Capitolo
primo: Violenza, vendetta, “codice
del disonore”
La
violenza nasce spesso con la giustificazione dell’”onore della famiglia”,
dell’orgoglio ferito. Anche i detenuti che ritengono di essere cambiati, alla
classica domanda dello studente “e se facessero del male a tua figlia?” sono
spesso incapaci di capire che bisogna avere la forza di rimettere in discussione
SEMPRE la violenza. Perché per esempio per rispondere a quella domanda non si
può provare, invece che a ragionare con l’orgoglio dei padri, ad assumere un
punto di vista da madre, da donna, perché non si può avere il coraggio di
disarmarsi e capire che la forza è tutta lì, nell’accettare la propria
fragilità? Essere sprezzantemente considerate il sesso debole ha per lo meno
aiutato le donne a convivere con la debolezza, piangere senza doverlo
nascondere, odiare con tutto il cuore l’orgoglio e le idiozie che ti fa fare!
Ma
niente è scontato purtroppo quando si parla di violenza, neppure l’idea, così
rassicurante, che le donne siano sempre portatici di una cultura antiviolenta.
Il mito della vendetta, per esempio, che distrugge famiglie intere, in alcune
regioni del nostro Paese così come in altri Paesi, è spesso custodito e
alimentato dalle donne, come scrive Renate Siebert, autrice del saggio Donne e
violenza “Le donne del contesto rurale e tradizionale rivestivano un ruolo
lontano dalle attività criminali come tali – per poi emergere in maniera
eclatante nelle faide, nelle vendette, nell’incitamento alla vendetta e nella
pedagogia della vendetta nei confronti dei figli”.
Orgoglio,
onore, coraggio
Ma
mia moglie e mia figlia avrebbero preferito un padre e un marito che a volte
metteva un po’ l’orgoglio da parte, oppure un padre e un marito in carcere
con tutto il suo orgoglio?
di
Dritanet Iberisha,
Ristretti Orizzonti
Questo
è il quinto convegno al quale intervengo. I primi quattro erano difficili, ma
questo è troppo difficile. Perché qui oggi c’è la persona che è più cara
a me, e io non ho mai parlato davanti a lei, a mia figlia, anche se non ho paura
che mi giudichi perché è una ragazza intelligente. Ma quello che volevo dire
è che io sono in carcere per omicidio e che ci sono da tanti anni. La mia
condanna è di trent’anni. L’omicidio è avvenuto nell’ambito delle
vendette, delle faide famigliari. Quando mi hanno arrestato, ho pensato: Sono
coraggioso. Sono una persona coraggiosa, non ho paura di niente. Il mio orgoglio
è salvo, i miei famigliari devono essere fieri di me. Mia figlia crescerà e
dirà: “Mio padre l’orgoglio lo ha difeso fino in fondo, è una persona
coraggiosa”. E sono andato avanti così per un po’ di anni. Ma lei aveva
solo due anni e non sapeva niente di cos’era il coraggio, cos’è
l’orgoglio. Qualcuno glielo dovrà pure insegnare, ma chi? Io non c’ero. Ma,
dopo qualche anno, il padre del ragazzo morto ha chiuso la faida famigliare. Ha
detto: chiudiamo le vendette, chiudiamo questo spargimento di sangue. Non
vendichiamoci. E lì dovevo essere felice. Invece, e questo sentimento l’ho già
raccontato a tanti ragazzi delle scuole, è stato quello il momento nel quale mi
sono sentito più umiliato. Perché ha avuto più coraggio lui. Allora mi sono
detto: Ma cos’è il coraggio? Il coraggio cos’è? Il coraggio è uccidere le
persone? Rapinare? Litigare, fare a botte? Non cedere mai la strada a un altro?
Non rispettare gli altri, in poche parole. Questo è il coraggio? Ho ragionato e
ho detto: No! Questo è orgoglio, e non è una bella cosa. Perché anche mia
moglie era giovane, aveva 26 anni quando mi hanno arrestato, era giovanissima.
In questi anni mi sono posto allora la domanda: “Ma loro, mia moglie e mia
figlia, preferivano un padre e un marito che a volte metteva un po’
l’orgoglio da parte, oppure un padre e un marito in carcere con tutto il suo
orgoglio, e loro a crescere da sole?”. Io questa domanda non gliel’ho fatta
mai, ma ho anche questa paura, perché quando noi usciamo dal carcere, quando
finiamo la pena, i nostri famigliari in qualche modo “ce la faranno pagare”.
Io in questo ultimo anno sto uscendo in permesso, ma so che ci faranno pagare
tutto in famiglia. Diranno: “Dove eri?”. Io ho cercato da subito di capire,
di mettermi in discussione, ma è difficile. L’unica cosa che posso ancora
dire è che Dio mi ha aiutato; perché mi ha dato una figlia che, secondo me, è
la migliore del mondo.
La
violenza che travolge i nostri familiari nel momento del nostro arresto
È
una violenza subdola, proprio perché travolge la vita delle persone che amiamo
e che più ci amano, nel momento in cui facciamo scelte sconsiderate a causa,
soprattutto, del nostro orgoglio,della nostra superficialità
di
Oddone Semolin,
Ristretti Orizzonti
Vorrei
fare una breve riflessione su una declinazione particolare della violenza, una
violenza che non è strumentale, non è funzionale all’ottenimento di un bene
diretto. È una violenza che purtroppo accomuna tutti noi detenuti, ed è la
violenza che travolge i nostri familiari nel momento del nostro arresto. Nel
momento in cui facciamo scelte sconsiderate a causa, soprattutto, del nostro
orgoglio, della nostra superficialità. È una violenza estremamente subdola,
proprio perché travolge la vita delle persone che amiamo, che ci stanno vicino,
che più ci amano. Ed è subdola perché si aspettano tutto eccetto di essere
traditi da noi. Sono persone che hanno speso tutto nella loro vita. Hanno speso
tutto in termini di serenità, di tranquillità, molte volte anche economici,
per aiutarci. Tutti, indistintamente, in termini di lacrime. È difficile
parlarne, io ho rimandato per tanti anni di farlo. Io sono padre e ho anche la
fortuna di avere ancora i genitori. E non è che me ne sono accorto adesso. È
che prima non volevo vedere, non volevo rendermene conto. Non volevo vedere
segnali che erano evidenti a chiunque. La prima volta che sono entrato in
carcere uno dei miei figli era molto piccolo, ma si leggeva sia chiaramente,
negli occhi dei bambini, il loro smarrimento, le loro angosce, il loro senso di
abbandono in qualche maniera. Una volta – ero in carcere - ho chiesto a mio
figlio: “Ma cosa vorresti tu?”: E naturalmente intendevo in termini
materiali: giocattoli, cose. E lui mi fa: “Io vorrei solo avere un papà e una
mamma”. Però io ancora non coglievo fino in fondo il senso di queste parole.
Son passati anni. Adesso, nei colloqui, sono molto più bravi a dissimulare il
loro senso di frustrazione. Ma ci sono delle piccole sfumature, dei particolari
che un genitore può sentire e che danno l’idea dell’abisso che si è creato
tra di noi. È una cosa che non si può colmare facilmente. Non si colmerà mai.
Questo non lo dico per togliere la speranza ad altri detenuti come me, che
magari si ripromettono, una volta usciti, di fare tante cose: “Ma poi
recupero… In qualche modo rimedio …“. No, non è possibile. Non è
possibile perché è giusto fare un bagno di realtà, e confrontarci con i
nostri fallimenti e il nostro disastro. Il fallimento e il disastro che abbiamo
creato ai nostri cari. Io l’ho fatto dopo tanti anni. Anche quando ero uscito
non volevo saperne di fare questo incontro con una parte di me che sentivo di
avere, diciamo con la mia umanità, con la mia sensibilità. Questo passo è
venuto tardi. Tuttavia io credo sia un percorso ineluttabile: prima o dopo,
tutti noi dobbiamo fare i conti col male che abbiamo fatto.
Questo
però offre anche uno spiraglio. Questo percorso diventa irreversibile, ma offre
una possibilità. Perché, nel momento in cui prendiamo coscienza, si invertono
anche le nostre priorità. Si inverte la nostra visione della vita e del mondo.
Si staglia un orizzonte diverso verso cui tendere. Io credo, in questo senso,
che sia necessario favorire, spingere affinché le persone nel carcere avviino
un percorso profondo di ricongiungimento con la propria umanità, con la propria
sensibilità. Questa è una delle più grandi “assicurazioni” che possa
avere la società nel momento in cui un detenuto viene di nuovo immesso in essa.
È la più grande delle assicurazioni, e diventa un nodo e un punto
imprescindibile di ogni progetto serio, reale, di rieducazione. Cosa che
nessuno, oggi, è in grado di delineare, neanche nei suoi punti essenziali. E
oltretutto, io credo, nel lungo periodo, un progetto del genere può portare
anche allo sgretolamento di quel binomio, che è “carcere ed emergenza
politica”, per far sì che la civiltà del carcere diventi un’ovvietà
pre-politica.
Adolfo
Ceretti introduce Renate Siebert
Scrive
Renate Siebert, autrice del saggio “Donne e violenza”: “Le donne del
contesto rurale e tradizionale rivestivano un ruolo lontano dalle attività
criminali come tali, per poi emergere in maniera eclatante nelle faide, nelle
vendette, nell’incitamento alla vendetta e nella pedagogia della vendetta nei
confronti dei figli”.
Renate
Siebert, che ascolteremo tra poco, è una sociologa molto famosa, nata a Kassel,
in Germania. Renate ha studiato a Francoforte, è stata allieva di Theodor
Adorno, ma da molti anni vive e lavora a Cosenza, dove si occupa di questioni
che riguardano il mezzogiorno, con particolare riferimento alle questioni di
genere, al sessismo e alla violenza mafiosa, ai temi del razzismo e del
colonialismo. Fa parte di varie società scientifiche, collabora con numerose
riviste, ed è autrice di moltissime e apprezzate pubblicazioni.
Donne
che conoscono il dominio delle mafie dall’interno
I
mafiosi diffidano delle donne come persone concrete e di tutto ciò che appare
femminile come qualità. In tal senso il “femminile” è stigmatizzato a
priori
di
Renate Siebert, sociologa,
è stata professoressa ordinaria
di
Sociologia del mutamento. È autrice, tra l’altro, di “Le donne,
la
mafia” (il Saggiatore, 1994) e “Cenerentola non abita più qui.
Uno
sguardo di donna sulla realtà meridionale” (Rosenberg & Sellier, 1999)
Vorrei
brevemente partire dal titolo del nostro incontro per ragionare sul rapporto tra
donne – mafia – violenza. Ho cominciato a ricercare e riflettere su questi
nessi ormai molti anni fa a partire dal fatto che vivo in Calabria, che sono
donna e che sento su questo tema, nel profondo di me stessa, una grande
angoscia. Non paura, ma angoscia. Proprio per la minaccia diffusa che la
“signoria territoriale” mafiosa rappresenta per tutti. Una forza violenta,
insidiosa che non scinde tra pubblico e privato, che pretende di dominare sulle
attività politiche ed economiche tanto quanto sulle relazioni fra le persone,
le scelte di vita, di sentimenti, di movimento – tutto. Il capomafia che
s’identifica con Dio, il mafioso che si solleva al piano di Dio. A Antonio
Calvaruso che gli chiede di risparmiare la vita di un suo conoscente di cui è
stata decisa l’uccisione, Leoluca Bagarella risponde scuro in volto: “Non ti
devi permettere mai più di fare certi tipi di affermazioni su dei soggetti che
io ti dico devono essere eliminati…. Perché qua, se c’è un Dio quello sono
io… Io ho il potere di togliere e di dare la vita” (1).
In
tal senso quello delle mafie è un dominio a carattere totalitario, che pone le
sue leggi sospendendo tendenzialmente quelle dello stato e della società
civile; una forza che si erge a padrone della vita e della morte di tutti. Se
io, da cittadina qualunque e del tutto estranea a tali organizzazioni sento
questo peso – mi chiedevo allora – cosa avvertono, sentono, scelgono le
donne che
conoscono questo dominio dall’interno? Sono donne come me – ma anche donne
molto diverse da me. Dove sono i punti di contatto, dove eventuali nessi,
parentele, similitudini? Dove una diversità insormontabile? Partendo da questi
interrogativi ho letto, studiato, ricercato svariati materiali, sempre
privilegiando le fonti biografiche o autobiografiche. Volevo capire il più
possibile il vissuto di queste donne.
Per
arrivare alla questione delle donne occorre fare qualche chiarimento
preliminare. La mafia – ma oggi si parla sempre di più delle mafie –
rappresenta una forma di criminalità molto particolare. Non si tratta soltanto
di malaffare comune ma di un’organizzazione segreta, monosessuale maschile,
con propri codici, con un proprio ordinamento. La “signoria territoriale”,
il suo potere parallelo e antagonista rispetto all’ordinamento democratico
dello stato in cui opera, è funzionale alle sue attività criminali. Dove la
mafia detta legge, con un misto di elargizione di favori, di minacce di morte e
col terrore, con il binomio estorsione-protezione, i cittadini regrediscono a
sudditi, i diritti individuali e collettivi sono sospesi. Questo tipo di
dominio, per essere tale, in linea di massima non risparmia nessuno. Ovviamente
vengono controllati in primo luogo i propri affiliati e i loro parenti, donne,
bambini, giovani. Nella società segreta mafia si entra con un giuramento, se ne
può uscire soltanto con la morte (oppure, in tempi recenti, con la
collaborazione con la giustizia).
Queste
caratteristiche conferiscono alla presenza femminile in ambito mafioso una
particolare rilevanza.
Per
lungo tempo il ruolo delle donne nel mondo della mafia è rimasto nell’ombra.
Silenti, sconosciute, il più delle volte acquistavano visibilità in occasione
dei funerali. Donne tradizionali, in tutto e per tutto. Le rare parole degli
uomini mafiosi sulle loro donne che filtravano da questo “mondo a parte”
andavano nella medesima direzione: donne interamente dedicate alla famiglia,
madri esemplari, mogli obbedienti. Donne all’oscuro delle attività violente e
criminali dei loro uomini. Donne stereotipate, icone di un immaginario maschile.
Donne funzionali all’attività criminale mafiosa proprio in funzione della
loro invisibilità.
Possiamo presumere che la vita quotidiana di chi vive e cresce in ambiente mafioso – rispetto a quella delle persone nella società più ampia circostante – sia in parte “normale”, simile a quella di tutti gli altri, e in parte significativamente diversa. In passato tali aspetti quotidiani erano poco conosciuti, e forse interessavano anche poco. Una svolta significativa si è avuta con il fenomeno della collaborazione con la giustizia, incentivata da apposite leggi, a partire dagli anni 80. I conflitti familiari che si scatenano attorno alla decisione di un mafioso di “pentirsi” portano facilmente alla rottura degli equilibri che assicuravano in passato un sostanziale silenzio circa le relazioni di genere e di generazione fra i membri delle famiglie mafiose. Donne e bambini, madri, mogli e figli/e appaiono ora sotto i riflettori dell’opinione pubblica e dei mass media: a volte come vittime delle vendette trasversali, a volte come parte attiva nei percorsi della collaborazione. Spesso nella veste di chi cerca di screditare il collaboratore o di fare forti pressioni per spingerlo a ritrattare. A tal proposito si è parlato di una “nuova strategia comunicativa”(2) delle organizzazioni criminali: se un tempo l’icona della donna di mafia, tutta casa, chiesa e tradizione, e all’oscuro delle attività criminali degli uomini del clan, prevaleva, nella seconda metà degli anni 90 la mafia manda le sue donne in prima linea, con atti clamorosi come convocazioni di conferenze stampa, partecipazioni a talk show e pubbliche diffamazioni dei propri parenti pentiti. Tali conflitti, anche se largamente strumentalizzati dalle organizzazioni criminali, tuttavia ci raccontano qualcosa della realtà quotidiana in tali ambienti. Come altrettanto – e di più – ce ne parlano soprattutto i e le collaboranti stessi.
Innanzitutto
i “pentiti” spiegano quanto la loro vita da criminali, lo stesso fatto di
aver ucciso frequentemente e con modalità atroci, sia stata vissuta da loro
come perfettamente “normale”, alla stregua, o meglio in parallelo, con altre
attività professionali. Appare la consapevolezza di aver vissuto in un mondo a
parte, un mondo, tuttavia, ugualmente legittimato, almeno ugualmente
“giusto” di quello della società più ampia. Saverio Morabito, pentito
della ‘ndrangheta, racconta:
La
vita quotidiana mafiosa
Tale
percezione di normalità, tuttavia, viene da pensare, deve essere frutto di un
forte condizionamento dei modi di pensare e di sentire che segna i processi di
socializzazione, sia quelli primari, per chi nasce e cresce in tal ambiente, sia
quelli secondari, per chi viene a farne parte soltanto con l’affiliazione che,
non a caso, viene anche indicato come un “secondo battesimo”. L’abitudine
a sentirsi un’élite, l’abitudine alla sottomissione all’autorità dei
capi, l’abitudine alla violenza e, innanzitutto, l’abitudine al silenzio. Un
silenzio nella comunicazione con gli altri e, presumibilmente, un silenzio nei
confronti dei propri desideri profondi, della propria voglia di sentire e
pensare. L’ingiunzione del non-comunicare – nel contesto della società
contemporanea, per definizione caratterizzata dalle realtà virtuali e dalla
comunicazione – segna indubbiamente uno spartiacque tra società mafiosa e
società democratica.
Quanto
in fondo tale ingiunzione al silenzio possa pesare psicologicamente si avverte
nelle parole di alcuni pentiti. Giovanbattista Ferrante, collaborante che ha
ammesso il proprio ruolo nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio, così si
esprime:
“Adesso
mi viene quasi naturale parlarne, anzi cerco di parlarne perché mi sento molto
più leggero… Parlarne è un senso di liberazione che nessuno forse potrà
capire, soprattutto dopo anni vissuti con la raccomandazione che tutto quello
che si faceva si doveva cancellare, anzi non se ne doveva parlare con nessuno
neanche con chi aveva commesso con me certi fatti” (4).
L’ossessione
della morte – si è sempre pronti ad uccidere, ma ciò comporta specularmente
che si teme ad ogni momento di venir trucidati – porta a forme di vita
materialmente e affettivamente claustrofiliche. Nemmeno dei propri famigliari ci
si può fidare: “’A mè famigghia mà pozzu scurdari, subito, in partenza,
perché so com’è fatta e so che mentalità c’ha: su capaci che, magari,
mangiamo assieme e mi possono avvelenare pure. E ’u fannu! Per salvaguardarsi
’a dignità e l’onore”, racconta un collaboratore del gruppo
Riina-Provenzano(5).
Tali ossessioni aumentano nei membri dei clan perdenti.
La
vita quotidiana mafiosa, potremmo dire in sintesi, è segnata da una qualità
della vita molto contraddittoria, sia sul piano materiale che su quello dei
sentimenti. Predominante sembra essere il controllo sociale capillare che appare
come la proiezione sul territorio di un controllo ancora più marcato, quello
sui propri affiliati e sui loro famigliari. Le regole basilari sono quelle di
eseguire fedelmente gli ordini, di sottomettersi alla gerarchia, di vendicare le
offese ricevute senza far ricorso all’autorità statale, di mai testimoniare
contro altri affiliati, di assistere i latitanti e di non intrattenere alcun
rapporto con esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura. In caso
di trasgressione (propria o dei
propri famigliari) gli efficienti tribunali delle varie organizzazioni mafiose
non esitano a decretare punizioni che arrivano fino alla condanna a morte.
Possiamo
ipotizzare che i singoli individui elaborino tali contesti in modi
significativamente diversi a seconda, se si tratti di giovani o di adulti – la
questione delle generazioni – o di uomini e donne: la questione di genere.
L’anestetizzazione
delle emozioni e dei sentimenti che viene imposta agli affiliati
Nella
decisione degli uomini di “pentirsi” – e ancora di più nel lungo e
tortuoso percorso della collaborazione – alle donne spetta un ruolo
preponderante: sia in positivo che in negativo. Sono spesso le donne, come ci
dicono i magistrati, ad impedire all’ultimo momento la decisione di
collaborare. La gestione della vita quotidiana, la mediazione tra ambiti diversi
del mondo sociale e, in particolar modo, la mediazione tra mondo unico del
passato e mondi plurimi del futuro sono in larga parte dominio e fatica
femminile. “Presenze straniere” nell’universo mafioso, le donne hanno
sviluppato particolari capacità comunicative che le rendono preziose nei
momenti di crisi e di cambiamento forte. Sono più aperte degli uomini a
contaminazioni culturali e mediamente più scolarizzate e acculturate. In
particolare le mogli di mafiosi che provengono da un ambiente non di mafia hanno
conservato una possibilità di distanza che si rivela utile nell’avviamento
alla collaborazione con la giustizia. Si tratta di corsi di vita in bilico tra
più mondi. Da una parte il mondo della mafia: un unico mondo, un orizzonte
chiuso, un contesto coatto che non ammetteva l’espressione della soggettività,
non ammetteva il dissenso. Non creava, forse, consistenti problemi psicologici
finché appariva unico, chiuso e integro. Un mondo ormai alle spalle di chi ha
deciso di “saltare il fosso”, un mondo, tuttavia, che rappresenta pur sempre
un pezzo di se stessi e che reclama in modi contorti una signoria sulla
psiche che queste persone ormai non vogliono più concedergli. Dall’altra
parte, l’apertura: La promessa della soggettività come invito alla dimensione
della scelta, come garanzia di poter dire di no, come accesso ad una democrazia,
per così dire “psichica” e esistenziale, prima ancora che istituzionale e
dei diritti.
Finché
il mondo, per chi cresce, è uno solo, il destino dei figli, sia sul piano
materiale, che su quello identitario, appare fortemente ipotecato. La metafora
freudiana dell’uccisione del padre per crescere e diventare adulti non è
esperienza psichica pensabile per i figli nel mondo unico della sottomissione e
dell’obbedienza all’autoritarismo del patriarca mafioso. È piuttosto il
figlio ad essere ucciso, metaforicamente e a volte materialmente. Chi dissente
può venir ucciso dai propri famigliari, o, a volte, rinchiuso in manicomio –
una pratica, per altro, tipica dei regimi totalitari.
Ora,
dopo la scelta della collaborazione – qualunque sia la portata reale di un
loro esame di coscienza – questi uomini “umanizzati” possono sentire la
paura, si scoprono vulnerabili, somatizzano, soffrono d’insonnia. Scrivono
Girolamo Lo Verso e Gianluca Lo Coco:
“Il collaborante vive nella paura giorno e notte. Un dato su cui riflettere: quando erano membri di Cosa Nostra ed uccidevano, vivendo sempre con il timore di potere essere eliminati a loro volta dall’organizzazione, non avevano mai avuto problemi di paura, di ansia, di insonnia. Adesso capita loro di dormire male e poco, e di popolare il sonno di sogni persecutori, in cui qualcuno li uccide o li vuole uccidere. Ci sono sogni di cadere nel vuoto: molti sogni esprimono un grande timore per i figli. Anche i pensieri diurni sono pieni di queste fantasie, ma anche, in questi casi, di crude realtà… D’altronde molti di loro sono stati soldati, killer di mafia. Esecutori non pensanti nell’uso sistematico del terrore. E’ come se questo oggi ripiombasse, anche psicologicamente, su di loro, come se si identificassero, a posteriori, con le loro vittime e si vivessero potenzialmente come una di loro” (6).
Ciò
che queste testimonianze indirettamente illustrano ancora una volta è
l’incredibile anestetizzazione delle emozioni e dei sentimenti che viene
richiesta e imposta agli affiliati. Non c’è spazio per le emozioni, durante
il lavoro. Il mestiere di uccidere richiede freddezza e inaffettività.
L’educazione mafiosa come socializzazione a diventare non-persone, la
violenza come forma di indifferenza per l’altro. Non-persone che acquistano
una perfetta capacità professionale ad eliminare altre non-persone.
Disponibilità e capacità ad uccidere sono presupposto dell’affiliazione e
come tale questo aspetto particolare della formazione della personalità appare
centrale nella
socializzazione.
Banco di prova per tali “conquiste” psichiche estreme sono le relazioni
famigliari. Racconta un collaboratore:
“Un
padre nei confronti del figlio, che il figlio ha sbagliato con una donna di un
mafioso, anche piangendo lo deve strangolare, non ci sono discorsi. Ma quello è
tuo figlio! Ma tu lo strangoli, altrimenti fai la fine tu e tuo figlio. Quindi
c’era questo senso di paura, di rispetto, chiamiamolo come vogliamo
chiamare…” (7).
Uomini
che vogliono le loro donne mute, sottomesse e prive di desideri
Ma
gli uomini sanno anche che tale anestetizzazione delle emozioni, nel caso delle
donne, in linea di massima non funziona. La loro diffidenza verso le donne è
segno di tale consapevolezza. L’ingresso nel mondo della mafia impone che
Thanatos vinca su Eros. L’educazione mafiosa è riuscita quando la morte
predomina anche in tutte le espressioni della vita quotidiana, dal pranzo in
famiglia a rischio di avvelenamento alle occasioni di divertimento. La rinuncia
pulsionale al servizio di una gelida volontà di potere. Da mafiosi, usurpando
un potere simile a Dio, questi uomini erano sganciati dal principio
dell’alterità. Ora, da pentiti, sentono tutto il peso delle umane relazioni.
Paure e gioie, preoccupazioni e speranze: il prezzo della libertà.
Cosa
ci raccontano, indirettamente, le storie dei collaboranti rispetto alle donne
presenti in questo “mondo a parte”?
La
loro situazione è diversa. In generale non agiscono la violenza in prima
persona, tuttavia la conoscono. Sanno che c’è e, per il loro ruolo centrale
nella vita quotidiana, svolgono una funzione importante nell’integrazione
dell’anomalia della violenza nella normalità di ogni giorno. La donna è
fondamentale per trasmettere il pensiero del padre – che si sintetizza nelle
priorità dell’organizzazione. Per il resto gli uomini vogliono le loro donne
mute, sottomesse e prive di desideri. Da intercettazioni ambientali e
telefoniche e da racconti autobiografici di donne collaboratrici della giustizia
sappiamo che loro sono perfettamente a conoscenza delle forme e dei livelli di
violenza che i loro uomini agiscono in prima persona. Non solo sanno, ma spesso
intervengono anche durante le fasi successive alle uccisioni, nascondendo,
lavando e eliminando le tracce di sangue. Ne discutono fra di loro ed emerge
l’immagine di donne spesso incattivite e feroci quando si tratta di eliminare
persone delle fazioni nemiche, mentre diventano luttuose, vendicative e
rivendicative quando sono state uccise persone della propria famiglia. In non
pochi casi, tuttavia, può nascere il dubbio che tale ferocia sia anche generata
dal dover subire costantemente angherie e violenze sul proprio corpo. Che la
violenza criminale, per così dire “professionale”, dei loro uomini –
mariti, fratelli, padri – si prolunghi entro le mura di casa diventando
violenza sessuale e violenza domestica, non è un segreto. Ci sono donne le
quali, per non aver più sopportato la violenza privata, prima ancora di quella
criminale, sono diventate collaboratrici della giustizia. Un esempio estremo è
rappresentato dal caso di Rita Di Giovine che racconta il suo calvario, facendo
intravedere, tra l’altro, una catena di violenze che coinvolgono tutti i
membri della famiglia: “Ho visto mio padre picchiare mia madre […] ha sempre
massacrato mia madre, addirittura incinta di nove mesi le ha dato una botta con
la scopa e le ha rotto due costole […]. Io sono stata vittima di violenza
dall’età di sette anni fino all’età di diciannove anni […] sono stata
violentata di brutto un giorno sì e uno... fino
a quando non mi sono ritrovata incinta […] ho avuto il figlio […]. Lui
l’ha scoperto da quando ho iniziato a collaborare, gliel’hanno detto per
vendetta.
Poi
ricade su mia madre, perché ti ho chiesto aiuto in ginocchio, piangevo come una
disperata, mi hai fatto picchiare anche da tuo figlio dicendo che la puttana ero
io, avevo solo sette anni” (8).
Davanti
al tribunale di Milano, nel maggio del 1996, dice: “Per me è stato come una
salvezza, quell’arresto” (9).
Di
recente sono venute alla luce storie simili nella loro atrocità, per così dire
privata, relazionale, sempre nella ‘ndrangheta. Donne che hanno cercato di
collaborare con la giustizia, ma non tutte con successo; donne minacciate,
brutalizzate, uccise o “suicidate” dai propri famigliari perché non più
disposte a subire. I casi più noti sono quelli di Lea Garofalo, strangolata e
bruciata dal marito; Giuseppina Pesce, minacciata ma non domata dai suoi
famigliari; e Maria Concetta Cacciola, spinta dalle violenze famigliari a
suicidarsi con l’ingestione di acido muriatico. Donne giovani che hanno
cercato di uscire dalla prigione della propria famiglia mafiosa, per l’amore
dei figli e la voglia di vivere scegliendo da sole le proprie relazioni. Le loro
storie non possono essere generalizzate, eppure raccontano molto della violenza
diffusa nel “mondo a parte” della mafia. È interessante a tal proposito
mettere a confronto le storie di due donne collaboratrici della giustizia
dell’ambiente di Cosa nostra: Giusy Vitale e Carmela Rosalia Iuculano(10).
La prima fa parte di un’importante famiglia mafiosa e cresce con la voglia di
partecipare attivamente alle attività criminali; quando i fratelli sono in
prigione svolgerà le funzioni di reggente della famiglia mafiosa e del
mandamento di Partinico – caso unico nella storia di Cosa nostra. Tuttavia
alla fine decide di pentirsi, non regge la totale subordinazione dei sentimenti
e affetti alle logiche del clan, “agisce da uomo pensando da donna”, come
scrive Alessandra Dino. La seconda, Carmela Iuculano, viene da una famiglia non
di mafia, sposa un mafioso di Sciara e subisce le imposizioni del clan. Ma nel
tentativo di farsi accettare dal marito partecipa, senza convinzione, a varie
attività criminali. Ciò che in questo contesto ci interessa è il fatto che
entrambe queste donne – con un rapporto con l’organizzazione criminale
totalmente differente – hanno in comune una dimensione della loro vita privata
che possiamo sintetizzare nella violenza che subiscono da parte degli uomini
della famiglia: i fratelli nel caso di Vitale, il marito nel caso di Carmela
Iuculano. Appare significativo che Giusy Vitale, investita del ruolo di reggente
– in questa veste entra in contatto, ad esempio, con il boss latitante Matteo
Messina Denaro – non è autorizzata a prendere da sola una corriera per
recarsi in città. Necessita sempre di un accompagnatore maschile. Come ha
sottolineato Salvatore Lupo, “una delle differenze tra il dentro e il fuori è
proprio questa: alle donne dei mafiosi non è consentito quanto è consentito
alle altre”. Questo vale sia sul piano dei diritti come su quello dei
sentimenti e della sessualità.
Un
esercito di donne di ambienti socialmente degradati
Tuttavia, tra le donne di questi ambienti ci sono anche molte differenze. Bisogna, innanzitutto, distinguere vari livelli di coinvolgimento. Così come la mafia stessa, da un punto di vista della composizione sociale dei suoi affiliati, non è omogenea, anche le donne che troviamo nel suo raggio d’influenza sono estremamente diverse fra di loro. In particolare c’è da distinguere tra quelle nate e
cresciute nelle
famiglie mafiose, (nelle famiglie, cioè, di cui uno o più uomini sono
affiliati all’organizzazione), e quelle che entrano in rapporto con la mafia o
per temporanea attività criminale o per rapporti personali con uomini di mafia.
Tra le donne delle
famiglie mafiose, le mogli dei boss innanzitutto, possiamo rilevare un
coinvolgimento di complicità e di co-responsabilità enorme. Pensiamo soltanto
al loro ruolo durante i lunghi anni di latitanza dei loro mariti: dal sostegno
psicologico e materiale alla temporanea delega del potere. Attraverso attività
di prestanome, attraverso gestioni patrimoniali e finanziarie, attraverso
estorsioni e mediazioni. Di solito queste donne agiscono da trait d’union
fra gli uomini latitanti o in carcere e i membri dell’organizzazione che
possono muoversi alla luce del sole. Sono perfettamente a conoscenza degli atti
violenti perpetrati dai loro uomini. Alla base di questa forma di
coinvolgimento, probabilmente, sta il legame di fiducia tra famigliari, il
comune senso di appartenenza e, indubbiamente, anche un rapporto di potere che
questi uomini violenti esercitano nei confronti delle loro donne. Quanto questa
violenza abbia, nei casi specifici, un particolare fascino sulle donne che in
questo ambiente vivono quotidianamente, o quanto, invece, questa violenza
comporti disagio, disturbi della personalità e sofferenza, rimane per ora una
questione aperta. Conosciamo esempi di entrambe le tendenze, come da una parte
Giacoma Filipello(11)
che ancora dopo la morte violenta del suo uomo, il mafioso Natale L’Ala, parla
dell’attrazione che la violenza di quell’ambiente esercitava su di lei, e
Vincenzina Marchese, dall’altra. Quest’ultima, figlia di mafioso, moglie del
boss Leoluca Bagarella, ma anche sorella del collaboratore di giustizia Pino
Marchese, dopo trascorsi che la vedono attivamente coinvolta in attività
criminali, si suicida. Il collaboratore di giustizia Antonio Calvaruso racconta
che nell’ultimo periodo della sua vita questa donna portava delle parrucche
persino in casa, tanto era ossessionata di essere sorpresa dalla polizia. Prima
ancora di uccidersi, si era lasciata morire in un processo di depressione e di
declino psico-fisico che rimanda al clima di violenza estrema che caratterizza
l’ambiente di mafia.
Un differente livello
di complicità esprimono quelle donne, non organicamente inserite nel contesto
famigliare mafioso, che a livelli di parziale autonomia e responsabilità
gestiscono attività imprenditoriali, transazioni finanziarie (tra le quali
anche il riciclaggio di denaro sporco) e collegamenti logistici nel contesto
delle attività criminali mafiose. Più spesso amanti che non mogli, solitamente
incensurate, rivestono un ruolo importante nella zona di collegamento tra
economia illegale ed economia legale, proprio perché in quanto donne sono meno
visibili.
E poi c’è un
esercito di donne di ambienti socialmente degradati, spesso povere, che è a
disposizione per svariate attività gestite dalla mafia, come lo spaccio di
droga e il riciclaggio di refurtiva varia. Rappresentano pezzi importanti di
quella ragnatela che si stende su uomini, donne e cose di quei quartieri e di
quelle zone dove vige la signoria territoriale della mafia.
Le
donne sono considerate “naturalmente” proprietà dell’uomo, come corpi e
come menti
In generale osserviamo che i mafiosi diffidano delle donne come persone concrete e di tutto ciò che appare femminile come qualità. In tal senso il “femminile” è stigmatizzato a priori. Le donne, inoltre, sono considerate “naturalmente” proprietà dell’uomo, come corpi e come menti. Tali aspetti vengono esplicitati nei riti di affiliazione, in cui l’aspirante mafioso offre in pegno della propria fedeltà all’organizzazione la vita dei propri parenti, madri, mogli, figli e figlie. Le regole interne impongono di non toccare la donna dell’altro uomo mafioso: sono regole che rafforzano il legame endogamico tra i vari componenti del clan. E’ stato sottolineato come questo divieto abbia un carattere strettamente strumentale e non morale, al fine di non compromettere la compattezza del gruppo criminale e di garantire il segreto. L’apparente, rigido, rispetto per la donna di un uomo mafioso è, innanzitutto, quello per la madre, “la madre dei miei figli”. Tale rispetto formale, facilmente, si coniuga con un disprezzo sostanziale della figura della donna.
Il giudice Falcone,
nell’intervista con Marcelle Padovani, dice; “Un proverbio molto in voga
nell’ambiente di Cosa Nostra recita <meglio comandare che fottere>” (12).
Il comando e il potere, pur ambiti, esercitati e goduti in modo fortemente
emotivo – come appare nel caso dei mafiosi – richiedono autocontrollo,
prontezza e freddezza che vanno conquistati a scapito di altri aspetti della
vita intrapsichica, a scapito dell’eros. L’uomo d’onore non parla, non
lascia trapelare emozioni e sentimenti. Questa attitudine, fortemente imposta e
autoimposta, non può non avere conseguenze durature per il modo in cui questi
uomini esprimono la propria sessualità. La cultura di morte – almeno questo
viene da pensare – infetta il rapporto con i corpi vivi, erge steccati e
confini, oltre ai quali c’è pericolo. Il pericolo di perdersi, lasciarsi
andare, indebolirsi: il pericolo di amare. Una “etica professionale” che
allena sistematicamente all’omicidio – come ci insegna anche la storia di
formazioni e regimi totalitari – richiede sacrifici psichici che si
ripercuotono, innanzitutto, sulla fantasie erotiche e la vita sessuale. In
ambiente mafioso, e di questo parlano anche i pentiti, l’inquietudine
sentimentale è segno di inaffidabilità, la sessualità, anche quella
mercificata, comporta una regressione, un ritorno a se stessi, un cedimento al
principio del piacere: la sessualità è vita e come tale in antagonismo alla
mafia, che è morte. Abbassare la guardia, per un uomo d’onore, è comunque
pericoloso, questo viene in qualche modo ripetuto da tutti. Ed è proprio il
corpo femminile che incarna questa tentazione altamente minacciosa per la
disciplina e per la coesione dell’organizzazione in questione. Ridurre
drasticamente la comunicazione erotica a sessualità genitale richiede un grosso
sacrificio all’individuo che viene ricompensato almeno parzialmente
dall’ideologia mafiosa della omineità. Il disprezzo, ad esempio, che
accompagna l’espressione “fottere” testimonia ancora una volta la paura
delle donne, la paura della propria componente psichica femminile, la paura
della potenza anarchica dell’eros. L’avversione mafiosa nei confronti di
ogni forma di sessualità “perversa”, come l’omosessualità, e in
particolar modo l’omosessualità passiva, è una spia di questo atteggiamento.
E così la diffidenza
diviene l’atteggiamento che prevale nei confronti delle donne.
Le donne non appaiono
affidabili per il mestiere di uccidere: il disprezzo per la presunta inferiorità
delle donne si mescola fortemente con una certa ammirazione e un riconoscimento
della loro alterità. Sentiamo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone:
“Gli uomini di Cosa
Nostra stanno molto attenti a che cosa dicono alle mogli. Il punto di partenza
è che le donne ragionano in un certo modo, tutte le donne, anche quelle che
hanno sposato dei mafiosi o che vengono da famiglie di mafia. Quando una donna
viene colpita negli affetti più cari non ragiona più, non c’è omertà che
tenga, non c’è più Cosa Nostra, non ci sono più argomenti e regole che la
possono tenere a freno. (…) L’uomo d’onore siciliano lo sa e cerca di
tenere lontano dalle vicende di Cosa Nostra mogli, sorelle e madri. Lo fa per
proteggerle, per salvaguardarle, per salvarle, perché se la donna sa qualcosa
finisce che o la deve ammazzare lui o la deve far ammazzare da qualcun altro” (13).
La
criminalità organizzata veglia attentamente sulle nuove leve, seleziona,
scarta, incentiva
È evidente che i tratti
caratteristici dell’ambiente di mafia
– come l’ossessione della morte,
il delirio di onnipotenza, l’autoritarismo,
il controllo sociale totale, l’omertà,
la negazione della soggettività, il
mito virile e il disprezzo per il femminile, l’omofobia
e l’antiegualitarismo feroce – condizionino
profondamente bambini e adolescenti che in tali contesti vengono socializzati.
Sarebbe fuorviante vedere nel ragazzo di mafia un soggetto ribelle, un giovane
emarginato, un adolescente “contro”. Tutt’altro. Analizzando il rapporto
dell’adolescente “mafioso” con l’attuale società e confrontando tale
rapporto con quello caratteristico della fase adolescenziale tipica, gli
educatori dell’Istituto Centrale di Formazione del Personale di Messina, un
servizio del Dipartimento Giustizia minorile del Ministero della
Giustizia(14), riscontrano nei
giovani criminali vicini alla mafia dei ragazzi determinati e piuttosto
consapevoli, con una condotta criminale non affatto finalizzata a colmare un
vuoto. La criminalità organizzata veglia attentamente sulle nuove leve,
seleziona, scarta, incentiva; niente è lasciato al caso. Di fronte alla
complessità sociale e all’incertezza i giovani di oggi, mediamente, tendono a
rifiutare i legami forti, elaborano una marcata cultura dell’Io, sono in cerca
di esperienze estreme, dipendono dal consumismo e sviluppano una forte distanza
dal mondo adulto, al quale negano autorevolezza, mentre privilegiano rapporti
tra pari. Per contro, i giovani cresciuti in contesti mafiosi aderiscono ad una
cultura forte, alla cultura dell’Io contrappongono la dimenticanza di sé e la
sistematica inibizione del desiderio, al bisogno di esperienze estreme
l’organizzazione mafiosa risponde in modo efficace con i suoi rituali
“sacri”, i suoi miti e simboli, la sete di consumismo è appagata da beni
immateriali come status, onorabilità, forte identità, avventura. E, a
differenza degli altri giovani, il giovane di mafia non rifiuta l’autorità,
anzi, vive una forte sottomissione nei confronti di figure autoritarie e una
socializzazione prevalentemente verticale.
Laddove nella società
più ampia gli sviluppi storici hanno via via portato ad una crescente apertura
della famiglia verso altre agenzie di socializzazione – negli ambienti legati
alle organizzazioni mafiose l’orizzonte familiare appare chiuso, unico,
saldamente difeso contro ogni tentazione di pluralizzazione dei bisogni
affettivi e fortemente strutturato in modo verticale. Le parole d’ordine del credere
e obbedire pervadono in modo totalizzante l’ambiente familiare,
l’educazione dei figli è autoritaria e tende a deresponsabilizzare
l’individuo. Anzi, sarebbe meglio non diventare mai un individuo. I livelli
gerarchici non vanno indagati, ciò che importa è la fedeltà ad oltranza,
l’immedesimarsi nel gruppo, la cieca obbedienza agli ordini. In tal senso la
socializzazione primaria, quella famigliare, prefigura quella secondaria, vale a
dire quella che predispone il maschio a diventare un potenziale affiliato, e la
femmina ad aspirare alla carriera di una “madre dei miei figli”, come dicono
i mafiosi quando parlano delle loro mogli. Complessivamente sia l’educazione
consapevole, sia le varie forme della comunicazione fra le componenti della
famiglia, producono una sorprendente coesione famigliare all’insegna della normalità.
Un senso di normalità – e questo è un dato che coglie di sorpresa e di
sgomento spesso gli inquirenti – che non viene scalfito nemmeno quando vengono
alla luce i crimini spesso efferati, commessi dagli uomini, padri, zii,
fratelli. Anzi, una normalità che viene rivendicata a gran voce.
Tale attitudine,
spesso osservata anche tra i familiari dei pentiti, denota una chiusura nel
proprio mondo a parte e “l’incapacità di confrontarsi con la realtà del
mondo esterno, di cui si disconoscono non solo le regole, ma anche le offese
arrecate e le sofferenze provocate”(15). D’altra parte, però,
ci sono molti indizi che rimandano a profonde crisi, dovute al crollo del
vissuto di onnipotenza della famiglia mafiosa, per via di arresti, tradimenti,
collaborazioni ecc. Per la prima volta si verifica, da qualche anno, che parenti
di mafiosi – spesso figli e figlie, mai loro stessi – fanno ricorso ai
servizi pubblici della salute mentale per chiedere aiuto. Di solito sono le
madri a prendere l’iniziativa.
Nell’insieme, con
un’attenzione sia alle differenze di genere che a quelle generazionali,
possiamo dire che le tipiche relazioni nelle famiglie mafiose sono
rappresentabili come verticali, autoritarie, con un padre spesso assente
fisicamente, ma onnipresente come principio di autorità, con una madre potente,
ma sottomessa e con i figli obbedienti, molto integrati nel gruppo familiare e
nel contesto di un mondo vissuto consapevolmente e con orgoglio come “a
parte”. I magistrati spesso si trovano di fronte questa “figura” di
famiglia, compatta e chiusa su se stessa. Scrive Alessandra Camassa, a suo tempo
Sostituto Procuratore e collaboratrice di Paolo Borsellino:
“L’aspetto costante e fondamentale dei discorsi
[delle donne] era quello di spiegarmi che i loro uomini non uscivano mai da casa
e quindi non potevano avere commesso alcun reato, erano dei perfetti padri di
famiglia ed avevano insegnato ai loro figli i valori del rispetto e
dell’obbedienza. Spesso portavano i bambini con loro; ragazzini educati e
molto sottomessi all’idea della figura paterna. Si evidenziava appieno, in tal
modo, la figura delle donne nella loro veste di madri all’interno della
famiglia mafiosa: la madre, pur nel ruolo casalingo, svolgeva una funzione
primaria in quanto appoggiava il modello trasmesso dal padre. Ed infatti le
figlie raccontavano spesso di padri sempre assenti ma sempre presenti nei
racconti mitizzanti della madre: donna-madre che si costruisce un uomo-eroe che
in realtà non esiste…. Ed in effetti il padre delle famiglie di mafia non
esiste nella realtà del rapporto quotidiano, non cura i rapporti affettivi con
i figli delegandoli in pieno alla moglie, ma tuttavia i figli vengono
continuamente “riempiti” della figura paterna dalla madre” (16).
La
figura femminile in quanto madre e il suo antico ruolo nella “pedagogia della
vendetta”
Alla figura femminile
in quanto madre spetta un ruolo particolare nei contesti mafiosi, non solo per
le sue funzioni materiali, per il suo antico ruolo nella “pedagogia della
vendetta”, ma anche sul piano simbolico, in rapporto con il significato stesso
del legame che si crea fra il singolo uomo e l’organizzazione mafiosa –
organizzazione che dagli stessi affiliati viene chiamata “mammasantissima” (17).
Nella sindrome della “madre dei miei figli” echeggia automaticamente un
disprezzo per le donne: la donna, temuta e rifiutata con diffidenza perché
portatrice delle tentazioni di Eros, desessualizzata e resa funzionale per la
riproduzione, diventa l’icona della figura della madre. “L’unica donna
veramente importante per un mafioso è e deve essere la madre dei suoi figli, le
altre sono tutte puttane”, diceva il giudice Falcone, che bene conosceva i
mafiosi(18). Questo sdoppiamento
della figura femminile in madonna e puttana, esasperato in ambiente mafioso, non
è estranea alla nostra cultura in generale. A questo si aggiunge un tratto,
anch’esso non infrequente: quello di privilegiare il figlio maschio rispetto
alla figlia femmina. La nascita del maschio concede alla donna, seppure come
riverbero, una partecipazione allo splendore del principio maschile, principio
dominante nella sfera pubblica, e contemporaneamente le dà la possibilità di
modellarlo, di legarlo, di renderlo dipendente e di farlo suo per interposta
persona nella sfera privata. Attraverso il potere sul figlio maschio la madre si
appropria dello splendore del principio maschile, perché è lei colei che
l’ha generato. Il possesso del figlio, agito fatalmente dall’amore materno,
rivela così le sue due facce. Si tratta di un possesso esclusivo, goduto nel
privato, che gratifica e valorizza la donna in quanto madre e,
contemporaneamente, si tratta di una licenza per il figlio di comportarsi da
maschio nel sociale – con tutto ciò che da questa licenza deriva per la madre
stessa in quanto donna. Crescere il proprio figlio nell’illusione della sua
supremazia significa, per la donna, legarlo a sé, fargli da testimone, da
garante della sua superiorità alla quale ella partecipa illusoriamente in
quanto madre. Significa anche instillargli, confermargli un disvalore del
femminile, al limite un disprezzo per le donne. Valorizzando in questo modo il
materno, le madri contribuiscono a svalorizzare il femminile, le donne.
Contribuiscono a diffondere una cultura della sopraffazione e della violenza.
In rapporto alla violenza il ruolo delle donne nei
contesti di mafia appare segnato da una serie di paradossi. Il loro ruolo nel
normalizzare la violenza è intriso di violenza esso stesso; le loro strategie,
che ho sintetizzato nel concetto dell’astuzia dell’impotenza femminile,
le consegnano alla violenza
dei loro uomini, anima e corpo. Nella tensione tra essere e apparire,
l’astuzia dell’impotenza femminile è fondata sull’esigenza di ribadire
con forza la propria impotenza, al fine di evitare contestazioni della propria
posizione che, in realtà, testimonia spesso un potere di fatto. Tale
atteggiamento richiede però costi molto elevati sul piano emotivo e identitario.
È come se la psiche femminile, in questo doppio gioco, mettesse in scena uno
scacco matto, di cui rimane traccia nel rapporto con se stesse e con le altre
donne. Si potrebbe dire che siamo di fronte a una colonizzazione patriarcale –
da parte delle donne stesse – del proprio mondo interiore, al fine di tenere
sotto controllo, nel mondo sociale, le conseguenze del patriarcato reale nella
distribuzione asimmetrica del potere.
La più grande violenza delle donne in queste situazioni – al di là della loro collaborazione criminale diretta – consiste probabilmente in questa attiva complicità con la propria subordinazione.
(1) Tribunale di Palermo, Corte d’Assise, II Sezione, Sentenza nei Proc. pen. riuniti nn. 8/87 e 21/97 RgCA, p. 188, citato in Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 76.
(3)
Rocco Sciarrone, Passaggio di frontiera: la difficile via di uscita dalla
mafia calabrese, in Alessandra Dino (a cura di), Pentiti. I collaboratori di
giustizia, le istituzioni, l’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2006, p. 155.
(4)
Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato. I pentiti: analisi e storie, EGA
Editore, Torino, 2005, p. 300/301.
(5) Alessandra Dino, Il silenzio infranto, in Alessandra Dino (a cura di), Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2006, p. XIX.
(6) Girolamo Lo Verso e Gianluca Lo Coco, I collaboratori di giustizia. Chi sono oggi, chi erano come mafiosi, in Girolamo Lo Verso e Gianluca Lo Coco (a cura di), La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 134.
(7) Ivi, p. 104.
(8)
Cfr. dattiloscritto di Ombretta Ingrascì; cfr. anche Ombretta Ingrascì,
Le donne della ‘Ndrangheta: il caso Serraino-Di Giovine, in Giovanni Fiandaca
(a cura di), Donne e mafie. Il ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali,
Università di Palermo, Palermo, 2003; per la storia di Rita Di Giovine vedi
anche Clare Longrigg, L’altra metà della mafia, Ponte alle Grazie, Milano
1997, pp. 171-179. Per una storia dello stupro in Calabria cfr. Enzo Ciconte,
“Mi riconobbe per ben due volte”. Storia dello stupro e di donne ribelli in
Calabria (1814-1975), cit.
(9)
Cit. in Longrigg, cit., p. 179.
(10) Cfr. Giusy Vitale con Camilla Costanza, Ero cosa loro. L’amore di una madre può sconfiggere la mafia, Mondadori, Milano, 2009; Carla Cerati, Storia vera di Carmela Iuculano. La giovane donna che si è ribellata a un clan mafioso, Marsilio, Venezia, 2009; Alessandra Dino, Narrazioni al femminile di Cosa nostra, in “Meridiana”, 67/2010.
(11) Liliana Madeo, Donne di mafia, Mondadori, Milano 1994; Renate Siebert, Le donne la mafia, cit.; Clare Longrigg, cit.
(12)
Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra,
Rizzoli, Milano, 1991, p. 76.
(13) Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore, Mondadori, Milano 1992, p. 165.
(14)
Istituto Centrale di Formazione di Messina (a cura di), I ragazzi e le
mafie. Indagine sul fenomeno e prospettive di intervento, Carocci, Roma
2008.
(15) Alessandra Dino, Mutazioni. Etnografia del mondo di Cosa Nostra, La Zisa, Palermo, 2002, p. 215.
(16)
Alessandra Camassa, Lo psichismo mafioso femminile. Una testimonianza, in
Girolamo Lo Verso (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di
un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano 1998, p. 121/22.
(17)
Erich Fromm ha scritto: “Il trasferimento della funzione materna dalla
madre reale alla famiglia, al clan, alla nazione, alla razza, presenta lo stesso
vantaggio che abbiamo già rilevato a proposito della trasformazione da
narcisismo personale a narcisismo di gruppo… Empiricamente, si può
agevolmente sostenere che esiste una stretta correlazione tra le persone con una
forte fissazione alla loro madre, e quelle dai legami eccezionalmente forti con
la nazione e la razza, la terra e il sangue. E’ interessante notare in tale
contesto che la Mafia siciliana, una società segreta di uomini rigorosamente
ristretta, da cui sono escluse le donne…, viene chiamata “Mamma” dai suoi
membri.” Cfr. Psicoanalisi dell’amore, Newton Compton, Roma 1971, pp. 129 e
130.
(18) Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, cit. p. 76.