Capitolo quinto: Alzi la mano chi ha voglia di fare l’innocente

 

Due sono i significati principali della parola “innocenza”: “Condizione morale e giuridica di chi non ha fatto del male a nessuno ed è quindi senza colpa” e “Condizione spirituale di chi è ignaro del male, senza peccato”. Chi la violenza l’ha usata, il male lo ha conosciuto, e se quel male decide a sua volta di farlo conoscere narrandolo anche a noi, perderemo l’innocenza perché non saremo più “ignari del male”, ma almeno saremo più attrezzati a conoscere anche il male che c’è dentro di noi. Le narrazioni degli autori di reato possono diventare allora un modo per pagare davvero quel debito contratto con la società per aver rotto il patto sociale: e forse è di narrazioni vere che abbiamo bisogno, ne hanno bisogno prima di tutto le vittime, per trovare finalmente un po’ di verità, ne hanno bisogno i cittadini “perbene” per capire che la linea che li divide da chi ha commesso un reato è a volte incredibilmente sottile, e lo è in modo particolare per i reati dei quali abbiamo più paura, quelli che la cattiva informazione attribuisce ai “mostri”, impedendoci irresponsabilmente di imparare qualcosa dal “male degli altri”. E quindi abbiamo un disperato bisogno di “buone narrazioni” anche da parte di chi si occupa di informazione.

 

 

Un carcere dove ti consigliano di trovare un modo per “ammazzare il tempo”

Sono così oggi moltissime carceri, e le persone si convincono di essere in galera perché sono state sfortunate ad essere arrestate, e non perché hanno fatto delle scelte sbagliate

 

di Clirim Bitri, Ristretti Orizzonti

 

Mi chiamo Clirim, sono arrivato in Italia dall’Albania nel ‘96. Prima ero un ragazzo normale con tanti sogni, studiare, lavorare e costruire una famiglia. Ma sono rimasti solo sogni. In Italia ci sono arrivato con l’obiettivo di guadagnare qualche cosa che mi permettesse di cominciare gli studi universitari, ma per raggiungere il mio obiettivo ho scelto la strada sbagliata, scelta che mi ha portato varie volte in carcere, e ogni volta aumentava la gravità dei reati, e tutte le volte firmando delle carte che non capivo, che mi portava l’avvocato, riuscivo ad uscire.

Nel 2002, mentre aspettavo l’ultimo processo, vedo che non potevo più sfuggire al carcere e cosi ho avuto la mia ultima “brillante” idea, non mi sono presentato al processo, e ho cominciata la vita da latitante. Ho fatto questa vita per 7 anni, 7 anni con la paura verso tutti quelli che non conoscevo. Oggi so che è più facile vivere in carcere che vivere tutti i giorni con il terrore di essere arrestato.

Nel 2009 vengo fermato e arrestato. Questa volta non c’erano né l’avvocato né tante carte da firmare, solo un foglio con la scritta: deve essere condotto al carcere più vicino. Dove dovevo scontare le mie vecchie condanne definitive: quasi 13 anni di pena.

Carcere diverso da quello delle mie prime carcerazioni, ma la stessa scena: cella sbarre e guardie, e l’unica regola “Non esistere” come persona. I primi consigli me li dà il mio compagno di cella: se vuoi ottenere la liberazione anticipata NON litigare e NON prendere rapporti disciplinari. Quando gli chiedo che cosa posso fare, mi dice di trovare un modo per “ammazzare il tempo”. Mentre io cercavo un modo per ammazzare il tempo subentra un altro problema, la cella diventa più piccola: progettata per una persona, adesso ci devono stare tre detenuti. E io comincio a capire come ammazzare il tempo: lottare per sopravvivere, ma lottando per sopravvivere stavo dimenticando perché mi trovavo in carcere. In questo lottare per sopravvivere ho visto tanti miei compagni uscire a fine pena arrabbiati per aver pagato più del dovuto, e li ho visti convinti che non dovevano più niente a nessuno, che avevano già pagato abbastanza. Lo stesso sentimento si stava radicando in me: la sensazione che non dovevo più niente a nessuno perché stavo scontando la pena in queste condizioni di totale assenza di senso.

Quasi un anno fa ho cominciato a fare parte della redazione di Ristretti Orizzonti, dove oltre al giornale si fanno incontri con le scuole, e con vittime o famigliari di vittime di reati. Negli incontri con gli studenti non so cosa colgono loro, ma io mi sento bene per due motivi: perché non mi sento giudicato, e perché mi sento utile. In questo posto dove non si fa niente, mi sento utile a qualcuno. Negli incontri con le vittime o i famigliari delle vittime di reati, la prima cosa che ho visto in loro, ho visto che erano delle persone che avevano avuto dei sogni come i miei, studiare, lavorare e crearsi una famiglia, fino a quando qualcuno come me, consapevole o no, si era intromesso nella loro vita cambiandola per sempre. La seconda è che mi sono sentito male guardando le persone che avevano subito reati e non ci odiavano, non ho visto in loro quell’odio che mi aspettavo. Allora ho capito che oltre ad avere infranto delle leggi avevo fatto anche del male. Dopo quegli incontri ho cercato di immaginare il male che ho fatto a tutte quelle persone che avevo calpestato mentre inseguivo il mio obiettivo.

Oggi mi sento male quando guardo i miei compagni che stanno nelle sezioni, che per mancanza di spazio e di personale non sono messi in grado di capire che non sono in carcere perché sono stati sfortunati ad essere arrestati, ma perché hanno fatto delle scelte sbagliate. Le stesse scelte che mi hanno portato oggi qui, a cercare di contenere i disastri della mia vita.

Fra qualche anno finirò di scontare il mio debito con la giustizia, ma non so se potrò rimediare al male fatto verso chi ha avuto la sfortuna di trovarsi sulla mia strada mentre inseguivo la mia illusione.

 

 

La possibilità di una riflessione che non lascia spazio al vittimismo

È la riflessione che nasce dalle domande che fanno gli studenti, che ti spiazzano e ti costringono a fermarti a pensare a quello che hai fatto senza nasconderti

 

di Qamar Abbas, Ristretti Orizzonti

 

Sono in carcere per un reato molto grave, omicidio, avvenuto in seguito a una rissa fra connazionali: dopo una serie di soprusi e violenze subite da loro, ad un certo punto si è scatenato quel meccanismo di reazione istintiva che era nascosto dentro di me. E di conseguenza, oggi, sono qui a pagare per un lungo periodo della mia vita rinchiuso tra queste mura, e sto cercando di capire come si poteva evitare quello scontro che si è innescato e non si è più fermato. Ora sto allenando la mia mente a riflettere sul fatto di “pensarci prima”. Quel giorno la mia reazione violenta, che mi ha coinvolto e fatto perdere il controllo, ha avuto l’effetto di portarmi in carcere. Cosa che non avevo mai messo in conto, anche perché i miei pensieri erano lontani da questa realtà.

Perché dico questo? Perché io facevo una vita regolare, con un lavoro e uno stipendio, e quando nella mia vita è arrivato questo momento difficile, ho reagito nel modo più violento verso quel gruppo di persone con l’idea di difendermi da quelli che volevano farmi male, con la conseguenza che ho procurato la morte di una persona.

Ma vorrei sottolineare un altro punto che il carcere non ti fa mai capire: perché sei qui? E cosa hai fatto? Ti danno una condanna e sei lì buttato sulla branda, senza fare nulla dalla mattina alla sera. Questo tipo di carcerazione non mi faceva sentire in colpa, pensavo che mi ero solo difeso, perché quelle persone volevano farmi del male, e poi purtroppo era successo il contrario, che il male lo avevo fatto io.

In quel momento cercavo solo di sopravvivere, ma poi quando sono arrivato nel carcere di Padova e ho avuto l’opportunità di frequentare la redazione di “Ristretti Orizzonti”, ho iniziato un percorso diverso da quello che gli altri istituti penitenziari proponevano.

Nella redazione si aderisce ad un “progetto scuola/carcere”, a cui partecipo attivamente da alcuni anni: incontriamo migliaia di studenti, e le domande che fanno ti spiazzano e ti portano a riflettere su quello che hai fatto, una riflessione che non lascia spazio al vittimismo, ma che ti mette di fronte alle tue responsabilità.

Domande e riflessioni che vengono riprese anche nelle riunioni che facciamo tra noi in redazione, dove si approfondiscono gli argomenti e si impara a rispettare anche le opinioni degli altri. E quello che ogni volta ricevo, soprattutto nel confrontarmi con questa parte di società esterna rappresentata dagli studenti, penso sia un passo in più verso la consapevolezza di ciò che ho causato, del male che ho fatto, e quello che ho prodotto con il mio atto violento, una rielaborazione del mio passato che mi ha permesso di riconoscere il danno che ho creato alla famiglia della vittima e ai miei cari.

 

 

Adolfo Ceretti introduce Riccardo Iacona

 

Riccardo Iacona è giornalista dal 1988 ed è entrato ben presto a fare parte della squadra della terza rete Rai diretta da Guglielmi. Nel 1996 lascia la Rai insieme a Michele Santoro per diventare un autore dei programmi “Mobydik” e “Mobis” su Italia Uno. Ritorna in Rai, ancora insieme a Santoro, con il quale inizia a collaborare per “Circus” e, poi, “Sciuscà”. Si occupa di giornalismo d’inchiesta caratterizzato da un forte coinvolgimento personale. Per questa caratteristica i suoi reportage potrebbero essere definiti reportage emotivi. Ha realizzato numerose trasmissioni su Rai Tre, su varie realtà della vita italiana, quali per esempio: “Viva gli sposi”, “Viva il mercato”, “Viva la ricerca”, e la serie di inchieste “Viva l’Italia” (2006). Nel 2009, sono andate in onda, su Rai Tre, parecchie puntate del programma “Presa diretta”, che nel prossimo autunno tornerà finalmente sul piccolo schermo. È autore di vari libri, Racconti d’Italia, pubblicato nel 2007, L’Italia in presa diretta (2010) ma, quasi certamente, il motivo della sua presenza qui, oggi. è legato a una pubblicazione del 2012: Se questi sono gli uomini. Italia 2012, la strage delle donne.

 

 

C’è bisogno di una contronarrazione, fatta di tante narrazioni

Come comunicatore, come narratore sento forte, urgente la necessità di rimettere al centro del racconto le nostre responsabilità di uomini

 

di Riccardo Iacona, giornalista, lavora all’ideazione e alla realizzazione

del programma Presadiretta. È autore dei libri “L’Italia in Presadiretta”

e “Se questi sono gli uomini”

 

Rassicuro tutti che Presa diretta continua, e pensiamo anche di tornare sui temi della violenza di genere, che da soli, e devo dire che questa è una parte del racconto che vi farò oggi pomeriggio, abbiamo affrontato in prima serata in una trasmissione, nello spazio nobile dell’approfondimento giornalistico, là dove passano le grandi questioni nazionali. Il processo di rimozione, a fronte di una cronaca che raccontava la morte di queste donne in continuo aumento, quindi avrebbe dovuto allarmare tutti quanti, a fronte di questo il processo di rimozione di queste questioni nel nostro Paese è talmente potente, che nessuna trasmissione di quelle di peso, cioè di quelle che parlano dei problemi nostri, economici, sociali, politici, ne abbiamo tantissimi, ha mai messo al centro negli ultimi anni in prima serata per due ore il tema della violenza di genere. Questo è uno degli aspetti che mi ha spinto a fare questo lavoro d’inchiesta di cui vi parlo oggi, che poi è sfociato in un libro e in una puntata di Presa diretta, lavoro d’inchiesta vero di quelli che quando esci fuori sei più ricco perché hai capito delle cose, lungo nel tempo perché sono stato in giro per due mesi, ricco dal punto di vista degli incontri che ho fatto, perché ho ricostruito una decina di queste storie avvenute nel 2012, gettando come piace a me “la rete larga”, quindi attraversando i contesti, parlando con i testimoni, con i vicini di casa, con i parenti, i poliziotti, i magistrati che hanno fatto l’inchiesta. Ma, soprattutto, attraversando quegli straordinari laboratori di questa contro-narrazione, che in Italia non è mai in primo piano perché c’è questo processo di rimozione in corso, che sono i tanti centri antiviolenza che da anni costruiscono questa narrazione, se non altro perché hanno il compito concreto della cura, Cioè si sono posti l’obiettivo di mettere in atto delle pratiche di recupero, di cura, di salvataggio della donna e di reinserimento delle donne maltrattate o a rischio vita, per aiutarle a riprendersi la vita in mano.

Io sono partito per fare questo viaggio perché sentivo che c’era qualcosa che non quadrava, non era possibile… cioè voglio dire, sono bastati e sono tantissimi 30 morti nello spazio di un mese e mezzo a Scampia perché tutta l’Italia parlasse della guerra di Scampia, e perché Prodi in Consiglio dei Ministri andasse fino a Napoli per parlare di questa questione qui. Perché in Italia lo sappiamo che quando muore un ragazzo di Scampia è un morto di criminalità organizzata, che non è un morto qualsiasi, è un morto che ha un peso nella storia del nostro Paese. Quelle morti non sono senza senso, ci segnalano l’esistenza di un contropotere nel nostro Paese e quanto è larga quella terra di confine dove si incontrano la Mafia, l’Economia e la Politica. Invece queste donne spesso non avevano un nome e cognome, finivano nelle cronache delle storie d’amore “andate a male”. Eppure sono 124 nel 2012. Quindi in questa cronaca che finiva sul tavolo della mia Redazione, c’erano tanti punti interrogativi che mi hanno spinto a fare questo viaggio.

Per esempio la cronaca, oltre a schiacciare tutte queste storie nella relazione sentimentale con l’uomo, spesso dipinge questi fatti come qualcosa che è molto lontano da noi, come se appartenesse a una sorta di periferia, o culturale, o economica, o sociale del Paese, ma questo cozza con il fatto che i numeri sono in aumento dal 2006, cozza con la giovane età dei protagonisti di queste storie. Non è un’Italia in bianco e nero, non ci sono alibi a cui ci si può attaccare, non possiamo dire: va bene, queste storie appartengono a un’Italia che non esiste più, moriranno con la morte di questi protagonisti antichi. No! è un conflitto moderno, antico e moderno allo stesso tempo.

Ma secondo la mia griglia interpretativa, che è quella che applico ogni volta che ho un’inchiesta in corso, cioè cerco di mettere in campo tutti gli strumenti disponibili per tentare di fare vibrare il più possibile le connessioni di senso fra i fatti che succedono, chiaramente c’è qualcosa che non torna nei racconti che vengono fatti.

Allora io voglio andare alla conclusione del viaggio, chi poi il viaggio lo vuole seguire, si può leggere il libro, ed è un lavoro sul quale noi andremo avanti, ma oggi voglio arrivare alla conclusione della mia inchiesta. Cosa ho scoperto io? Su che cosa sto lavorando, su che cosa ho lavorato? Nel disvelare questa nebbia di rimozione che c’è attorno all’argomento e cercare di capire che cosa nasconde, ci si accorge allora che nasconde un Paese profondamente ostile alle donne.

A questo serve la cortina fumogena, a questo serve schiacciare queste storie tutte nella relazione sentimentale come se fossero delle storie d’amore andate a male, un raptus di gelosia, sono delle griglie interpretative legittime naturalmente, perché ogni storia può essere affrontata da tanti punti di vista, ma che ci dicono poco di quello che sta succedendo, che non mettono assieme le storie di Napoli con quelle di Torino, le storie di ricchi con quelle dei poveri.

Quindi a questo serve questo armamentario costruito sull’amore, a farle diventare una cosa fisiologica. In realtà è il nostro Afghanistan, il nostro Afghanistan è il condensato di queste bugie, di queste storie dove non si va a vedere veramente che cosa sta succedendo. Quindi servono a tenere lontana dall’agenda della politica la grande questione femminile nel nostro Paese, talmente grande che nel gender gap siamo in una posizione vergognosa, talmente grande che noi siamo più vicini al nord Africa che alla Germania e la Francia in tante variabili importanti nel nostro Paese. E poi serve a tenere lontani i responsabili veri di queste violenze, cioè gli uomini, a salvaguardare noi, a tenerci lontani da queste storie… appunto sono storie di matti, sono storie di altri, non sono le storie mie, di Riccardo, le storie di Adolfo, le storie nostre. Sono la minima parte diciamo… anche su questo minimo, e qui chiudo, ci sarebbe un po’ da riflettere, anche qui ci vuole un po’ di verità giornalistica, perché i dati sono alti, non possiamo più parlare di una minoranza. La violenza nei confronti delle donne italiane è endemica se andiamo a vedere i numeri, non è un fenomeno di poco conto che uno può far finta che non esiste, e non è un caso che i cosiddetti femminicidi aumentano perché la base della piramide è larga, e anche la punta lasciatemi dire non è proprio una punta cosi da poco. In Spagna, nel 2011, sono state uccise 63 donne. Una ogni sei giorni. Prima dell’inizio dell’amministrazione Zapatero ogni 24 ore un maschio uccideva una femmina. E da noi? Un sesto delle italiane, secondo un’indagine Istat del 2007, ha subito un abuso. La Spagna è un Paese che ha messo in atto delle buone pratiche politiche attive ed è riuscito a contenere la statistica delle donne uccise e anche ad arginare la violenza che anche lì era, ed è endemica come in molti Paesi.

Allora c’è bisogno di una contronarrazione, fatta di tante narrazioni, ma per quello che è il mio compito come comunicatore, come narratore sento forte, urgente la necessità di rimettere al centro del racconto le nostre responsabilità di uomini. Perché lo sguardo da esterno su quelle scene del delitto ci racconta forse un nucleo importante, che spiega il conflitto e che ha a che fare con la libertà. Le donne uccise che io ho raccontato non erano povere vittime. Sono state vittime, magari per tanti anni, ma sono state uccise nel momento preciso in cui hanno deciso definitivamente di liberarsi, di riprendere in mano la loro vita, altrimenti non le avrebbero uccise, e vi sto parlando della stragrande maggioranza dei casi. Sono storie nostre, questo ci racconta la cronaca del loro martirio, 124 donne nel 2012 come se fossero state uccise tutte da un solo uomo e tutte per lo stesso motivo: libertà. Libertà di scegliere, di lasciare, di decidere di vivere da sola, anche con i figli a carico, voglia di riprendersi la vita in mano, una vita dove lui non è previsto. Sono morte non perché deboli ma perché forti, sono state uccise quando si sono liberate del loro uomo, sono martiri della libertà. Eppure vengono raccontate come morti d’amore, l’amava così tanto che poi alla fine l’ha uccisa. E noi così le uccidiamo due volte, cancellando anche quel grido di libertà che ci lanciano in Italia ogni due, ogni tre giorni. Questo ci dice qualcosa sulla natura di questo conflitto. Sentivo parlare prima Francesca Archibugi della sua necessità di raccontare “gli uomini maltrattanti”, ha ragione. L’ultimo capitolo io l’ho dedicato a loro, a quei pochi che seguono, purtroppo perché sono pochi, i corsi in Italia cosiddetti di rieducazione. In Austria grazie a questi corsi imposti per legge la recidiva è stata abbattuta del 40%, sono risultati importanti.

Questo è il Paese dove sappiamo tutto e facciamo pochissimo. Ci sono altri Paesi che sono un po’ più concreti come la Germania, l’Austria, dove intanto cominciano a fare qualcosa e poi vedono i risultati di questo fare qualcosa. Invece nell’assenza totale o nella poca pratica politica che si fa su queste questioni vive anche questa frustrazione, tanto ben delinea­ta oggi da Bruno Turci, quando ha fatto la domanda diretta sui temi della giustizia: dal 2006 che cosa è successo, che cosa è cambiato? Bene, chiudo quindi dicendo che abbiamo bisogno di fare queste contronarrazioni, abbiamo bisogno di costruire su queste contronarrazioni una pratica politica, tante pratiche politiche attive. Alcune sono a costo zero, hanno a che fare con la formazione, possiamo benissimo farle con il nostro Ministero, con le nostre scuole. Altre hanno bisogno di poche decine di milioni di euro, questi sono i soldi che servono per esempio per costruire la rete dei centri antiviolenza anche nei posti in cui i centri non ci sono. Altre hanno bisogno di intervenire dopo, noi siamo in un carcere, io ho fatto puntate sulle carceri dove questo “DOPO” spesso in quasi tutte le carceri italiane viene cancellato, abbiamo sentito le testimonianze sotto questo punto di vista fortissime che non hanno neanche bisogno di essere commentate. Stiamo parlando di consapevolezza, responsabilità, rieducazione, rimettersi in circolo come persona, avere la possibilità una volta usciti di non seguire un percorso di distruzione. Su questo noi stiamo facendo pochissimo, perché finora non c’è stato il riconoscimento del nostro Afghanistan. Perché finora non c’è stata una assunzione di responsabilità politica a livello nazionale che si sia posta il problema della questione femminile nel nostro Paese, questo è il punto.

Io che in Afghanistan ci sono stato tante volte per lavoro e ho incominciato a capire perché le donne portano il burka in quel Paese. Ebbene, nessuno si domanda in Afghanistan, e neanche le donne, se se lo devono togliere o mettere questo burka, se lo mettono punto e basta, perché non c’è dibattito su questa questione. Se tu non ti metti il burka rischi la vita. Sei oggetto di rapina, sei oggetto di stupro, sei oggetto di violenza, perché la donna in Afghanistan vale meno dello scarpone di un uomo. Ecco, ce lo abbiamo anche noi il nostro Afghanistan, semplicemente lo copriamo, non lo vogliamo vedere, non ce ne vogliamo assumere la responsabilità, e penso che da lì se partiamo possiamo anche spostare in avanti la famosa trincea culturale che in questo Paese è diventata un alibi come tanti altri, per cui si dice che è una questione culturale e non si risolverà mai. No, io sono profondamente convinto che sono temi importanti che riguardano tutti quanti, perché hanno a che fare con la ricchezza del nostro Paese, questo è un Paese che non andrà da nessuna parte contro le donne italiane.

 

Adolfo Ceretti

Questo intervento appassionatissimo ha detto molte verità. Anch’io, come è già stato detto da altri, sono tra quelli che non amano la parola “femminicidio”. Però, prima di accantonarla, proviamo a essere riflessivi. Da un punto di vista criminologico, un conto è uccidere una donna… che so… sconosciuta, impulsivamente. Del tutto diversa, invece, è la situazione in cui un uomo uccide una donna perché non accetta di interrogarsi sul fallimento della propria vita amorosa e, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la sua solitudine, reagisce minacciando, perseguitando e, finanche, ammazzando chi reputa “colpevole” di avere riaperto la sua ferita narcisista. Sono due cose diverse, dunque, uccidere una donna fuori da un contesto domestico e/o di relazione di coppia, o ucciderla dopo essere entrati in questa spirale. Mi sembra che i ragionamenti che Iacona ci ha donato aiutino ad approfondire questa traccia. È molto complesso, naturalmente, esprimere concetti che toccano le sensibilità di tutti in pochi minuti. Tutti i relatori, però, sono stati a mio modo di vedere bravissimi nel ritagliare pensieri che ci hanno aiutato a pensare pensieri difficili.