quello che gli è successo, e bisogna poi mettere assieme
queste storie, cercare di capire e diffondere con serietà i risultati di questo
lavoro. A partire da un ascolto che sia un ascolto vero e non uno stare a
sentire, che sono cose ben diverse. Serve un ascolto di chi ha già
malauguratamente conosciuto questo tipo di reato, come è successo a me, che
sono arrivato, all’età di 54 anni, a distruggere tutto quello che avevo
costruito con grande passione prima, partendo da quasi niente, non da solo ma
assieme a mia moglie, una donna che sinceramente meritava ogni attenzione. Ma io
quelle attenzioni gliele ho date sino al 26 maggio 2007, poi “il buio”
completo, nessun sentimento, sensazione, quasi un agire da automa, perché?
Adolfo
Ceretti introduce Fanny Marchese
La
parola va ora alla dottoressa Fanny Marchese, che è con noi per parlare di una
esperienza che per i milanesi riveste un significato molto particolare. La
creazione, da parte della dottoressa Alessandra Kustermann – che come è stato
preannunciato non può essere presente – del Centro contro la violenza
sessuale e del Centro contro la violenza domestica, ai quali si è aggiunto, di
recente, lo Sportello per bambini e adolescenti maltrattati, è per Milano “un
fiore all’occhiello”, tanto che nel 2010 alle equipe che lavorano
presso queste strutture è stato assegnato l’ambito riconoscimento dell’Ambrogino
d’oro.
Violenza
fisica, violenza psicologica, violenza economica
Quando
una donna subisce un trauma di tale natura, è abbastanza scontato che abbiamo
un corpo ferito, ma anche un’anima che da subito va curata
di
Fanny Marchese, assistente
sociale
del
Soccorso Violenza Sessuale e Domestica
della
Clinica Mangiagalli di Milano
Lavoro
come assistente sociale al Soccorso Violenza Domestica e Sessuale della clinica
Mangiagalli. Non nascondo che è abbastanza emozionante per me che mi occupo di
donne vittime di violenza intervenire dopo questa testimonianza, quindi
perdonerete un po’ di titubanza.
Due
parole su che cos’è questo servizio: è un servizio che sta all’interno di
una struttura ospedaliera, nasce nel 1996 come Soccorso Violenza Sessuale, è un
servizio collocato all’interno di un Pronto Soccorso ostetrico ginecologico e
come potete immaginare sta aperto e funziona 24 ore su 24. Nasce su volontà
della Dottoressa Kustermann e con la collaborazione di Regione Lombardia, il
Comune di Milano, l’ASL, per inizialmente accogliere le donne vittime di
violenza sessuale e prestare a queste donne fin da subito l’assistenza
sanitaria necessaria. Ma non solo l’assistenza sanitaria, perché quando si
subisce un trauma di tale natura è abbastanza scontato che abbiamo sì un corpo
ferito, ma anche un’anima che da subito va curata. Il servizio negli anni si
è avviato e nel 2007 abbiamo cominciato anche ad occuparci di violenza
domestica. È un servizio quindi costituito da un’equipe di personale
sanitario: ginecologi, medici legali, infermiere, ostetriche, da psicologhe e da
assistenti sociali, che si occupano di tutta quell’altra parte che è
necessaria, di cui poi vi parlerò, e siamo anche supportati da un gruppo di
Avvocati che assiste le donne sia in sede Penale che Civile, perché occuparsi
di violenza di genere è un problema estremamente complesso e richiede
l’intervento di varie professionalità.
Come
potete immaginare io porterò qui il punto di vista delle donne, questo è
quello che noi facciamo e quello che ci hanno chiesto di fare, accogliere le
donne vittime di violenza. Premetto che questo non vuol dire che non ci
interessa lavorare con gli uomini, anzi, io e la nostra equipe crediamo che
possiamo affrontare e superare il tema della violenza di genere solo facendolo
insieme. È anche però vero che io ritengo che ci sono dei momenti e ci sono
dei luoghi che hanno un compito predefinito, quando una donna è vittima di
violenza ha bisogno di trovare un posto dove si sente accolta come vittima, e un
posto dove necessariamente deve trovare qualcuno che crea con lei un’alleanza,
che le crede, che la supporta. Questo luogo non penso che possa essere lo stesso
luogo in cui si prendono in carico anche gli uomini che hanno agito delle
violenze e che si sono assunti le loro responsabilità, che vogliono essere
curati. Credo che sia abbastanza semplice capire il perché, sono momenti e cose
diverse.
Il
nostro servizio è un servizio che è in funzione tutti i giorni dalle 9 alle
17, ma quando chiudiamo abbiamo una reperibilità 24 ore su 24, siamo a
disposizione di tutto il personale sanitario dell’ospedale, delle forze
dell’ordine. Ed è un servizio che è diventato un Centro di riferimento
Regionale sulla violenza sessuale, per cui tutte le donne che subiscono una
violenza sessuale in Regione Lombardia vengono portate al nostro Centro, dove
trovano la possibilità di avere un’accoglienza specializzata, ma di poter
fare anche appunto degli accertamenti sanitari e medicolegali che sono
estremamente importanti per tutto quello che verrà dopo. Il nostro Pronto
Soccorso generale è un Pronto Soccorso a cui le donne vittime di violenza
domestica vengono accompagniate dal 118, quando interviene, e i medici del
Pronto Soccorso possono avvalersi della nostra collaborazione sempre. Questo
quindi è quello che facciamo.
Io
preferisco parlare di violenza di genere più che di violenza domestica, perché,
va detto, soprattutto per quanto riguarda la violenza sessuale, è vero, noi
vediamo anche degli uomini che hanno subito violenze sessuali, quindi una parte
dei nostri accessi sono anche uomini vittime, ma in ogni caso hanno subito
violenze sessuali da altri uomini, per questo vi dico che questo è un problema
di genere.
È
importante capire che quando parliamo di violenza domestica parliamo di un
problema complesso, parliamo di una situazione dove ci possono essere percosse,
ci può essere violenza fisica, ci può essere a volte anche solo violenza
psicologica, ci possono essere minacce, ci può essere violenza sessuale e,
lasciatemi fare una precisazione, spesso le stesse donne non riconoscono la
violenza sessuale che avviene all’interno del vincolo matrimoniale, della
convivenza, quando sono costrette dal proprio marito o compagno a subire dei
rapporti sessuali quando loro non lo vogliono minimamente e non lo desiderano,
non gli viene neppure in mente che potevano sottrarsi, che questa in qualche
modo era una forma di violenza, perché le donne stesse considerano questo un
dovere coniugale. Quindi violenza fisica, violenza psicologica, violenza
economica, spesso queste forme di violenza si associano tra di loro, e non
dimentichiamo che in queste situazioni familiari vi è un’altra forma di
violenza che nasce e si sviluppa e che è la cosiddetta “violenza
assistita”, cioè, la violenza di cui sono vittime i figli di questa coppia
che continuamente sono esposti ad atti di violenza, anche là dove loro non
subiscono e non sono mai maltrattati, però ricevono un grave danno psicologico
assistendo continuamente a queste violenze.
Una
delle prime cose che noi facciamo nel nostro lavoro è quella di cercare di
distinguere le situazioni che sono delle situazioni di conflittualità dalle
situazioni di violenza. Quelle situazioni in cui vi è una conflittualità, a
volte alta, che può magari essere stata caratterizzata anche da un unico
episodio di violenza. È chiaro che vengono approcciate in una maniera diversa,
e sono tutte quelle situazioni su cui magari si può intervenire con altri
interventi, come ad esempio gli interventi di mediazione.
Le
situazioni che arrivano da noi sono invece situazioni caratterizzate quasi
sempre da violenze reiterate nel tempo. Quando veniamo allertati dai medici del
Pronto Soccorso sono loro stessi a fare già un primo screening, perché
accolgono la donna e molto spesso già raccolgono un racconto non solo
dell’episodio dell’aggressione avvenuta poche ore prima e che ha portato al
Pronto Soccorso, ma anche di episodi pregressi. A volte le donne non raccontano
gli episodi pregressi, ma la tecnologia in questo caso ci aiuta perché
un’altra cosa che abbiamo concordato con i medici e gli operatori del triage
è quella di verificare
immediatamente se la donna ha fatto altri accessi presso il nostro ospedale, e
se sì, per quale motivo. Quindi le situazioni di cui noi ci occupiamo e che
arrivano da noi sono situazioni in cui la violenza è già in corso. Allora noi
che cosa dobbiamo fare? Che cosa è prioritario in quel momento? In quel momento
è per noi assolutamente necessario fermare la violenza, perché ci sono quelle
situazioni che sfociano poi nei femminicidi, questa parola che non amiamo. Poi
quando le vai ad analizzare, molte di queste erano situazioni in cui si poteva
fare qualcosa prima, si potevano fare tante cose prima. Quindi quello che noi
siamo chiamati a fare nel momento in cui le donne arrivano da noi è cercare in
qualche modo di fermare la violenza, poi tutto ciò che è riparabile lo
ripariamo, ma in quel momento bisogna fermare la violenza e valutare il rischio
che la donna corre in quel preciso momento.
Quando
la violenza può esordire all’interno di una coppia?
Quando
la violenza può iniziare all’interno di una coppia, all’interno di una
relazione di convivenza o di un matrimonio? Può iniziare quando ci sono dei
momenti di crisi familiari, dei cambiamenti di vita all’interno della coppia.
Ad esempio uno dei momenti più diffusi di esordio della violenza è la
gravidanza. Noi che lavoriamo all’interno di un Pronto Soccorso ostetrico
ginecologico questo problema lo tocchiamo con mano. La donna è in una
situazione di maggior dipendenza quando è in gravidanza, dipendenza sia
affettiva che economica, aumentano le responsabilità e le preoccupazioni in
entrambi, è una condizione che può diventare estremamente stressante. A volte
gli uomini sentono di non essere più al centro dell’attenzione della donna.
Un
altro momento estremamente delicato in cui può iniziare la violenza o
manifestarsi in una maniera molto grave è quando le donne decidono di
separarsi, quando decidono di porre fine a una relazione che considerano
conclusa, che considerano non più tollerabile. E le donne questa cosa la
percepiscono.
Io
ho incontrato purtroppo centinaia di donne, e molte di queste alla separazione
ci avevano pensato, ma non avevano gli strumenti, non avevano le risorse ma
soprattutto avevano paura, perché un pensiero che spesso le donne hanno è
quello di restare lì e controllare chi ti fa del male, è meglio che non sapere
dov’è, non sapere quando può arrivare, e non rendersi conto che quindi può
diventare più pericoloso, successivamente.
Molto
spesso, quando andiamo in giro, molti ci chiedono: “Ma perché le donne non
denunciano, perché le donne non chiedono aiuto, perché non si muovono
prima?”. Cerchiamo di capire insieme perché. Molti autori lo hanno studiato e
naturalmente le situazioni di violenza domestica non sono delle situazioni in
cui c’è violenza tutti i giorni, solitamente si parla di un cosiddetto
“ciclo della violenza”. Un ciclo per cui l’uomo può essere violento, anzi
diciamo che solitamente la situazione è preceduta da una crescita di tensione
all’interno della coppia, poi vi è una manifestazione della vera e propria
violenza, e successivamente all’esplosione della violenza c’è una
cosiddetta fase di riconciliazione, c’è un momento in cui gli uomini chiedono
scusa, chiedono perdono, e le donne, che quasi sempre vogliono bene ai loro
compagni, li hanno scelti, li hanno sposati per amore, pensano che la cosa
importante sia tenere unita la famiglia per il bene dei figli, pensano che
quell’uomo possa cambiare e accettano le scuse, accettano il perdono, e il
ciclo ricomincia e questo fa si che le donne rimangano lì.
Le
donne non se ne vanno perché sperano sempre che il proprio compagno o marito
possa cambiare e perché lui non è sempre quella persona violenta, perché sono
poi donne che a causa del protrarsi della violenza fisica, verbale, psicologica
ormai si sentono completamente impotenti, non pensano che possa esserci
un’altra strada. Molto spesso sono donne che hanno appreso la violenza fin da
bambine, se hanno una storia familiare di un certo tipo, e sappiamo che spesso
è così. A volte hanno problemi pratici, non sono indipendenti dal punto di
vista economico. Pensiamo a quelle donne che hanno lavorato per tantissimi anni
e lavorano all’interno di un’impresa familiare. Prestano la loro attività,
lavorano, non sono retribuite, non parliamo dei contributi e di un futuro
pensionistico, hanno naturalmente svolto anche la loro attività casalinga, è
all’interno di quella relazione che subiscono la violenza domestica, voi
capite che pensare di separarsi, andare via vuol dire ricominciare da zero, non
sapere da che parte girarsi.
Spesso
c’è questa idea: “Sto con lui per i figli”. Perché questo della famiglia
unita è purtroppo un mito che dobbiamo un po’ sfatare, in queste situazioni
naturalmente, ci sono ancora una serie di condizionamenti psicologici per cui le
donne stesse pensano: “Non posso separarmi. Non è bene separarmi”. Spesso
le famiglie di origine danno questo tipo di messaggi, e poi soprattutto molto
spesso le donne non chiedono aiuto perché hanno paura, certo, perché a volte
non sanno dove andare, ma perché hanno paura, ricevono minacce e molto spesso
la violenza è accompagnata anche da questa minaccia: “Se denunci, se chiedi
aiuto, perderai i tuoi figli, te li porterò via, ammazzerò te e ammazzerò
tutti quanti”.
Adolfo
Ceretti introduce Francesca
Archibugi
“Attraverso
i centri antiviolenza non racconto soltanto cosa fanno gli uomini alle donne, ma
anche quanto le donne siano corresponsabili di questo stato di cose: come dietro
ogni uomo che picchia ci sia innanzi tutto una madre che l’ ha messo al mondo,
e poi delle maestre che lo hanno istruito, delle sorelle che lo hanno fatto
passare per primo, ed infine una compagna che, ognuna a suo modo, si è fatta
vittima. Come, cioè, la società legittimi la violenza”. Sono parole di
Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice che nel 1988 ha esordito dietro la
macchina da presa con Mignon è partita. Dopo vent’anni dall’uscita de Il
grande cocomero (1993) ho finalmente l’opportunità di esprimere tutta la mia
gratitudine ad Archibugi, perché questo film ha avuto un riflesso
importantissimo nel mio mondo, e ha rafforzato la motivazione di proseguire
nella strada che avevo intrapreso. Come è noto, Archibugi affronta in questo
film il tema spinoso delle patologie neuropsichiatriche infantili, attraverso il
ritratto della famiglia di una ragazzina epilettica. Il grande cocomero
ripercorre alcune fasi della vita del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo
Radice, e la sua esperienza al reparto di via dei Sabelli di Roma. Questo film
ha vinto numerosi premi. Non posso ora elencare tutti gli altri prestigiosissimi
film di Archibugi. Ricordo soltanto che nel 2012 ha girato il cortometraggio
“Giulia ha picchiato Filippo”, che vede quali protagonisti Scamarcio e
Trinca e contiene un toccante collage di testimonianze raccolte in alcuni Centri
antiviolenza. Prodotto dal Ministero delle Pari Opportunità e trasmesso da Rai
Uno per la Giornata Internazionale contro la Violenza alle Donne, ha vinto il
Peace Award sotto il patrocinio dell’Unicef nella diciassettesima edizione del
Festival Capri Holliwood.
Quella
spirale della violenza che comincia sempre da un amore molto romantico
di
Francesca Archibugi,
regista e sceneggiatrice,ha esordito nella
regia con Mignon è partita, ha
realizzato altri film fra i quali “Il GrandeCocomero”, “Lezioni di Volo” e “Questioni di Cuore”. È autrice del cortometraggio “Giulia ha picchiato Filippo”, che unisce testimonianze raccolte nei centri antiviolenza a una breve fiction
Come
immaginerete il mio intervento sarà diverso, non sono una esperta del settore.
Mi sono avvicinata al tema della violenza sulle donne perché si è trattato di
un’occasione che mi è stata offerta da una associazione che si chiama
“Differenza Donne”, che gestisce i Centri antiviolenza del Comune e della
Provincia di Roma. Naturalmente mi sono avvicinata a questa idea con il cervello
pieno di tanti luoghi comuni. Quindi la prima informazione è stata proprio
quella che mi ha permesso di disgregare le credenze che avevo, ed è stato molto
interessante riuscire a farlo.
In
questo periodo si parla molto di violenza sulle donne, e alcune mie amiche,
spiritose e ciniche, mi dicono sempre: “Ma cos’è all’improvviso questo
femminicidio, non parlate d’altro!”. In effetti è importante approfondire
una questione nel momento in cui si solleva un interesse, ma soprattutto questo
interesse bisogna sempre ricordare che purtroppo viene da numeri mostruosi di un
reato, di cui il nostro Paese è fra l’altro tristemente capofila.
Quando
ho iniziato la ricerca per questo lavoro, e mi è stata data completamente carta
bianca dalle organizzatrici di “Differenza Donna”, che ho conosciuto
approfonditamente, e dalle quali mi sono fatta guidare, e che non ringrazierò
mai abbastanza, mi sono resa conto che i luoghi comuni più forti che io stessa
per prima avevo erano che molto spesso avveniva una violenza tramite l’amore,
cioè la violenza di un uomo su una donna era un atto inspiegabile che avveniva
per un raptus, legato appunto all’amore.
Andando
invece ad analizzare le storie mi sono resa conto che spesso non era cosi,
naturalmente anche questo qualche volta accade, però la stragrande maggioranza
delle volte si innesca quella che viene chiamata “la spirale della
violenza”, cioè un fenomeno che ha proprio dei passaggi che sono legati al
rapporto uomo – donna, e che sono anche riconoscibili all’inizio. Io qui sto
parlando di violenza domestica e non di violenza di genere, perché anche in
questo bisogna fare una distinzione, cioè io sto parlando di quello che succede
fra le quattro mura di casa, non quello che succede a tante donne, magari
attraversando un bosco o in un luogo appartato, per mano di un estraneo. Questa
spirale della violenza che comincia sempre nello stesso modo, con un amore molto
romantico, dove una donna perde completamente la testa perché non è mai stata
trattata cosi berne, e che piano, piano si stringe secondo delle tappe che sono
sempre uguali, in una specie di coercizione, dapprima psicologica e poi via via
fisica, fino ad arrivare all’omicidio, all’assassinio che è una parola più
neutra, se non vogliamo dire “femminicidio”.
Io
credo che avendo coscienza, riconoscendo queste tappe ci si possa forse fermare
prima, e una di queste tappe, e vedo che ci sono molte donne qui dentro, tutte
le possono riconoscere quelle possibili tappe, è quel mobbing occulto che viene
fatto dentro casa. È quella la prima cosa che va rotta, il mobbing familiare,
cioè il fatto che molto spesso le donne vengono piano piano discriminate a loro
stesse. Ma questo mobbing che porta fino alla violenza, in realtà è del tutto
supportato dalle donne di contesto. Bisogna quindi anche accettare, e non sempre
sono riuscite a farlo delle grandi femministe, grandi pensatrici, che
nell’animo femminile c’è una grandissima componente antifemminista,
soltanto aprendo gli occhi su questo, e tenendoli bene spalancati, con quella
che Carla Lonzi chiamava l’autocoscienza, cioè il fondamento del lavoro sul
femminismo, una donna può accettare e riconoscere in se stessa anche quella
specie di “aberrazione antropologica”, che fa nei confronti delle altre
donne. Voler rinchiudere il rapporto fra le altre donne in una specie di parnaso
di sorellanza fasulla, purtroppo è quello che in tanto femminismo storico ci ha
impedito di progredire e fare dei passi avanti. Cioè il rapporto fra le donne,
fra donne è molto complesso, è bello per questo, ma non parlo soltanto della
solita rivalità che viene raccontata spesso, è qualcosa di molto complesso,
soprattutto con un uomo al centro. Io ho due figlie, ho anche un maschio, ma con
le figlie il rapporto nei confronti del padre è particolare, e poi la madre
dell’uomo e poi le sorelle e poi le colleghe, cioè molto spesso
l’assassinio di una donna avrebbe potuto essere riconosciuto, denunciato,
fermato da tutte le donne che ci sono state intorno e che non hanno voluto
vedere, semplicemente. Perché il percorso dell’uomo violento spesso viene
giustificato, gli uomini sono tendenzialmente sempre giustificati, perfino dai
giornali. Perché parlare di un raptus di una persona tendenzialmente molto
normale e non violenta, voler dipingere così certi comportamenti qualche volta
è un modo per giustificare perennemente il fatto che esista la violenza
domestica, e la violenza di genere dell’uomo sulla donna. Cioè, gli uomini
nei confronti delle donne sono violenti, sono più violenti di quanto non lo
sono le donne, su questo bisogna mettersi d’accordo e accettare questa cosa,
perché molto spesso sui giornali, nell’informazione la violenza viene
raccontata come un caso eccezionale, ma non è un caso eccezionale. La violenza
si può fermare, a partire da un tipo di mobbing psicologico, che tutte
conosciamo, e dal quale tutte dobbiamo difenderci, per arrivare fino alla sua
degenerazione più violenta.
Adesso
io mi vorrei occupare di un documentario che parli dal punto di vista degli
uomini, vorrei andare a intervistare, far parlare gli uomini che hanno commesso
violenza. Anche qui non ho ancora incominciato questo lavoro e mi immagino che
dovrò imparare molto, perché i documentari sono, lo diceva bene Rossellini,
sempre utili perché tu impari, vai li, fai delle interviste e cerchi di capire.
Spero così di vedere anche sgretolarsi i luoghi comuni che ancora non so di
avere. Quello che fino ad ora ho capito è che è molto difficile intervenire su
un uomo violento, lo dico qui e lo dico con un brivido, nel senso che abbiamo
avuto una testimonianza molto toccante di un uomo incredibilmente mansueto. Però,
studi di tutto il mondo ci stanno dicendo che è molto difficile, si può
prevenire la violenza, ma non riconvertire un uomo violento, e a queste
conclusioni sono giunti in Canada, in Danimarca, in Inghilterra, addirittura le
mie adoratissime operatrici dei centri antiviolenza, che ho già incominciato a
sentire anche per questo lavoro, sostengono che gli sportelli, l’ascolto, sono
drammaticamente risorse buttate, perché spesso vengono utilizzate soltanto per
ottenere degli sconti della pena, con dei finti pentimenti. Allora io sto
dicendo questo in un carcere, mi rendo anche conto della sgradevolezza di quello
che posso dire, non sono cosi insensibile, ma io mi sento di dirlo a cuor
leggero, perché sono profondamente contro la cultura carceraria, cioè non
credo che il carcere serva a niente per questo genere di problemi. Questa idea,
purtroppo anche della sinistra, del “buttarli dentro in una cella e poi
buttare le chiavi”, è una cosa che secondo me non ha senso. Però bisogna
unire queste due cose, cioè il fatto che molto spesso non è il carcere il
posto dove devono stare le persone che commettono un certo tipo di reato, a meno
che non siano reiteratamente violenti, ma anche il fatto che il percorso del
pentimento spesso non è radicato e profondo, perché riguarda tutta una serie
di altre questioni che bisognerebbe analizzare. Io in questo mi sento un po’
portavoce delle operatrici che lavorano sul campo della violenza, e voglio anche
parlare di quella terribile omertà giustificazionista da parte della società,
che permette all’uomo violento di continuare a perpetrare i suoi delitti.
Adolfo
Ceretti
Ringraziamo sentitamente Francesca Archibugi. Un’unica nota. Archibugi è ricorsa a espressioni molto forti, soprattutto per quel che riguarda la questione dell’atteggiamento manipolatorio che i soggetti violenti possono assumere nei confronti delle istituzioni e di chi li prende in carico. Io sono un docente universitario ma, orgogliosamente, lavoro anche sul campo. Desidero sottolineare, tenuto conto di tutte le persone che sono qui, detenuti e operatori, che uno degli aspetti più difficili, più complessi, ma anche affascinanti del nostro lavoro è quello di accogliere questo atteggiamento manipolatorio e opportunista che indubbiamente assai spesso viene giocato, per trasformarlo in qualcos’altro. Paradossalmente, quell’atteggiamento, quando si manifesta, può essere un passaggio decisivo nell’”aggancio” del soggetto in questione, che si esprime più o meno in questi termini: “Io adesso domino anche voi, piego anche voi ai miei fini, ai miei obiettivi”. È lì che i bravi operatori sanno ascoltare, sanno cogliere l’opportunità per provare a promuovere una cesura. Io sono un po’ più ottimista di Archibugi e non credo che tutti i soldi siano buttati. Lo dico senza polemica, ma ci tengo a sottolinearlo.