Capitolo terzo
I
“buoni cittadini” e la pretesa di “assomigliare” alle vittime
Usare
le vittime per giustificare la propria “cattiveria sociale”: è quello che
succede spesso ai ragazzi, ma anche agli adulti, che non riescono ad accettare
l’idea che possa capitare a ognuno di noi di essere fratelli, genitori, figli
di potenziali “carnefici”. La scelta più comoda è sempre quella di essere
intransigenti con gli autori di reato “in nome delle vittime”.
Se
si vuole “spiazzare” chi si fa scudo delle vittime per pensare a pene sempre
più dure e a diritti sempre più compressi per i detenuti, c’è una sola
ricetta, dialogare davvero con le vittime, e imparare ad ascoltarle. L’ASCOLTO
è il primo esercizio di vera e autentica prevenzione: prevenzione dell’odio,
ma anche prevenzione dei reati, perché i reati nascono prima di tutto per non
aver saputo riconoscere il valore dell’altro, non aver saputo ascoltare le sue
parole.
La
lezione di Desmond Tutu vale in fondo per tutti, per le vittime, per gli autori
di reati, per i cittadini che dovrebbero imparare a capire l’importanza di
ascoltare gli uni e gli altri: “Per quanto possa essere un’esperienza
dolorosa, non possiamo permettere che le ferite del passato arrivino a
suppurazione. Devono essere aperte. Devono essere pulite. Devono essere spalmate
di balsamo perché possano guarire. Questo non significa essere ossessionati dal
passato. Significa preoccuparsi che il passato sia affrontato in modo adeguato
per il bene del futuro.”
Ma
perché perdi il tuo tempo per andare in carcere, proprio tu che sei una
vittima?
di
Silvia Giralucci
Io
sono una volontaria della redazione di Ristretti Orizzonti, ho iniziato questa
mia esperienza tre anni fa, partecipando a un convegno come questo dedicato al
confronto tra le vittime e gli autori di reati. Si è parlato oggi
dell’ascolto, credo che per me, che ho perso mio padre, ucciso dalle Brigate
Rosse quando avevo tre anni, proprio l’ascolto sia stato molto importante per
uscire da una condizione di blocco in cui ero prima. Ho trovato in questa
platea, e poi ancora di più in redazione un ascolto attento e una condivisione
di una esperienza difficile, che al bar, tra amici o in una serata a cena non è
così facile poter condividere.
Da
quella esperienza è nata anche una riflessione su come la società utilizza
spesso noi vittime come una chiave per giustificare delle politiche penali
repressive. Come dire: siccome siamo tutti, potenzialmente, vittime, dobbiamo
sentirci vittime e quindi abbiamo diritto di chiedere vendetta, di chiedere
delle pene dure, inflessibili.
Nel
contatto con i detenuti io personalmente ho scoperto, anche come vittima, che
per tutti è più conveniente che le persone escano dal carcere diverse da come
ci sono entrate. Altrimenti sarebbe come fare un debito e ritrovarcelo dieci
anni dopo con gli interessi, senza aver pagato nulla. Da vittima spesso mi
chiedono: perché perdi il tuo tempo per andare in carcere, proprio tu? Ma perché
da cittadina sono convinta che abbia un senso.
Abbiamo
con noi oggi altre due persone che hanno avuto in qualche modo una esperienza
vicina alla mia, quella di perdere un genitore in tenerissima età e, diventati
adulti, non chiedono vendetta. Alfredo Bazoli ha perso la mamma nella strage di
piazza della Loggia a Brescia e Marco Alessandrini è il figlio del giudice
Emilio Alessandrini, ucciso da Prima Linea. A Marco Alessandrini vorrei chiedere
se ha riflettuto se la pena degli assassini di suo padre ha potuto risarcirlo in
qualche modo.
Non
voglio avere l’anima corrosa
E
l’odio, invece, è una cosa che ti mangia dentro, che ti corrode l’anima
di
Marco Alessandrini,
figlio del giudice Emilio Alessandrini,
assassinato
32 anni fa da Prima Linea
Desidero
prima di tutto ringraziare coloro che hanno pensato a me per dialogare con un
pubblico così vasto in una giornata come questa, una giornata, per me,
particolare. Ovviamente il ringraziamento è anche ai presenti e una notazione
subito sorge spontanea, perché questa giornata è particolare in quanto siamo
in un luogo particolare. Siamo in un carcere, le carceri sono luoghi terribili
di sofferenza, e siamo a discutere di pena, del valore della pena, della finalità
del carcere.
Io
metto subito in chiaro come vedo le cose, perché noi parenti delle vittime
siamo una categoria piuttosto frastagliata, in cui vi sono, come ovvio,
sensibilità diverse. E io parlo dopo aver fatto una lunga strada, avendo perso
mio padre quando avevo 8 anni, adesso ne ho 40, e quindi in questi tre decenni e
più ho avuto, in qualche misura, modo di svolgere quella cosa che si chiama
“elaborazione del lutto” sostanzialmente.
Io
sono giunto a questa idea, che l’odio è una cosa che ti mangia dentro, che ti
corrode l’anima. E io, francamente, non voglio avere l’anima corrosa, io
voglio guardare avanti, senza mai dimenticare quello che è successo volgendomi
indietro, perché penso che l’attualità del terrorismo, che è tornata
prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica, qualcuno ricorderà i
manifesti di Milano di qualche settimana fa, “Fuori le BR dalle Procure”, la
lezione del terrorismo è quella di non dimenticare un periodo che ha causato
una sorta di guerra civile nel nostro paese. 500 i morti ammazzati, 26 i
magistrati, tra mafia e terrorismo, caduti. Una cifra che non ha pari in
occidente. È anche un dramma della nostra nazione per affrontare e
metabolizzare il quale è stato svolto un lungo cammino, su cui magari tornerò
dopo. Io sostanzialmente penso questo, penso che chi paga il proprio conto con
lo stato e con le leggi dello stato, in cui io credo, è certamente libero, per
le leggi dello stato. Però, non esiste solo la legge, esiste anche, in qualche
misura, l’etica. Io penso che vi siano delle responsabilità che residuano a
prescindere dalla pena, perché gli effetti di certi gesti criminali continuano
e continueranno sempre. Questi effetti continuano e continueranno a vedersi
nelle persone che sono sopravvissute, come me, come mia madre, come la madre di
Silvia Giralucci. E in qualche modo, io parlo a titolo personale, si sentono
ogni giorno.
Da
tre anni a questa parte il 9 maggio si celebra, a Roma al Quirinale, una
giornata molto importante, Giornata nazionale della memoria per le vittime del
terrorismo. Quest’anno la cerimonia è stata per me particolarmente toccante,
soprattutto perché le premesse, quella storia dei manifesti di Milano, hanno
indotto il Presidente Napolitano a dedicare specificatamente questa
manifestazione alla memoria dei magistrati uccisi. A parte questo, il carico di
patos era evidente, io sono rimasto molto colpito dal sentire i racconti di tre
figli di poliziotti morti, e purtroppo anche un po’ dimenticati, di quella
stagione orribile. E sentire questi ragazzi, più o meno miei coetanei, dire le
stesse cose che io ho sempre sentito, in qualche modo ho pensato, cioè l’idea
che certi vuoti non si cicatrizzano. È una cosa che mi ha fatto riflettere, mi
ha fatto pensare ad una riflessione che facevo con Silvia Giralucci che ho
conosciuto ieri, per la quale provo un sentimento in qualche modo fraterno,
perché credo che episodi luttuosi come quelli che noi, a vario titolo, abbiamo
vissuto siano una specie di collante che ti lega nel resto della vita.
In
qualche modo questi trent’anni che io ho attraversato mi inducono a questa
riflessione: trent’anni sono un periodo di tempo sufficientemente lungo per
cui non si guarda più al terrorismo come ad una emergenza strettamente
giudiziaria, perché noi abbiamo superato quella fase, e quindi dobbiamo
guardare al terrorismo come ad un fatto storico che ha insanguinato l’Italia.
E penso che valga la pena raccontare quella stagione attraverso, anche, la
testimonianza di chi in qualche modo l’ha vissuta sulla propria pelle, per
evitare che quanto accaduto in Italia negli anni 70 si ripeta.
Ma
anche per questa riflessione che io in qualche modo vi consegno, se così posso
dire, che senso ha la memoria? Per molto tempo questa memoria è stata una
categoria piuttosto intimista, non so come spiegarmi, voglio dire che le
istituzioni, che non sono palazzi di marmo, ma sono palazzi abitati da persone
con sensibilità diverse, sono state piuttosto distanti. Poi le cose cambiano e
vi è oggi una attenzione crescente verso queste tematiche, cambia anche il modo
di raccontarle, perché adesso ci sono io dinnanzi a questa sterminata platea,
veramente sono davvero colpito. In passato accadeva che nelle università,
magari anche altrove, a raccontare quella stagione, in televisione in
particolare, certamente fossero coloro i quali quella violenza l’avevano
portata. Quindi la riflessione è questa: la memoria io penso che non possa e
non debba essere una peculiarità mia, di Alfredo Bazoli, di Silvia Giralucci,
dei parenti delle vittime. Questa categoria poi, dei parenti delle vittime devo
dire che l’ho sempre detestata, però le esigenze di catalogazione impongono
sintesi. Ma penso che la memoria debba essere un valore condiviso da tutti,
perché è una base su cui si è fondata tutta la democrazia in questo Paese. E
in questa democrazia, citavo i numeri prima di 500 morti, sono state assassinate
tantissime persone, e penso che tutto questo non si debba dimenticare. Ma
l’odio non aiuta a vivere, a me, certamente, non restituirà mio padre, che
comunque io mi porterò sempre dentro come tutte le persone che lo hanno
conosciuto e che mi danno, in qualche modo, testimonianze crescenti di affetto.
Ricordiamo sempre, però, che queste vittime sono delle persone, delle persone
con le loro storie, con le loro sensibilità.
È
difficile fare i conti col proprio dolore senza avere avuto giustizia
di
Silvia Giralucci
In
un seminario di formazione per giornalisti che abbiamo fatto qualche mese fa qui
in carcere il criminologo Carlo Riccardi, che si occupa di mediazione penale, ha
fatto una notazione che per me è stata illuminante. Esiste un patto di
cittadinanza per cui ciascuno di noi, quando esce di casa il mattino, si aspetta
di ritornare così come è entrato, incolume, e che nessuno lo aggredirà. Una
vittima è una persona per la quale questo patto è stato violato e che deve, in
qualche modo, ritrovare una fiducia nella società, nella cittadinanza, e dare
una risposta alla domanda: perché io? Perché è successo proprio a me?
Io
mi ci sono ritrovata, in questa domanda, ma penso anche che ci sia qualcuno che
ci si ritrova più di me. Sappiamo bene che le stragi in Italia, oltre ad avere
colpito nel mucchio, alla rinfusa, non hanno neppure un colpevole, eccetto che
per quella del 2 agosto alla stazione di Bologna.
Immagino
che sia ancora più difficile fare i conti col proprio dolore senza avere avuto
giustizia, e non trasformare questo dolore in odio. Non solo per chi ti ha
colpito, ma anche per lo Stato che non ha saputo trovare i responsabili del tuo
dramma.
Volevo
allora chiedere ad Alfredo Bazoli, che ha perso la madre nella strage di Piazza
della Loggia a Brescia, come è stata la sua esperienza e quando “se ne
esce”.
Di
giustizia ha necessità soprattutto la società italiana
Perché
una società, un Paese che non è in grado di assicurare giustizia su episodi di
violenza politica
che
hanno colpito al cuore la democrazia, è un Paese che ha dei buchi neri che
minano le fondamenta di quella stessa democrazia
di
Alfredo Bazoli,
a Piazza della Loggia a Brescia, nel 1974,
ha
perso la mamma, dilaniata con altre sette persone da una bomba
in
una strage ancora “senza colpevoli”
Sono
abbastanza emozionato davanti a questa platea così vasta e mi fa molto piacere
che un’iniziativa come questa abbia questa grande risposta da parte della città
di Padova.
Credo
che sia opportuno prima di tutto dire qualche cosa della mia vicenda personale,
cioè spiegare perché sono qui. Io sono qui perché ormai 37 anni fa, il 28
maggio del 1974, è successo qualcosa durante una manifestazione nella mia città,
Brescia, una manifestazione che era stata organizzata dai partiti antifascisti,
quindi da tutti i partiti dell’arco costituzionale di allora, per protestare
contro la violenza politica che si respirava allora in città. La nostra città
era stata colpita da attentati a sedi sindacali, sedi di partiti, supermercati,
e quindi era un momento di grande tensione in città. Qualche giorno prima del
28 maggio un ragazzino, di notte, in una piazza centralissima della città, era
saltato per aria sulla sua Vespa mentre trasportava un ordigno. Questa fu la
goccia che fece traboccare il vaso e indusse il 28 maggio a indire una
manifestazione, con la quale la città voleva rivendicare la necessità di una
convivenza civile pacifica contro ogni tentazione e ogni rischio di violenza. E
quella mattina, quindi, tutta la città si fermò per partecipare a quella
manifestazione. E così fece anche mia madre, che insegnava francese al liceo
classico di Brescia, ed era anche sindacalista della scuola, quindi partecipava
alla vita civile della nostra città. Era anche una mamma di tre bambini, mia
sorella aveva otto anni e mezzo, mio fratello ne aveva sei, io ne avevo quattro
e mezzo. Quindi lei decise di partecipare, ovviamente com’era nella sua
indole, a questa manifestazione e si trovava alle 10.12 di quella mattina in
piazza della Loggia, la piazza del nostro municipio, in quella piazza dove
qualcuno tra le 7 e le 8, in un cestino, aveva piazzato un ordigno che sarebbe
esploso alle 10 e 12 minuti. Mia mamma ebbe però la “ventura”, io dico così,
cioè il caso volle che lei fosse lì vicino a quel cestino dove la bomba era
stata collocata, in quel momento, in quell’istante in cui qualcuno aveva
deciso che quell’ordigno sarebbe esploso. E quindi lei fu investita, insieme
ad altre, a tante altre persone, dall’onda d’urto di quella esplosione e morì
sul colpo sulle pietre di quella piazza, della piazza centrale della nostra città,
la piazza del nostro municipio, la piazza dell’agorà, della democrazia.
Questo
è quello che accadde quella mattina a mia madre e questo è quello che accadde
alla nostra famiglia. Noi bambini piccoli perdemmo la nostra mamma, e perdemmo
anche il suo ricordo, perché chi ha avuto la sfortuna di perdere un genitore in
età molto piccola non è più neanche in grado di conservare i suoi ricordi.
Questo è quello che accadde a noi quella mattina, a noi figli, e questa credo
che sia una esperienza che in qualche modo accomuna chi ha avuto una sorte
analoga alla mia. Ed è per questo che Marco Alessandrini diceva una cosa che io
condivido, cioè che tra noi famigliari che abbiamo avuto questa esperienza c’è
una certa empatia, una inevitabile empatia perché condividiamo lo stesso
percorso di vita, e mi è parso di capire che sostanzialmente condividiamo anche
gli stessi sentimenti, lo stesso modo di affrontare quello che è successo. E
quindi questo crea un legame che è quasi immediato anche laddove non ci si
conosca personalmente, ma leggendo e ascoltando c’è una effettiva
condivisione di un sentimento che riguarda la nostra esperienza di vita.
Ora,
quando mi domandano se c’è una necessità di giustizia che riguarda
soprattutto noi famigliari, a me la risposta che vien sempre da dare è una
risposta che può suonare abbastanza paradossale. Certo la giustizia noi ancora
non l’abbiamo avuta, dal momento che sulla strage di piazza della Loggia
ancora non c’è una sentenza definitiva di condanna, ci sono stati cinque
percorsi processuali e cinque assoluzioni. E quindi non ci sono colpevoli, ma
c’è una verità storica, questo sì, questo bisogna sempre ripeterlo, bisogna
dirlo a chiare lettere perché, purtroppo, la mancanza di verità processuale
determina anche strumentalità e strumentalizzazione sulla vicenda storica, che
a me danno molto fastidio. La verità storica c’è, però non c’è la verità
processuale. Allora, la giustizia è una cosa che riguarda noi famigliari o
riguarda la società italiana? Io rispondo sempre che a me personalmente non
cambia nulla, perché nessuno mi potrà restituire mia madre, nessuno. Nessuna
condanna, non c’è proporzione tra la condanna alla galera dei responsabili e
il fatto che io ho perso mia madre, lo capite no? Non c’è alcuna proporzione,
io non vedo rapporto tra le due cose.
La
giustizia, dal mio punto di vista, che può essere un punto di vista molto
personale, me ne rendo conto, è una cosa di cui ha necessità soprattutto la
società italiana, soprattutto la democrazia italiana, e soprattutto per episodi
come quelli che hanno visto me involontario protagonista, episodi di violenza
politica come le stragi. È per questo che c’è bisogno di giustizia e c’è
bisogno di verità processuale, non solo di verità storica. Perché una società,
un Paese che non è in grado di assicurare giustizia su episodi di violenza
politica che hanno colpito al cuore la democrazia, è un Paese che ha dei buchi
neri che minano le fondamenta di quella democrazia. Questo è il vero punto e la
vera questione che riguarda la giustizia. Non riguarda noi famigliari delle
vittime, non riguarda noi, perché la nostra sofferenza privata è una
sofferenza che non verrà, in alcun modo, scalfita o minimamente sanata dalla
carcerazione dei colpevoli. Io la penso così, e sono sicuro che anche il giorno
che io sapessi chi è stato materialmente che ha messo nel cestino dei rifiuti
la bomba, se è ancora in vita, perché 37 anni dopo chi lo sa?, anche il giorno
che lo sapessi non mi cambierebbe nulla. Abbinerei semplicemente un volto alla
figura che oggi mi appare come un punto interrogativo. Ma dal mio punto di vista
non mi cambierebbe nulla. È questo, secondo me, un po’ il tema al quale
bisogna guardare quando si parla di necessità di giustizia. La giustizia
riguarda soprattutto voi, riguarda soprattutto noi, noi intesi come intera
società civile, non noi semplicemente famigliari delle vittime. Questo,
ovviamente, soprattutto per episodi come quello che mi riguarda, episodi di
violenza politica, quindi episodi che hanno tentato di sovvertire
l’ordinamento democratico del Paese.
Poi
c’è un altro elemento che io volevo sottolineare, e che riguarda il mio
rapporto con chi allora, prima e dopo, fu dall’altra parte della barricata,
cioè il mio rapporto con i terroristi, con chi decise di scegliere la lotta
armata. E qui il discorso è un po’ diverso, perché io provo un grande
fastidio, che a volte sconfina nella rabbia, quando sento parlare ex terroristi,
i quali sono trattati un po’ come una sorta di maitre à penser, come persone
che hanno partecipato come protagonisti alla vicenda storica del nostro Paese e
che oggi hanno qualcosa da dirci, da insegnarci. Questo a me dà molto, molto
fastidio, intanto perché io trovo sempre, nei toni che vengono utilizzati da
queste persone, un atteggiamento e una tentazione autoassolutoria. Cioè, io ho
sempre l’impressione che nelle vicende che vengono narrate da loro tentino
sempre di edulcorare le loro responsabilità, cerchino di giustificarsi, di
giustificarsi rispetto alle loro scelte, di giustificare le loro scelte, di dire
”Insomma, noi volevamo una società migliore, alla fine, certo abbiamo
sbagliato, però volevamo una società migliore”. A me questo dà molto
fastidio, perché chi allora abbracciò la lotta armata, lo fece sbagliando, e
la stragrande maggioranza dei cittadini di questo Paese non abbracciò la lotta
armata. Chi voleva migliorare e fare evolvere positivamente la nostra
democrazia, nella stragrande maggioranza dei casi lo fece democraticamente,
sapendo che la democrazia è un processo faticoso, difficile, perché si tratta
di convincere gli altri, si tratta di confrontarsi con gli altri. E questo è
faticoso ed è difficile, tanto più facile è considerare le proprie idee come
totem intoccabili, e in forza di quelle decidere che chi non la pensa come noi
è un simbolo da abbattere. È tanto più facile, ma chi allora fece questa
scelta, fece una scelta sbagliata sotto ogni profilo, e a me non va che vengano
oggi a giustificarsi e autoassolversi. Perché tra loro, tra coloro che scelsero
questa scorciatoia abbattendo le persone come simboli, e mia madre, o il papà
di Marco Alessandrini, che cercavano di far crescere le democrazia, faticando,
nella propria professione, facendo i genitori, cercando di mettere il loro
piccolo mattoncino nella costruzione ed evoluzione della democrazia, tra loro e
i nostri genitori c’è un abisso di etica civile. Io non voglio che questi
vengano a insegnarci e a farci la morale, questa è una cosa che mi dà molto
fastidio. E vorrei che la biografia di questo Paese, sulla quale si costruisce
la spina dorsale della nostra democrazia, fosse quella dei nostri genitori e non
quella dei carnefici.
I
“mostri del quotidiano”
Quali
sono i percorsi che costruiscono queste personalità, capaci di vivere
normalmente fino al punto in cui rompono la normalità del comportamento per
compiere dei delitti?
di
Gianfranco Bettin
sociologo, autore di romanzi e saggi, tra i quali
“Eredi.
Da Pietro Maso a Erika e Omar” e Gorgo. In fondo alla paura”
La
categoria della “normalità del crimine” o dei “mostri del quotidiano”,
nella discussione più recente è stata introdotta per commentare episodi che
hanno per protagonisti persone, spesso, purtroppo, anche giovani, incensurate,
che non hanno, o fino a quel momento non avevano dato prova di particolare
efferatezza e neanche di nessuna attitudine deviante. E che diventano
protagonisti di episodi clamorosi, forse il caso più famoso dell’ultima
ventina d’anni è quello di Pietro Maso, che, a proposito dell’insistenza o
dell’accanimento della cronaca su casi che tornano sempre fuori come se non
fossero mai conclusi, recentemente ha avuto la ventura di commettere una piccola
infrazione durante un periodo di semilibertà. La primissima dopo tantissimi
anni di condotta esemplare in carcere, ed è stato sbattuto un’altra volta in
prima pagina per una semplicissima e banalissima infrazione. Il suo caso è
quello intorno al quale si è cominciato a discutere di persone che, avendo un
comportamento molto normale, a un certo punto commettono fatti pesantissimi,
gravissimi, nel caso suo, tra virgolette o senza, “mostruosi”, aberranti. E
questo ha ispirato dei ragionamenti attorno a questi casi, ha motivato dei
ragionamenti su quali sono i percorsi che costruiscono questi eventi, e che
costruiscono queste personalità, capaci di vivere normalmente fino al punto in
cui rompono la normalità del comportamento per compiere quei delitti.
È,
ovviamente, un tema molto importante perché ragioniamo di cose che sono più
frequenti di quanto non si creda, per fortuna rare nella forma del grande
crimine, ma, nella forma di episodi che avvicinano tragedie, magari non le
producono fino in fondo, ma comunque producono ferite, producono reati,
producono dolore, producono sofferenza, sono più frequenti. Io però vorrei
anche ragionare su un altro aspetto della “normalità del male”, perché è
molto più collegato di quanto non si creda a questi eventi. Noi viviamo in una
normalità che è permeata di criminalità. Non nel senso che abbiamo visto
rappresentato prima, benissimo, nell’analisi dell’osservatorio di Pavia, ma
proprio nel senso che, come esiste una normalità che produce dei crimini,
esiste una realtà criminale che produce una specifica normalità che abbiamo
intorno. Occorre mettere in fila alcune di queste situazioni, quella più ovvia,
diciamo, l’evasione fiscale. L’altro giorno un’analisi ufficiale ha messo
la nostra regione al primo posto in Italia per reddito sottratto al fisco. La
corruzione nella pubblica amministrazione e nella politica. I crimini
ambientali, piccoli e grandi. Prima si ricordava il picco di attenzione
riservato nel novembre 2010 all’ambiente, legato al disastro idrogeologico
che, in particolare, nella nostra regione si è prodotto. Disastro a chilometro
zero, cioè autoprodotto, prodotto localmente, spesso anche per via legale, con
azioni legittime, piani regolatori irresponsabili e così via. L’attività di
riciclaggio nell’economia, i soldi sporchi che finiscono nell’economia e
sostengono interi settori della nostra attività economica.
In
questo momento un forte impulso nell’attività del turismo nell’alto
Adriatico è dato dagli investimenti di camorra e n’drangheta, soprattutto,
che stanno costruendo, rilevando attività economiche, rilanciandole alla
grande. Un fenomeno di cui mi sto occupando in questo periodo, a partire
dall’espansione del mercato della droga, soprattutto nelle zone tra Padova,
Venezia e Treviso, ad opera non solo dei soliti “imprenditori”, del solito
mondo, ma con un ruolo molto importante, un ruolo crescente, degli incensurati.
Non tanto dell’occasionale coinvolto o del giovane ragazzo che non ha
precedenti e che comincia a diventare dipendente e quindi viene sfruttato. No.
Proprio di incensurati, spesso molto giovani, che decidono di farlo “come
secondo lavoro”, senza precedenti, senza particolari attitudini criminali,
senza essere dipendenti, e che sono, oggi, il principale veicolo di espansione
di questo mercato, e di conquista di nuovi clienti di questo mercato presso un
pubblico soprattutto di giovani e di giovanissimi, che altrimenti difficilmente
verrebbe conquistato. Perché, magari, avrebbero repulsione della figura storica
del tossicodipendente o magari sarebbero intimoriti dalla figura di un notorio
malavitoso.
Questa
realtà, che ha a che fare in particolare con quelli che potremo individuare,
come giovani, giovanissimi, “normali”, non solo incensurati formalmente, ma
nel senso sostanziale del termine, è oggi uno dei principali veicoli di
espansione del nuovo mercato della droga, in particolare del rilancio
dell’eroina, ma non solo. È totalmente all’interno di circuiti, di
percorsi, della nostra normalità.
Una
normalità “guasta”
Devo
poi ricordare, anche se noto, che per quanto riguarda le violenze di ogni genere
la famiglia è il nucleo principale, maggiormente produttivo, in particolare nei
confronti delle donne e dei minori. Qualche anno fa, provocatoriamente, una
ricerca venne intitolata, “Ne uccide più la famiglia che la mafia”. Una
forzatura un po’ provocatoria, ma che rende l’idea della dimensione anche
quantitativa del fenomeno, non solo di quella qualitativa, ma quantitativa, che
motiva la necessità di un ragionamento sulla normalità innestata, innervata,
da comportamenti criminali, violenti o meni violenti, ma comunque di quella
natura, che produce un terreno guasto, una normalità “guasta”. Come è
guasta una democrazia che non punisce i colpevoli delle stragi più efferate,
delle stragi che hanno colpito al cuore la tenuta stessa delle nostre
istituzioni, ma l’aria, il clima politico. Io ho testimoniato al processo per
la strage di piazza della Loggia e ho ben presente in quell’aula, perché ho
lavorato sui fascisti mestrini e padovani, che sono una componente molto
importante dello stragismo italiano, ho ben presente quanta attesa ci fosse di
verità, anche di quella verità processuale. La verità storica è ben
acquisita, su piazza Fontana, su Brescia, le sentenze che mandano assolti quegli
imputati riconoscono storicamente che cosa è successo quasi al dettaglio. Ma
trovare i nomi e le facce è vero che non cambia nulla alla persona, però
dimostrare che si può fare giustizia, non vendetta, ma giustizia è
fondamentale, significa guarire un guasto che c’è nel tessuto democratico di
questo Paese. Esattamente come un Paese che tollera in settori fondamentali
della propria vita la costanza, il perdurare di certi atteggiamenti criminali,
violenti, senza andare fino in fondo, senza spendere neanche un decimo
dell’attenzione che riserva a “mostri” che fa comodo dipingere così e
utilizzare politicamente e culturalmente, è un Paese in pericolo, messo in
pericolo da se stesso, perché chiudere gli occhi sui luoghi di rischio, sui
principali luoghi di rischio, in cui tutti i giorni si corrono dei rischi,
significa anche disarmarci di fronte a questi pericoli.
Questa
è la grave colpa di un modo di informare, di un modo di raccontare e,
ovviamente, di un modo di depistare, di occultare, là dove questo è possibile
anche operativamente farlo, ma qui ci soffermiamo sull’informare, sul
raccontare, è veramente una colpa pesantissima, contro la quale incontri come
questo sono ovviamente aria pulita, aria fresca.
Ma
naturalmente occorre dare continuità a questa istanza che è di verità, di
pulizia dell’informazione e di illuminazione mirata dei luoghi reali in cui si
nasconde nella nostra normalità il peggio, il più dei rischi che
quotidianamente corriamo, come Paese, come società, come democrazia, ma spesso
anche come singoli, per l’appunto.
La
domanda, mi pare, la ricordava Silvia Giralucci, “perché io, perché proprio
a me?”: il patto che io stipulo quando la mattina alzandomi sono sicuro che
alla sera tornerò, e una volta che venga violato quel patto io verrò segnato
per sempre. Questo patto è continuamente violato nella normalità, ma non nel
fatto che tutti, più o meno, abbiamo corso il rischio di essere scippati o cose
di questo tipo. Nel fatto che tutti corriamo il rischio in attività normali di
imbatterci nella presenza del male, del crimine, dell’illegalità, dei soldi
sporchi, che magari però alimentano l’attività economica che mi dà da
lavorare, nella facilità di eludere o evadere totalmente i miei doveri nei
confronti del fisco, quindi nei confronti degli altri, quindi nei miei stessi
confronti, e così via. Nella tentazione costante riprodotta in
microcomportamenti che poi gradualmente producono un atteggiamento diffuso,
rompono gli argini di una convivenza e di un corretto rapporto reciproco. Questo
è il nodo attorno a cui ruota il crimine della normalità, il mostro della
quotidianità.
Il
mostro è questa mostruosa diffusione di queste pratiche, è questo essere
davvero incistate, sia nel cuore dello stato che nel cuore dell’economia,
molto spesso. Questo è il punto che la pur necessaria riflessione sugli atti
mostruosi di certi personaggi, dipinti come tali appunto, come mostri, rischia
di nascondere. Perché se ragioniamo sull’aberrazione del singolo delitto che
ci porta nel cuore della normalità che l’ha prodotto, compiamo un atto
importante, capiamo che non c’è solo il crimine più raccontato e
mostrificato, che normalmente è quello dell’altro, dell’immigrato
clandestino, è quella cosa lì di cui si parla sempre. Ragioniamo sul fatto che
cose di questo tipo possano benissimo essere prodotte anche da noi, non solo
dagli “altri”.
Ma il passo successivo è quello di analizzare il tessuto in cui questo si produce, che non è solo il tessuto di una incapacità di produrre forme educative, percorsi formativi adeguati, che è il compito della famiglia e di tutto il sistema dell’educazione. È anche la diseducazione che viene prodotta attraverso il proliferare di quei comportamenti che ricordavo prima e che sono, a volte a parole, biasimati, ben poco perseguiti dal punto di vista concreto, e che continuano a formare una parte significativa del nostro modo normale di funzionare come Paese. Questo è il punto, questa è la mostruosità che si annida nel nostro quotidiano e che assume le più diverse forme, spesso inafferrabili, ma tuttavia presenti, e continuamente operative.