Capitolo
quarto: Quali narrative per le scienze
che si occupano del male?
È,
questo, il tema che affronta Alfredo Verde, criminologo, quando spiega che le
narrative prodotte attorno al delitto “particolarmente nel processo – ma non
solo – rischiano di strutturarsi come sistemi rigidi al fine di tessere trame
volte essenzialmente a escludere anziché a comprendere, ad espellere
l’alterità anziché ad accoglierne gli aspetti vitali, a stigmatizzare la
diversità del deviante anziché riconoscerne la contiguità e l’umanità”.
Misurarci con le narrative degli specialisti, di quelli che scrivono le perizie,
di quelli che al processo ti inchiodano a nient’altro che al reato, e ti
trasformano in un “reato che cammina” è allora particolarmente importante
per noi che dal carcere affidiamo i racconti spietati di pezzi di vite violente
a tanti giovani studenti, con la speranza che si allenino così “a pensarci
prima”.
La
narrazione giudiziaria e quella con al centro l’umanità degli individui
Io non mi
sono mai riconosciuto nella narrazione dei fascicoli, nella ricostruzione della
trama del reato. Mancava il presupposto principe, la persona, la storia
di
Bruno Turci,
Ristretti Orizzonti
L’argomento
di cui intendo parlare è la narrazione del delitto, e parto da una riflessione
che riguarda la mia esperienza personale, per riferirmi poi al libro “Il
delitto non sa scrivere”, scritto da Alfredo Verde insieme a tre suoi
colleghi.
La
narrazione giudiziaria non è quasi mai rappresentativa delle persone che hanno
commesso i reati. Io non mi sono mai riconosciuto nella narrazione dei
fascicoli, nella ricostruzione della trama del reato. Mancava il presupposto
principe, la persona, la storia. La narrazione giudiziaria è spesso funzionale
a creare la figura del mostro, quindi una figura “estranea” alla società
civile, che per questo motivo non si riconosce in alcun modo negli autori del
reato.
A
distanza di anni dagli episodi per i quali sono stato condannato, ho voluto
leggere il dispositivo di alcune sentenze che mi hanno riguardato. Certamente il
tempo trascorso ha prodotto una distanza ancora più siderale tra me e quegli
episodi, ma in ogni caso, anche cercando di ricordare com’ero in passato, non
sono riuscito a ritrovare me stesso in quelle trame. Mi sono sentito lontano da
quella narrazione, frutto delle interpretazioni e delle ricostruzioni operate
dai diversi organi giudiziari e che sono quindi sfociate nel processo. Ancora
oggi, a distanza di anni, quei fascicoli sono li a rappresentarmi narrando di me
cose che mi sono lontanissime. Eppure mi ci debbo confrontare.
La
narrazione di cui, invece, sono protagonista durante gli incontri con gli
studenti ha alla base la ricostruzione degli atti, dei passaggi, dei
comportamenti che riguardano una persona che giunge al punto di commettere dei
reati. Questa narrazione implica una rielaborazione che comporta la presa di
distanza da quei fatti e il superamento di una scellerata scelta di vita.
Distinguo
pertanto la narrazione giudiziaria dalla narrazione che porta in evidenza
l’umanità degli individui, i quali pur avendo creato delle vittime a seguito
dei loro reati, sono persone emendabili, persone con storie di vita e con ambiti
famigliari nei quali si può riconoscere anche la società civile.
Volevo
per finire fare una domanda al Professor Alfredo Verde riguardo al libro “Il
delitto non sa scrivere”: lei ha descritto la fallibilità di molti
criminologi rivelando l’approssimazione con cui hanno scritto le loro perizie.
Ha fatto emergere un fenomeno davvero preoccupante. Ha sicuramente reso un
grande servizio alla giustizia. Ma cii interessa conoscere anche l’esito che
ha prodotto il libro. Sapere cosa è cambiato. Le perizie continuano a essere
scritte in quella maniera? La categoria dei criminologi e degli “addetti ai
lavori” ha provato a stigmatizzare certi comportamenti?
Una
narrazione che non ci inchiodi solo al momento del reato
Noi
narriamo pezzi delle nostre storie con l’idea di far prevalere la persona che
c’è dentro ognuno di noi, non il reato in sé
di
Sandro Calderoni,
Ristretti Orizzonti
Voglio
partire dal progetto che facciamo con le scuole, perché la cosa più
significativa è proprio la diversità di narrazione che noi facciamo con le
persone, nel senso che in un processo fondamentalmente è il reato quello che
prevale, mentre noi quando ci narriamo, narriamo la storia, quello che ha
portato comunque al reato. E cerchiamo di evidenziare gli inizi, perché
comunque abbiamo a che fare con studenti giovani, di 17/18 anni, quel periodo
della vita in cui la trasgressione è un fatto che comunque viene dato per
scontato, per “normale”, e non ti rendi conto che spesso questo ti porta ad
andare oltre, fino ad arrivare anche a commettere reati, inseguendo sempre quel
senso di libertà che ti dà il trasgredire alle regole.
Devo
dire che questo genere di narrazione con gli studenti secondo me ha due capacità:
quella di cercare di prevenire, cioè fare in modo che gli studenti, o le
persone che ci ascoltano, attraverso i nostri errori possano vedere certi
passaggi errati, noi lo chiamiamo “un allenamento a pensarci prima”, perché
in realtà quello di pensarci prima è un esercizio che non si riesce facilmente
a fare, e noi che non siamo riusciti a farlo seriamente sappiamo quanto sia
importante allenarsi a una riflessione profonda sui nostri comportamenti.
Dall’altro lato è la possibilità per noi, che comunque abbiamo commesso dei
reati, di scontare una pena veramente attiva, perché l’idea di fondo qual è?
È che ti viene inflitta una pena perché hai commesso dei reati, quindi
dovresti capire, attraverso la punizione, perché sei arrivato a fare questi
errori.
Ma
già è emerso in tutti i modi che le carceri in Italia fondamentalmente non
permettono di arrivare a questa consapevolezza. Non permettono questo perché,
anche, ma non solo, a causa del sovraffollamento, in carcere la persona che
viene rinchiusa perde ogni forma di responsabilità, perché, qualsiasi cosa
debba fare, deve chiedere, deve dipendere da qualcuno che decide per lei, che
apre e chiude dei cancelli per farla uscire, che le impedisce di scegliere anche
a che ora farsi la doccia.
Ecco,
con le scuole noi impariamo ad assumerci delle responsabilità, a metterci in
gioco, a cominciare ad acquisire degli strumenti che una volta fuori ci possono
permettere, magari, di non ricadere negli errori che abbiamo commesso prima.
Questa è in sostanza la diversità, secondo me, che sta nel narrare pezzi delle
nostre storie con l’idea di far prevalere la persona che c’è dentro ognuno
di noi, non il reato in sé. Una narrazione che non ci inchiodi solo al momento
del reato, non esaurisca il racconto al momento del reato.
Adolfo
Ceretti introduce
Alfredo Verde
Alfredo
Verde, professore ordinario di criminologia presso l’università di Genova, ha
scritto “Narrative del male” e “Il delitto non sa scrivere”. È uno dei
miei colleghi più cari, volevo solo ricordare che Alfredo ha costruito questi
tre livelli del discorso criminologico, che a suo giudizio dovrebbero
intersecarsi perché noi possiamo capire effettivamente che cos’è la
criminologia. Uno di questi livelli è il livello folk, cioè il livello del
senso comune, ognuno di noi pensa qualche cosa sul crimine. Poi c’è un
livello scientifico, che è quello delle teorie, quello delle università,
quello delle accademie, e poi c’è anche ovviamente il livello giudiziario
delle sentenze. Ecco il discorso è più complicato, però è molto importante
avere individuato questi tre livelli, come possono intersecarsi e da li viene il
pensiero criminologico un po’ più compiuto.
Noi
siamo attraversati da un fascio di narrazioni di noi stessi
Allora
possiamo dire che una versione di noi è anche quella del cattivo, e che tanto
più siamo sani quanto più siamo in grado di riconoscere l’ombra. Se
tolleriamo, se riconosciamo che anche noi potremmo essere delinquenti, siamo
evoluti
di
Alfredo Verde,
Professore straordinario di Criminologia
presso
l’Università di Genova, autore, tra l’altro,
di
“Narrative del male” e “Il delitto non sa scrivere”
Da
anni ormai stiamo costruendo un affresco teorico sul ruolo delle narrative in
criminologia, evidenziando tre livelli in cui, nella società, si può parlare
di delitto e di delinquenza: appunto i tre livelli della criminologia. Devo però
precisare che con il termine di “criminologia” mi riferisco non solo alle
narrative scientifiche, ma anche a qualsiasi narrativa che si occupi di definire
e di raccontare il male.
Sono
stato facilitato in questo lavoro dalla mia formazione, giuridica e psicologica:
oltre che criminologo infatti sono anche psicoanalista. I miei riferimenti sono
quindi da un lato la psicoanalisi e anche la psicoanalisi delle istituzioni (non
ultima quella all’interno della quale stiamo, l’istituzione carceraria), e
dall’altro tutta la riflessione criminologica e filosofica sulla criminologia,
a partire da Foucault e a finire, o, forse, a cominciare con Adolfo Ceretti, che
è stato uno dei miei principali interlocutori nella diversità dei rispettivi
punti di vista, una diversità che ha generato molti pensieri in me e un senso
di grande arricchimento.
Sicuramente
è vero, per riprendere un’immagine molto bella del primo dei due redattori di
Ristretti che hanno introdotto questa parte della giornata, che i fascicoli
giudiziari camminano, camminano dietro alle persone, davanti alle persone,
insieme alle persone, camminano sulle scrivanie dei giudici. E dentro ci sono
tante narrazioni che vanno qua e là, si posano su qualche scrivania, ne escono
con ulteriori narrazioni aggiunte seguite da determinate formule, e una persona
finisce dentro. I fascicoli contengono delle storie quindi, e queste storie
hanno degli effetti spesso drammatici: è la funzione appunto performativa delle
narrative giudiziarie.
Non
basta però parlare di narrative: è necessario analizzare anche il livello dei
discorsi, che costituiscono la matrice delle narrazioni, perché ogni narrazione
è l’effetto, il prodotto di un discorso: e così facendo ho osservato che
esistono due discorsi sul delitto, un discorso scientifico e un discorso folk,
popolare (mutuo questo termine dalla folk psychology di Jerome Bruner), che
producono narrazioni scientifiche, da una parte, e narrazioni folk dall’altra.
Le prime sono facili da definire, sono tutte le narrazioni sul delitto che sono
riportate in modo implicito o esplicito nei contributi scientifici; le seconde
ricomprendono invece, mettono insieme, le narrazioni di chi ha commesso un
delitto e le narrazioni delle altre persone che riflettono su quel delitto e in
generale sulla gestione e controllo della criminalità: la gente, cioè, si fa
opinioni, prende posizione, si schiera.
Come
ha spiegato Marina Valcarenghi nel suo contributo, ogni volta che qualcuno
commette un atto che ha a che fare con il male, il fatto suscita in noi una
serie di correnti emotive, un duplice atteggiamento, da un lato espressione di
una parte di noi, la parte del super-io per usare una terminologia
psicoanalitica, che ci fa dire: “quella cosa lì non mi piace, non esprime la
mia moralità e quindi la condanno”: è l’aspetto paranoide, per cui quel
fatto è male, e io devo buttare fuori di me la possibilità di commetterlo
anch’io. Dall’altro lato ci può essere un pensiero opposto, del tipo:
“quella cosa l’ho commessa anche io, se non l’ho commessa comunque l’ho
fantasticata, l’ho desiderata anch’io”: ma allora il male è anche dentro
di me, mi appartiene.
Dentro
di me, dentro di noi, non c’è però un’opinione sola, una narrazione sola:
io, noi, ce la raccontiamo in tanti modi, molto spesso in modo da avere sempre
ragione, le nostre narrazioni sono effetto delle nostre difese, per dirla con la
psicoanalisi. Noi siamo attraversati da un fascio di narrazioni di noi stessi,
che usiamo per tenerci insieme e anche per presentarci al mondo. Questo è il
principale motivo per cui non ritengo che sviluppare il livello della narrazione
di sé, come fa la scuola della Bicocca, la valorizzazione del momento
dell’autobiografia che fa, che so, Duccio Demetrio, sia un punto di arrivo. È
un punto di partenza invece: raccontarsi può voler dire anche ingannarsi,
raccontare di noi mentendo. Per dirla in un altro modo, sulla scia del famoso
psicanalista francese citato prima da Grimoldi, Jacques Lacan, il soggetto è
sbarrato, noi non accediamo mai alla nostra verità, noi non siamo mai una cosa
finita, siamo sempre qualche cosa che si riconosce ma si riconosce dopo che si
è raccontato, e mentre ci raccontiamo, ci raccontiamo anche un sacco di storie
su noi stessi. Diceva Lacan che “la verità si da in un ordinamento di
finzione”, che vuol dire di fiction. E allora noi non siamo noi, siamo
soltanto una versione di noi.
Detto
in un altro modo: l’identità è un mito, e non penso di essere postmoderno se
dico questo. Lo ha detto già la psicoanalisi, che è espressione della modernità
e non della postmodernità. Ci sono delle altre narrazioni di noi, che troviamo
in terapia e con cui riflettiamo, da cui siamo chiamati a riflettere, che spesso
ci vengono da fuori. Potremmo dire che più le narrazioni di noi ci vengono da
fuori, più stiamo male, come avviene quando qualcuno ci accusa: questo è il
livello della colpa persecutoria, che non è il senso di colpa che viene da
dentro, ma è la concreta presenza di qualcuno nella realtà che mi condanna.
Quella narrazione di me viene da fuori, dice: “Tu sei colpevole, vattela a
spendere, vai dentro”. Più invece siamo capaci di tenere insieme tante
narrative diverse su noi stessi, più siamo sani, più siamo tolleranti. Uno
psicanalista americano che si chiama Philip Bromberg ha parlato di questo,
dicendo che la salute mentale non è nell’unità ma è nella dissociazione,
il problema è tenere alla coscienza le parti dissociate di noi: è sano chi è
in grado di stare negli spazi che stanno fra le molteplici versioni di noi.
Allora possiamo dire che una versione di noi è anche quella del cattivo, e che
tanto più siamo sani quanto più siamo in grado di riconoscere l’ombra. Se
tolleriamo, se riconosciamo che anche noi potremmo essere delinquenti, siamo
evoluti. Ma la criminologia folk non tollera le scale di grigio, tutto è bianco
o nero, per la sua natura sociale e gruppale, e nell’immaginario collettivo il
delinquente appare cattivissimo, e il buono, buono fino allo spasimo.
Criminologia
giudiziaria, criminologia mediatica, criminologia di fiction
Va
detto, per inciso, che anche chi ha commesso il reato si racconta, ce la
racconta, anche perché molto spesso è sceso un velo nero, se ha commesso un
delitto di impeto, un delitto violento: ci sono la rabbia, il buio, e poi delle
narrative che cercano di colmare lo iato. Altro è il discorso per chi pianifica
freddamente il delitto (lo psicopatico): qui, le narrazioni sono consapevolmente
utilizzate per colpevolizzare l’altro, e per discolparsi, con le note
“tecniche di neutralizzazione”, o “meccanismi di disimpegno morale”, che
sono stati teorizzati le prime da Sykes e Matza e i secondi da Bandura.
Quindi,
da un lato c’è il discorso della criminologia scientifica, dall’altro
quello della criminologia popolare. Esiste però un livello intermedio, che ho
definito “istituzionale”, in cui la definizione del delitto e del crimine è
problematica: è una sorta di campo di battaglia in cui le concezioni raffinate
della scienza e quelle più grossolane della criminologia folk si contrastano. A
questo livello troviamo le narrazioni sul delitto costruite all’interno del
sistema giudiziario (criminologia giudiziaria), quelle costruite dai e nei media
(criminologia mediatica) e quelle che fanno parte dell’industria culturale
(letteratura, cinema e nuovi media – criminologia di fiction). Tutte queste
narrazioni sono attraversate dal problema della colpa (che invece la
criminologia scientifica mette per così dire fra parentesi): le narrative
giudiziarie cercano di assegnarla in base a criteri appunto giuridici, e con le
garanzie massime per l’imputato; le narrative mediatiche, invece, ne stanno a
poco a poco costituendo l’alternativa anticipata e forcaiola. I processi da
Bruno Vespa sono terrificanti: davanti a tante persone, è necessario
sottolineare come molto spesso i criminologi, o alcuni fra loro, si prestino a
questo tipo di attività, e vadano ai talk show ma cadano nella trappola del
mezzo: parlino di quello che non sanno, e, se sanno quello di cui sono chiamati
a parlare, che è spesso complesso, venga loro tolta la parola perché troppo
prolissi per il programma. Le caratteristiche del mezzo, infatti (velocità,
impossibilità di approfondire, tendenza ad attribuire la colpa immediatamente),
ovviamente non permettono lo sviluppo di un discorso approfondito a un livello
scientifico. Con il mio amico, collega, maestro Adolfo Francia ci siamo posti il
problema, e abbiamo provato ad andare in TV, e abbiamo preso contatto con una
celebre giornalista televisiva; ma non c’è stato verso di costruire un
discorso possibile che permettesse di mantenere presente il livello scientifico,
e quindi abbiamo dovuto abbandonare la fantasia.
Devo
dire che spesso neppure i periti psichiatri che lavorano nel contesto
giudiziario (qui faccio riferimento al mio libro “Il delitto non sa
scrivere”), sono in grado di raccontare storie non punitive, tenendo in mente
almeno due livelli narrativi, quello della società che punisce e quello del reo
che cerca di spiegare (magari con l’aiuto del perito stesso) quanto è
accaduto. Nel libro avevo fatto riferimento alla possibilità di albergare in
noi versioni narrative diverse, antitetiche, delle posizioni delle parti,
definendo tale capacità, sulla scia di Roland Barthes, come presenza del codice
dell’antitesi: il bene e il male tenuti insieme, visti insieme. Molti periti
non sono in grado, però, esempio, di empatizzare col reo, di mettersi nei suoi
panni, di scrivere le storie che lui non è riuscito a scrivere perché è
passato all’atto: uno dei più famosi criminologi italiani, per fare un
esempio, ha scritto una perizia d’ufficio su un autore paranoico, e l’ha
riempita di “a suo dire”, pressappoco così: “richiesto di parlare di
quello che è successo, sostiene che, a suo dire…”,e questo per cinquanta
volte almeno. Il “suo dire” quindi, sembrava dicesse, non è “il mio
dire”; in altre parole ci comunicava, lui, di volersi tenere molto distante da
quell’autore di reato.
Il
criminologo dovrebbe essere consapevole di essere anche un po’ delinquente
Quello
che dovremmo fare, invece, è di tentare di identificarci col reo… sto dicendo
che, oltre che cercare di non essere troppo paranoico, il criminologo dovrebbe
essere consapevole di essere anche un po’ delinquente. Il mio maestro Adolfo
Francia dice sempre: “Se mi chiedono da che parte sto, dalla parte dei
delinquenti o dalla parte dei custodi, io dico: sto dalla parte dei
delinquenti”.
A
mio avviso, qui si coglie il punto: dovremmo stare, come criminologi, un po’
da tutte e due le parti. E, vien da dire, questo è proprio quanto ci insegna
l’altro livello della criminologia istituzionale, la criminologia di fiction,
che, proprio perché ci porta in mondi immaginari, ci dà la possibilità di
rappresentare tanti aspetti della nostra mente dissociata: i problemi, dicevo,
stanno nella rigidità della dissociazione, che ci può impedire di assumerci
alcune parti di noi stessi. Il grande Freud, in un saggio dei primi del
novecento, “Personaggi psicopatici sulla scena”, diceva, riferendosi
all’”Amleto”, che i grandi drammaturghi come Shakespeare rappresentano nei
diversi personaggi tanti aspetti della nostra mente, come se i personaggi
diversi fossero le personificazioni delle differenti parti di noi: in questo
modo la fiction ci permette di identificarci un po’ con tutti, con i
delinquenti, con i giudici, con gli eroi e gli antieroi, i colpevoli e le
vittime, assumendo il punto di vista di ciascuno. Una ginnastica
straordinaria…
C’è
un altro punto molto importante che volevo ribadire: la difficoltà della
gestione collettiva del Male, “con la emme maiuscola”, sta nel fatto che la
dimensione più “evoluta” è più facile da raggiungere a livello
individuale, ma sicuramente è molto più difficile a livello gruppale e
istituzionale. In altre parole, le difese evolute, le modalità evolute di
raccontarci riguardano noi nel nostro foro interno, ma quando poi magari ci
vediamo in tre o quattro, cadiamo già in una situazione gruppale e funzioniamo
a un livello molto più primitivo; e la massima primitivizzazione, dicono gli
studiosi inglesi dei grandi gruppi, sta appunto nei gruppi di più di 40/50
persone, e sono le masse, che funzionano a un livello di simbolizzazione
primitiva e arcaica. Sono le masse quelle che mettono in atto i linciaggi per
esempio, e questo crea tutta una serie di problemi evidentemente, cioè le
narrative diventano sempre più semplici, e sempre meno complesse.
Ancora
una parola sul livello che dovrebbe essere quello “superiore”, la
criminologia scientifica: a mio parere il livello della riflessione
scientifica molto spesso perde la freschezza del contatto con le emozioni.
Quando noi raccontiamo, al livello individuale se riusciamo a raccontare, e
anche al livello istituzionale, se ci dovessimo riuscire, siamo sempre vicino
alle emozioni che sono connesse alle narrazioni: ogni narrativa è la storia, lo
dicono i formalisti russi, di una peripezia che riguarda un protagonista che
vuole arrivare a un certo risultato e che trova degli ostacoli sul suo percorso,
ma tutto questo però è costellato da una serie di emozioni, che al livello
della criminologia scientifica rischiano di andare perdute perché prevalgono
gli aspetti statistici. Quindi è importante secondo me, e uno dei grandi
contributi nella criminologia italiana è quello di Adolfo Ceretti con i suoi
collaboratori, riportare il livello delle narrative anche nell’arengo della
criminologia scientifica e dimenticare un pochino la quantofrenia e la
numerologia delle statistiche che vanno sempre ricongiunte con gli aspetti
emotivi…
Adolfo
Ceretti
Grazie, caro Alfredo. Quale tuo collega, ricordo che quando nel 1980 ci siamo laureati e siamo entrati negli istituti universitari la criminologia era ancora, sotto molti aspetti, positivista. Non dico di stampo “lombrosiano”… Resta il fatto che in molti istituti universitari si dava spazio solo a un approccio criminologico-clinico che poneva al centro la diagnosi e il profilo del paziente-delinquente. Ascoltandoti ci rendiamo conto che abbiamo fatto qualche passo, avanti e a latere, e di questo sono profondamente orgoglioso.