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Ristretti
Orizzonti (anno
14, numero 4 Luglio - Agosto 2012) Editoriale Il
senso della rieducazione in un Paese “poco educato” di Ornella Favero La
rieducazione è un percorso che è anche uno scambio di Ornella Favero Quando
uscirò a fine pena dovrò ricominciare tutto da capo di Antonio Floris I
“rieducabili” e i non “rieducabili” di
Elton Kalica Gli
Orizzonti Ristretti, allargati dal confronto con gli studenti di Filippo Filippi Non
di rieducazione etica dobbiamo parlare, ma di rieducazione sociale di
Mauro Palma Il
concetto chiave della rieducazione tra educatore e detenuto è quella di
reciprocità di
Roberto Bozzi Io
pensavo che mi ero solo difeso, non mi sentivo assolutamente in colpa di
Qamar Abbas Quel
seme di persona onesta e buona che presumo di avere anche io di Luigi Guida Perché
il lavoro è considerato il principale strumento di rieducazione? di
Oddone Semolin Rieducazione?
Parliamo piuttosto di responsabilizzazione e di riconciliazione di
Pietro Buffa Capitolo
quarto: I vasi comunicanti della rieducazione La
società deve essere coinvolta in un discorso serio sulle pene e sul carcere di
Bruno Turci Quella cattiva percezione che all’esterno si ha del carcere di Giovanni Bianconi Il senso della rieducazione
in un Paese “poco educato”* Sono
in tanti a guardare con sospetto, e magari anche con sufficienza al termine
“rieducazione”. L’obiezione di fondo è: ma come si fa a rieducare un uomo
di trenta, quaranta, cinquant’anni? E poi perché mai un adulto dovrebbe
permettere magari a un educatore di vent’anni più giovane di lui di
rieducarlo! E ancora, non suona un po’ da comunismo sovietico l’idea di
riplasmare l’animo umano? Tutte obiezioni giustissime, ancora più giuste se
si pensa alle carceri sovraffollate, ma… ma… Noi
pensiamo che parlare di rieducazione possa avere un senso eccome, proprio a
partire dal fatto che siamo un Paese con una forte presenza di “maleducati”.
Che non vuol dire necessariamente accusare le famiglie di aver educato male i
propri figli… Può essere anche che un figlio non abbia accettato di farsi
educare quando aveva pochi anni, e magari da adulto, e con la galera e il reato
di mezzo, sia più disponibile a parlare di educazione, o appunto di
rieducazione. E può essere anche che, se cominciamo tutti a guardare ai nostri
comportamenti con sguardo critico, forse la smetteremo di pensare che a
commettere reati sono sempre “gli altri” e che il carcere è l’unica
punizione possibile. Ma
che cosa potrebbe essere, poi, la rieducazione? E chi dovrebbe esercitare la
funzione del Ri-educatore? Intanto cominciamo, prima di tutto, a parlare di
rieducazione all’ALTRO, al rispetto dell’altro. * Atti della Giornata di Studi, Il senso della rieducazione in un Paese
“poco educato”, Parte prima. La rieducazione è un percorso che è
anche uno scambio E la persona detenuta è un soggetto di
questo percorso rieducativo, in cui a cambiare devono essere un po’ tutti di Ornella Favero Parto
dal titolo: Il senso della rieducazione in un Paese poco educato. Io ho mandato
delle raccomandazioni per questo convegno, ho chiesto che chi voleva partecipare
rispettasse la regola di un ascolto attento e silenzioso, ho stressato a tal
punto i relatori che oggi sono presenti tutti: un fatto che io ritengo un
successo in un Paese che a volte è poco educato anche in questo, nel senso che
si organizzano delle iniziative alle quali si partecipa per sentire gli
interventi dei relatori annunciati e poi quelle persone non ci sono. Io sono
molto fiera di questo piccolo particolare, che oggi tutti i relatori ci saranno,
e questo mi pare un importante punto di partenza. Mi
prendo poi due minuti per spiegare da che cosa siamo partiti per riflettere su
questo tema, sulle parole della rieducazione. Ecco, quelle parole nella legge
penitenziaria sono l’osservazione e il trattamento, e non ci piacciono tanto,
non ci piacciono perché io ho vissuto in Russia quando era ancora l’Unione
Sovietica e questa idea di osservare il tuo vicino di casa per vederne i
comportamenti e denunciare il fatto che non era un buon comunista è una cosa
che mi aveva molto impressionato. L’osservazione delle persone e il
trattamento ti danno un’idea di passività della persona detenuta, che è un
po’ una cavia e viene studiata nei suoi minimi comportamenti, osservata e
trattata. Partiamo
da questo per dire che forse queste parole, osservazione e trattamento, hanno
bisogno di essere rivisitate, mentre io non credo, ma siamo tutti disposti a
discuterne, che la parola rieducazione sia cosi brutta, a un patto però.
L’idea della rieducazione ha un senso se questo percorso di rieducazione non
riguarda la persona detenuta, vista come oggetto di un processo di rieducazione,
ma riguarda piuttosto un percorso che è anche uno scambio, e la persona
detenuta è un soggetto di questo percorso, ma a cambiare sono un po’ tutti.
Io credo che questo sia un concetto fondamentale, noi l’abbiamo imparato molto
bene nel nostro progetto con le scuole. Nel progetto con le scuole infatti i
ragazzi arrivano con tante convinzioni: che a loro non succederà mai di
commettere reati, che basta ragionare, basta scegliere bene, c’è una fiducia
nella propria razionalità che segna una distanza dal reato che purtroppo è
fasulla. In realtà non è cosi semplice, in realtà qui ci finiscono tante
persone che mai avrebbero pensato di finire in carcere, e quindi proprio la loro
testimonianza induce un primo cambiamento che avviene negli studenti, e avviene
nelle persone detenute, che si sentono in qualche modo di avere un dovere di
verità di fronte agli studenti. Un dovere, un bisogno di verità, che forse non
sentono nella stessa maniera, e questo naturalmente è anche logico, nei
confronti degli operatori. Noi
vorremmo ragionare sul fatto che questi momenti di verità, di confronto vero
dovrebbero diventare più frequenti, dovrebbero essere il centro di un percorso
di rieducazione, e per questo dico che la rieducazione significa far cambiare
anche tutte le persone che sono coinvolte in questi percorsi, io sono convinta
di essere cambiata in tante cose in questo confronto. Ogni
capitolo di questa giornata inizierà con delle brevi testimonianze di persone
detenute e poi continuerà con gli interventi dei relatori. E sarà anche
quest’anno Adolfo Ceretti a “tenere insieme” tutti gli interventi e a
cercare alla fine di raccogliere le indicazioni che ne verranno, e noi come
sempre gli siamo grati perché lui in questo nostro percorso di approfondimento
di temi complessi legati al senso delle pene e del carcere ci segue, ci
accompagna, non si è ancora stancato di essere un po’ il garante della qualità
del nostro lavoro. Capitolo
primo: Carcere: Ritorno all’infanzia Si
entra in carcere per scontare una pena che deve “tendere alla rieducazione”,
ma già all’ingresso si viene spogliati di tutto quello che in qualche modo
responsabilizza, della capacità di fare delle scelte, e di farle, appunto, da
persone adulte. Il carcere è un ritorno forzato all’infanzia, che dovrebbe
alla fine mettere fuori persone responsabili, e invece spesso fa uscire persone
che, dopo anni vissuti all’ombra di una istituzione che infantilizza, si
ritrovano con la maturità di bambini, l’età anagrafica di adulti e la voglia
pericolosa di recuperare in fretta il tempo perso in galera. Quando
uscirò a fine pena dovrò ricominciare tutto da capo Della vita libera infatti non conosco
quasi più niente, né le cose piccole né quelle più importanti di Antonio Floris,
redazione di Ristretti Orizzonti Io
faccio parte da anni della redazione di Ristretti e vorrei parlare della
rieducazione dal punto di vista dei detenuti, visto che siamo noi i diretti
interessati. Io
ho trascorso fino a oggi oltre 22 anni in carcere, ho girato una quindicina di
istituti dal Sud al Nord dell’Italia e posso dire per esperienza diretta che
ci sono grandi differenze da un istituto all’altro sul come si attua la
rieducazione. Partendo
dal presupposto che lo scopo della rieducazione è quello di far uscire le
persone dal carcere migliori di quando sono entrate, vediamo quali strumenti
rieducativi il carcere impiega per effettuare questa trasformazione e quali sono
i risultati. Gli
strumenti di rieducazione previsti dall’Ordinamento Penitenziario sono
principalmente quattro: il lavoro, i colloqui con gli educatori e gli psicologi,
l’istruzione, il favorire i contatti con la famiglia. Il punto è con quale
intensità ed efficacia essi vengono impiegati e se in tutte le carceri si fa lo
stesso trattamento rieducativo. Prendiamo
l’esempio di questo carcere di Padova, considerato uno dei migliori
d’Italia. Progettato per ospitare 400 persone, ne contiene quasi novecento, ma
quanti siamo che la mattina usciamo dalle celle per andare a svolgere qualche
attività lavorativa o a scuola o a seguire corsi vari? meno di un terzo del
totale. E
si che a Padova ci sono le scuole che vanno dall’alfabetizzazione
all’università, c’è la Cooperativa Giotto che dà lavoro a circa 120
detenuti, c’è la legatoria, la redazione di Ristretti Orizzonti, la Rassegna
Stampa, il TG 2 Palazzi, ci sono periodicamente corsi di scrittura, di pittura,
di informatica e altri ancora. Ma nonostante questo ci sono più di 500 persone
che stanno nell’ozio assoluto vivendo nell’attesa di essere a loro volta
inserite in qualche attività. Eppure il lavoro è un diritto che spetta per
legge a ciascun detenuto, lo dice la Costituzione e lo dice anche il Codice
penale. Se
questa è la situazione di Padova che è un carcere fra i migliori, nella
stragrande maggioranza degli altri istituti la situazione è molto peggiore, non
ci sono Cooperative che danno lavoro ai detenuti, non ci sono scuole superiori
se non in pochissimi posti e ben pochi sono i corsi di formazione professionale.
In questi istituti le persone sono semplicemente immagazzinate in spazi
ristrettissimi, in ozio totale e in condizioni di stress e tensione continua. In
queste condizioni le persone più che rieducarsi si abbrutiscono, si ammalano e
in non pochi casi arrivano al suicidio Tantissimi
per poter tirare avanti in queste condizioni fanno uso e abuso di psicofarmaci,
ansiolitici, antidepressivi e sonniferi. Vivono in una specie di semiletargo o,
come ha denunciato un sindacato della Polizia penitenziaria, in uno stato di
contenimento chimico. L’assistenza
psicologica che in carcere dovrebbe essere ben presente è al contrario
scarsissima. Gli psicologi invece di aumentare in proporzione all’aumento del
numero dei detenuti hanno sempre meno ore. Qui a Padova a fronte di quasi 900
detenuti ci sono due soli psicologi che lavorano per sole 22 ore al mese, per
cui se dovessero incontrare tutti i detenuti potrebbero dedicare si e no 10
minuti all’anno a persona. Se
parliamo degli affetti e dei contatti con la famiglia, essi si riducono per i
detenuti comuni a sei ore di colloquio al mese e per i detenuti in regime di
alta sicurezza a quattro, con il particolare che sei colloqui al mese o anche
quattro, li possono fare solo quelli che hanno le famiglie che abitano nelle
vicinanze del carcere dove uno è detenuto, ma quelli che abitano lontano, come
me ad esempio, non possono mica fare le sei ore di colloquio mensili. Io
sicuramente non faccio venire la mia famiglia dalla Sardegna sei volte la mese.
Ora che esco in permesso vengono ogni due mesi in occasione delle mie uscite, ma
prima che uscissi li facevo venire una o due volte all’anno. Oltre
ai colloqui visivi ci sono poi i colloqui telefonici che si riducono a una
telefonata a settimana per la durata di dieci minuti, durante i quali si fa
giusto in tempo a salutare e a dire “come stai?”, che i dieci minuti sono già
passati. Un’altra
cosa che forse non tutti sanno è che più del 40% dei detenuti è in custodia
cautelare preventiva, e cioè non ancora giudicati, un terzo dei quali è
statisticamente provato che verrà ritenuto innocente. Che genere di
rieducazione fornisce il carcere nei confronti di questi ultimi? Forse che
escono rieducati? No, escono incattiviti per le sofferenze ingiuste subite. Il
carcere è anche il luogo dove si ha la possibilità di conoscere delinquenti
“più professionali” Tantissime
persone poi sono condannate per piccoli reati, magari per piccoli furti o
piccolo spaccio di stupefacenti, e nei loro confronti il carcere svolge una
funzione esattamente contraria a quella a cui è preposto. Per questi ultimi il
carcere è il luogo dove si ha la possibilità di conoscere altri
“delinquenti” più professionali e imparare da loro, quindi più che uscirne
rieducati escono più agguerriti e più organizzati di prima. Gli spacciatori
possono diventare trafficanti e i ladruncoli rapinatori o pure peggio. Il
carcere può diventare solo una scuola di addestramento per diventare più
delinquenti ancora. Il
carcere poi è infantilizzante, perché non c’è cosa anche piccolissima per
la quale non si debba chiedere l’autorizzazione agli agenti: per andare a
telefonare, o a fare la doccia o semplicemente chiedere il giornale o un
bicchiere di zucchero al compagno della stanza accanto. Come bambini che devono
avere il permesso per tutto. In questo il carcere deresponsabilizza e non
insegna certo come vivere una volta fuori. Se
il carcere deve invece insegnare alle persone come vivere nella società, posso
dire che nei miei confronti questo compito non lo ha svolto. Ho fatto già 22
anni dietro le sbarre e da quasi un anno ho cominciato a uscire in permesso
premio. La prima volta che sono uscito mi sono trovato in un mondo completamente
nuovo e sconosciuto. Fino a un anno fa non avevo ancora preso in mano gli euro e
avevo vergogna di andare a comprare qualcosa, perché non solo non conoscevo le
monete, ma non sapevo niente neanche dei prezzi delle cose da comprare. Volevo
telefonare e non sapevo come fare. Prima che mi arrestassero si telefonava a
gettoni, mentre adesso i gettoni non esistono più. Al loro posto ci sono le
schede, ma non sapevo come si usavano. Queste cose il carcere non le insegna di
sicuro. A me il carcere ha insegnato come vivere dentro il carcere, o meglio
come sopravvivere, non certo come vivere fuori. Quando uscirò a fine pena dovrò
ricominciare tutto dall’inizio, perché della vita libera non conosco quasi più
niente, né le cose piccole né quelle più importanti. Visto
e considerato tutto questo le soluzioni secondo noi detenuti sarebbero, oltre a
un’amnistia accompagnata da indulto per decongestionare gli istituti troppo
affollati, una seria riforma della giustizia (annunciata da tutti i governi ma
mai portata a termine) che ridia al carcere il suo compito istituzionale, che è
appunto quello di rieducare. E tra le cose da riformare ci sarebbe innanzitutto
il Codice penale che risale al 1931, vecchio di oltre 80 anni. Depenalizzare i
reati minori per impedire che chi non è delinquente lo diventi, imparando da
altri più esperti. Abolire o quantomeno limitare ai casi più gravi la custodia
cautelare. Ma
soprattutto bisognerebbe applicare le misure alternative, in modo che tutti
escano dal carcere scontando una misura o di semilibertà o di affidamento in
prova ai servizi sociali, perché chi esce in queste misure si riabitua alla
libertà in maniera graduale e si abitua a rispettare le regole, perché sa che
commettendo infrazioni ritorna un’altra volta dentro, e pertanto capisce che
rispettare le regole CONVIENE. I
“rieducabili” e i “non rieducabili” Ci sono detenuti ai quali non è concesso
di accedere alle misure alternative, e la loro rieducazione è incompleta, è
“malata” perché tutta compressa dentro ai meccanismi della galera di Elton Kalica,
redazione di Ristretti Orizzonti Il
mio intervento è stato introdotto tra gli interventi dei detenuti e la cosa non
mi dispiace, solo che ci terrei a dirvi che io ho finito la mia pena da qualche
mese e sono tornato qui da uomo libero. La
rieducazione? Quando ero prima in carcere, ma anche adesso che ho finito la
pena, quando mi chiedono che cos’è la rieducazione non ho le idee chiare, non
riesco a trovare una definizione precisa: spero che alla fine di questa giornata
si possa andare fuori con un quadro un po’ più completo sul concetto di
rieducazione. Voglio
raccontare anch’io qualcosa del mio passato, faccio un po’ riferimento alla
mia infanzia nel regime sovietico. Quando ero bambino avevo un’idea chiara
della rieducazione. Appena fuori città c’era un carcere minorile e fuori
c’era scritto, “Scuola di rieducazione”. Una volta avevo chiesto a mio
padre: perché Scuola di rieducazione? E mio padre mi aveva risposto che noi
ragazzi a scuola andavamo per essere educati, educati a quella che era a qui
tempi l’idea dell’uomo rivoluzionario, invece, c’erano anche ragazzi per i
quali l’educazione normale non funzionava, e allora, se non bastava questa
educazione che avveniva nelle scuole, si faceva la rieducazione in una scuola
dalla quale non si poteva uscire fino al termine del ciclo di studi. Quindi la
mia idea era di una scuola un po’ più severa, con una disciplina un po’ più
rigorosa, e chiusa. Poi
sono finito in carcere in Italia e mi sono ritrovato in una sezione di Alta
Sicurezza. Dal cancello vedevo gli altri detenuti, quelli delle sezioni comuni,
che andavano a scuola, alle attività del carcere. Una volta ho chiesto al mio
compagno di cella come mai loro potevano accedere a queste attività e noi
dell’Alta Sicurezza no. Lui mi rispose che qui in Italia i detenuti sono
divisi in due categorie, quelli rieducabili, e sono quelli delle sezioni comuni,
che possono accedere a questo “trattamento”, e quelli che lo Stato considera
non rieducabili, che saremmo stati noi, condannati per reati clasifficati come
criminalità organizzata. Insomma anche li
mi ero fatto un’idea abbastanza chiara sulla rieducazione, che significava un
carcere più aperto, con un regime un po’ più attenuato che permetteva di
accedere ai corsi; per contro, la non rieducazione significava stare in una
sezione A.S., chiusi in cella con solo le due ore di passeggi. Poi
fui declassificato. E così sono stato messo in una sezione comune, diventando
una persona rieducabile a metà, perché potevo frequentare le attività
interne, ma non potevo accedere alle misure alternative, e mi sono fatto la
galera in modo un po’ più umano, ma fino all’ultimo giorno. Questo
status di “detenuto mezzo comune e mezzo A.S.”, mi ha permesso di accedere
ad alcuni “elementi rieducativi”, di conseguenza ho potuto iscrivermi
all’università e sono entrato nella redazione di Ristretti. Diciamo che ho
seguito questa specie di rieducazione a metà dal punto di vista istituzionale,
dedicandomi allo studio e al lavoro che ho fatto per Ristretti Orizzonti, senza
però accedere alle misure alternative. Oltre
a questo, ho cercato anche di seguire un percorso di rieducazione fisica. Nel
senso che, durante gli anni trascorsi nelle sezioni comuni, la mia giornata si
divideva tra il lavoro in redazione la mattina, e alla sera lo studio per fare
gli esami universitari. E c’era sempre un’ora in cui si poteva andare ai
passeggi. Qui in carcere le persone possono uscire dalla cella per andare ai
passeggi, che sarebbero una vasca di cemento con sopra il cielo e con delle mura
pure di cemento, in cui si può andare a sgranchire le gambe, due ore alla
mattina due ore al pomeriggio, altrimenti uno sta ventiquattro ore in branda e
gli si atrofizzano tutti i muscoli. La
regola, diciamo una regola di “viabilità” in questa area, è che chi si
mette a camminare fa avanti e indietro in questa vasca di cemento, e chi corre,
corre in cerchio per non urtarsi. Tutto questo è una regola non scritta ma
viene rispettata da tutti, e tutti possono fare un po’ di moto in questa
maniera. Quindi io mi sono fatto molti anni andando a correre come un criceto in
questo spazio ristretto. Per
tornare al mio discorso sulla rieducazione, a fine pena sono uscito che avrei
dovuto essere una persona rieducata, perché in questo lungo periodo di
detenzione ho fatto tutto. Solo che, una volta fuori, mi sono ritrovato
veramente in mezzo a molte difficoltà. Allora ne racconto una perché è la più
emblematica: non riuscivo a camminare su un rettilineo, nel senso che, appena mi
distraevo un po’ di fronte a una vetrina di un negozio, finivo per camminare a
zig-zag, ritrovandomi in mezzo alla strada con gli automobilisti che
inchiodavano e mi suonavano spaventati. Ecco,
racconto questo come una specie di metafora perché, nonostante io avessi
cercato di fare questo allenamento fisico di correre come un criceto tutti i
giorni nell’ora d’aria, quando poi mi sono ritrovato fuori è stato
veramente difficile anche fare la cosa più elementare, camminare su un
rettilineo. Questo
vale per tutto, ad esempio nella relazione quotidiana con le persone, dove credo
le difficoltà sono state maggiori. Anche perché, dopo tanti anni in carcere,
la cerchia di amici sono i volontari e i detenuti. Anche se il carcere
attraverso le regole, i tempi, i lavori, insegna alla disciplina, questo non
sempre basta una volta fuori. E quando uno si ritrova di fronte alle difficoltà,
se non c’è nessuno che viene a darti una mano, si è spinti a risolvere i
problemi cercando le soluzioni anche in maniera diciamo “alternativa”, per
vie non legali, zigzagando, come quella specie di uscita dal rettilineo quasi
involontaria che mi portava sempre in mezzo alla strada. Quello che voglio dire
è che quello che il carcere oggi insegna è rispettare gli orari ed essere
disciplinati con gli agenti e con gli operatori, dando l’illusione che basta
questo per rifarsi una vita onesta; ma non insegna la cosa più importante, che
si può vivere anche facendo cose “normali”, non insegna a camminare dritto,
guardare avanti, vivere una vita fatta di piccole emozioni. Io
sono uscito e ho continuato a lavorare per Ristretti Orizzonti, ho sempre avuto
dei punti di riferimento abbastanza solidi e positivi. Pertanto non ho avuto
questa tentazione di cercare soluzioni alternative, ho saputo dire di no. Ma se
io non avessi avuto questi punti di riferimento, non lo so se avrei detto di no. Ecco
credo che anche questo potrebbe essere uno spunto di riflessione sulla
rieducazione. Perché quello di cui io mi sono accorto è che noi persone, noi
esseri umani siamo molto vulnerabili, vulnerabili nel senso che di fronte alle
difficoltà è facile dire di sì a delle uscite dalla legalità, o comunque si
è tentati di farlo, si è appunto vulnerabili. Anche quando andiamo nelle
scuole e mi chiedono se io credo nella rieducazione, io dico: guardate,
l’importante è che uno sia consapevole di quanto noi uomini siamo fragili, e
quindi esposti al pericolo di commettere reati, per chi non li ha mai commessi o
di ricommetterli e ritornare dentro, per noi che abbiamo già fatto questa
esperienza. Questa
è la mia riflessione, la consapevolezza di questa fragilità per cui ho
imparato che è meglio non sentirsi troppo sicuri di sé, e tenere sotto
controllo le proprie debolezze, la propria difficoltà a “camminare dritti”. Gli
Orizzonti Ristretti, allargati dal confronto con gli studenti Per me, che con loro mi sono raccontato
anche in modo spietato e senza farmi “sconti”, questa esperienza è ben
diversa da quella che fa una persona, che si fa la galera su nelle sezioni
sovraffollate di Filippo Filippi,
redazione di Ristretti Orizzonti Che
cosa mi hanno “dato” questi quasi tre anni di “partecipazione attiva” a
Ristretti Orizzonti, in confronto alla passività diffusa sempre più in
carcere? Agli
inizi (diciamo il primo anno e mezzo o poco più), ero entusiasmato da questa
esperienza particolare in carcere e con il gruppo di allora, che poi via via si
è in parte “sfaldato” (fortunatamente qualcuno ancora riesce ad uscire!),
era qualcosa di nuovo e talvolta piacevole ed arricchente per me. Poi
con il passare del tempo e la fatica del parteciparvi, alcune cose sono divenute
anche faticose, in ogni caso ho potuto ascoltare ed incontrare molte persone,
che probabilmente non avrei mai incontrato e/o ascoltato, durante l’espiazione
della mia pena, e certamente mi sono addentrato in temi e argomenti di cui mai
mi sarebbe passato per il capo di occuparmi. Ho
affinato di sicuro le mie conoscenze su molti temi, conoscenze talvolta
“compresse”, rapide, veloci, ma generalmente molto interessanti e
”controcorrente”, non le solite cose che giornali e TV sempre più spesso ci
propinano. Principalmente
gli “incontri sulla legalità”, come sono chiamati dagli addetti ai lavori,
quelli con gli studenti insomma, sono stati la molla più importante che mi ha
spinto a continuare con quest’impresa così faticosa, una attività che
ironicamente a volte definisco “per i posteri”, nel senso che noi ci
ostiniamo a fare e dire cose che talvolta sono impopolari, “contro”, contro
ciò che tutti i media, buona parte dei politici e conseguentemente una parte
dei cittadini condividono riguardo alle pene e al carcere, anche perché non
conoscono nel dettaglio questi temi, e sono sviati dalle informazioni che
ricevono. Questi
incontri con gli studenti di molte classi sono stati talvolta arricchenti e
liberatori, talaltra una fatica immane che più di una volta mi ha lasciato
svuotato anche per qualche giorno (teniamo presente che anche noi che
partecipiamo a Ristretti siamo comunque detenuti!). La ripetizione della propria
storia personale, anche se ogni giorno arricchita da nuovi dettagli, crea
inevitabilmente anche senso di pesantezza. Il continuo rivisitare le nostre vite
ed il peggio di esse ti porta comunque a continue consapevolezze nuove che
“fanno male” (una specie di supplemento pena), sono dolorose ed inoltre ti
tengono inchiodato a ciò che sei stato o hai fatto. Dal
canto mio, che mi sono raccontato anche in modo spietato e senza farmi
“sconti”, questa esperienza è ben diversa da quella di chi assiste sì agli
incontri, senza però mettersi mai “in gioco”, o facendolo poco e con un
coinvolgimento minimo, ma è diversa soprattutto da quella che fa una persona,
che per esempio sconta la sua condanna su nelle sezioni, dove il tempo potrebbe
fermarsi, in assenza di qualsiasi attività, alla data del suo arresto e tutto
rimane come “sospeso” a quel giorno ed alla “bella vita” che magari era
riuscito a fare o ai beni materiali, che è riuscito a conservarsi per quando
uscirà. In sezione, al massimo gli argomenti di discussione od
“introspettivi” riguardano eventualmente come farla franca al meglio, o
perché prendersela con il giudice che è stato troppo severo con la condanna, o
con l’avvocato che non ha fatto il suo dovere o con l’Istituzione carceraria
che (ma questo può essere vero!) non rispetta più neanche le sue Circolari e
non permette al condannato di scontare la sua condanna dignitosamente. Ma
tornando a qualche anno addietro, tutto mi sembrava, era per me più facile,
“scivolava”, soprattutto quando vi era un gruppo ferrato e rodato (almeno
questa era la mia percezione), con il quale insieme tutto era più
“distribuito”, e le fatiche, gli impegni più “spalmati” tra di noi. Non
a caso credo che questa realtà di Ristretti Orizzonti, più unica che rara,
abbia tratto origine, sia nata principalmente qui dentro il carcere con molti
meno mezzi di oggi, ma con uno sparuto gruppo che con costante caparbietà ed
impegno voleva avere una sua voce (anche se detenuta in carcere), e
l’ha ottenuta. Abbiamo
cercato di coinvolgere tutte le parti “sane” della società, creando quindi
una realtà che molti “invidiano”, e che è di riferimento per le molte
associazioni che di carcere si occupano anche in questi tempi bui, regressivi e
di deriva, non solo economicamente parlando. È una realtà che molti invidiano
ma ciò non significa che Ristretti sia “amata”, molto spesso rompe
letteralmente le scatole affrontando temi che per molti anni sono stati
affrontati in un modo poco chiaro e cerca di sviscerare le storture della realtà
carceraria. Questa è una posizione molto scomoda. Le
attività oggi sono tante: migliaia di contatti sul sito di Ristretti, migliaia
di studenti dentro e fuori che partecipano o hanno partecipato in più anni
scolastici al nostro progetto, un sacco di persone detenute che da qui sono
potute passare; studenti universitari che costruiscono le loro tesi nella Casa
di Reclusione di Padova intervistandoci, e molte altre attività ancora,
intraprese per dare spazio anche a coloro che non fanno nulla su in sezione,
quindi un gruppo di Ristretti allargato, che chiamiamo “Gruppo di
discussione”, un laboratorio di scrittura, un corso di informatica ed ultimo
un corso di fotografia. Solo che lo spazio… non c’è! È sempre quello delle
due camerone di Ristretti ed allora come conciliare tutte queste attività (e
gli incontri scuole-carceri), che inizieranno!?! Ecco,
mantenere tutte queste cose non credo sia facile, soprattutto in questo 2012,
con i molti cambiamenti regressivi, tagli economici, sovraffollamento, che vi
sono stati sia dentro le carceri che fuori, in merito al senso che dovrebbe
avere una pena da espiare, un senso che va sempre più perdendosi. Ed
io? Ora non lo so con chiarezza, ma credo davvero che questa esperienza mi abbia
arricchito, un’esperienza preziosa in un postaccio come le galere odierne (si
anche la Casa di reclusione di Padova!), piene di molte persone che oramai non
hanno poi più molto a che fare con il classico stereotipo di carcerato, che una
volta in maggioranza era colui che consciamente decideva di darsi al crimine. Oggi
le galere “contengono”, è proprio il caso di usare questo termine, in
prevalenza tossicodipendenti, immigrati e disperati, gente che fugge da guerre e
povertà, disagio sociale e mentale. I “ritocchi” fatti in questi anni al
Codice penale anche con le cosiddette “leggi emergenziali”, e la crisi
economica hanno sicuramente peggiorato le condizioni di vita dentro e fuori le
mura e le possibilità si sono sempre più assottigliate dentro le carceri, che
si sono progressivamente impoverite sempre di più, impoverite ma anche
“arricchite” con sempre più nazionalità, etnie e gruppi. Tutto ciò ha
cambiato radicalmente il profilo delle carceri e sicuramente anche quello di
Ristretti Orizzonti e delle persone che vi partecipano. Ma ha anche complicato
le cose, reso più difficile tutto per tutti, soprattutto nelle fasce più
socialmente disagiate. Parlare
di rieducazione in queste condizioni è sempre più difficile.
Non
dobbiamo parlare di rieducazione etica, ma di rieducazione sociale Il carcere oggi invece è un carcere dove
non ci si abitua alla vita vera, ma ci si abitua ad adeguarsi alle regole, e le
relazioni di sintesi molto spesso ti dicono solo se il soggetto si è adeguato o
non si è adeguato a esse di
Mauro Palma, presidente
uscente del comitato europeo
per la prevenzione della tortura Colpisce
sempre tornare in questa comunità del “Due Palazzi”, un aggregato
composito, in cui si vede l’interazione positiva tra i diversi ruoli, tra i
detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria, la direzione, gli operatori e
i magistrati. In un mondo in cui difficilmente si dialoga tra operatori diversi
è estremamente importante mettere in comune le nostre diversità, i diversi
sguardi che abbiamo rispetto alla detenzione. Ci
ritroviamo per un convegno, con una doppia sensazione: quella positiva, delle
molte persone qui venute per discutere attorno a questo tema e che, quindi, lo
ritengono tema importante per la qualità della nostra vita sociale e
democratica; e quella negativa della ritualità che ogni convegno porta con sé
quando nei fatti non viene preso come elemento da cui partire per cambiare
qualcosa. Il rischio è la ripetitività che porta inesorabilmente
all’assuefazione. Nei
convegni sul carcere, infatti, non si capisce mai perché le cose non
funzionino, dal momento che tutti sembrano essere d’accordo su tutto e perfino
chi ha responsabilità complessiva del sistema dichiara sempre di essere
d’accordo. Proprio ieri intervenendo ad un altro convegno a Napoli, dicevo che
personalmente mi sono stancato del fatto di essere addirittura “scavalcato”
dalla stessa amministrazione, in occasione di convegni e seminari, per quanto
riguarda ipotesi di detenzione diversa, aperture, progetti. Non si riesce a
capire allora come mai la situazione attuale sia descrivibile con quei termini
di degrado, oggettivamente corrispondenti alla realtà e a cui ci siamo perfino
abituati, nonostante queste dichiarate volontà e nonostante le professionalità
interne e la presenza di un volontariato che è ampio in Italia, più che negli
altri Paesi. Deve esserci necessariamente un punto di discrasia profonda tra
dichiarazioni e azioni, tra quanto teoricamente si afferma e quanto nel concreto
si realizza. Una
discrasia che coinvolge tutti e dobbiamo essere impietosi anche con noi stessi,
a partire dai termini che utilizziamo e dai significati concreti che essi sono
andati assumendo negli anni. Vorrei partire proprio da una parola spesso evocata
e che sembra trovare concordi troppi, quasi tutti, in modo preoccupante: la
parola “rieducazione”. Come è possibile che non ci sia attrito
all’interno del nostro Ordinamento tra la rieducazione e l’ergastolo
ostativo? Come è possibile non venga colto tale attrito da parte di chi usa il
primo termine e intanto approva provvedimenti che introducono il secondo? Ponendo
questa domanda, dell’inconciliabilità dell’ergastolo ostativo con il fine
rieducativo dichiarato, potrei quasi chiudere il mio intervento, perché tale
confronto pone evidenza al fatto che le parole stesse con cui si parla di
carcere hanno perso la semantica originaria, ne hanno acquistato un’altra,
fluida e inutile. Tuttavia è bene entrare all’interno di tale contraddizione
semantica perché il termine “rieducazione” è in realtà un termine che è
invecchiato male. E un po’ come accade a volte anche alle persone quando,
invecchiando, ha fatto emergere alcune ambiguità iniziali, come alcuni aspetti
del nostro carattere, che in giovinezza erano più nascosti e con gli anni si
rendono sgradevolmente e ineluttabilmente visibili. Così
è, infatti, avvenuto anche alla parola “rieducazione”, che fin
dall’inizio conteneva una certa ambiguità, che ora sta venendo fuori. Non vi
è dubbio che la parola sia stata inserita positivamente dal Costituente, quando
l’intenzione era chiaramente quella di non dare alla pena una finalità
meramente retributiva, bensì la si voleva ancorare a una utilità – di più
una utilità doppia, da un lato quella di prevenire i delitti e dall’altro
quella di contenere le pene rispetto all’arbitrio: non dare così la
possibilità di irrogare pene indiscriminate, non collegate ad un qualunque
percorso e che avrebbero in qualche modo rischiato di configurare la pena
detentiva quasi in continuità con la precedente tradizione della vendetta. La
pena nel diritto penale moderno non nasce in continuità con la pratica
pre-moderna della vendetta, soltanto affidandola alla neutralità dello Stato e
depurandola dall’aspetto cruento. Al contrario, nasce come rottura con tale
impostazione: nasce per contrastare l’ipotesi di vendetta e proprio per questo
una sua connotazione strettamente retributiva finirebbe col configurarla come
una sorta di vendetta istituzionale. Quindi
la parola è nata positivamente, ma è nata positivamente in un contesto che
naturalmente sottintendeva non già un concetto di dimensione etica – una
rieducazione etica, appunto – bensì di rieducazione sociale, di ritorno
all’inserimento, difficile, ma positivo nel contesto sociale, con diversi
strumenti, intenzioni e possibilità. Se noi non chiariamo questa declinazione
della rieducazione, ne perdiamo il significato originario. Voi
sapete bene che il percorso, dall’inserimento in Costituzione al recepimento
in una legge, di tale impostazione, è stato molto lungo: la Costituzione è
entrata in vigore il primo gennaio del 1948, la riforma penitenziaria è del
1975, ventisette anni dopo. Nel periodo intermedio, nonostante l’affermazione
costituzionale, ha continuato a rimanere vigente il regolamento degli anni
Trenta e ha continuato a essere il substrato della cultura penitenziaria
concreta. Non solo, anche dopo che la parola rieducazione è stata introdotta
nel nuovo Ordinamento, abbiamo dovuto aspettare una sentenza della Corte
Costituzionale del 1990 – era presidente Ettore Gallo – perché venisse
sancito che la rieducazione non è elemento accessorio rispetto agli altri
elementi di tipo retributivo e preventivo costituenti la pena, ma ne è elemento
costitutivo. Non
solo questo termine ha fatto fatica ad essere accolto nel sistema penitenziario,
ma è stato piegato all’idea di “moralismo individuale”: la rieducazione
progressivamente non è stata vista come processo per riannodare i fili con la
società, quei fili che il reato aveva reciso, creando però una situazione
nuova per entrambi gli attori, il responsabile del reato e la società; è stata
invece piegata verso il moralismo individuale e simmetricamente verso la
deresponsabilizzazione della società. A
mio parere, questa impostazione ha indotto nel termine “rieducazione” una
semantica non effettiva, non fattuale bensì consolatoria, come supporto a una
idea astratta di trattamento che ha un carattere del tutto autoreferenziale.
Dico ciò, pur nel pieno rispetto della professionalità di coloro che operano
all’interno del carcere, motivato dal processo complessivo che il carcere
attuale induce, per cui una relazione di sintesi della cosiddetta osservazione
della personalità è un testo di cultura minore, spesso limitato a registrare
il progressivo adeguamento del soggetto alle regole esplicite e implicite di un
microsistema, quale è quello carcerario: la lettura di tali relazioni a volte
– scusate la brutalità – è veramente deprimente. Soprattutto sono
relazioni con frequenti “invasioni di campo”, poiché capita spesso di
leggere premesse quali “considerata la distanza dal fine pena …”,
prendendo così come parametro un elemento valutativo che non deve essere
considerato da chi deve relazionare sull’andamento detentivo poiché è al più
un elemento su cui sarà il magistrato di Sorveglianza a decidere
sull’accoglimento o meno della proposta di misura alternativa. Dietro
questa declinazione dell’idea di rieducazione c’è un’implicita intenzione
di trasformazione dell’individuo, attraverso una serie di meccanismi, che sono
spesso privi di efficacia operativa, giacché – come si diceva in altri
interventi – pochi sono gli operatori rispetto alla massa di detenuti, e privi
di una capacità di incidere sul soggetto detenuto in maniera da potergli
offrire diverse possibilità, diversi modi di rapportarsi alla comunità
esterna. Tutto questo, secondo me, si riflette in una distanza abissale che
separa ciò che normativamente noi volevamo – noi, intendo dire, come
Ordinamento, come Stato – e avevamo definito – nella Costituzione,
nell’Ordinamento Penitenziario – e tutto ciò che vive il detenuto e anche
il lavoratore, all’interno dell’Istituzione Penitenziaria. Molte
volte in questi anni, avendo visitato carceri un po’ in tutti i Paesi europei,
mi viene posta la domanda su quale sia un punto di forza e quale un punto di
debolezza del sistema penitenziario italiano. Il punto di forza l’ho sempre
trovato nella professionalità di chi ci opera, nell’apertura al mondo
esterno: in Italia il volontariato è presente più che in molti altri Paesi. Il
punto di radicale debolezza invece l’ho sempre trovato nella distanza che
separa la norma stabilita e ciò che poi realmente si vive all’interno degli
Istituti – quantomeno in media, ferme restando le eccezioni. Questa
separatezza è una separatezza che in qualche modo è contraria a tutte le
ipotesi di rieducazione. Ma,
dove si annida questa deficienza strutturale? Una deficienza che, si noti bene,
non dipende dal sovraffollamento, che è un elemento aggiuntivo, che aggrava le
situazioni soggettive di chi è detenuto e di chi vi opera. Mi riferisco a una
carenza progettuale, di riflessione; una deficienza che porta alla necessità di
rivedere il paradigma detentivo. Si annida, infatti, nella dicotomia fra un
carcere “infantilizzante” ed un carcere “responsabilizzante”. La
vita interna deve riacquistare somiglianza con la vita reale esterna Il
carcere italiano è un carcere infantilizzante, mutuato dal modello collegiale.
Lo è anche nella sua disposizione architettonica nonché nella sua quotidianità:
al detenuto non viene chiesto altro che adeguarsi ad un regolamento, adeguarsi a
delle norme, gli vengono scanditi i tempi, gli viene dato il cibo. Tante volte
sorridiamo del fatto che per ogni richiesta il detenuto deve fare la
“domandina”, con quel diminutivo che in qualche modo evoca quest’idea di
regressione coatta verso uno status di persona che non ha responsabilità. È
un carcere ove appunto non ci si abitua alla vita vera, ma ci si abitua ad
adeguarsi alle regole, e le relazioni di sintesi che citavo prima molto spesso
ti dicono solo se il soggetto si è adeguato o non si è adeguato a esse. Per
cui “il buon adeguamento” alle regole, la buona de-responsabilizzazione è
elemento vincente rispetto alla possibilità di avere accesso a misure
alternative alla detenzione. Un
detenuto che ha vissuto per anni in questo modo avrà certamente una difficoltà
enorme a ritornare nella società esterna, a cui non solo si ripresenta con il
volto diverso in positivo, ma anche con il volto diverso in negativo perché
segnato dallo stigma del fatto di cui è stato a suo tempo responsabile o
comunque di un fatto penalmente rilevante che quantunque non noto è certamente
stato all’origine della sua reclusione. Ciò porta difficoltà soggettive,
malessere individuale, e anche esposizione al rischio di recidivare reati. Ieri
in un altro convegno, il Commissario straordinario per il piano carceri, il
Prefetto Angelo Sinesio, ha detto: “Abbiamo fatto, stiamo facendo, padiglioni,
stiamo costruendo strutture a norma, stiamo ampliando strutture esistenti”.
Gli ho però chiesto a quale modello detentivo si stesse riferendo in tale ampia
progettazione e con quale finalità le strutture venissero ideate. Perché è
diverso, per esempio, progettare una scuola come De Amicis ce la descrive nel
suo Cuore o una scuola pensata per la scolarizzazione di massa, dopo la
riforma della media unica del 1962. Lo spazio riflette l’idea. Lo spazio è
diverso, richiede funzioni diverse da svolgersi al suo interno. Così è diverso
lo spazio detentivo di puro contenimento o di semplice gestione di una comunità
di soggetti che devono essenzialmente obbedire e lo spazio dove i soggetti
devono cimentarsi in attività di responsabilizzazione, così preparandosi a un
diverso ritorno nella comunità esterna. Anche
perché le strutture, una volta costruite, rimangono spesso immodificate e
immodificabili e divengono esse stesse dei costruttori di un’idea concreta di
vita carceraria, ben al di là delle intenzioni espresse nei convegni. Non ho
avuto dal prefetto una risposta adeguata. Vorrei
citare due esempi: uno è il modello di carcere nord europeo – lo si cita
spesso anche se spesso si ottiene una risposta sconsolata che tende a non
confrontarsi con esso, poiché “il Nord Europa è diverso!”. Il secondo è
la sperimentazione che si sta attuando in molti Istituti in Spagna: un modello
mediterraneo che pure introduce elementi d’innovazione interessanti. Nel
modello nord europeo – per esempio in alcuni Istituti detentivi danesi e
norvegesi – il detenuto non riceve niente dall’amministrazione: riceve
soltanto una paga settimanale e deve saper amministrare i suoi soldi. Ovviamente
nell’Istituto non c’è un solo “spaccio” per generi vari da acquistare,
che possa così fare i prezzi che gli pare come spesso avviene in Italia; ce ne
sono diversi e c’è, quindi, una possibilità di scelta. Il detenuto deve
lavorare, ma per operare, per esempio, come falegname, deve avere ottenuto dei
crediti formativi attraverso la frequenza del corso per ebanista. Il detenuto
deve scegliere all’interno di una serie di offerte che aprono la via verso un
lavoro semplice o uno più complesso, diversamente retribuiti; tuttavia anche il
lavoro più elementare richiede un precedente impegno formativo, anche il lavoro
dello spesino è un lavoro ottenibile solo sulla base di alcuni crediti. Il
detenuto deve così ingaggiare se stesso come “attore-costruttore” della
propria settimana e del proprio percorso. Se quei soldi li finisce al martedì,
non vi è verso poi che mangi fino alla domenica: questa idea rende più simile
il mondo interno a quello esterno. I detenuti sono organizzati in aree, dove la
giornata è per molti aspetti auto-organizzata; ogni area è fornita di luoghi
di incontro, di cucine dove preparare i propri pasti – hanno i loro coltelli
da cucina – e dove vengono organizzati turni per la gestione quotidiana. Ovviamente,
come mi capita tante volte di dire, è un sistema “duale”, nel senso che
questo è il sistema nel quale il detenuto è inserito normalmente; se tuttavia
il suo inserimento non avrà esito positivo, potrà essere spostato a una
struttura diversa, di tipo “infantilizzante”. Va notato però che la prima
chance che viene data a ciascuno è il sistema “responsabilizzante”; è
possibile regredire a un sistema in cui si è gestiti dall’amministrazione,
appunto “infantilizzante”, ma ci sono percorsi per tornare dopo un periodo
al sistema precedente. Dietro questa impostazione, c’è un’idea di
contrattualità tra il detenuto e l’amministrazione carceraria: quest’ultima
ha il dovere di fare delle proposte, di offrire opportunità, il detenuto ha il
dovere conseguente di organizzare la propria vita. Non
è un soggetto meramente passivo, a lui va chiesto impegno positivo. Questo
modello è inoltre connesso a delle forme di organizzazione della giornata che
includono – e qui vi è una grande differenza con il sistema italiano –
anche l’organizzazione di turni per varie attività, inclusa
l’organizzazione dell’affettività: in più di trenta dei quarantasette
paesi del Consiglio d’Europa è prevista la possibilità di incontri con il
proprio partner senza supervisione. Si tratta di quella possibilità di
relazioni affettive – così noi eufemisticamente chiamiamo la possibilità di
espressione sessuale – in locali che in molti casi offrono la possibilità di
trascorrere un weekend con il/la proprio partner e gli eventuali figli. Spazi
gestiti all’interno di questa impostazione responsabilizzante come momenti di
auto-organizzazione da parte dei detenuti della vita quotidiana. Per
non riferirci solo a modelli scandinavi, cito parallelamente l’esempio
spagnolo: un sistema detentivo che ha un’organizzazione, per altri versi non
funzionante, ma per alcune cose molto positiva. Essendo ogni carcere organizzato
in moduli, sono stati recentemente introdotti in ciascuno di essi, in via
sperimentale, uno o due moduli detti “moduli di rispetto”. Un modulo di
questo tipo è un luogo aggregativo dove si stabilisce una forma di autogestione
della quotidianità sancita dalla firma del contratto tra detenuto e
Amministrazione. Il contratto prevede degli obblighi per il detenuto e prevede
degli obblighi per l’Amministrazione. Il
cosiddetto “trattamento penitenziario” in questi casi non è un progetto
elaborato a tavolino. È la risultante di una diversa atmosfera all’interno
del carcere; è la sintesi dei supporti offerti al detenuto e delle sue reazioni
nella gestione in proprio della quotidianità. Su
questa diversa impostazione vi è un’ampia discussione in Europa, nella
ricerca di un paradigma detentivo più rispondente alla scrupolosa tutela dei
diritti della persona detenuta e al contempo di riduzione del rischio di
recidivare il reato. Se sia il caso di accentuare gli aspetti di offerta pur in
un’impostazione infantilizzante (dal teatro, alle attività con la comunità
esterna e quant’altro) o se invece non sia necessario cambiare paradigma,
potenziando il loro essere soggetti, e simmetricamente modificando il ruolo
degli operatori e la fisionomia delle loro stesse professioni è tema di
dibattito nel panorama europeo. Certamente da tutti è avvertita la necessità
di rivedere impostazioni, funzioni e professioni delineate più di trenta anni
fa; così come la necessità di rendere la vita interna sempre più simile a
quel mondo esterno da cui si è giunti e a cui, prima o poi, si ritornerà. Il
concetto chiave nella relazione tra educatore e detenuto è quello di reciprocità La reciprocità comporta il mettersi in discussione e sperimentare la
relazione, in modo non direttivo ed empatico (cioè mettendosi nei panni
dell’altro) di
Roberto Bozzi,
responsabile dell’area pedagogica nella
Casa di reclusione di Bollate (MI) Premessa
pedagogica Il
senso profondo dell’educare non può che partire da ex-ducere (tirare
fuori) e arrivare al rendere autonomi. In particolare l’educazione in età
adulta ha quali presupposti la condivisione del percorso tra educatore e utente,
nonché la co-strutturazione. Il
“tirare fuori” significa pertanto l’offerta di stimoli atti a fare
scoprire all’altro delle parti di sé (già in lui esistenti) ma di fatto mai
sperimentate. Spesso tale carenza di sperimentazione è collegata ad ambienti
socio-familiari ipostimolanti e allora laddove si deve educare ci deve essere
una sorta di iper-stimolazione per sollecitare, appunto, la scoperta di quelle
parti di sé. Il
carcere, dunque, avrebbe il compito di contrapporsi a contesti culturalmente
marginali e poveri e spesso, invece, ne ripropone pienamente il modello (abulia,
linguaggio violento e volgare, forte dimensione del potere, regole rigide e
ampio mondo sotterraneo). “Tirare
fuori” è un concetto opposto al plasmare, al creare “a propria immagine”
anche perché dovrebbe lasciare libero l’altro di scegliere, di aderire e di
reinterpretare le proposte a lui fatte. Nella
psicologia analitica, Carl Gustav Jung individua due archetipi opposti
nell’inconscio collettivo, il puer (quanto nell’individuo c’è di
nevrotico e inquieto) e il senex (emblema di tutto ciò che gli uomini
definiscono responsabile, laborioso, stabile) nell’uomo adulto convivono
queste due dimensioni ed è il loro equilibrio il sintomo di maturità. Come si
pone il carcere con queste due istanze? Tenuto conto che il cambiamento in età
adulta avviene spesso attraverso esperienze molto significative (se non
traumatiche) – quelle che i teorici del settore chiamano “eventi
marcatori” o “esperienze apicali” – il carcere avrebbe dunque
la possibilità di sfruttare il trauma per agevolare il cambiamento.
Analisi
della realtà penitenziaria come infantilizzante In
realtà però, il carcere, anziché tendere al rendere autonomi (e a quello che
Jung definirebbe equilibrio tra puer e senex), spesso passivizza e
rende, per assurdo dipendenti, lasciando ampio spazio solo al puer. Infatti
lo spazio di autodeterminazione è ridottissimo (anche per quelle funzioni che
dopo l’infanzia sono abitualmente gestite in modo autonomo, es. la doccia, la
spesa etc), il carcere che si pone come padre-padrone (e cioè che esercita
potere prima ancora di tendere alla mission rieducativa) si pone nei
confronti del detenuto come davanti a un puer, fa le cose al suo posto
(decide per lui), se fa il bravo gli dà un premio, se fa il cattivo lo punisce.
Magari lo sveglia quando è l’ora di alzarsi e soprattutto permette che si
crei attorno a lui un’immagine sociale che spesso è credibile e forte
soltanto dentro le mura. Quanti nostri utenti sono dei piccoli boss dentro e
fuori degli emarginati. E allora perché mai “dovrei stare fuori?” “Il
carcere parla la mia stessa lingua, lì mi sento qualcuno”. L’assurdo
è che tale meccanismo viene prodotto in modo proporzionale alla rigidità della
regole. Erving Goffman ci ha spiegato che nelle istituzioni totali più ci sono
regole e limiti e più ricco è il mondo sotterraneo (si pensi alla droga in
carcere). Il
ritorno all’infanzia è quello pertanto, pur violento e privo di affettività,
di un accudimento che di certo non prepara al mondo esterno, ma che sempre più
si colloca come separatore tra il dentro e il fuori. Reinserimento versus
disadattamento. Il
ruolo dell’educatore nella dinamica adulto/bambino In
questo anche le figure educative hanno una responsabilità, in quanto spesso,
per ruolo e cioè anche in termini di protezione/autoconservazione, vivono la
relazione con il detenuto come eccessivamente asimmetrica, mettendolo in una
condizione di inferiorità (se fosse semplicemente l’utente di un servizio
forse ciò non accadrebbe) (sotto/sopra) e spesso completamente avulsa da un
concetto chiave insito nella relazione stessa e cioè quello di reciprocità. La
reciprocità invece comporta il mettersi in discussione e sperimentare la
relazione, come indica Carl Rogers, in modo non direttivo ed empatico (cioè
mettendosi nei panni dell’altro). Un
detenuto un giorno mi racconta di uno dei suoi primi incontri con una
educatrice, era un giorno particolare per lui per una brutta notizia dalla sua
famiglia e ricorda che mentre lui cercava da lei un sostegno (e ricercava il suo
sguardo), lei in modo continuativo si guardava la collana… che rigirava tra le
mani. Da allora decise che non avrebbe mai più parlato con uno di loro,
“tanto non serve”. Per
fare riscoprire la condizione di adultità ci
deve essere, pur nell’ovvia differenza di ruoli, un approccio non direttivo e
legato alla conoscenza e se si teme che smettendo i panni di “chi comanda”
si possa essere sopraffatti, io credo che il rispetto passi attraverso altri
canali: l’essere credibili, trasparenti, lavoratori, nel sapersi mettere in
discussione (chiediamo di fare autocritica e quando sbagliamo noi e ce lo fanno
notare magari scriviamo un rapporto disciplinare). Questa è la dimensione del
potere non dell’educazione andragogica. Io
a volte preferisco quando un detenuto esce dagli schemi, va anche un po’ “su
di giri” però è vero e adulto, perché a volte noi per primi abbiamo
reazioni (emotivamente plausibili) di questo tipo ed è sano, a meno che si
intenda “rieducare” come “addomesticare” . Gli
spazi per mettersi in gioco non possono limitarsi al colloquio, nel setting
rigido della scrivania (con i due ruoli di “chi sta di qua” e “chi sta di
là”), si devono rompere gli schemi e sorprendere, spesso questo apre varchi
nella comunicazione relazionale inaspettati. Così come non avere il timore
della propria umanità.
E per tali ragioni si devono utilizzare anche altre forme/luoghi di
osservazione: l’osservazione partecipante (quella che in antropologia viene
definita come osservazione etnografica), il lavoro di gruppo e cioè essere
presenti in sezione, negli spazi del detenuto, durante le attività, in momenti
non formali. Questo è il senso palese dell’esserci, dell’essere visibili e
anche dell’assumersi la responsabilità di un ruolo complesso. Spesso
il timore – in tema di responsabilità – che è presente negli istituti
penitenziari è relativo all’evasione e ai così detti “eventi critici” e
cioè in negativo, ma un altro livello di responsabilità che siamo chiamati ad
assumerci è quello relativo alla “scommessa” sulla persona e pertanto alla
formulazione di programmi di trattamento che utilizzino tutti gli istituti
previsti dall’Ordinamento penitenziario. Nel
carcere di Milano Bollate ci sono sempre stati molti detenuti che fruiscono di
permessi premio e un elevato numero di ammessi al lavoro all’esterno e la
percentuale di mancati rientri è davvero molto bassa. Credo che in questo
“rispetto delle regole” sia insito una sorta di rispetto di un “patto”
che si pone tra l’istituzione e il detenuto e se per alcuni si tratta di un
rispetto “formale” (o legato a un approccio costi/benefici) per alcuni è
invece il senso del patto, della fiducia e della relazione che fa da collante e
che fa rientrare tutte le sere in Istituto. Ritengo,
alla luce di tutto ciò, che noi per primi dobbiamo essere veri adulti se
vogliamo che i detenuti lo siano altrettanto. Un giorno, dopo un mancato rientro
di un detenuto ammesso al lavoro all’esterno, incontro un collega di un altro
Istituto che, ironizzando, mi dice “te ne è scappato un altro”…e io
chiedo “a te non è mai successo?”. Lui fiero mi risponde “mai!”, allora
gli chiedo “quanti detenuti hai proposto e gestito in art. 21?”,
sommessamente risponde “nessuno”. Capitolo
secondo: Il detenuto-vittima e la responsabilità Scrive
Ivo Lizzola, pedagogista che si è anche occupato di rieducazione delle persone
detenute, che “trasformare il “così è stato” in “così ho voluto” è
un passaggio necessario e duro, per nulla immediato e semplice”. È
terribilmente vero, ci sono detenuti che all’inizio della loro esperienza di
confronto con le scuole, per parlare del loro reato, magari di un omicidio,
usano espressioni come “Ci è scappato il morto, ho combinato qualcosa di
grave, è successo che è morta mia moglie”. Insomma, tutte espressioni
cariche di casualità, perché usare la prima persona del verbo uccidere, “ho
ucciso”, è drammaticamente difficile, e il carcere da questo punto di vista
aiuta poco, sembra fatto apposta per divorare la vita del detenuto e farlo
sentire vittima di una pena vendicativa. Io
pensavo che mi ero solo difeso, non mi sentivo assolutamente in colpa Se fossi rimasto in una cella chiuso come
molti altri miei compagni, venti o ventidue ore al giorno,
sarei una persona solo più arrabbiata con me stesso
e con il mondo di Qamar Abbas, redazione di
Ristretti Orizzonti Io
faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti ed è da poco tempo che ho
cominciato a raccontare la mia storia agli studenti che vengono in carcere in
visita con le classi. A loro racconto del mio reato e di come sono entrato in
carcere, e racconto anche che prima di entrare in carcere lavoravo onestamente
come operaio e che sono finito qui per un reato molto grave, un omicidio
avvenuto in una rissa scatenata dai miei connazionali. Si sarebbe potuto
evitarlo chiamando i carabinieri, ma in quel momento non ci ho pensato, perché
prima che succedesse questo grave fatto avevamo, io e la mia famiglia,
denunciato molte volte queste persone che ci chiedevano il pizzo, e però i
Carabinieri non sono mai intervenuti e nessuna risposta è stata data da parte
loro. Quindi
quando io ho commesso l’omicidio la mia idea era di difendermi, purtroppo così
non è stato e uno di quelli che mi hanno aggredito è rimasto a terra, morto.
Poi dopo aver commesso il reato io personalmente avevo pensato di scappare via
al mio Paese di origine, il Pakistan, ma invece non è andata cosi. Perché mio
padre mi ha fermato e mi ha detto “No, tu hai sbagliato e ti devi
costituire”, dandomi un piccolo esempio che io ora ho capito che invece è
stato molto grande. In quel momento lui mi ha detto che era da vent’anni che
si trovava qui in Italia e non aveva mai avuto problemi con la giustizia, mentre
io avevo sbagliato gravemente e avrei dovuto pagare il mio debito con lo Stato e
con la società. Ecco perché mi sono costituito, poi dopo la condanna
definitiva sono arrivato qui nel carcere di Padova, dove mi è stata data
l’opportunità di inserirmi nella redazione di Ristretti Orizzonti e di
partecipare anche al Progetto di confronto tra le scuole e il carcere. Direi che
personalmente mi ha aiutato tanto questo Progetto, e voglio spiegare perché. Io
quando sono stato arrestato la pensavo in modo completamente diverso da come la
penso ora, io pensavo che mi ero semplicemente difeso, non mi sentivo
assolutamente in colpa. Però qui, intervenendo agli incontri con le scuole, ho
capito molte cose. Ho capito molto, ho cominciato a riflettere sull’errore che
ho fatto e a rivisitare, rielaborare il mio passato sia per il danno che ho
causato alla mia famiglia che per il male che ho fatto alla mia vittima e alla
sua famiglia. Inoltre ora penso spesso a questa cosa che tanto mi pesa, anche
perché adesso la società e i conoscenti più o meno stretti fanno pesare alla
mia famiglia il fatto che io ho commesso un omicidio, questo è per me un
supplemento della mia condanna, mi pesa molto, molto davvero. Inizialmente non
vedevo le cose così, però ora, con gli studenti che pongono molte domande
durante gli incontri, domande forti, profonde, io cerco di riflettere su queste
domande ed ho cominciato appunto a rielaborare il mio futuro prossimo ma ancora
di più a riflettere su quel passato che mi ha condotto qui. Inoltre, avendo
avuto questa opportunità, a volte penso che se fossi rimasto in una cella
chiuso come molti altri miei compagni, venti o ventidue ore al giorno, con la
situazione delle carceri italiane sovraffollate, sarei una persona solo più
arrabbiata con me stesso e con il mondo, nient’altro. Perciò vi ringrazio per
questa opportunità che mi avete dato anche oggi. Quel
seme di persona onesta e buona che presumo di avere anche io Se il carcere ti dà gli strumenti, non
per forza bisogna uscirne una persona peggiore come ho sempre fatto io di Luigi Guida,
redazione di Ristretti Orizzonti Io
proverò a fare una riflessione su cosa ha significato per me la rieducazione.
Personalmente sono molti anni che conosco come detenuto il mondo carcerario,
avendo vissuto la mia prima esperienza nel carcere minorile Beccaria di Milano
all’età di sedici anni, da allora di anni ne sono passati 15, quasi tutti
trascorsi in carcere entrando e uscendo come se fosse divenuta la cosa più
normale del mondo, ma soprattutto senza mai riflettere sugli errori che mi
avevano spinto a varcare la soglia del carcere. Anzi, il tipo di espiazione che
avevo vissuto sulla mia pelle aveva fatto maturare in me un rifiuto verso le
Istituzioni carcerarie e la regole che mi venivano imposte, e così ho finito
per accumulare moltissime denunce all’interno degli istituti di pena, e con il
passare degli anni di detenzione, invece di ritrovarmi con una pena diminuita,
me la sono ritrovata ben più lunga di quella iniziale. Da
due anni sono nella Casa di Reclusione di Padova, e per la prima volta mi è
stata data la possibilità di sperimentare una espiazione di pena fatta in modo
diverso, frequentando alcune attività, in particolar modo quella con Ristretti
Orizzonti, la redazione di cui faccio parte. Dove non senza fatica ci si
confronta con gli studenti raccontando loro il peggio della propria vita, ma
soprattutto si approfondiscono quei passaggi apparentemente di poco conto che ci
hanno “spinto” a comportamenti sempre più sul filo dell’illegalità che
alla lunga ci hanno portato in carcere. Credo
che non ci sia cosa più dura per una persona di doversi confrontare sui propri
errori soprattutto quando lo si fa senza riserve e con assoluta sincerità, e
certo è facile farlo davanti a persone sconosciute, ma io penso che sia proprio
questa la “magia” di questo progetto. Perché davanti ai ragazzi è
difficile dire loro bugie, non li si vede come l’Istituzione, verso la quale
il nostro atteggiamento è spesso di chiusura e sospetto, anzi si sente nei loro
confronti un dovere di essere sinceri. Quindi è leale il rapporto ed è proprio
questo tipo di interazione che con il tempo credo ti possa far arrivare al
bandolo della matassa della tua vita, ma soprattutto a pensare che una persona
non deve essere per forza il suo passato. E diciamo che sto cercando di seminare
qualcosa di onesto e buono che voglio sperare di costruire per il futuro. Penso
che se il carcere ti dà gli strumenti, non per forza bisogna uscirne una
persona peggiore come ho sempre fatto io. Questo
genere di esperienza per la prima volta mi ha fatto riflettere che non si è
predestinati per questa vita, e che io non sono solo il mio passato, ma posso
trasformare questo tipo di espiazione in qualcosa di sensato, facendo crescere
in me quel seme di persona onesta e buona che presumo di avere.
In
carcere si è inchiodati al passato È un passato che blocca la possibilità
di pensarsi altrimenti, ma soltanto sentendo su di noi una chiamata a
trasformarci e poi volendolo, possiamo aprire ad una nostra trasformazione di
Ivo Lizzola,
professore ordinario di Pedagogia Sociale presso la
Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bergamo Il
carcere è un luogo duro di sofferenza, ma cosa ce ne facciamo della nostra
sofferenza? La
sofferenza è un’esperienza che apre a delle forti ambivalenze. Noi pensiamo a
volte (in modo troppo affrettato) che la sofferenza purifichi: ma non è sempre
vero. La sofferenza può portare a giustificazioni molto facili, ad allontanarci
da noi stessi, dai nostri gesti e dagli altri. È difficile in carcere scoprire
che si è responsabili della propria sofferenza o si può essere responsabili
nella propria sofferenza. Così è nella malattia. È difficile pensare che
l’esperienza della malattia ci renda responsabili, verso altri e verso noi
stessi. Eppure noi reggiamo l’esperienza della malattia, o più in generale
l’esperienza della vulnerabilità, solo se ne facciamo un luogo di
responsabilità, nel quale tornare a raccontare di noi ad altri. Lo
abbiamo ascoltato nella testimonianza: il poter continuare a raccontare di sé
al proprio padre, anche dopo avere commesso un omicidio, può portare
all’esperienza del riscatto, del cambiamento nel carcere. Qui tocchiamo un
punto delicatissimo. È difficilissimo in carcere fare l’esperienza della
colpa, perché la pena in qualche modo “sostituisce” la colpa. Appunto: si
“restituisce” il proprio debito alla società in un’ottica molto
mercantile. Poco in carcere aiuta a riscoprirci come “uomini della colpa”,
insieme. Tutti: uomini e donne detenute, certamente, ed operatori, volontari. L’esperienza
della colpa è molto difficile, dunque, ma allo stesso tempo in carcere si è
inchiodati al reato di cui si è colpevoli. Si è inchiodati al passato, più o
meno prossimo, che continua a bloccare la possibilità di pensarsi altrimenti.
Così é nella vulnerabilità, così é nella malattia, specie quella
incurabile. L’unica porta stretta è quella per la quale si può passare
dall’essere inchiodati nel passato al viversi nel futuro anteriore, cioè ad
un capacità di poter raccontare di nuovo di sé secondo il tempo del “futuro
anteriore”. Io “sarò stato”, voglio poter dire che non “sono stato”,
ma che “sarò stato” altro e oltre. Io
sarò stato questo: mi sono ripreso dentro un racconto di riscatto. Io “sarò
stato” l’uomo del reato e della pena ma voglio poter dire ai miei figli e a
mio padre, voglio poter dire di me, che “sarò stato” protagonista del
percorso di una nuova nascita. La
riconquista del futuro anteriore è difficile, perché il carcere apre di certo
a percorsi di regressione molto facili e molto duri. Perché è difficile
soprattutto oggi, in questo tempo di durezza, incontrare le persone, incontrarci
rimettendoci le colpe e allo stesso tempo non dimenticando. Chiamandoci alla
responsabilità della ricostruzione del legame ferito. È molto più facile
richiamarci continuamente “alle pratiche”, restare in una relazione di
estraneità reciproca (ce l’ha raccontato bene Roberto Bezzi poco fa). La
relazione educativa in carcere è quasi impossibile, perché in carcere, come
nell’esperienza di cura della malattia inguaribile, la relazione educativa
tocca il punto profondo della sua drammaticità. In questi luoghi dell’umano
ci si chiede se sia possibile ricostruire una reciprocità asimmetrica
(perché l’asimmetria resta radicale). Eppure se qui vogliamo provare a
ricostruire una forma di reciprocità, chi gestisce il sapere e il potere deve
sentire dentro di sé l’uomo della colpa e l’uomo della pena, altrimenti non
incontra l’altro. E chi si trova nella colpa e nella pena, deve sentirsi
atteso alla sua presa di parola, di gesti e di responsabilità: anche questo non
è facile. Da queste due dinamiche si tenta di fuggire, e ci si fa complici
nella fuga. Anche in carcere: si preferisce lasciarsi in pace, estranei,
intoccati. Gli
operatori si fan complici della fuga dalla libertà degli uomini e delle donne
ristretti, e i detenuti si fan complici della fuga dalla libertà degli
operatori. È da questa complicità che è difficile uscire, eppure delle
possibili uscite ci sono. Si è parlato molto di una prospettiva di
responsabilizzazione ad esempio. La prospettiva di responsabilizzazione non
significa semplicemente concedere ulteriori possibilità di scelta ai detenuti:
sono d’accordo con gli interventi di Palma e di Bezzi. Ma vorrei scavare
ancora: si devono consentire, certo, possibilità di scelta ma allo stesso tempo
vanno richiamate con forza delle assunzioni di ruolo. Si
sta provando in alcune carceri della Lombardia a sviluppare un progetto sulla
genitorialità rivolto a persone detenute, padri di figli minorenni. Il progetto
si sta rivelando di una complessità infinita perché riprendere rapporto col
proprio ruolo di paternità porta a galla con una forza difficile da sostenere
il proprio dolore, il proprio fallimento. Anche di figli rispetto ai padri, non
solo di padri rispetto ai figli. Inoltre si richiamano doveri e responsabilità,
non soltanto diritti. Come ritrovare i modi (difficilissimi) per provare ad
essere credibile nell’esercitare il dovere di paternità verso i tuoi figli
che stanno scegliendo cosa fare dopo la terza media, per esempio? Diventare
credibili vuole dire essere capaci di un racconto nel quale si fanno i conti con
la durezza (con il reato, con la pena) e con la tua assenza. Con lo smarrimento
e la fatica che questa tua assenza sta creando nei tuoi figli. La scommessa è
provare ad essere capaci di un racconto nel quale potere testimoniare di essere
seriamente ingaggiati in un cammino di riscatto. Racconto che un poco anticipa
già quella relazione che potremo donarci reciprocamente un poco più in là, di
nuovo. Provare
ad incontrarci nella relazione educativa in carcere (e toccare, così, la
drammaticità della relazione educativa) può essere trovare un luogo per
riscoprire finalmente il cuore della relazione educativa, che resta piuttosto
evanescente ed a volte viene perso anche nella relazione tra le generazioni e
nelle trame della convivenza oggi. Si
parla spesso di cambiamento ma è bene ricordare quanto dice al riguardo Simone
Weil: nessuno cambia se stesso, noi possiamo soltanto lasciarci trasformare, ma
per lasciarci trasformare dobbiamo volerlo con tutte le nostre forze. Sembra un
paradosso, eppure davvero soltanto sentendo su di noi una chiamata a
trasformarci e poi volendolo e cercandolo, possiamo aprire ad una nostra
trasformazione. Ma questo chiede nuova capacità di sentire l’altro,
l’obbligazione nei suoi confronti; la necessità appunto di rispetto per il
suo dolore e per la sua attesa. In modo particolare in carcere. Vuole dire
aprire contesti di relazione nei quali maturare una capacità di sentire
l’altro mai provata negli ambienti, nelle relazioni sociali di prima del
carcere. Qui
non si tratta di rieducazione: è apertura di una pagina di vita nuova! Di un
nuovo rapporto con se stessi, della riscoperta di un altro sé inedito. Ma le
persone detenute devono avere dei contesti nei quali potere scoprire che possono
essere anche altro da quello che fino ad ora hanno manifestato. Che questo altro
lo portano in sé! Il
contesto di costrizione deve, dunque, essere riscoperto come il contesto di una
obbligazione verso l’altro, altrimenti è insensato. Se è contesto di pura
costrizione la scoperta dell’altro di sé non avviene, avviene se, invece, si
offre una sorta di riconduzione forte all’obbligo che si ha verso altri. Non
sto parlando dei lavori socialmente utili, sto parlando di incontri “volto a
volto”, molto duri, di relazioni di cura molto esigenti. È la
“costrizione” della vita che ti porta alla presenza dell’altro, quella che
tu devi riscoprire nella relazione, per esempio, con i tuoi figli e la
generazione dei tuoi figli, o con la consegna che ha provato a darti la
generazione dei tuoi padri. Avvertirsi in questa costrizione significa
avvertirsi in un obbligo reciproco, in un vincolo che cerca di non lasciar fuori
nessuno. Altrimenti la vulnerabilità così prepotentemente crescente nella
nostra convivenza come potrà essere incontrata? Scoprendo
delle relazioni sempre più vincolanti tra di noi questa convivenza può,
invece, divenire una convivenza della cura reciproca e, quindi, delle libertà e
delle autonomie. Quando Maria Zambrano parla del riscatto, parla del tornare a
prendere rapporto con parti di sé. Tornare a prendere rapporto con parti di sé
magari mai trovate prima. È
faticoso, si ritorna invece sulle parti di sé conosciute, continuamente. Si
resiste al nuovo. Il lavoro educativo è prevalentemente un lavoro su resistenze
e sul tentativo di romperle. È per questo che Roberto Bezzi giustamente diceva
che è importante che noi ci lasciamo guardare quando lavoriamo in un contesto
così particolare come il carcere. E che non guardiamo soltanto, che non
pensiamo soltanto di fare del bene o di fare bene il nostro lavoro. Ci sono tra
le professionalità che lavorano in carcere delle retoriche che resistono, vi è
una troppo diffusa convinzione che “fare bene il proprio lavoro” significa
rispettare mansionari, e la lettera di protocolli e ordini di servizio. Il
proprio lavoro non è fatto bene se non ci si fa disfare nei propri paradigmi
professionali, nel proprio mansionario, dall’incontro reale e concreto con gli
sguardi concreti (uno per uno diversi) delle donne e degli uomini che si
incontrano. C’è bisogno degli sguardi dei colleghi delle altre professionalità,
c’è bisogno di disfare e rifare continuamente il proprio sguardo. C’è
bisogno, anzitutto degli sguardi – quelli vuoti, quelli vivi, quelli di
convenienza – delle persone ristrette Perché
non viene fuori una domanda di formazione vera, se non come esito di un processo
difficile, in carcere? Perché è così difficile far partecipare all’attività
scolastica? Coinvolgere nei progetti? Perché vi è quella percentuale sempre più
grande del 50% di detenuti che stanno sulla branda, che non escono dalle celle?
E noi ad aspettare che loro facciano la domandina rituale. Come gli operatori
dei servizi che aspettano che i problemi bussino alla porta! Perché è così!?
Perché è difficile far nascere la consapevolezza di essere soggetti di domanda
nelle persone detenute. E perché molti operatori pensano che sia meglio non
fare loro le domande esigenti. Incontrare
domande esigenti vuol dire avere occasione di trasformare se stessi; pensare di
essere soggetti di domanda è una trasformazione profonda, è già un obbiettivo
per moltissimi. In carcere ma anche a scuola, anche negli ospedali. È molto
difficile maturare la consapevolezza di essere soggetti di domanda, questo è
possibile se si incontrano persone che hanno un’attesa su di noi, persone che
fanno domande esigenti, che chiedono di entrare in gioco, che non lasciano
stare, che non aspettano solo che a loro vengano fatte delle domande. Abbiamo
fatto tanti studi sull’istituzione penitenziaria, proviamo a fare qualche
studio in più sulla società penitenziaria, sulle forme di relazione, sulle
rappresentazioni reciproche, sulle culture nascoste, sul rapporto tra regole e
trasgressioni profonde, sulle ridislocazioni di ruolo che avvengono dentro il
carcere. Per farlo dovremo fare uno studio serio sulle rappresentazioni
reciproche che vivono i detenuti e le detenute e gli operatori in carcere, sulle
rappresentazioni che si fanno le loro “reti vitali”, quelle con le quali
sono in contatto, magari anche solo fantasticando, da dentro il carcere. Dovremo
fare qualche studio in più in questa direzione per poterci incontrare davvero
come uomini e donne della colpa e della pena, e come donne e uomini del riscatto
e della nuova relazione possibile. Infine:
veniva ripreso negli interventi di detenuti ed ex detenuti, e di coloro che mi
hanno preceduto, il tema della fragilità del lavoro e delle relazioni che si
sviluppano in una società come quella carceraria. È sempre una fiducia
vulnerabile quella che si può dare in carcere, non sappiamo mai quale sarà
l’esito dei nostri incontri, delle nostre azioni. Non vi è certezza del
risultato ed è difficile la verifica di quello che succede. Dobbiamo essere
capaci di un’azione molto particolare, che porta in sé la possibilità del
fallimento o della dissoluzione. Per certi aspetti assomiglia molto al lavoro
che fanno gli operatori delle comunità o dei reparti psichiatrici, anche loro
non possono controllare del tutto l’esito del loro operare, non sanno quale
sarà con buona probabilità l’effetto e quali saranno i tempi delle
maturazioni. Quando magari avvertono che quasi la maturazione sta avvenendo, si
verifica a volte, improvviso, il suicidio ad interrompere le illusioni. È
illusione una comprensione troppo facile, lo è il controllo dell’effetto
salvifico o bonificante, dell’entrata degli uni nelle vite degli altri. Noi
restiamo sempre un poco indietro, la nostra azione non può che essere
(l’espressione a me sembra molto bella, era usata alcune decine di anni fa da
Paul Ricoeur) una “azione deponente”. Un’azione non troppo
intrusiva, un’azione che si mette a disposizione e si trattiene, un’azione
che prova a lasciar essere. Per non essere intrusiva questa azione esigente, che
chiede molto, deve essere accompagnata da una rimessa in discussione molto forte
dei propri saperi, e da un sufficiente “sentire la colpa” della propria
intrusione e della propria sfrontatezza nel chiedere all’altro di mettersi in
gioco. Così dovrebbe essere in qualunque professione di cura, dovremmo chiedere
perdono educando, e anche assistendo. Soprattutto in carcere dovremmo essere
capaci di questa azione deponente. Un’azione che lascia essere, crea spazi,
membrane vitali e possibilità. E aspetta, aspetta operosamente. Un’azione
di inizio, una azione generativa: non sa se nascerà qualcosa e non sa cosa
nascerà eppure è profondamente compromessa in questo inizio, ne sente tutta la
fragilità e la vulnerabilità, ne sente il potenziale fallimento. Allo stesso
tempo è necessaria per provare a fare nascere qualcosa, per provare a vedere
cosa nasce. Aspettare cosa nasce nel nascondimento, dietro le maschere che in
carcere si mettono. Vuole dire a volte accettare che le persone presidino se
stesse dietro una maschera. A volte non resta che un “alias” per difendere
se stessi (poi gli alias diventano anche 12, c’è un piccolo record nel
carcere di Bergamo al riguardo), ma appunto è una sorta di legittima difesa
dell’identità personale. Certo, involutiva, anche pericolosa perché ci si può
rinchiudere in una specie di fantasma di se stessi. Pensiamo
a cosa può voler dire questo nel provare a costruire prove di sé e
consapevolezza dell’altro dentro la durezza che si dà in carcere. Pensiamo a
cosa può volere dire questo di fronte all’esperienza più difficile e
contraddittoria che si può dare in carcere, quella del pentimento. Pentirsi
vuole dire ammettere profondamente la propria fragilità e mettersi nella
condizione di non sapere bene se ci si potrà di nuovo fidare di se stessi. Non
sapere bene se si potrà chiedere ad altri di fidarsi di noi. È
un’esperienza delicata e difficile quella del pentimento vero. Quella del
trovare il modo di ammettere la propria ombra per trovare, poi, forza e modo di
lavorare sulle parti buone di sé. È molto difficile tutto questo, chiede un
lavoro sul tempo e sulle relazioni, chiede di passare in un tempo di incertezza
e di essere, allo stesso tempo, estremamente esigenti nell’incontro. Donne e
uomini della colpa e delle pena, donne e uomini del riscatto e della possibile
nuova nascita possono cercare i sentieri del riscatto, del pentimento, della
riconciliazione. Adolfo
Ceretti,
Professore Ordinario di Criminologia, Università
di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione
Penale di Milano, introduce Deborah
Cartisano, figlia di Lollò Cartisano,
il fotografo di Bovalino sequestrato ed ucciso dalla ‘ndrangheta Ho
scelto, per introdurre Deborah Cartisano, alcune riflessioni di Primo Levi. Nel
suo libro “Se questo è un uomo” Levi racconta di un sogno che, ad
Auschwitz, periodicamente lo tormentava. Nel sogno, scrive Levi, torna a casa e
cerca di raccontare a familiari e amici le sofferenze patite e ciò che ha
visto, ma si accorge con angoscia che nessuno lo ascolta. Mentre parla gli altri
chiacchierano tra loro, come se lui non fosse presente. Un sogno ricorrente di
tutti gli internati del campo, egli ricorda. Ma perché, si chiede ancora Levi,
il dolore di tutti i giorni si traduce cosi costantemente, nei nostri sogni,
nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata? È
questo, a mio modo di vedere, uno dei temi portanti dell’esperienza delle
vittime. Quello
che, invece, ascolteremo ora molto attentamente è il racconto di Deborah
Cartisano, che parlerà di suo padre Lollò. Lollò Cartisano era un fotografo
che nel luglio del 1993 fu sequestrato dalla ‘ndrangheta per non essersi
piegato a pagare la mazzetta. Il suo corpo fu ritrovato solo dieci anni dopo il
rapimento, nel luglio del 2003, in Aspromonte. Deborah
ha vinto Il Premio Angelo Frammartino 2008 – “Pace è… Legalità”, un
premio dedicato alla figura di Pio La Torre. In
una sua intervista al quotidiano L’Avvenire Deborah ha dichiarato che
all’epoca in cui avvenne il sequestro di suo padre non sapeva cosa
significasse la parola ‘ndrangheta: “Per me era un concetto astruso perché
non lo avevo mai toccato con mano; l’ho conosciuto nel momento in cui mio
padre è stato rapito e ucciso, perché si era rifiutato di pagare il pizzo”.
Cosa
si prova a stare da questa parte, di chi il reato l’ha subito Ho
sempre desiderato che le persone che avevano ucciso mio padre avessero la
possibilità di trasformare quello che era successo in un vero pentimento e in
una trasformazione della loro vita di
Deborah Cartisano,
figlia di Lollo Cartisano, il
fotografo di Bovolino sequestrato ed ucciso dalla ‘ndrangheta Io
ovviamente dovrò parlarvi di mio padre, della mia storia per giustificare la
mia presenza qui. Mio padre si rifiutò di pagare il pizzo, in anni in cui era
veramente difficile opporsi alla ndrangheta o alla mafia, non c’era tutta
questa sensibilità verso la mafia e tutta questa informazione che ci sono oggi,
le istituzioni erano un po’ più lontane da noi cittadini. I commercianti
venivano lasciati a districarsi in situazioni difficili completamente da soli,
mio padre prese allora questa decisione coraggiosa e mi raccontò tutto. Io
avevo poco più di dodici anni, lui mi spiegò perché arrivavano quelle strane
telefonate nel cuore della notte, perché ci avevano incendiato una macchina e
mi disse: “Io non voglio pagare e non lo farò”. Andò alla polizia, denunciò
e i due estorsori vennero arrestati, erano due ragazzini uno aveva quindici anni
e l’altro da poco ne aveva compiuto diciotto, quindi questo era il loro inizio
carriera. Perché dico questo, perché per me questo è stato l’esempio più
importante della mia vita, è stata la strada che mio padre ha tracciato davanti
a me dicendomi: “Possiamo dire di no alla mafia, possiamo non piegarci”. In
quegli anni era difficile. Il mio paese, con soltanto 9.000 abitanti, ha subito
diciotto sequestri di persona, questi sequestri sono avvenuti nel quasi totale
silenzio da parte di tutti. Il paese veniva invaso da una troupe, dai media per
una giornata e poi tutto ritornava normale e per noi la normalità era un
sequestro dopo l’altro ogni sei mesi quasi, e la famiglia doveva cercare di
mantenere un profilo molto basso, di non rilasciare troppe interviste, di fare
in modo che questa macchina ben oliata funzionasse alla perfezione. Quando
mio padre venne rapito qualche anno dopo, per me non ci fu quasi esitazione nel
fare invece in maniera diversa, nell’occuparmi del suo sequestro in maniera
completamente nuova per quello che era il mio paese. Scesi in piazza insieme ad
altri ragazzi del mio paese, formammo un comitato, per la prima volta il mio
paese diceva al resto dell’Italia che noi non eravamo dei sequestratori ma
eravamo bensì dei sequestrati, perché nel mio paese, Bovalino, è attorniato
da paesini come San Luca, Platì, Natile, siamo stati accerchiati per tantissimi
anni, e abbiamo subito in silenzio per tanti anni, e noi questo silenzio lo
abbiamo voluto rompere, io l’ho fatto perché avevo visto mio padre fare la
stessa cosa e quindi per questo ritenevo importante raccontare quel passaggio,
per cui ho fatto quel che ho potuto assieme alla mia famiglia, assieme ai miei
amici che mi hanno sostenuto, e agli incontri fatti poi in tutti quegli anni per
fare in modo che la mia piccola realtà cambiasse. Non so quanto ci sia
riuscita, però mio padre è stato l’ultimo sequestro di persona del mio
paese, e allora forse qualcosa siamo riusciti a fare. Questo
shock entrato nella nostra vita mi catapulta come dicevo prima in una situazione
completamente nuova, che cerco di affrontare come meglio posso, e sono stati
dieci anni terribili perché: dopo aver pagato il riscatto mio padre non torna a
casa, sono passati giorni in cui dopo averlo pagato eravamo convintissimi che
lui sarebbe tornato, e mio padre non è tornato, e allora li è iniziato il
periodo più duro della nostra vita che non sto qui a descrivere, perché è
difficile raccontare che cosa si possa provare quando non sai se devi piangere
tuo padre da vivo o da morto; quando non puoi ricominciare a sperare e se speri
troppo hai paura di sperare troppo perché non c’è nessuna speranza
dall’altra parte. Quando
muore una persona bisogna iniziare quella che viene detta “la rielaborazione
del lutto”, chi resta deve riuscire ad andare a vanti, e con noi questo è
stato negato per 10 anni ed è stato la cosa più difficile da affrontare. Io
però ho capito a un certo punto che non dovevo cedere a quel dolore, ma dovevo
cercare di trasformare la mia vita, fare in modo che l’insegnamento di mio
padre, la vitalità che aveva mio padre, che mi ha sempre sostenuto in questi
anni, mi facesse andare avanti. Allora ho aperto casa nostra, che era la casa
che lui aveva acquistato con tanti sacrifici, a dei gruppi che venivano a fare i
loro campi estivi, gruppi per minori a rischio, ho scritto lettere, ho deciso
anche di entrare all’Associazione Libera di cui faccio parte dal 1995. Facendo
in modo che questo dramma entrato nella nostra vita non fosse soltanto poi della
famiglia Cartisano, ma venisse condiviso il più possibile, in modo che chi era
intorno a me non dimenticasse quello che c’era successo. Per noi era
impossibile dimenticare, ma per il resto delle persone era molto comodo. Questo
silenzio che spesso le vittime scelgono d’avere fa comodo tantissimo alla
‘ndrangheta, e io non avendolo voluto rispettare mi sono ritrovata anche un
po’ catapultata a vivere il mio dramma pubblicamente, e non è facile, però
era per me un dovere perché non volevo assolutamente che su mio padre calasse
il silenzio. Noi
siamo stati “fortunati”, perché in un certo senso abbiamo avuto della
giustizia, perché le persone che lo hanno sequestrato sono state arrestate,
questo non ci ha assolutamente restituito mio padre è ovvio, però in questi
dieci lunghi anni io non ho mai smesso di scrivere delle lettere sui giornali,
lettere aperte indirizzate a loro in cui io facevo appello alla loro umanità e
chiedevo sempre verità e giustizia per mio padre, penso che quelle lettere non
sono state scritte invano perché, dieci anni dopo il suo sequestro, noi
riceviamo una lettera anonima di uno dei suoi sequestratori, quello che era
stato il suo carceriere, che ci scrive una lettera veramente unica, incredibile,
perché la ‘ndrangheta raramente chiede perdono e si scusa, questa persona ci
ha chiesto perdono per quello che aveva fatto, dicendoci che l’omicidio di mio
padre era stato una disgrazia, ed è stato poi una cosa confermata dal medico
legale, in quanto era morto per un colpo ricevuto alla testa che poteva essere
appunto non intenzionale. Allora lui ci chiede perdono, ci dice che la sua
coscienza gli rimorde, che quando veniva giù a Bovalino passava davanti al
nostro negozio e non riusciva a guardarci in faccia, quindi noi probabilmente
l’avevamo anche visto a nostra insaputa, e ci indica il posto in cui mio padre
è stato seppellito, che è nell’Aspromonte, è un monte antico si chiama
Pietra Cappa, ironia della sorte era il posto preferito di mio padre, che era
fotografo e amava andare in montagna e fotografarla e, appena sei mesi prima che
venisse rapito, aveva portato degli amici del Nord Italia a vedere che cosa era
l’Aspromonte, che non era soltanto il covo dei sequestri ma che era anche
altro, una Calabria che non era soltanto la ndrangheta. Quindi
questa lettera è la cosa più grande, più difficile, ma anche più bella che
noi abbiamo mai avuto, non ci aspettavamo questa lettera assolutamente, noi
sapevamo che tanti altri sequestrati non erano più tornati a casa e di queste
persone non si era più saputo nulla. Invece noi abbiamo potuto riabbracciare
mio padre, abbiamo potuto dargli una degna sepoltura e ogni anno dal 2003
facciamo una marcia che si chiama, i “sentieri della memoria a Pietra
Cappa”, dove assieme ad altri famigliari delle vittime ricordiamo mio padre e
queste altre vittime, e poi facciamo una messa in cui vogliamo dare una
testimonianza di speranza. Perché speranza? Perché questa storia per me mi ha
insegnato tantissimo ovviamente, mi ha insegnato che le persone possono cambiare
e che lo fanno, noi chiediamo alle persone che vengono con noi di portare una
pietra e in questa pietra gli chiediamo di disegnare un fiore, e questo
simboleggia, questo è l’immagine che mia madre ha pensato. Perché nel cuore
durissimo di un carceriere di ‘ndrangheta è nata la sete di perdono, e noi a
questo ci siamo voluti aprire È
difficilissimo per me poter pensare di perdonare queste persone, questa persona
però che mi ha chiesto perdono, perché gli altri non me l’hanno mai chiesto,
quindi con loro non c’è dialogo, mentre con lui c’è stato un dialogo,
seppur soltanto epistolare. Io con lui mi sono voluta aprire perché ho
apprezzato il gesto che lui ha fatto di pentimento, di volermi restituire mio
padre. Io gli ho chiesto anche di incontrarlo e di pagare il suo debito con la
giustizia; questo non è mai avvenuto, ma lui forse era in fin di vita non lo
sappiamo bene. Qualche
anno dopo mi è arrivata una richiesta da parte del Centro di Servizio per il
Volontariato di Reggio assieme al carcere che allora era diretto da Paolo
Quattrone, che aveva una idea bella della detenzione, che era simile a quello
che fate voi qui a Padova, cioè di rieducazione, di trasformazione, mi chiesero
di incontrare un gruppo di detenuti. Per me questa è stata una delle prove più
grandi, più difficili della mia vita, però io avevo sempre chiesto, pensato,
desiderato che le persone che avevano ucciso mio padre quando sarebbero uscite
dal carcere non fossero le stesse, che avessero la possibilità di trasformare
quello che era successo in un vero pentimento e in una trasformazione della loro
vita. E questa forse per me era l’unica occasione di poter contribuire a
questo, perché io sono una persona semplice, però la mia parte l’ho voluta
fare in questo senso, allora ho accettato di andare a raccontare la mia storia,
la storia di mio padre con questa speranza e poi con la voglia di trovarmi
davanti qualcuno dei sequestratori di mio padre. Certo
sapevo che non sarebbe stato cosi perché ovviamente non era questo che poteva
succedere, però io sfruttavo questa occasione per dire delle cose, per dire
cosa si prova da questa parte, di chi il reato l’ha subito, e la mia
intuizione è stata importante ed è stata non disattesa, perché quello che
loro mi hanno detto è che in carcere i detenuti non vogliono parlare delle
vittime, non vogliono pensare al male che hanno potuto arrecare, e quindi in
quel momento io glielo stavo rappresentando, gli stavo raccontando che cosa si
prova a stare da questa parte, non per desiderio di sminuirli ma semplicemente
perché questi due mondi non si incontrano mai, e non è facile ovviamente che
si incontrino, e io tra i famigliari delle vittime sono una delle poche persone
che accetta questo tipo di incontri, ma proprio perché credo nella
trasformazione, perché io l’ho vissuta, io l’ho vissuta sulla mia pelle la
trasformazione, il cambiamento che le persone possono fare, e quindi voglio
contribuire a un eventuale cambiamento. Questi
incontri sono stati importantissimi per me, perché noi famigliari purtroppo a
volte incontriamo l’altra parte soltanto nelle aule dei tribunali, e sono
incontri a cui arriviamo impreparati, in cui arriviamo incattiviti da tutte e
due le parti. Io penso che questo non sia giusto. Io cerco di fare nel mio
piccolo la mia parte e penso che se ognuno la fa le cose in questo senso possono
cambiare. Noi di Libera cerchiamo di andare nelle scuole, facciamo progetti
proprio perché al di la di tutto dobbiamo portare un messaggio di speranza, e
portare anche alle nuove generazioni esempi di quelli che noi chiamiamo “eroi
semplici”, eroi di tutti i giorni, di persone che, senza essere grandi
magistrati, ma essendo magari piccoli commercianti, si sono opposte a questa
mentalità, perché io penso che la ‘ndrangheta, la mafia siano soprattutto
una mentalità, e quindi è con questo tipo di strumenti che noi dobbiamo
cercare di combatterla. Cerco di spiegare ai ragazzi quello che è stata la
storia di mio padre, quella che è stato il suo esempio nella mia vita. Tornando
poi agli incontri fatti nel carcere penso che le persone, attraverso quella che
è stata la mia storia, possono un po’ iniziare a capire se sono pronte a
cambiare, io questa possibilità la voglio dare come è stata data a quella
persona che incredibilmente ha maturato questa sete di perdono, che forse non
sarebbe arrivata se non avesse letto quelle lettere che io ho scritto, se non
avesse parlato anche con mio padre, che era una persona che forse è riuscita a
penetrare nella sua vita in quel senso li. È difficile ma cerchiamo di fare in
modo che il sacrificio di mio padre non sia stato invano, perché mio padre ha
amato tantissimo la sua terra, ha amato noi figli, ha sempre cercato di dare
quel tipo di messaggio che molti padri cercano di dare. Ho sentito prima quel
ragazzo detenuto che ha raccontato che, quando in una rissa ha ucciso una
persona e poi è scappato, suo padre gli ha detto di costituirsi, questi sono
veramente gli esempi che ci possono trasformare, questi sono gli eroi che
cambiano le vite delle persone. Per
me ogni volta riaprire la ferita è sempre difficile, ma lo faccio affinché la
figura di mio padre non venga dimenticata. Io vorrei poter dire che il mio paese
da allora è cambiato, che le cose sono andate diversamente, purtroppo non è
cosi, però dei piccoli segni ci sono: scuole che mi chiamano, lo stadio di
calcio, perché lui è stato un calciatore, che hanno voluto intitolare a lui,
piccoli segni da parte della società che non vuole dimenticare queste persone.
Certo che si pensa sempre al lato repressivo della lotta alla mafia, e io invece
sostengo completamente il contrario, cioè il lato repressivo è importante, ma
c’è tanto da fare nelle scuole, c’è tanto da fare con i ragazzi affinché
abbiano altri messaggi, perché purtroppo devo dire che il messaggio che spesso
passa anche dalle televisioni è di glorificare un po’ alcuni esempi, come
“il capo dei capi” e storie simili, non va bene neanche rendere attraenti,
“glamour” certe situazioni. È importante invece che si faccia vedere che
cosa c’è dall’altra parte, e quindi a volte per un ragazzino che vede il
figlio del mafioso che arriva in classe vestito firmato, che può sfoggiare cose
costose senza capire da dove arrivano quei soldi, è importante se ci sono io
che gli racconto che quei soldi sono spesso macchiati di sangue. Trovo
sempre difficile raccontare la mia storia, sono sempre emozionata e quindi
scusate se a volte mi ripeto, però quello che voglio è che non si perda mai il
ricordo, la memoria, che però deve trasformarsi e diventare impegno. Se
posso dare un senso agli incontri che ho avuto giù in Calabria, è proprio
questo: è stato il voler incontrare “l’altra parte” per cercare di fare
in modo che non siano due cose che non si incontrano mai, perché io penso che
quell’incontro ha cambiato la vita di quelle persone ma ha cambiato tantissimo
anche la mia, e spero che continui a farlo ogni volta che posso. Grazie. Adolfo Ceretti:
Solo una parola, il professor Alex Borain,
che è stato il Vice Presidente della Commissione per la Verità e la
Riconciliazione Sudafricana, ha raccontato, in vari contesti, che nel corso
delle udienze della Commissione molte madri si rivolgevano ai loro perpetratori
chiedendo, a distanza di anni dalla commissione di un omicidio politico, dove
avrebbero potuto trovare un osso del loro figlio per poterlo seppellire. Credo
che questo ricordo possa degnamente accompagnare la forza delle parole che
Deborah ci ha voluto donare. Davvero grazie. Alla
base di tanti reati ci sono spesso condizioni di vita che hanno a che fare con
aspettative esagerate, da parte della famiglia, della scuola, dell’ambiente di
lavoro, e poi con le dinamiche tristi della delusione e della conseguente
sensazione di un fallimento. Fare
i conti con la propria fragilità, smontare e rimontare l’immagine di sé,
imparare che si può convivere con le proprie debolezze e con i propri limiti:
è questo il punto di partenza per non rischiare di schiantarsi al primo
impatto, dopo la carcerazione, con una vita che difficilmente può essere ricca
di gratificazioni. di
Eraldo Affinati,
insegnante e scrittore, le sue opere più recenti sono
“La città dei ragazzi” e “Peregrin d’amore” Mi
presento, anzitutto racconterò qualcosa di me stesso per cercare di farvi un
po’ capire anche le ragioni per cui sono qui: sono un insegnante e anche uno
scrittore. Io insegno in una realtà però molto particolare che è a Roma, la
Città dei Ragazzi. Una comunità educativa fondata dopo la seconda guerra
mondiale, che ha una struttura basata sull’autogoverno di questi ragazzi, i
quali vengono da tutto il mondo e sono i cosìddetti “minorenni non
accompagnati”, hanno dai 14 ai 18 anni, vengono dal Magreb, dal mondo slavo,
dall’Asia, sono ragazzi che hanno veramente attraversato l’inferno prima di
raggiungere l’Italia. Io
insegno Italiano e Storia a questi ragazzi; attualmente però insegno anche ai
cosiddetti ragazzi difficili italiani, i quali si iscrivono alla “Città dei
Ragazzi”, provenendo dalle borgate, sono tutti ragazzi borderline, cioè se
non fossero accolti in quella struttura molti di loro probabilmente potrebbero
commettere piccoli reati. Nelle relazioni che ho sentito prima si è molto
parlato di responsabilità, un concetto sul quale spesso io ho riflettuto, nella
mia storia anche di insegnante e di scrittore io sono stato spesso impegnato sul
tema della shoah, sono andato ad Auschwitz ed ho scritto un libro intitolato
“Campo del Sangue”, in cui io racconto questo mio viaggio da Venezia ad
Auschwitz, ma anche il viaggio di mia madre che riuscì a fuggire da un treno
che probabilmente l’avrebbe condotta in Germania durante la seconda guerra
mondiale. Perché
vi sto raccontando questo? Perché analizzando i meccanismi del lager mi sono
trovato di fronte a questo tema della responsabilità, in quanto molti dei
carnefici una volta esaurita la loro azione si difesero nei processi (a
Norimberga, Francoforte e Monaco), dicendo “Ho eseguito gli ordini”. Di
fronte a quello scarico di responsabilità molti storici hanno analizzato i vari
gradi di questa deresponsabilizzazione, che iniziava dai conducenti dei treni i
quali appunto sostennero di aver fatto soltanto quello, di avere portato appunto
i treni, e quindi di non essere responsabili di nulla, ai cosiddetti medici che
sulle panchine di Birkenau dividevano le due file, destra e sinistra, i malati
dai sani, le donne dagli uomini, i bambini dagli adulti, i quali dissero “Io
non ero responsabile di niente, dovevo soltanto dividere queste due file”,
addirittura i due sottoufficiali addetti alle graticole di Auschwitz, quelli che
dovevano immettere il gas nella camera a gas, i quali, come si racconta in un
libro intitolato “In quelle tenebre”, di Benedetta Sereni, dissero “Noi
dovevamo soltanto fare questo, dovevamo soltanto immettere questo gas in queste
graticole”. Quando
sono stato ad Auschwitz di fronte al campo 10, il campo della morte, mi sono
chiesto allora che cosa fosse la responsabilità? Se
non è un concetto giuridico, se non si può soltanto esaurire in quella
dimensione, visto che chi “ha eseguito gli ordini”, in fondo eseguiva un
ordine della struttura in cui operava, allora che cosa è la responsabilità? Se
non è soltanto un concetto morale (visto che le strutture morali possono
cambiare a seconda del tempo e dello spazio), che cosa è? E se non è soltanto
legata ai costumi, alla società, alla storia, che cosa è? Una
volta lessi alcuni taccuini di Dostoevskij in cui lo scrittore diceva: “Io mi
sento responsabile non appena un uomo posa il suo sguardo su di me”, ecco quel
tipo di responsabilità, la responsabilità dello sguardo altrui, io direi che
è pre-giuridica, è pre-morale, è pre-sociale, viene prima delle consuetudini
storiche e sociali e distingue l’uomo dall’animale, ed esattamente quel tipo
di responsabilità non c’è stata nei lager, e io credo che molto spesso non
vi sia nemmeno nelle nostre società democratiche. Limitarsi
ad eseguire il “mansionario”, limitarsi quindi a fare il proprio dovere può
non essere sufficiente a impedire la barbarie. Insegnare questo è molto
difficile, riuscire ad insegnare la responsabilità dello sguardo altrui. Però
per esempio alla Città dei Ragazzi devi fare questo, nel momento in cui ti
confronti con un ragazzo che ti chiede chi sei e vuole che tu ti metta in giuoco
e vuole che tu “ti sporchi le mani”, e non ti limiti ad eseguire il
programma o a formulare il voto. Per
fare questo bisogna riuscire ad essere adulti credibili, nelle relazioni
precedenti si è sfiorato molto questo concetto ed io tante volte mi sono
chiesto “Chi è l’adulto credibile
oggi!?”. Mi
sono dato una risposta che voglio offrire alla vostra riflessione. Io credo che
l’adulto credibile sia colui che ha compiuto una scelta, e fra tante possibili
strade che aveva di fronte è stato capace di sacrificare certe strade
scegliendone soltanto una, cioè uscendo dalla potenzialità assoluta della
giovinezza (un ragazzo di 15, 16 anni può teoricamente intraprendere tanti
sentieri possibili), però ecco l’adulto credibile è colui che non è più un
ragazzo, un giovane, e ha scelto di fare soltanto una cosa e quindi fra le tante
immagini che aveva con se stesso, ha deciso di fare soltanto quella cosa li ed
ha esercitato lì il massimo della sua energia. L’adulto
credibile è quello che offre di fronte ai suoi ragazzi, un’amicizia e quindi
si mette spalla a spalla con loro, però costituisce poi allo stesso tempo un
ostacolo da superare. Quindi si mette frontale rispetto a loro. Queste due
operazioni, offrire l’amicizia e incarnare anche l’autorità, sembrerebbero
contraddittorie, ma se uno riesce a svolgerle in modo naturale può cercare di
essere seguito. Ieri
quando stavo a scuola ho detto ai miei studenti che sarei venuto qui nel carcere
di Padova ed ho chiesto ad ognuno di loro di dirmi una parola da portare ai
detenuti e loro hanno detto: “Professore noi vorremmo che questi detenuti con
i quali magari tu parlerai, con i quali magari ti confronterai, non perdessero
mai la speranza!”, mi ha colpito questo detto da un ragazzo, Michelangelo, di
15/16 anni. Ecco, vorremmo che non perdessero mai la speranza, che fossero
ambiziosi nel momento in cui usciranno dal carcere, e si potessero appoggiare a
persone care, a persone che in qualche modo potessero essere nei loro confronti
degli appoggi, delle sicurezze una volta usciti. Mi
ha colpito che ragazzi così giovani avessero le idee così chiare su alcuni
fondamenti. Io lavoro spesso con ragazzi appunto definiti difficili, ragazzi che
vengono da famiglie smembrate, da passioni recise, da traumi che hanno dovuto
superare, e mi accorgo che loro (contrariamente a quello che dicono le
statistiche sulla dispersione scolastica), sono persone vere, sono persone che
vogliono avere esperienze concrete, reali, e sono ragazzi che possono alimentare
la nostra energia. Quindi
questo mi piace fare oggi, portare questa testimonianza. Ognuno
di noi è però il frutto di ciò che lo ha preceduto, io stesso sono figlio di
due persone un po’ particolari perché mio padre era un orfano. Mio padre non
conobbe mai suo padre, e sua madre morì quando lui aveva 12 anni, quindi in
pratica era un ragazzo abbandonato, mio padre è stato un ragazzo che non ha
avuto la fortuna di vivere almeno in una comunità di accoglienza, come invece
fanno i miei studenti, ed è cresciuto per strada, a Roma nell’assoluta
indigenza, senza poter frequentare scuole, niente. E mia madre viceversa, figlia
di un partigiano romagnolo fucilato dai tedeschi, scappò appunto nella stazione
di Udine da un treno che probabilmente l’avrebbe condotta in Germania, lei non
era ebrea era però figlia di questo partigiano, fu arrestata fu posta su un
vagone ferroviario coperto, non un vagone “piombato”, e riuscì a scappare
in modo rocambolesco salvandosi la vita. Tante volte ho pensato che se lei non
fosse riuscita a fuggire né io né mio fratello saremmo mai nati, io poi sono
diventato scrittore, sono diventato insegnante e ho cercato di trovare le
parole, trovare le parole che mio padre e mia madre non furono capaci di dire
neppure a se stessi. Io credo che la letteratura sia questo, la letteratura è in fondo
riuscire a scrivere e a parlare in nome di chi non può farlo. Questo lo
disse Albert Camus dedicando il premio Nobel per la letteratura che vinse, e io
mi sono sempre identificato in questa risposta e vedo che questo è possibile
oggi nel momento in cui Alì, od Omar, mi consegna il foglio protocollo scritto
a mano in cui mi dice “Guarda professore, questa è la mia storia, usala,
leggila fanne buon uso”. L’italiano è un po’ raffazzonato, è una lingua
bambina, è ancora in formazione, però Alì, Omar e Faris in quel tema, in quel
foglio protocollo hanno detto qualcosa di vero, di profondo su se stessi e sono
riusciti a fare questo facendo “sanguinare la crosta” di quel racconto. Perché
questi ragazzi, quando vengono da noi, raccontano la loro storia cento volte, la
raccontano all’assistente sociale, allo psicologo, al poliziotto però poi
alla fine quella storia non è la verità, alla fine è quello che loro credono
di aver vissuto. Ma nel momento in cui incontrano un adulto credibile e
cominciano a scrivere in una lingua “nuova”, nella nostra, l’italiano
quello che hanno vissuto, quel racconto può diventare un racconto di
guarigione, può diventare un racconto di conoscenza, di verità. Questo
è in fondo il percorso che ho fatto io, il percorso che ho fatto io nel momento
in cui ho cercato di uscire dalla mia adolescenza solitaria, chiusa, introversa,
difficile. Anch’io ho rischiato di essere un ragazzo difficile, però in fondo
grazie alla letteratura ho trovato quei valori che oggi vorrei riuscire a
comunicare, a trasmettere ai miei studenti. Ecco i valori della
responsabilità pre-giuridica, pre-sociale, pre-morale, i valori di una
solidarietà che possa uscire dal mansionario e possa quindi metterci in gioco. In
fondo lo scrittore e l’insegnante dividono la medesima responsabilità,
appunto quella nei confronti della parola, sono i
custodi della parola, parola orale e parola scritta, e naturalmente questo
è un lavoro difficile perché mettersi in gioco significa esporsi, significa
raccontare di sé, significa rischiare di sbagliare, anzi significa anche
sbagliare. Però
Dietrich Bonhoeffer, un grande teologo protestante, sul quale ho scritto un
libro, che fu fatto impiccare da Hitler nel lager di Flossenburg pochi giorni
prima della fine della seconda guerra mondiale, egli mi ha insegnato che è
meglio sbagliare piuttosto che restare alla finestra con la coscienza pulita e
immacolata, e lo stesso teologo protestante mi ha insegnato un’altra cosa che
vorrei qui appunto trasmettervi, e credo che in questo luogo in particolare le
sue parole possono acquistare un valore supplementare, che “la
vera Libertà non è nel superamento del limite, ma è nella sua accettazione”.
Sembra
paradossale che questa frase di Bonhoeffer sia stata pronunciata nel ventesimo
secolo, il secolo che ha mitizzato il superamento dei limiti, nel momento in cui
invece Bonhoeffer ci invita ad accettare i nostri limiti e solo in quel momento
noi saremo veramente liberi, ci chiama appunto ad un lavoro che non finisce mai,
che è il lavoro della vita, di riuscire a trovare veramente quale sia la nostra
personalità e quindi uscire dai miti contemporanei che sono i miti del
successo, della bellezza e della ricchezza. Ecco dovremmo riuscire a trovare, al
di fuori di questi miti della società contemporanea, un angolo etico nel quale riuscire a ritrovare qualcosa di veramente
autentico per ognuno di noi. Perché
il lavoro è considerato il principale strumento di rieducazione? Il lavoro in carcere è fondamentale per
affrancarsi dalla miseria assoluta
che pervade questi luoghi, e
tuttavia è assurdo pensare che da solo possa
riempire il vuoto educativo e formativo che
l’area pedagogica nella maggior parte
delle carceri non riesce in alcun modo a riempire di Oddone Semolin,
redazione di Ristretti Orizzonti Rieducare:
secondo il dizionario Garzanti, significa “educare di
nuovo, cercando di eliminare gli effetti di una educazione carente o
sbagliata”. Dopo aver letto questa definizione, per quanto sintetica possa
essere, comunque sorge spontanea una domanda: quanto e cosa si fa nelle carceri
per soddisfare almeno in parte quanto stabilito dalla Costituzione? Poco,
pochissimo, il più delle volte assolutamente nulla, e quel poco è spesso
grazie alla sensibilità e al senso civico di persone che volontariamente si
impegnano per dare una speranza a questa parte di umanità spesso dimenticata.
Il convegno promosso da “Ristretti Orizzonti” quest’anno ha avuto a mio
avviso il grosso merito di mettere il dito nella piaga, spostando volutamente
l’attenzione dal carcere al carcerato, dal contenitore al contenuto,
affrancandosi dai soliti discorsi relativi ai “piani carcere” chimerici o
altre soluzioni più o meno irrealizzabili al sovraffollamento delle galere. Il
convegno ha evidenziato quante possano essere le posizioni e le sfumature
relativamente a questo problema. Io credo che si possa cominciare partendo da un
fatto che comunemente si identifica come ovvio: il fatto che la segregazione sia
fine a se stessa e non possa essere davvero considerata come strumento di
reinserimento sociale, così come il lavoro per i detenuti non può essere
considerato come il principale strumento di rieducazione e quindi la soluzione
per tutti i mali, e magari a volte come alibi (vista la scarsità di
occupazione) per giustificare la mancanza di qualsiasi percorso significativo:
come dire, non c’è lavoro per i detenuti, e quindi è impossibile pensare ad
altre opportunità. Dal
mio punto di vista, è paradossale pensare di isolare dalla società una persona
per 10 – 20 – 30 anni e voler credere che tenerla in carcere, il più delle
volte in condizioni disumane, possa domani garantire un suo reinserimento e una
presa di coscienza degli errori ed orrori compiuti. La risocializzazione di
qualsiasi persona non può prescindere da un coinvolgimento nelle diverse
dinamiche sociali e da una continua interazione con persone e situazioni il più
lontano possibile dalla condizione culturale e sociale di provenienza.
L’esatto contrario di quanto avviene oggi. L’altra pietra angolare su cui si
basa oggi la rieducazione è il “totem” del lavoro. Il lavoro in carcere è
indubbiamente fondamentale per affrancarsi dalla miseria assoluta che pervade
questi luoghi, e tuttavia è assurdo pensare che da solo possa contrapporsi al
vuoto educativo e formativo che l’area pedagogica nella maggior parte delle
carceri non riesce in alcun modo a riempire. Oggi
a causa di molteplici fattori la composizione della popolazione carceraria è
estremamente varia e accanto al “delinquente professionista” sempre più
spesso si profilano figure di cittadini comuni, finiti in carcere da una storia
di lavoratori con diversi gradi di professionalità, e quello che è evidente è
che il lavoro di per sé non li ha salvati né dal carcere né soprattutto dal
commettere crimini qualche volta anche efferati. Pensare ora che il lavoro possa
risolvere tutte le deficienze che sono alla base di un comportamento cosiddetto
“deviante” è un’altra ipotesi priva, io credo, di fondamento. Il lavoro
sicuramente ha anche una sua funzionalità, un ruolo importante, ma solo se è
parte di un percorso e non il percorso stesso. Paradossalmente
la congenita carenza di lavoro nelle carceri non funge da stimolo per cercare
altre vie e modi per entrare in contatto col detenuto, ma anzi è a sua volta
alibi per giustificare quella che è una delle più gravi e clamorose violazioni
della Costituzione Italiana: la pena che non rieduca. Forse
aprire una discussione seria e non demagogica su questi temi può schiudere
aspetti inattesi nella discussione sul senso che devono avere le pene, atti a
produrre un cambiamento tangibile e non più procrastinabile nella vita delle
carceri italiane. Il reato a volte non è riparabile, ma è
riconciliabile. E riconciliare significa mettere insieme, il carcere può
diventare un’area anche per fare questo, per riappropriarsi del fatto che le
fratture sociali siano fratture che debbono essere ricomposte socialmente di
Pietro Buffa,
Direttore della Casa circondariale di Torino Ho
accettato questo invito per il tema accattivante che mi è stato assegnato,
ovvero la ricerca di senso nella rieducazione penitenziaria, questione che
evidentemente si lega alla più individuale ricerca di senso del personale
lavoro quotidiano. Il
problema è che quando si deve cercare di giustificare il senso del proprio
lavoro si ha qualche difficoltà derivante dal fatto che quella pena utile
concettualizzata nella rieducazione penale, cristallizzata nella Costituzione,
oggi è, in larga parte, una chimera irrealizzata ed irrealizzabile in ragione
dell’incoerenza di fondo tra le direttrici della politica criminale di questo
Paese e lo spirito sostanzialmente inalterato, nonostante i vari rimaneggiamenti
occorsi negli anni, dell’Ordinamento penitenziario tuttora vigente. Detto
in questo modo sembrerebbe una situazione disperatamente senza sbocco. Dobbiamo
tuttavia considerare che negli ultimi anni siamo entrati in una fase storica
molto interessante proprio perché, come veniva ricordato all’inizio da Adolfo
Ceretti, caratterizzata da un clima cupo e buio, da una crisi incombente che
complica tutto. Stiamo parlando della questione carceraria come di un fatto
nuovo ed attuale ma, in realtà, chi ha un minimo di confidenza con la storia
carceraria sa benissimo che tale questione praticamente vede la luce con la
presa della Bastiglia e la nascita dei sistemi penitenziari moderni. Debbo
dire che la questione penale e quella carceraria sono, in qualche modo,
esemplificative dei tempi che stiamo vivendo, perché evidenziano la debolezza
dei paradigmi sociali ed economici le cui dissonanze vengono delegate alle cure
neutralizzatrici del carcere. Ora
di fronte ad una situazione così grave, ove il carcere risulta ormai inadeguato
rispetto ad una qualunque delle sue funzioni, ove le contraddizioni sono molto
forti e stridenti, ci sono due possibilità: quella di soccombere e pensare che
il nostro futuro, non solo carcerario ma anche sociale, sia veramente in una
crisi irreversibile e senza antidoto di sorta, oppure cercare una nuova strada. Questo
è il nostro tempo e i nostri pensieri sono in tal senso fortemente
condizionati. Questa, tuttavia non è una nostra esclusiva prerogativa. Tutti
coloro che ci hanno preceduti sono stati figli del loro tempo e, tra questi,
anche i Padri Costituenti e i legislatori del ’75 e il concetto e la pratica
della rieducazione penitenziaria evidentemente affondavano le radici in questa
genitura. Se è vero che la riforma penitenziaria nasce nel ‘75 in realtà,
come noto, viene ragionata nei confini fascisti e nelle carceri degli anni 30 e
40 dove quegli uomini, osservando quello che vedevano intorno a loro,
percepivano solo esclusione e neutralizzazione, vedevano, in altre parole,
l’annullamento delle persone in ragione di una colpa. Ed evidentemente loro,
che avevano in mente una idea nuova di governo repubblicano e democratico, si
posero il problema di che cosa dovesse essere la pena all’interno di un nuovo
contesto politico alternativo ad un regime dittatoriale. La
loro cultura di riferimento li aiutò nello sforzo insieme teorico, politico,
giuridico e sociale. Possiamo quindi dire che la riforma penitenziaria del ’75
è stata ispirata da un pensiero tardo positivistico che contemplava la
rieducazione come pratica scientifica e penale. Negli anni della loro formazione
andavano per la maggiore filoni scientifici che teorizzavano la possibilità di
bonificare l’uomo e forte era la convinzione, di natura lombrosiana, che si
potesse trattare la criminalità come una malattia da curare. Certo essi
criticavano gli obiettivi politico – razziali che qualche anno dopo avrebbero
generato le nefandezze nazi - fasciste ma, al di là di tali obiettivi, la
scienza umana dell’epoca esprimeva tali convinzioni. D’altra parte molti di
noi ricordano che, ancora fino a pochi anni fa, nelle scuole di specializzazione
in criminologia che abbiamo frequentato i nostri migliori docenti erano medici e
indossavano i loro camici bianchi durante le lezioni. Non si può che concordare
con Mauro Palma sul fatto che il concetto di rieducazione che nasce in quegli
anni, alla lunga, è diventato molto ambiguo, al punto che è difficile per chi
lavora in carcere oggi definire esattamente quello che fa. Bisogna
tuttavia riconoscere una cosa. Nemmeno la riforma del Regolamento di esecuzione
del 2000 è riuscita ad andare oltre più di tanto. È ancora confermato, ad
esempio, che le telefonate con i famigliari debbano passare attraverso il
centralino del carcere, invece di liberalizzarle, e nessuno ha pensato di
abolire le norme che prevedono la divisa per i detenuti. Queste
“dimenticanze” credo debbano farci riflettere sulla nostra effettiva capacità
di innovare. Credo che queste considerazioni, come molte altre che qui
tralasciamo, testimonino la nostra essenziale crisi di idee. Ma, come accennavo,
tutte le crisi possono essere vissute come eventi immanenti e catastrofici o
come nuove opportunità. A seconda di come intendiamo o possiamo porci di fronte
a questa alternativa noi soccomberemo oppure vivremo questo passaggio come una
fase catartica dove nuove idee e pratiche possono nascere e svilupparsi. A
tal proposito devo dire che negli ultimi tempi ci sono stati due o tre episodi
che mi lasciano ben sperare. In alcuni eventi come questo ho riscontrato il
diffuso desiderio dei partecipanti di riflettere su che cosa si potrebbe
immaginare di nuovo. Inoltre è di questi mesi la pubblicazione di un testo
molto interessante che si intitola Il Corpo e lo Spazio della Pena[1]
dove, proprio sul tema dell’ambiguità della rieducazione, Mauro Palma ha
scritto “… la detenzione deve essere fonte di responsabilizzazione e di
opportunità, le une e le altre mancano nel nostro sistema detentivo. Manca un
chiaro progetto che offra opportunità di reinserimento sociale e non si limiti
ad assicurare la sussistenza delle persone detenute, manca una idea
responsabilizzante del tempo carcerario, che offra concreta possibilità ad ogni
detenuto di misurarsi con l’assunzione di impegni e responsabilità
conseguenti, manca soprattutto l’idea di uno spazio incentrato non sulla
funzione di contenimento e dislocazione, quanto sulla gestione regolata ma
personalizzata del proprio tempo …”. Si
denuncia, tanto per cambiare, una carenza di idee, e sull’onda di tale
richiamo desidero contribuire al dibattito riportandovi quello che è stato,
nell’esperienza personale, l’armamentario concettuale ed operativo con il
quale mi sono confrontato in questi anni alla ricerca di alternative praticabili
al non senso quotidiano. Inizierei
con quello che potrei definire il viaggio delle cinque erre. Quando
ho preso servizio nell’Amministrazione penitenziaria si parlava di rieducazione,
dopo un po’, alla luce della distonia tra il dire e il fare, abbiamo iniziato
a parlare di risocializzazione. Stretti dalle circostanze siamo arrivati
a pensare al reinserimento. Oggi
iniziamo timidamente ad introdurre due concetti che credo, probabilmente,
fondamentali per il nostro futuro, quelli della responsabilizzazione e
della riconciliazione probabilmente, dico probabilmente perché nessuno
può avere la ricetta sicura. La loro implementazione può costituire il ponte
per generare quei tre elementi che Mauro Palma evidenzia come mancanti e che
possono traghettarci fuori dallo scomodo guado in cui ci troviamo. Dobbiamo
tuttavia riconoscere che oggi viviamo in un contesto che, viceversa, non
facilita la possibilità di pensare e realizzare agevolmente una pena
responsabilizzante o addirittura una pena riconciliante. Tra i vari motivi
possibili, ne segnalerei alcuni in particolare. Innanzitutto la migliore
dottrina penitenziaria[2],
da molti anni, ha sottolineato che l’osservazione e il trattamento non possono
svilupparsi se non all’interno di un contesto relazionale e di impegno
dinamico ed articolato. L’osservare un detenuto immobilizzato per larga parte
della giornata all’interno della sua cella o nel vascone di cemento ove
passeggia, ammesso che si faccia, non porta alcun elemento concreto di
conoscenza utile. D’altra parte anche i cosiddetti regimi aperti non
modificano sostanzialmente le cose. Se la persona può godere di un maggiore
spazio vitale, che in ogni modo si riparametra al corridoio prospiciente le
celle, la sua giornata continua ad essere sterile all’occhio
dell’osservatore, soprattutto se questo ha il compito di valutare la possibile
evoluzione personale di tale persona. Solo con l’introduzione di un’attività
che intrinsecamente richiede l’impegno delle energie volitive del soggetto sarà
possibile intuirne le potenzialità e i possibili sviluppi. Sono le cose che fai
e come le fai che lasciano intravvedere il tuo passato ed il tuo futuro, in
altre parole la tua capacità di esercitare la tua responsabilità. Purtroppo
oggi, per come sono congegnate le attività interne e soprattutto per la grande
carenza delle stesse rispetto alla gran massa di persone detenute, tale
esercizio di responsabilizzazione è raro. D’altra
parte dobbiamo anche considerare che solo attività di questo genere modificano
strutturalmente la vita detentiva sino a renderla comparabile a quella esterna Ho
usato il termine “trattamentale” per comodità espositiva e di comprensione,
anche se sono convinto che questo sia un termine per certi versi desueto ed
ambiguo. Se
si vuole raggiungere quel livello di responsabilità evocato da Mauro Palma
allora occorre abbandonare quelle attività e quei metodi di valutazione che
richiedono e premiano una semplice risposta adattiva dell’interessato in
ragione di una certificazione di cambiamento dell’indole e della condotta.
Probabilmente se lasciassimo perdere la visione clinica e valutativa
della pena detentiva e ci concentrassimo sulla proposta di attività che
richiedono intrinsecamente l’impegno delle persone per il raggiungimento del
risultato atteso dalle prime e non dalle seconde allora riusciremmo a
raggiungere quella responsabilizzazione di cui sopra. Per
altro verso oggi il tema carcere è sicuramente in agenda, ma lo è attraverso
immagini che non aiutano la sua modificazione nei termini che stiamo proponendo.
La questione carceraria viene descritta per il tramite di tre indicatori, tanto
gravi quanto troppo semplificanti: Il numero delle persone detenute, le carenze
organiche degli operatori, le serie storiche dei suicidi. Il
fatto che la variabile quantitativa sia utilizzata in modo prevalente per
descrivere una situazione è un modo che è filtrato, un po’ per volta, nei
nostri cervelli, in quello degli operatori, così come in quello dei
giornalisti, dei politici e dell’opinione pubblica. Nelle occasioni in cui noi
direttori ci incontriamo, spesso si palesa questo tipo di approccio e questo
vale anche per gli altri operatori come per le stesse rappresentanze sindacali. Alla
domanda quanti ne hai? alcuni rispondono 200, altri 300, altri ancora 700.
Qualche “fortunato” dice 1.600 e tutti lo guardano con una sorta di
ammirazione, perché 1.600 è quattro volte 400 e otto volte 200. Quindi quante
più volte sono e quante più volte sei bravo. Filtra cioè l’idea che il
numero “fa peso”, responsabilità, bravura. Ma filtra anche l’idea che a
fronte di quella domanda sia necessario dare risposte esclusivamente d’ordine
quantitativo; più risorse umane, più operatori, più denaro, più carceri, più
norme. Tant’è vero che la nostra politica affronta i problemi del carcere
come una questione numerica. Una
parte dice “costruiamo più carceri”, l’altra parte dice “adottiamo
provvedimenti indulgenziali, emergenziali, amnistiali”. Io
credo che la questione sia mal posta e che sulla base di questo errore di fondo
sbaglino entrambe queste due posizioni. Con questo non voglio sostenere che la
questione numerica non sia un problema ma che non è, di per sé, esaustiva del
fenomeno. Ad essa occorre accostare la questione qualitativa e di merito.
Secondo questa visione il discorso del penitenziario non può prescindere da una
considerazione generale. Il carcere attuale, con le sue disfunzioni e i suoi
drammi quotidiani, è sintomatico del fatto che i nostri paradigmi sociali,
giuridici ed economici, non tengono più e non svolgono più adeguatamente quel
compito di comprensione ed orientamento che Khun, trattando dell’evoluzione
scientifica, aveva assegnato funzionalmente al modello paradigmatico. Oggi
possiamo ben sostenere che l’evoluzione sociale ed economica degli ultimi
sessant’anni in occidente, ben descritta da Garland, ha generato in quel
contesto politiche criminali che con le loro scelte hanno via via sconfessato le
politiche penitenziarie tendenti al reinserimento sociale e, per quanto riguarda
l’Italia, hanno scippato all’Amministrazione Penitenziaria il suo mandato
istituzionale originario. Oggi
i tre quarti delle persone in carcere in Italia sono fuori dalla logica
rieducativa operata per il tramite delle misure alternative previste
dall’Ordinamento Penitenziario Lo
sono per le loro caratteristiche sociali e personali che confliggono con quei
criteri di sicurezza ed affidabilità sanciti dalle nuove norme intervenute e
dalle prassi amministrative e giurisdizionali che vengono adottate anche in
ragione del clima generale esterno. Nel carcere di Torino il 64% della sua
popolazione è un cittadino straniero che non ha diritto di stare sul territorio
nazionale una volta scarcerato e tale presenza sta a significare che i nostri
paradigmi non hanno saputo capire prima e gestire poi un fenomeno vecchio e
conosciuto come il mondo, e cioè che le migrazioni sono un fatto naturale che
dipendono dalla necessità primaria di procurarsi il sostentamento e la speranza
in quei territori che lo offrono. Quando
si parla di recidiva e del peso ostativo che questa determina nella concessione
delle misure alternative alla detenzione, occorre tenere conto che il 70 % della
popolazione detenuta ha problemi in tal senso e che la loro mera
neutralizzazione non servirà a renderle persone migliori. Quando
si parla del 30% di tossicodipendenti detenuti, questo dato sta a significare
che la nostra società non è riuscita a capire ed affrontare il fenomeno delle
dipendenze, nonostante il fatto che i nostri adolescenti, si dice nella misura
del 70%, abbiano una forte contiguità con le sostanze stupefacenti. Così
come non si è riusciti, per esempio, a capire che il disagio e la malattia
mentale stanno aumentando con l’aumento della crisi globale e della
competizione, fuori come dentro il carcere. Un dato mi sembra significativo; in
700 giorni nel carcere di Torino hanno fatto ingresso 576 persone malate di
mente provenienti da altri istituti e bisognevoli di cure. Ora
è chiaro che tutti questi sono i segni del nostro tempo e di come noi saremo
costretti a modificare il nostro atteggiamento così come il nostro modo di
operare, e prima ancora a trovare idee e modelli nuovi. Se
non si mette mano alle tre leggi carcerogene in materia di immigrazione, droga e
recidiva, noi possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo ma la dignità umana
non potrà tornare ad albergare all’interno dei nostri istituti penali e nella
nostra società. Non dimentichiamo che la dignità è il fondamento di qualunque
approccio che miri a sviluppare pratiche di responsabilità e di
riconciliazione. Premesso
questo, credo siano due i temi sui quali vale la pena iniziare a discutere
seriamente. La funzione del carcere e il suo rapporto con il resto della società
e lo sviluppo di processi di responsabilizzazione e di riconciliazione Rispetto
al primo tema, nel tempo ho maturato il convincimento che il carcere possa e
debba essere inteso come un’area, uno spazio, un luogo sì gestito e tutelato
da una amministrazione statale in capo alla quale non può rimanere l’onere di
garante e di tutela del momento punitivo, ma di cui la società esterna debba
appropriarsi per praticare tutto quanto è di sua competenza. A ben vedere
l’Ordinamento indica nell’esecuzione della pena una funzione sicuramente
statuale ma anche sociale[3]. Sino
ad oggi questa dimensione sociale è stata praticata a macchia di leopardo nel
senso che i territori politicamente e socialmente più sensibili si sono
attivati maggiormente di altri, incontrando, amministrazioni e
servizi penitenziari, anche in questo caso variamente disponibili. Il risultato
è discontinuo ed irregolare, fortemente dipendente dalle contingenze storiche,
politiche ed economiche. Non è a questo che penso quando dico che la società
deve appropriarsi di una sua funzione nell’esecuzione penale. Penso,
viceversa, ad una presenza stabile, programmata, attiva, capace di assumere
compiti gestionali diretti all’interno delle strutture penitenziarie, siano
essi istituti o servizi sociali, al fine di dare forma, insieme
all’amministrazione penitenziaria, alla concreta quotidianità penale anche se
a quest’ultima, secondo chi scrive, continua a spettare l’onere di garantire
con la sua capacità organizzativa l’attività della società esterna che
entra. Non penso ad attività collaterali e subordinate che si giustappongono
alla vita detentiva ma ad una vera e propria programmazione congiunta e
all’assunzione di responsabilità diretta di alcune funzioni trattamentali
pensate e dirette al raggiungimento della responsabilizzazione delle persone
detenute. Una
compartecipazione di questo non è sicuramente semplice. Se
da un lato non è possibile che l’esterno possa immaginare di occupare spazi
senza tener conto delle responsabilità penitenziarie, così altrettanto non
credo che il penitenziario possa operare scelte organizzative in spregio alle
esigenze di chi da fuori vuole appropriarsi e garantire il suo intervento
sociale. La
riforma della sanità penitenziaria, in tal senso, con la contraddittorietà e i
limiti che sta dimostrando a distanza di anni dal suo varo, è lì a
sottolineare che un processo quale quello che sto descrivendo necessità di
poche regole generali e di molto lavoro congiunto ma, soprattutto, della
vicendevole scelta di voler partecipare ad un unico obiettivo di cui tutte le
parti devono sentire la responsabilità piena. Se
sostengo la necessità di un intervento massiccio, direi saturante, rispetto
alla relazione umana, professionale, formativa, scolastica e sportiva, della
società esterna, fortemente e programmaticamente sostenuta dalle Regioni, dagli
Enti Locali e della società civile, non per questo credo che la riserva di
legge che pone in capo allo Stato la gestione della Giustizia debba essere
abiurata e che, quindi, in capo all’amministrazione penitenziaria debba essere
riconosciuto l’onere e la competenza organizzativa. Certo non in termini
dispotici bensì funzionali alla riuscita sociale della pena. Il
problema è fare in modo che le parti possano riconoscere il proprio successo in
quello delle altri componenti. Come sempre non è il gioco a somma zero quello
vincente ma quello a somma superiore di zero. Un
carcere di questo genere, ove la società esterna non solo filtra ma partecipa
attivamente, assumendo la diretta e competente responsabilità delle attività e
dei risultati, probabilmente, diventa un luogo favorente anche il secondo degli
obiettivi innovativi, ovvero la riconciliazione. Se
nella quotidianità avviene l’incontro tra chi sta dentro e chi fuori su un
piano di reciprocità intorno ad un obiettivo comune, pensiamo ad esempio ad una
attività produttiva che coinvolga cooperatori esterni e dipendenti interni,
oppure ad una squadra sportiva impegnata in un campionato con altre analoghe
compagini esterne, allora molto probabilmente potremmo notare una maggiore
predisposizione alla conoscenza comune e alla reciproca comprensione. Da questo
potrebbero nascere quelle occasioni utili per ampliare tali predisposizioni sino
a fare in modo che il carcere possa diventare luogo ove ordinariamente si possa
mettere insieme vittime e colpevoli, per tentare di rimarginare le fratture
invisibili prodotte da un reato e non sanabili con una sentenza che in nome del
popolo italiano condanna ad una retribuzione temporale indefinita nei suoi
contenuti materiali. Per
raggiungere questi due obiettivi non credo necessitino rivoluzioni copernicane,
ma una maggiore consapevolezza innanzitutto istituzionale. Cerchiamo di capire
come. Proviamo
a pensare alle funzioni di una Regione. Ormai tutta la parte che non è
semplicemente custodiale di un carcere è sicuramente una questione di
competenza regionale, lo è la salute, lo è il lavoro, lo è la formazione
professionale, quindi questo potrebbe già essere un dialogo possibile, cioè se
il carcere diventa area, diventa spazio, bene, che le funzioni regionali le
pratichino sino in fondo. Certo occorrerebbe trovare le modalità e il reciproco
accordo per farlo in modo diverso e partecipato. Ma
anche in questo caso lo stesso Ordinamento offre gli strumenti per un confronto
diverso. Pensiamo al ruolo che all’interno delle equipe di osservazione e
trattamento possono avere tutti coloro che seguono le persone detenute, pensiamo
al lavoro programmatorio che può essere sviluppato nell’ambito dei Comitati
didattici, o al ruolo dei Provveditorati nella creazione di reti e programmi
regionali in materia di lavoro e formazione e non solo. Non
credo di sorprendere nessuno se affermo che laddove abbiamo iniziato, chi più,
chi meno, a sperimentare la possibilità di coinvolgere un esterno che portava
una sua logica non strettamente educativa, ma piuttosto quella di una solidarietà
di mercato, ebbene proprio lì abbiamo toccato con mano quel concetto di
responsabilizzazione di cui stiamo parlando. È una responsabilità che si gioca
sul fatto che l’obiettivo tra datore di lavoro e detenuto è unico, riuscire a
raggiungere quegli obiettivi comuni che consentono, mese per mese, di stare sul
mercato e garantire, reciprocamente produzione, lavoro e remunerazione. È
inutile dimostrare al cooperatore un cambiamento interiore, piuttosto gli devi
dimostrare affidabilità, precisione, capacità, impegno, serietà, in una
parola responsabilità. Non
lo devi convincere di aver rivisto tutto il tuo passato, ma più semplicemente
di potersi fidare di te per quello che riguarda l’obiettivo oggetto del
contratto che vi lega insieme. Potrebbe
sembrare un paradosso ma proprio lì abbiamo apprezzato i maggiori cambiamenti,
non solo nelle persone ma anche nell’organizzazione penitenziaria. Se
una cooperativa vuol stare sul mercato il prodotto deve essere fatto nei termini
e nei modi previsti e per questo nessuno può giocare fuori dal cerchio della
responsabilità. Non lo può fare il detenuto, non lo può fare il cooperatore,
non lo può fare l’amministrazione penitenziaria. Questo
significa attivare un cammino comune, di condivisione di interessi in parte
coincidenti e in parte diversificati tra loro, ma il fulcro sta esattamente in
questo, trovare i punti di unione, pur così differenti tra loro, e rinforzarli
in una vision collettiva. Il
detenuto vuole una occupazione che gli renda la vita migliore, l’esterno che
entra desidera raggiungere i propri obiettivi, l’amministrazione una pace
interna. Questi interessi sono la base dell’atteggiamento responsabile che
costituisce la molla del miglioramento. Non
è solo il lavoro che può essere utile in tal senso, anche se è la componente
più importante per le sue ricadute sulla persona durante e dopo la
carcerazione. Per quella che è la mia esperienza, anche la scuola, la
formazione, lo sport sono componenti che possono essere giocate per generare
responsabilità umana, organizzativa ed istituzionale. Un
passaggio che credo decisivo è quello di abbandonare l’idea della persona
detenuta come quella di una non-persona, un vuoto a perdere sociale, fonte di
costi, bisognevole di assistenza e correzione. Ognuna di queste percezioni è
pericolosa di per sé ed unite tra loro diventano una miscela esplosiva. Molti
Autori ci hanno nel tempo dimostrato che una non-persona implica
l’accettazione di una diversa e diminuita dignità e, in alcuni casi, anche la
possibilità di abdicarla del tutto attraverso l’accettazione di condizioni di
vita e di relazione inumane e degradanti[4]. L’assistenza
e la correzione si spartiscono il primato a seconda che i tempi consentano o
meno economie e, di questi tempi, è la seconda che sembra drammaticamente
quanto inutilmente prevalere anche se alla lunga non è meno cara e più
efficace. Poi
però si può “scoprire” che anche il detenuto può essere una risorsa in
questo scacchiere così controverso. Torniamo allora al ragionamento numerico di
cui si accennava in precedenza. Parrebbe
essere ovvio ma non viene spesso detto e ricordato, e soprattutto non entra
nella nostra anima fino in fondo. Per quello che riguarda la mia esperienza, ad
esempio, debbo riconoscere che quando ci siamo posti il problema di come far
fronte al disagio esistenziale che fa da alone al fenomeno suicidario, ci siamo
sin da subito scontrati con la dura realtà del fatto che dal mero punto di
vista del controllo e dell’attenzione è praticamente impossibile farvi fronte
con le sole risorse istituzionali. Non è solo una questione numerica ma anche
relazionale. In quella circostanza abbiamo realizzato che forse una parte
della soluzione poteva essere ricercata nell’altra parte del sistema
penitenziario. Dire
che in un grosso carcere metropolitano si accalcano 1.600 persone non significa
affermarne esclusivamente il “peso” in termini di concentrazione di uomini e
problemi, ma anche dichiararne il potenziale umano. Una
tale quantità di persone è titolare di 1.600 sensibilità diverse, 3.200
occhi, orecchie e braccia ma non solo. Da queste considerazioni si è sviluppata
l’idea di coinvolgere tutte le persone disponibili, così come i loro
famigliari, nell’attenzione alle situazioni di maggiore sofferenza. Certo
rimane molto da fare e da imparare, ma affermare una cosa del genere significa
iniziare un percorso per stimolare la responsabilità di molti, e questo lo si
può poi trascinare in tutte le altre possibili occupazioni all’interno del
carcere. Ci
siamo mai veramente chiesti quante competenze rimangono bloccate nella
detenzione? Credo
sia illuminante una proposta che qualche mese fa fece un detenuto, che chiedeva
la possibilità di aumentare le attività anche in momenti della giornata poco
canonici rispetto allo standard organizzativo, che sostanzialmente lascia
scoperta ed inattiva una parte importante della giornata. La sua riflessione mi
sorprese per la lucida originalità derivante dall’esperienza detentiva. In
sostanza, partendo dal gran numero di stranieri presenti e assumendo che una
parte di questi, anche piccola, sia in grado di dare i primi rudimenti di lingua
anche agli altri, proponeva di organizzare con il loro aiuto alcuni corsi di
lingua straniera. Certamente
è un’idea da raffinare, ma porta in sé i germi dell’innovazione che
possono essere validamente incrociati con i principi ordinamentali che già dal
1975 prevedevano la possibilità di avvalersi del contributo volontario dei
detenuti dotati di particolari qualità e capacità. Quest’ultima
considerazione porta a dire, inoltre, che come spesso succede le vere
rivoluzioni spesso coincidono con l’applicazione della legge e il nostro
Ordinamento, da questo punto di vista, spesso stupisce per l’ampiezza degli
strumenti che pone a disposizione e per la sua attualità. Probabilmente
occorrerebbe sfoltire le innumerevoli prassi che ingessano l’operare,
concentrandosi maggiormente sulle opportunità normative date mobilitando le
energie complesse che vivono all’interno del carcere, per consegnarle a quelle
realtà esterne pubbliche e private nelle modalità più sopra citate. Negli
ultimi anni, partendo dalla felice ed efficace definizione di Alessandro
Margara, si è spesso sottolineato come il carcere sia diventato sempre più un
contenitore adibito, più che ad una detenzione di natura penale, ad una
detenzione sociale. Con questo termine si fa riferimento alla natura emarginata
dei suoi abitanti che trovano nel carcere un approdo dopo una serie di rifiuti. Questi
uomini e queste donne, tuttavia, sono ancora un patrimonio sociale che può
essere adeguatamente investito in quella società, che li ha dapprima
socialmente e poi legalmente esclusi. Tale investimento è per la società
fortemente auspicabile in quanto la riduzione dell’esclusione, per i costi
umani, sociali ed economici che comporta, dovrebbe essere un obiettivo da
perseguire anche solo per mero tornaconto generale. Ma un tale investimento
potrebbe avere un secondo profilo di guadagno, laddove la liberazione di tali
energie fosse indirizzata alla bonifica di quei territori, borghi, contrade,
attività che nel tempo sono stati abbandonati in ragione di miraggi economici
che alla lunga ci hanno lasciati stremati di fronte alla crisi globale. Oggi
quel patrimonio abbandonato non può essere affidato a nessuno, perché
individualmente nessuno ha la possibilità di far ripartire quei meccanismi
sociali ed economici abbandonati ma il lavoro sociale collegato alla creazione
di una pena alternativa potrebbe essere lo stimolo per tentarci. Per
quella che è la mia esperienza, ogni qual volta ho visto fare questo ho
assistito ad una sorta di “normalizzazione” della persona in carcere, che è
stata riportata ad una pressoché normale vita di relazione. Gli
effetti dei riti di degradazione e di differenziazione propri della carcerazione
si attenuano al punto che la stessa relazione tra custodi e custoditi si
riallinea in ragione del fatto che l’altro ridiventa un tuo simile. Da
questo punto di vista investire in partecipazione e responsabilità è anche
utile per modificare il clima interno all’istituzione penitenziaria. Torniamo
alla riconciliazione. Credo sia da premettere una riflessione partendo da Albert
Camus, che nel suo romanzo “Lo straniero”[5]
inserisce un dialogo tra due dei protagonisti. Un pubblico ministero sta
incalzando una persona che è sotto interrogatorio nel corso del dibattimento e
ad essa rivolge una domanda apparentemente fuori contesto: “Mi dica lei che
cosa è un delitto?”. Il suo interlocutore, amico dell’imputato per omicidio
per cui si sta procedendo, è un semplice buon uomo che di fronte a tale quesito
si arrovella un po’ e ad un certo punto risponde dicendo: “Un delitto è un
fatto irreparabile”. Sono convinto che questo sia un buon punto di partenza
per ragionare sui contenuti e gli obiettivi che si possono dare alla
riconciliazione. A fronte dell’irreparabilità delle nostre azioni e quindi
anche dei delitti, non possiamo continuare a pensare che si possano risolvere le
fratture sociali che ne discendono semplicemente punendo e carcerizzando. I
fatti in genere e quelli delittuosi in particolare non sono riparabili ma sono
riconciliabili. Il Sudafrica e la Commissione per la verità e la
riconciliazione creata per far fronte alle ferite aperte dalla segregazione
razziale e dalla resistenza nera, sono lì a dimostrare che è possibile se si
riesce a sviluppare una cultura generale più matura e consapevole[6]. Anche
in questo caso credo che il carcere possa assumere una funzione fondamentale. La
riconciliazione che ho in mente non si limita solamente alla permeabilizzazione
delle mura carcerarie, ovvero all’ingresso della comunità esterna, per come
lo conosciamo ora attraverso l’attività del volontariato o le iniziative
culturali che vedono la partecipazione di un pubblico esterno. Anche in questo
caso penso al carcere come uno spazio ove far incontrare vittime ed autori di
reati non in un rapporto esclusivamente a due, bensì pubblico, sull’esempio
del modello sudafricano. Ci
abbiamo provato e vi posso dire che gli effetti sono estremamente interessanti e
confermano il carattere sociale del reato e la necessità di riportare a quel
livello quanto è stato giuridicamente sancito e punito. Sono
convinto che quando si parla, prendendo spunto dal titolo di questo convegno, di
una società poco educata, si intenda pensare a strade anche di questo tipo, che
perseguono l’obiettivo di riappropriarsi di un ruolo da protagonisti nella
ricomposizione delle fratture sociali grazie ad una istituzione penitenziaria
che si rende disponibile a far partecipare una società più consapevole e
responsabilmente coinvolta. Un’ultima
cosa. Se questo è il percorso che intendiamo scegliere, ovvero un carcere in
cui si incrociano amministrazioni, cittadinanza, responsabilità e competenze
diverse ma tutte indirizzate a conferire occasioni di responsabilizzazione
incontro e riconciliazione, non possiamo nasconderci che non tutti possono
essere pronti a cogliere queste opportunità o a farlo non in maniera puramente
strumentale e comunque con vari gradi di partecipazione ed efficacia. Rispetto
alla parte istituzionale credo che i principi generali ci debbano soccorrere.
Secondo la Costituzione la pena non può avere elementi contrari al senso di
umanità. Pare un paradosso considerato che la pena detentiva, anche la migliore
possibile, è una pena coatta e come tale afflittiva. Laicamente dobbiamo
superare questa dissonanza per ridurre al minimo questa contraddizione. La
tirannia delle inezie[7]
che costituisce l’ossatura della pena in carcere deve essere quotidianamente
analizzata per verificare i motivi che ci inducono appunto a costellare di
ostacoli e limiti la vita carceraria, sino ad infantilizzare coloro i quali ne
sono soggetti ma anche, permettetemi, gli stessi operatori. Ogniqualvolta
si individua uno di questi limiti, appartenenti alla logica dell’esclusione e
dell’afflizione, occorre trovare collettivamente una soluzione alternativa che
possa superare l’ostacolo senza porre in pericolo il sistema. Come
spesso mi sono ritrovato a dire, lavorare in carcere può essere visto come un
lavoro creativo o dovrebbe diventarlo in quei casi in cui la stasi del
precedente e della prassi stenta a sollevare la sua coltre dalle umane vicende.
Ma se questo è vero ed accettabile al punto da intraprendere tale modalità,
allora occorre far riferimento ad una bella definizione di creatività di
Galimberti[8]
secondo il quale l’originalità non è l’elemento essenziale di una attività
che vuole dirsi creativa ed innovativa, nel senso che se questa non è anche
legata ad un principio di legalità può essere facilmente scambiata come un
abuso e una stranezza e come tale il suo proponente vedrà frustrate le sue
velleità perché gli altri non si sentiranno spinti a seguirlo. Il riferimento
alla legalità non è d’ordine strettamente giuridico, ma piuttosto ad una
legalità di principio. Nel
nostro caso sono i principi costituzionali ed ordinamentali che ci consentono di
esplorare, nei modi più sopra descritti, in modo diverso il territorio
penitenziario. Per
proseguire il ragionamento dell’indisponibilità e dell’eterogeneità di una
parte dell’insieme dei detenuti, anche in questo caso, non possiamo fingere
che non esista la questione. Tale indisponibilità può assumere varie forme che
vanno dalla strumentalità, alla povertà, alla difficoltà di sganciarsi da
reti devianti. Anche
nel libro “Cuore” viene tratteggiata questa possibilità descrivendo la
figura di Franti, “l’unico che rise al funerale del Re”. Oggi la linea di
tendenza è quella di selezionare in ragione della volontarietà dell’adesione
ad un progetto trattamentale e del possesso di caratteristiche personali e
penitenziarie rassicuranti in termini di capacità a reggere, anche solo
formalmente, un impegno. In genere le aspettative non vengono deluse e il
successo fa spesso dire che questo è il segno che le attività trattamentali
garantiscono ricadute positive sul partecipanti. Probabilmente sarebbe più
corretto aggiungere che, oltre a questa possibilità, anche i processi selettivi
interni fanno si che vengano premiate le capacità d’origine. Premesso
questo è ovvio che l’impatto di un certo modo di fare carcere dipende anche
dalle condizioni personali e sociali delle persone e questo è un fattore di cui
occorre tener conto in modo da ottimizzare sforzi, risorse ed obiettivi. Se
la logica ordinamentale rimane quella della progressione trattamentale in vista
dell’ammissione alle misure alternative questo, purtroppo, non è più una
possibilità diffusa sull’intera popolazione detenuta, ma riguarda solo più
una parte stimata[9]
intorno ad un quarto dell’insieme. Ebbene per loro occorre prevedere il
massimo impegno possibile per accelerare il procedimento alternativo alla
detenzione, in particolare per coloro i quali soddisfano tutti i criteri di
nulla o bassa pericolosità. Secondo
le stesse stime esiste un’altra parte di persone, pari a circa il 40% del
totale che pur non avendo più una concreta possibilità di fruire di una misura
alternativa, più per le loro caratteristiche sociali e giuridiche che per la
loro effettiva pericolosità sociale, può utilmente impegnarsi in attività
grazie alle loro capacità personali. Per loro la formazione professionale e
soprattutto il lavoro imprenditoriale gestito da esterni all’interno degli
istituti possono costituire un valido investimento per il futuro, anche se per
una parte consistente di essi, gli stranieri irregolari, allo stato non si può
immaginare che tale investimento sfoci nel reinserimento sul territorio
nazionale. Certo che nei loro confronti si possono immaginare misure di
reinserimento in patria con una dotazione che consenta loro di ricucire lo
strappo migratorio con qualche possibilità di successo. Esistono,
infine, due altre categorie di persone che per motivi opposti non possono essere
inserite nei suddetti percorsi. Ci si riferisce alla folta schiera dei
tossicodipendenti, alcooldipendenti e psichiatrici che affollano gli istituti di
pena. Nei loro confronti l’accoglienza, l’assistenza e la cura costituiscono
gli interventi prioritari ipotizzabili. Già il Testo Unico 309/90 aveva dato
indicazione della necessità di differenziare la loro detenzione al fine di
evitare la loro prevaricazione da parte della restante popolazione detenuta e
per facilitare la terapia. Il passaggio alla Sanità pubblica può costituire
l’ennesima occasione per pensare di specializzare parti del sistema
penitenziario in termini più curativi che afflittivi. L’ultimo
gruppo è quello classificato come il più pericoloso ed è costituito dagli
appartenenti alla criminalità organizzata. In questo caso una delle questioni
da affrontare è la dispersione delle aree a loro dedicate all’interno di
istituti, viceversa, a prevalente presenza di detenuti considerati mediamente o
scarsamente pericolosi. L’influenza di tale compresenza è in genere nefasta
per questi ultimi, che si trovano a dover subire limitazioni imposte dalla
necessità di separazione e maggiore attenzione. Ma è nefasta anche per i
primi, esattamente per gli stessi motivi. L’impossibilità di condividere
spazi ed attività con gli altri detenuti può favorire scelte organizzative e
strutturali a loro scapito. Quello
che si vuole rimarcare con queste brevi considerazioni è che una delle vie da
percorrere è quella della ricerca di omogeneità, nell’ambito di una
differenziazione oculata nella variegata popolazione detenuta in modo da
favorire la ricerca di interventi più dedicati ed efficaci anche attraverso una
distribuzione delle risorse più mirata e concentrata. Spero
di aver dimostrato che molto è possibile fare e che comunque altro non si possa
fare, pena la nostra rovina. Capitolo quarto: Quando l’informazione non informa, ma diseducaCapitolo quarto: Quando l’informazione non informa, ma diseduca
A
chi fa informazione non chiediamo certo di porsi il problema di “educare”,
ma già informare in modo “pulito” sulle pene e sul carcere ha un valore
educativo. È la cattiva informazione che diseduca, che abitua i cittadini a
identificarsi solo con le vittime, che esclude dal loro orizzonte il rischio
reato. E, rispetto a chi commette reati, è la cattiva informazione che dà
cattivi esempi di imprecisione, di pressappochismo, di disattenzione alla verità,
che abituano i “buoni” a sentirsi sempre più buoni e a non interessarsi in
alcun modo a un serio dibattito sul senso della pena, che invece dovrebbe
riguardarci TUTTI. La
società deve essere coinvolta in un confronto serio sulle pene e sul carcere Ma tanta informazione spesso tende solo a
tranquillizzare la società dei “benpensanti”, inducendoli a credere che
esistono i predestinati, i mostri, quelli che non possono sfuggire al carcere di Bruno Turci,
redazione di Ristretti Orizzonti Noi
di Ristretti Orizzonti, che pure di informazione parliamo continuamente, non
sappiamo dire quanto l’informazione possa avere a che fare con la
rieducazione, ma sappiamo con certezza che una cattiva informazione,
un’informazione che non è precisa, fa dei danni notevoli. Sicuramente
le testimonianze che confermano proprio i danni prodotti da questa cattiva
informazione ci arrivano dagli incontri che noi abbiamo con gli studenti delle
scuole che ogni settimana entrano in carcere. Dai luoghi comuni che spesso
caratterizzano le loro idee sul carcere emerge che loro assorbono messaggi
mediatici poco precisi, soprattutto quando tendono a caratterizzare come
“mostri” gli autori di reati. Si capisce che c’è un metodo per informare
finalizzato a tranquillizzare la società dei benpensanti, inducendoli a credere
che esistono i predestinati, i mostri, quelli che non possono sfuggire al
carcere. Questo
è un messaggio che porta a credere ai più che a loro non capiterà mai di
finire in galera. E invece “capita” anche a tanti cittadini comuni, basta
pensare che i condannati per reati legati al consumo di sostanze stupefacenti
sono circa il 30% dei detenuti, e non sono certo feroci criminali. E che tante
persone che vengono sorprese alla guida di una vettura con un tasso alcolico
superiore al consentito oggi rischiano il carcere, e se causano incidenti
possono essere condannate a pene durissime. E ci sono altri reati che commettono
proprio i cittadini comuni, e non solo “i delinquenti”, e sono gli omicidi
in famiglia, che da qualche anno risultano più numerosi degli omicidi di
criminalità organizzata. Gli
studenti dopo aver ascoltato le nostre esperienze, le storie che ci hanno
condotto in carcere, ci dicono che ci sono cose che i giornali e le televisioni
non gli raccontano nel modo giusto, certe realtà come il carcere sono tenute
nascoste, come se davvero fossero lontane dalla vita dei cittadini. Ci dicono
che sono entrati in carcere con un’opinione nei confronti dei condannati e ne
escono con un’altra. E questo, certamente, non succede perché noi detenuti
improvvisamente siamo diventati tutti buoni. In
effetti un’informazione poco precisa induce la società ad allontanarsi dal
carcere e, quindi, a non occuparsene. Invece la società deve occuparsi di
carcere, e deve costringere chi si occupa di carcere a farlo in un’ottica
rieducativa, volta al recupero delle persone, solo così può ridurre il numero
di persone che vi entreranno. Abbiamo
incontrato ultimamente una classe di studenti proveniente da una scuola di
Napoli. Ci hanno detto proprio che dopo il nostro incontro hanno capito quanto
erano lontani dal conoscere davvero la realtà del crimine e della devianza:
loro erano convinti infatti che i criminali reclutati in minore età fossero dei
predestinati, che hanno scelto di vivere nell’illegalità e non saranno mai
“recuperati”. Ebbene
la scelta in questi casi non è poi così libera come si potrebbe credere.
Quanto può essere libero in quella scelta un ragazzino nato in un quartiere
degradato di Napoli? e perché certa stampa non racconta questi aspetti così
complessi della realtà, e preferisce creare sempre “i mostri”? Noi
chiediamo a Giovanni Bianconi se può fornirci, con la sua esperienza, una
risposta: cosa si può dire, cosa si può cominciare a fare affinché la società
sia coinvolta in un confronto serio sulle pene e sul carcere, e capisca che chi
sta in carcere per aver commesso dei reati può cambiare davvero solo se c’è
qualcuno che si occupa di lui, e crede nel suo cambiamento.
L’idea dominante è che il carcere sia
qualche cosa che serve a rendere più sicura la vita di quelli che stanno fuori di
Giovanni Bianconi,
giornalista del Corriere della Sera, per
il quale segue le più importanti vicende giudiziarie e di cronaca, scrittore
(l’ultimo suo lavoro è “Il
brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e
colpevoli”) Il
problema, per essere forse un po’ brutali ma credo veritieri, è questo: fuori
di qui, nei giornali – e quando dico giornali mi riferisco ai mezzi di
comunicazione in generale, quelli che rappresentano la mediazione tra alcuni
microcosmi come il carcere e l’opinione pubblica, che ne sta fuori – non si
ha idea della realtà carceraria per come è e per come è stata descritta oggi.
Tutte le cose interessantissime che abbiamo ascoltato stamane, alcune per la
prima volta per quanto mi riguarda, non hanno la minima cittadinanza nella
discussione sull’informazione sul carcere. Come
diceva il direttore del carcere di Torino, in questa fase il carcere per i mezzi
di informazione si riduce a tre questioni: sovraffollamento, suicidi e carenza
di organico. Tra l’altro i suicidi sempre meno, giacché sono divenuti essi
stessi quasi routine; voi sapete che un fatto, per diventare una notizia,
secondo i canoni di chi fa informazione deve essere una cosa nuova, e per i
giornali i suicidi in carcere ormai non lo sono più, purtroppo… L’altro
giorno s’è verificato un caso sul quale il Ministero della Giustizia ha
annunciato un’ispezione, che dunque ha destato attenzione all’interno delle
stesse istituzioni, ma su pochissimi giornali se n’è stata data notizia: un
detenuto romeno si è lasciato morire dopo cinquanta giorni di sciopero della
fame! Cioè come Bobby Sands (NdR: Bobby Sands è stato un attivista
nordirlandese con cittadinanza britannica. Volontario dell’IRA, fu eletto
membro del Parlamento britannico mentre era detenuto nel carcere di Maze, a Long
Kesh. Qui morì il 5 maggio 1981 a seguito di uno sciopero della fame condotto
ad oltranza come forma di protesta contro il governo del Regno Unito).
Adesso c’è un film in circolazione nelle sale che parla di Bobby Sands, e
fatte tutte le debite proporzioni il caso poteva essere messo in relazione a
quella nota vicenda che scosse il mondo intero. Era un’occasione per parlarne,
e invece niente, nemmeno questo possibile parallelo è stato sfruttato.
Probabilmente perché è stato classificato come semplice suicidio di un
detenuto straniero, e ormai 60 o 70 suicidi all’anno, in Italia, sono un fatto
“normale” e fisiologico all’interno delle carceri. Quindi non più “una
notizia”. Come il sovraffollamento. Il
problema del sovraffollamento viene vissuto con allarmismo nella misura in cui
le carceri rischiano di scoppiare, sono possibili delle rivolte o qualche altra
clamorosa forma di protesta. A preoccupare non sono le condizioni di vita di chi
è costretto a stare nelle celle che ospitano fino al doppio delle persone
consentite, ma le possibili ripercussioni all’esterno. Ed è una
considerazione che nasce da quella più generale secondo la quale il carcere non
è un luogo di “rieducazione” per chi sta dentro, ma di sicurezza per chi ne
resta fuori. Tra l’altro su questa parola, “rieducazione” si è detto
molto, anche stamane e con accenti giustamente critici. Non è un bel termine,
forse sarebbe meglio reinserimento o qualche altro, però è contenuto nella
Costituzione e ce lo teniamo stretto, insieme al resto della Carta: visti i
continui tentativi di modificarla per ragioni molto poco commendevoli, è meglio
fare tesoro di quello che abbiamo. In
ogni caso credo che il carcere non sia vissuto dalla collettività come luogo di
rieducazione, bensì come struttura che serve a preservate la sicurezza di chi
sta fuori, e rendere tranquilla la vita degli “altri”: in carcere deve stare
chi costituisce un pericolo per l’esterno, tutto il resto sono problemi suoi.
E solo suoi. Derivano da qui, ritengo, tutti i discorsi sulla certezza della
pena che troppo spesso capita di ascoltare anche quando sono “a vanvera”,
evocati pure quando non c’entrano niente con quello che dovrebbe essere il
modo di affrontare i problemi del carcere, cioè una struttura che dovrebbe
tendere al reinserimento del condannato. Invece si parla d’altro, di certezza
della pena anche quando la pena non c’entra nulla semplicemente perché ancora
non è stata inflitta, come dirò tra un attimo. Allora
la cattiva informazione sul carcere, semplicemente (e molto gravemente,
drammaticamente vorrei dire), finisce per riflettere la
cattiva percezione che all’esterno si ha del carcere. Che è identificato –
lo ripeto, ma credo che sia il punto essenziale da comprendere e da cui partire
per affrontare questa situazione – come qualcosa che serve a rendere più
sicura la vita di quelli che stanno fuori. È
come se fosse un mondo a parte, come se il carcere fosse ciò che una volta
erano i Paesi sottosviluppati. Ricordate? Il Terzo Mondo dove si moriva di fame;
il Sud del Mondo che faceva da contrasto al Nord diviso tra Occidente e Oriente
che progredivano secondo due modelli diversi, ma ricchi rispetto alla povertà
di Africa, America Latina e un pezzo dell’Asia. Poi quei Paesi sono stati
chiamati “in via di sviluppo”, per dar loro maggiore dignità, ma restavano
mondi separati rispetto alla ricchezza e al progresso. Un problema altrui. Ogni
tanto qualche cittadino del Primo Mondo andava laggiù, tornava e diceva:
“…però li ci sono un sacco di problemi che forse riguardano anche noi!”. A
me pare che con il carcere scatti un meccanismo simile. Per esempio quando viene
arrestato qualche cosiddetto “colletto bianco”, o comunque chi non è
abituato ad avere a che fare con situazioni di detenzione o più in generale di
marginalità: entra in carcere e ne esce come “convertito”. È successo di
recente con un deputato arrestato, che è entrato in cella e quando è riuscito
a venirne fuori ha detto: “Adesso mi occuperò di carceri!”, come se fosse
rimasto folgorato rispetto a un “mondo a parte”, per l’appunto, che non
conosceva. Eppure era un legislatore, uno che dovrebbe avere coscienza dei
principali problemi che affliggono il nostro Paese. Episodi
come questi mi portano a pensare che il rapporto tra il carcere e
l’informazione risenta, come accade in tanti altri settori, dei guasti che
pure esistono nei rapporti tra l’informazione e la politica, in particolare la
politica della giustizia. In
fondo il carcere è l’ultimo aspetto del problema giustizia, l’ultimo in
ordine di tempo quando arriva la condanna definitiva, ma a volte anche il primo
per chi entra in custodia cautelare e magari non c’è abituato. In ogni caso
è un aspetto importante del problema giustizia. Ma se ci pensate, anche il
problema giustizia non viene affrontato dalla politica per quello che è. per le
questioni che dovrebbero essere risolte, a cominciare da quelle strutturali; la
giustizia è essenzialmente un terreno di scontro politico, soprattutto negli
ultimi 15-20 anni, che prescinde completamente dai suoi problemi reali. Si
discute, si litiga e non si fa niente, spesso neppure su piccole questioni. E la
narrazione dello scontro politico sulla giustizia all’opinione pubblica fatto
attraverso i mass-media risente di questa impostazione che racconta quel che
accade nell’ottica della polemica e dello scontro, non per quello che sono le
vere questioni da affrontare e che rimangono insolute. Anche
il carcere risente di questa impostazione, e che cosa succede? Succede, ad
esempio, che l’ultimo indulto che hanno fatto (tra l’altro slegato
dall’amnistia, che è una cosa abbastanza assurda e mai successa prima)
l’hanno dovuto fare portando il tetto a tre anni, che è molto alto, altra
anomalia rispetto al passato. Perché? Perché c’era un detenuto
particolarmente “eccellente” appena condannato a sei anni di galera, e con i
tre anni di indulto è potuto entrare ed uscire dal carcere nel giro di due
giorni: se non si faceva un indulto di quelle dimensioni il partito del detenuto
eccellente non l’avrebbe votato e quindi non si sarebbe fatto. Dopodiché le
polemiche si sono concentrate sul fatto che grazie all’indulto uscivano dei
delinquenti, nell’ottica della sicurezza violata degli “altri”, ma senza
ragionare sul motivo per cui era stato varato con un limite così elevato. Per
non parlare dell’amnistia, considerata quasi una parolaccia: se vi capita di
assistere a uno di quei salotti televisivi, organizzati solitamente a tarda
sera, in cui si discute di giustizia, vedrete che appena qualcuno prova a
pronunciare la parola amnistia, tutti gli altri inorridiscono. Perché? Perché
si ha immediatamente la percezione che se c’è l’amnistia poi siamo tutti più
insicuri, così come per l’indulto tutti gridarono allo scandalo perché
sarebbero usciti chissà quanti delinquenti (senza tenere conto che si trattava
di detenuti che in ogni caso prima o poi sarebbero usciti), pronti a commettere
nuovi reati. Naturalmente non è successo niente del genere, ma spiegare questo
non fa parte dell’informazione per come è congegnata intono al “pianeta
carcere”. In
molte situazioni e nonostante la sua drammatica realtà, inoltre, il carcere
viene addirittura invocato: se ci fate caso, di fronte a problemi di macro o
micro criminalità, la soluzione maggiormente suggerita qual è? Più carcere.
Si sono fatte leggi per rendere obbligatoria la custodia cautelare in carcere,
com’è successo con il sospetto stupro, o anche per gli incidenti stradali.
Ogni tanto salta fuori qualcuno che propone il carcere obbligatorio per chi
investe uno con la macchina, che è un modo, naturalmente populista, per
guadagnare consenso nella società delle persone cosiddette “perbene”, che
si sente tranquilla se ci sono celle abbastanza grandi da contenere quelli che
commettono reati, o si presume che li abbiano commessi o li possano commettere.
Poi magari chi propone questa soluzione (è successo nel caso del sospetto
stupro) s’indigna perché dice che “ci vuole la certezza della pena!”, pur
sapendo – o forse non sapendolo, il che è più grave giacché si trattava di
un parlamentare – che la pena nulla c’entra quando si parla di custodia
cautelare. Ecco,
l’informazione purtroppo risente di tutte queste situazioni, e quindi finisce
per occuparsi (e neanche tanto) di quei due o tre problemi che rendono il
carcere insicuro per chi sta fuori, non deleterio per chi sta dentro, ché
questo non interessa. C’è
stato un episodio che un po’ ha riacceso però qualche speranza, forse,
affinché la situazione possa cambiare. Un episodio che ha avuto a che fare con
il sistema carcerario, e mi riferisco alla vicenda di Stefano Cucchi, che tutti
conoscete. In quel caso, che però è stato molto particolare e molto doloroso,
una famiglia colpita da un episodio di morte inspiegata avvenuta all’interno
di una struttura detentiva, è riuscita a scalfire l’indifferenza generale
attraverso l’informazione. Una famiglia che una volta si sarebbe detta
“piccolo borghese”, tranquilla, di quelle che tengono il tappetino fuori
dalla porta di casa con su scritto “Buongiorno”, che mai avrebbe immaginato
di doversi confrontare con la realtà del carcere e invece s’è ritrovata
improvvisamente colpita da una tragedia capitata in questo ristretto universo.
Ed ha avuto il coraggio e la forza di coinvolgere i mezzi di informazione su
questa vicenda. In
quel caso l’informazione ha avuto un merito, perché ha acceso i riflettori.
Io credo che se non ci fosse stato l’interesse che hanno mostrato i giornali e
le tv in quella circostanza, difficilmente si sarebbe arrivati a un processo in
tempi tutto sommato rapidi. Poi si vedrà come andrà il processo, come è stato
“costruito”, l’esito delle divisioni e dello scontro in corso tra la
pubblica accusa e la parte civile: quello è un altro tipo di problema. Però
senza l’interessamento dei mass-media, molto probabilmente Stefano Cucchi
sarebbe rimasto uno dei tanti morti in carcere coperti dal silenzio. Certo
non si può pensare di trovare sempre una famiglia coraggiosa. E sarebbe bello
vivere in un mondo dove non fosse necessario diffondere le foto del cadavere
martoriato del proprio figlio per ottenere un minimo di informazione un po’ più
corretta del solito. Però succede. E allora? Allora,
come per i Paesi in via di sviluppo (per tornare al parallelismo di prima) la
globalizzazione e quello che ha comportato è servita in qualche maniera a
riscattarli, e adesso almeno alcuni di essi stanno avendo un ruolo diverso negli
equilibri economici mondiali, forse i meccanismi innescati da quella stessa
globalizzazione possono avere effetti positivi sull’informazione rispetto a
questioni solitamente poco trattate o bistrattate, come il carcere. Pur con i
tanti e gravi problemi che la diffusione di Internet temo comporti per
l’informazione. Oggi
l’informazione non è più confinata ai giornali, ai telegiornali o i giornali
radio. Purtroppo, penso io, per certi versi; ma per fortuna, per altri.
Attraverso internet si sono aperti moltissimi spazi, e può essere che questi
nuovi canali di comunicazione contribuiscano a far sì che l’informazione sul
carcere non si limiti a quei due o tre problemi che fanno sentire più sicuri
quelli che stanno fuori, ma si cominci a parlare delle reali condizioni, dei
reali problemi di chi sta dentro. Piaccia
o non piaccia, un problema esiste per la collettività solo nella misura in cui
riesce a catalizzare l’attenzione, o perché diventa un problema politico (ma
abbiamo visto che da quel punto di vista si rischia quasi di complicare di più
le cose). E questo accade se c’è un fatto che riesca ad essere
“appetibile” (pessima espressione, diciamo “particolarmente
interessante”) per i mezzi di comunicazione; se dentro c’è una novità, un
particolare che accenda l’interesse anche su un singolo caso come è successo
per la drammatica vicenda di Stefano Cucchi, grazie alla determinazione e alle
scelte scioccanti compiute dalla famiglia. Questa
è la situazione, per quello che appare a me. Speriamo che possa cambiare anche
grazie all’esperienza di Ristretti Orizzonti, che dovrebbe essere una lettura
quasi obbligatoria all’interno dei giornali e dei mezzi di comunicazione per
provare a capire che cosa avviene dietro le sbarre. Invece normalmente vi si
ricorre solo quando si riacutizza il problema del sovraffollamento, oppure per
verificare quanti suicidi ci sono stati fino a una certa data, magari perché se
n’è appena verificato uno che riesce a conquistare le pagine di cronaca. Io
non so se ci sia davvero qualche speranza di modificare meccanismi e
comportamenti, ma se c’è, magari è possibile realizzarla anche attraverso
strumenti di questo tipo.
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registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione
in A.P. art.
2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova [1]
Anastasia S., Corleone F., Zevi
L. (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena, Ediesse, Roma, 2011. [2]
Canepa M., Merlo S., Manuale
di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2010. [3]
In particolare l’art. 1 della legge 354/75 cita il fatto che il
trattamento rieducativo debba tendere anche attraverso i contatti con
l’ambiente esterno al reinserimento sociale. A questa affermazione fanno
da corollario tutta un’altra serie di articoli che, nella stessa legge,
prevedono l’ingresso in carcere di entità esterne sia pubbliche, quali ad
esempio quelle che si occupano di formazione scolastica e professionale, che
privata quali, ad esempio, imprenditori o volontari. [4]
Sull’argomento si sono
diffusi molti Autori se ne possono trovare cenni nel citato testo di
Anastasia, Corleone e Zevi ma anche su Zimbardo P., L’effetto Lucifero:
cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano, 2008, che cita, tra gli
altri, studi di Bandura e Milgram. [5]
Camus A., Lo straniero,
Bompiani, Milano, 2001. [6]
Sul tema si consiglia di approfondire Tutu D., Non c’è futuro senza
perdono, Feltrinelli, Milano, 2001 e, da ultimo, Colombo G., Il
perdono responsabile, Ponte alle Grazie, Milano, 2011. [7]
Mathiessen T., Perché il
Carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987. [8]
Galimberti U., Parole nomadi,
Feltrinelli, Milano, 2006 [9]
Buffa P., Amministrare la
sofferenza: logiche, dinamiche ed effetti dell’organizzazione
penitenziaria, tesi di dottorato in Diritto, Facoltà di Giurisprudenza
di Torino, 2010.
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