Capitolo secondo:
La
creazione del “mostro”
L’informazione
dal carcere può aprire un’altra finestra su una realtà complessa, che
giornali e televisioni riducono spesso al fatto nudo e crudo, l’omicidio in
famiglia, condito di dettagli agghiaccianti. Sono fatti presentati puntando a
costruire l’immagine del mostro, e andando a raccogliere i commenti dei
famigliari della vittima per renderla ancora più “mostruosa”. La realtà
invece non è così lineare, ma se riusciamo a sfrondare i fatti da qualsiasi
morbosità, e a raccontare testimonianze che spieghino come possono nascere
questi reati, noi riusciamo anche a trasmettere alla società l’idea che non
ci sono i mostri, ci sono persone che possono fare cose mostruose. Una sottile
distinzione, importante per non “rassicurare” chi ci ascolta, perché
l’informazione non deve essere rassicurante, deve far capire, deve portare per
mano a vedere le tante facce della realtà. E la realtà è anche quella di
famiglie come tante, né più violente né più disastrate, dove a volte un
conflitto, una malattia, una improvvisa fatica di vivere fa saltare tutti gli
equilibri.
Vedere
la persona che c’è dietro un reato, sentire la sua storia, aiuta a trovare
quanto di umano c’è anche in chi compie gesti disumani e, in fondo, non a
giustificare quello che ha fatto, ma a capire e a portare con sé la ricchezza
che viene dell’aver conosciuto un pezzettino nuovo di animo umano.
È
un mostro, è un eroe, è un martire?
La
mia risposta è sempre stata “Non lo so”, io credo che sia molto importante
frequentare delle domande e non dire che si hanno delle risposte, finché queste
risposte somigliano a una scappatoia
di
Lorenzo Pavolini,
autore di “Accanto alla tigre”,
un
viaggio nelle tenebre alla scoperta del nonno Alessandro,
il
gerarca fascista impiccato per i piedi a piazzale Loreto, accanto a Mussolini e
alla Petacci
Ringrazio
prima di tutto Ristretti Orizzonti di avermi invitato ad ascoltare e partecipare
a questa giornata di incontri. Io ho scritto un libro cercando di tenere aperta
una domanda, visto che, appunto, sentivo parlare di domande alle quali non si
trovano risposte, se non quella di dire non lo so. Come racconto nel mio libro,
quando stavo alle scuole medie, sul libro di storia mi è caduto l’occhio su
una fotografia, quella di Piazzale Loreto, e ho visto nella didascalia che
c’era il mio cognome tra quelli delle persone appese a testa in giù. E solo
in quel momento mi sono accorto che quella persona poteva essere mio nonno.
Questo racconta immediatamente di una sorta di rimozione. In famiglia, fino a
quel punto, avevo 12 anni, non avevo sentito parlare di mio nonno. Era il
mancante, di cui non avevo avuto un racconto preciso, semplicemente sapevo che
era morto in guerra, cosa che era veramente successa a molti nonni dei miei
coetanei, quindi niente di particolare. Mi sono confrontato con una narrazione
pubblica, collettiva, che è quella che troviamo sui libri di storia, di
qualcuno che apparteneva alla mia famiglia. Era il padre di mio padre. E mi
succedeva spesso che le persone mi rivolgessero delle domande su questo mio
nonno. Alessandro Pavolini era un gerarca fascista che fu anche un
intellettuale, uno scrittore, e fu anche il segretario del partito fascista a
Salò, il fondatore delle Brigate nere. Le Brigate nere, tra l’altro, sono
quelle che hanno ispirato il nome delle Brigate rosse. È possibile ricollegare
la sua responsabilità alla morte di molti civili italiani innocenti, come
rappresaglia: accanto alle forze naziste, sicuramente le Brigate nere si sono
macchiate di questo tipo di uccisioni. Quindi io ho accanto la figura di un
nonno che comunque era un famigliare e di cui comunque intuivo nella famiglia
una ferita, mio padre aveva sette anni quando suo padre è stato fucilato, se la
vogliamo mettere sul piano umano, sul piano semplicemente famigliare, senza
considerare quello collettivo e quello storico. Sul piano storico e sul piano
collettivo pubblico le rappresentazioni che avevo di mio nonno erano quelle dei
libri di storia. Il lavoro degli storici, sicuramente, conserva la massima
complessità nella restituzione del tragitto umano, del tragitto che porta gli
individui a compiere determinate scelte alle prese con le situazioni concrete
della storia. Sul piano dei libri di storia, soprattutto negli anni in cui sono
cresciuto io, gli anni 80, ma poi in particolare durante gli anni 90, è andato
stratificandosi un certo modo di raccontare la complessità.
Se
penso al libro di Claudio Pavone del ‘92, dove per la prima volta la guerra,
il periodo dal ‘43 al ’45, è stato definito come guerra civile da uno
storico di sicura tradizione di sinistra, penso appunto a dei momenti in cui gli
storici si sono fatti carico di rimanere all’interno di una narrazione
complessa, che non semplificasse le questioni. Accanto a questo tipo di
rappresentazioni complesse ce ne sono altre meno adeguate. Oggi ce la prendiamo
tutti con la televisione, sembra quasi un modo facile di dire qualcosa che sta
fuori di noi, in realtà un certo bisogno di una drammaturgia semplificata, un
certo bisogno di raccontarsi le cose in maniera elementare rassicura tutti, cioè
la narrazione tendenzialmente mette il bene e il male in due personaggi diversi.
Le
narrazioni per bambini sono fatte così, ma quelle per adulti non sono molto
diverse, come minimo pretendiamo di capire perché una persona ha fatto qualcosa
di così mostruoso, come è possibile. La rappresentazione con la quale mi sono
dovuto confrontare è questa: come è possibile che un raffinato intellettuale,
un uomo di cultura che conosceva il teatro, i libri, e che aveva frequentato
quel tipo di cultura, poi potesse fare questo. Come è possibile che si arrivi a
scegliere la violenza politica quando si viene da un certo tipo di cultura
“alta”. È davvero uno stranissimo lapsus, è successo sempre nella storia
che degli intellettuali, delle persone che frequentavano una rappresentazione
della realtà piuttosto raffinata e complessa, poi scegliessero un modo di agire
piuttosto schematico e che contiene la violenza come suo fulcro. Ho sentito il
bisogno di cercare le ragioni di queste domande. Le persone continuavano a
chiedermi se io avessi una risposta in più, io che ero della famiglia, se ero
riuscito a trovare in famiglia delle risposte diverse. Ho sempre detto “Non lo
so”, e devo confessare che nonostante abbia scritto un libro di 300 pagine,
abbia passato anni a studiare, a cercare di calarmi all’interno di un contesto
storico in cui gli individui hanno conosciuto la tragedia immane della prima
guerra mondiale, nonostante io abbia imparato a raccontare la traiettoria di mio
nonno Alessandro, senza essere travolto dall’imbarazzo di fronte al pubblico,
la mia risposta è NON LO SO, anche alla fine.
Io
credo che sia molto importante frequentare delle domande e non dire che si hanno
delle risposte, finché queste risposte somigliano a una scappatoia. Ho voluto
trovare il modo di raccontare e vincere un imbarazzo che sentivo in famiglia,
con mio padre, un silenzio fortissimo rispetto alla figura di mio nonno del
quale si parlava pochissimo. Non sono cresciuto dovendo fare i conti con una
mitizzazione, a volte il silenzio è anche una fortuna, ha permesso che mi
formassi un’idea al di fuori della mia famiglia senza dover considerare troppo
l’aspetto rivendicatorio che facilmente nelle famiglie ferite può scatenarsi,
sotto forma di culto del martire.
Un
racconto, che è anche un tentativo di rompere ogni semplificazione
Nelle
lettere di mia nonna leggevo come lo scopo della sua vita, una volta perduto il
marito, fosse diventato unicamente quello di crescere i figli nel culto di suo
marito. Come martire, come martire di un’idea, qualcuno che è andato a morire
sapendo benissimo che andava a morire per un’idea. Capite che questo è molto
pericoloso, perché crea un’astrazione privata a fronte di una
rappresentazione pubblica collettiva esterna da cui ti senti aggredito, e quindi
ti difendi continuando ad alimentare quell’idea privata che, però, non
corrisponde alla realtà. Non può essere che convivano la visione privata di
una persona assolutamente buona e quella esterna di una persona piuttosto
diabolica che, a fronte di una raffinatezza intellettuale, poi era capace di
compiere delle efferatezze, dei gesti mostruosi, come organizzare i cecchini a
Firenze per sparare sulla popolazione civile a guerra finita. Per me è stato
importante rompere questo silenzio e cercare di confrontarmi con mio padre
direttamente attraverso la scrittura, che è un processo conoscitivo. Quindi
scrivere una parte di questo libro, consegnarla a mio padre, raccogliere la sua
reazione, confrontarmi con lui su questa reazione, rompere questo silenzio e
riportare questa narrazione in una sfera pubblica. Chiaro, sono passati molti
anni, stiamo parlando di una storia di sessanta anni fa, però ho deciso di
scrivere questo libro quando, davanti ad un muro di casa, nel 2003 ho trovato
una scritta che inneggiava a mio nonno. C’era proprio scritto “Pavolini
eroe”. Allora, come è possibile? Ora è un mostro, ora è un eroe, un
martire, sono semplificazioni. Era un uomo che ha partecipato alla storia in
maniera attiva, e la storia, in quel momento, avrebbe potuto portare chiunque di
noi a compiere scelte che oggi ci possono sembrare assurde. Il problema è
trovare il modo di raccontarlo, il romanzo è quella ricerca, mentre la compiamo
si può ristabilire un legame tra sé e la comunità. Un’ultima cosa sulle
forme di narrazione, abbiamo sentito prendersela molto con la televisione, io mi
ricordo il momento in cui sono cominciati a passare i documentari sulla storia.
Negli anni 90 abbiamo avuto questa sorpresa, la Rai fa i documentari storici, la
storia siamo noi. Ne sono stati fatti molti, e il periodo del fascismo è
sicuramente quello sul quale ne sono stati fatti di più, le immagini
dell’Istituto Luce sono talmente evocative che basta quasi solo “vederle in
televisione” ed è fatta, lo spettacolo è assicurato. Allo stesso tempo però
questo continua a comportare un tuffo al cuore per le persone che hanno
familiari protagonisti di quei fatti narrati, un tuffo che anche dopo due
generazioni non passa, nonostante il documentario sia forse la forma migliore di
narrazione a cui possiamo aspirare (non parlo neanche delle fiction, perché
sono state fatte molte fiction storiche dove le semplificazioni sono talmente
rozze che non vale neanche la pena di prenderle in considerazione). Ma anche nei
documentari, alla fine, la forma non basta mai, c’è questo bisogno di
complessità. Sentivamo prima la giornalista dire “dobbiamo fare tutto in due
minuti, tre minuti”, questo non può corrispondere mai alle fibre, per
esempio, dell’umano alle prese con i sentimenti famigliari, non potrà mai
corrispondere. Il bisogno di una famiglia di ricomprendere all’interno della
scena anche la pietas umana per i propri componenti, non potrà mai essere
soddisfatto da una narrazione pubblica esterna, sui giornali o in televisione.
Di questo bisogna tenere conto, con un lavoro di racconto che tenga sempre
presente il fatto che a queste domande nessuno ha una risposta definitiva.
Bisogna avere quell’umiltà e quella mitezza per trovare sempre il punto di
equilibrio.
Attraverso
un tipo di narrazione “equilibrata” si può arrivare a rompere una catena di
silenzi, di emozioni, di traumi. Io ho visto che in questi anni, lavorando su
questi soggetti, riuscendo a scriverne e a parlarne, ho superato l’imbarazzo
fortissimo che provavo a confrontarmi con persone che avevano famigliari vittime
della persecuzione razziale, avevo anche difficoltà a confrontarmi con
famigliari di persone che erano state uccise nella guerra partigiana, nonostante
io avessi fatto di tutto nella mia vita per stare “dalla parte dei giusti”.
Cioè la mia formazione e tutta la mia militanza anche intellettuale si è
sempre svolta “dalla parte giusta”, nettamente giusta, quella che aveva
portato l’Italia verso la libertà. Però non evitava l’imbarazzo (che
significa difficoltà di stare nello stesso mondo degli altri). Attraverso il
racconto, un tentativo di rompere queste semplificazioni, penso che si possa
contribuire a far capire come la scelta della violenza non è figlia di un
difetto genetico, di mostruosità, ma che tutti noi alle prese con certe
situazioni storiche o contingenti potremmo adottare scelte violente.
Doppi
mostri e doppie vittime: la creazione dall’errore alla rappresentazione
Questo
è il racconto di un errore giudiziario: del percorso dall’incompetenza verso
la cecità
di
Gaia Rayneri,
scrittrice, autrice del romanzo “Pulce non c’è”
Io
sono qui per il mio romanzo, “Pulce non c’è”: una storia vera, seppur
romanzata, autobiografica. Pulce è mia sorella, di cinque anni più giovane di
me, autistica a basso funzionamento: non può parlare, e si avvaleva per
comunicare di un metodo di scrittura conosciuto come Comunicazione Facilitata.
La
storia che ha stravolto la mia famiglia è questa. Un giorno, così si apre il
mio romanzo, mamma Anita va a prendere Pulce a scuola, e le viene detto che
Pulce non c’è: è stata portata in un posto migliore, perché è stato deciso
che lei e suo marito non sono più dei buoni genitori per Pulce. Per alcune
interminabili settimane non è concesso sapere niente di più. Poi,
improvvisamente è chiaro che sul padre grava una mostruosa accusa: abuso
sessuale nei confronti della figlia disabile.
Tutto,
forse, è partito dalle “migliori intenzioni”, quelle, per intenderci,
dell’ “io ti salverò”: una maestra intenerita da una bimba malata, che
finalmente, dopo anni di “mutismo”, trova un metodo con cui comunicare il
suo tremendo dramma.
Certo,
a nessuno era richiesto di sapere che quel metodo è fallace, che non ha nessuna
base scientifica, e dà luogo nella grandissima parte dei casi in cui è usato a
denunce di violenze o abusi, che in più del 90% dei casi si rivelano infondate
(tanto che negli Stati Uniti c’è una legge che proibisce di usarlo nei
procedimenti penali), anche perché non tiene conto del funzionamento della
mente autistica.
Sono
però gli stessi genitori a scoprirlo e usarlo: perché tristemente, nel mondo
dell’autismo, il vuoto della scienza è ancora grande, e lascia spazio al
mondo delle false terapie.
Così
che quasi nessuno, se non i pochi esperti, è tenuto a saper nulla
dell’autismo e del modo per affrontarlo: perché non si studia, e chi lo fa è
per il suo buon cuore, o interesse personale (del quale le famiglie ringraziano
il cielo).
Partito
da queste assurde premesse, il “caso Pulce” arriva a quelle “alte
istituzioni” che avrebbero il compito di muoversi nell’interesse del minore
e della famiglia, e che invece, proprio per tutelarli, a volte li distruggono.
Fin
dall’avevamo tutte le prove dell’innocenza di mio padre: mia sorella, per
esempio, aveva scritto che ero stata abusata anch’io, che sono andata subito a
testimoniare che non corrispondeva al vero.
Allora
si è cominciato a dire: “potrebbe anche essere che la bambina non sia stata
abusata; più che altro, se lo fosse non avrebbe modo di dirlo, visto che si è
capito il metodo Comunicazione Facilitata non è attendibile; allora però forse
si dovrebbe capire (ma perché?) se voi siete o non siete dei buoni genitori per
lei”.
Pulce
è rimasta per un anno circa in comunità alloggio: potevamo vederla solo io e
mia madre, inizialmente per un’alla settimana, sempre in una piccola stanza,
sorvegliati da un’educatrice che aveva il compito (assegnato da periti e
Tribunale) di controllare che non pronunciassimo la parola “papà”, che non
pronunciassimo la parola “casa”, e non le spiegassimo che cosa era successo
e perché si trovava lì.
Le
perizie hanno poi dimostrato che Pulce “non era in grado di rendere valida
testimonianza”. Fare un lavoro del genere su un autistico è come voler
mettersi per mesi tutti insieme (stipendiati) a dimostrare che un pesce è un
pesce: la mente autistica è per definizione in grado di testimoniare il vero (e
lo sanno le famiglie, con tutta la tristezza): non perché non percepiscano una
verità, ma semplicemente perché è una verità diversa, che riflette il
funzionamento di una diversa mente. In un esperimento, a un autistico messo di
fronte alla scena di un film cruento in cui una persona veniva assassinata,
venne chiesto di descrivere che cosa aveva visto: i suoi occhi avevano del tutto
trascurato l’omicidio, ma erano perfettamente in grado di ricordare quante
perline aveva la collana che la vittima portava addosso. Certo, anche quella è
verità.
Contemporaneamente,
la famiglia veniva smembrata e analizzata in ogni sua parte: per assurdo, i
segni stessi dell’”essere famiglia” (il lessico famigliare, le normali
nevrosi quotidiane, l’abitudine a “pensare per autistici”) venivano
interpretati come segni di disagio: forse in virtù di un’idea di famiglia
perfettache andava a ogni costo inseguita: ma che, in quanto perfetta,
fortunatamente non esiste.
Ancora
non so perché la “macchina” sia andata avanti in modo così cieco, forse
perché era forte la tentazione della “creazione del mostro”: un mostro
doppio, poiché non soltanto pedofilo(quanto di più mostruoso vi sia
nell’immaginario collettivo dell’ia di oggi, l’unica condanna realmente
trasversale), ma uomo borghese che abusa della figlia disabile, il mostro della
porta accanto.
Pulce
alla fine è ritornata. Ma non è un finale felice, perché la famiglia torna a
fare i conti con la sua solitudine, con la sua esigenza di essere, ad ogni
costo, “a misura di disabile”; e non riceve né risarcimenti né scuse, un
po’ perché provare di aver avuto un “danno” (“quantificabile” in
depressione, psicosi ...) sarebbe incompatibile con la possibilità di
continuare a lavorare (i genitori sono entrambi medici); un po’ perché,
sfibrata non solo da anni di gestione di un malato, ma anche dall’assurdo
errore, non riesce a trovare le forze per fare ulteriori battaglie legali.
Dopo
aver subito una così forte narrazione , io ho deciso di prendere parola: per
opporre a quel lessico gigantesco (quello del burocratese, dello psicologhese,
ma anche della Giustizia e della Scuola) il racconto umano della nostra storia;
perché smentire una narrazione non è efficace, ma opporne un’altra, con un
nuovo punto di vista, forse può esserlo.
La
mia prospettiva di racconto, nel romanzo, è quella di Giovanna, la sorella
tredicenne di Pulce (che è, in parte, una sorta di mio alter ego). Lei osserva
le cose in maniera “distorta”, distratta; quando il suo termometro emotivo
sale troppo in alto, non può fare a meno di spostare lo sguardo altrove,
perdersi in dettagli apparentemente insignificanti però salvifici.
Il
romanzo, sostanzialmente, è il racconto tragicomico, ironico, di un dramma. La
risata è un sorriso che livella tutto: che non lascia spazio al dolore puro,
che potrebbe essere immediatamente identificato dal lettore come “altro da sé”,
e quindi abbandonato; ma che riporta anche dignità, rimettendo tutto sullo
stesso piano. Di fronte al pathos con cui viene spesso affrontata la disabilità,
prenderla al laccio con l’arma dell’allegria (benché un’allegria
incazzata) significava riportarla “vicino” a tutti, affinché si vedesse
meglio (e soprattutto in un Paese come l’Italia, dove a volte sembra che i
diritti vadano in qualche modo meritati) prima di tutto la dignità.
Per
questo non abbiamo mai scelto di dare in pasto la nostra storia a telegiornali e
stampa (sì, per un po’ la nonna voleva incatenarsi al campanile della chiesa
di fronte finché non arrivavano quelli di Striscia la notizia, ma poi per
fortuna non l’fatto).
Proprio
per questo speravo che, forte del canale da me scelto, forte del libro e della
narrazione, non sarei potuta diventare “vittima” un’altra volta.
Storie
di quotidiani “orrori
televisivi”
Nelle
settimane successive all’uscita del libro, sono stata invitata in molte
trasmissioni televisive.
Una,
la più importante, è nota per essere una delle poche che “promuove la
cultura”, ovvero fa vendere i libri. Io ero genuinamente felice di andarci,
nonostante le riserve solite nei confronti della televisione. Mi avevano fatto
intuire che le vendite del libro sarebbero notevolmente migliorate in seguito a
quella serata.
All’gli
è venuto in mente di dirmi però: “Verrai, è un privilegio, e vedrai andrà
bene... però andrebbe molto meglio se ci portassi anche tua sorella”. Io,
intristita, ho risposto che mi dispiaceva, ma che piuttosto che “sbattere il
mostro in prima pagina” (curiosamente vittima e mostro vengono sempre sbattuti
alla stessa maniera) preferivo vendere le mie poche copie, e tornare a fare la
cameriera per finire l’à.
Ci
ho anche dovuto pensare: era facile ricattarmi, il mio primo libro era appena
uscito, stava andando bene, io ero entusiasta, e speravo di cambiare vita.
Mi
hanno detto allora: “Noi non vogliamo essere indelicati: non portare tua
sorella, se proprio non vuoi. Facciamo allora che ci dici qualcosa sul mondo
dell’, e su come si riflette nella quotidianità”.
Io
ero stranita ma felice, non avrei pensato che ai telespettatori, benché di
seconda serata, interessasse tanto quel mondo di cui non si è quasi mai
parlato. Mi sono proposta allora di accompagnarli in un centro specializzato per
mostrare gli strumenti (peraltro tutti molto affascinanti e “narrativi”) che
gli autistici usano per comunicare o per fare riabilitazione.
Ma
mi hanno risposto gentili che non era il caso di andare in un centro: che era
meglio venire a casa mia, per far vedere non solo questi strani strumenti, ma
anche gli oggetti banali della vita quotidiana, anche i vestiti di Pulce.
L’armadio di Pulce, i vestiti... “per fare vedere che anche lei ne ha”.
Io
non lo sapevo che i disabili in Italia girassero nudi, o con vestiti apposta per
infilarci cinque braccia.
In
una trasmissione, orribile peraltro già sulla carta, mi era stato detto che
sarei stata da sola, a rispondere alle domande, seppur con ogni probabilità
indelicate, della conduttrice: mi son detta che una domanda scema non preclude
una risposta intelligente, e quindi ci sono andata, se non altro per raggiungere
un’altra fascia di pubblico, che comunque di solito non compra libri ma
potrebbe essere tranquillizzata dal racconto di una storia, che magari è simile
alla sua.
Arrivata
nello studio, ho scoperto di non essere sola, bensì con l’eccellente
compagnia di: la moglie del “pedofilo belga” (figura che ritorna, anche se
rideclinata, in molti telegiornali), ovvero una signora separata da poco che,
come spesso accade, aveva accusato il marito di abusi sessuali per avere
innanzitutto l’delle bambine (questo non preclude affatto una possibile
colpevolezza reale del marito: che però va prima provata, e solo in seguito, se
proprio necessario, discussa in televisione); poi, la mamma capo della
associazione delle mamme di Rignano Flaminio, quell’dove, di fronte a un caso
di sospetto abuso, si era proceduto a raccogliere le testimonianze dei bambini
in modo totalmente illogico rispetto alla corretta prassi (per intendersi, il
modo giusto di porre la domanda non è certo: “È vero che ti hanno toccato,
è vero che…?”). E poi, in videocollegamento, lo psichiatra Alessandro
Meluzzi; e dulcis in fundo, Sgarbi.
Dopo
qualche quarto d’ora di “dibattito” urlato, mi è balzata agli occhi una
cosa: era quasi come se fossimo stati divisi, da una linea immaginaria, che
segnava un confine: di qua, dove stavo io, erano i “pro-pedofilia” (io
parlavo infatti di un caso di falso abuso); di là, con Vittorio Sgarbi, i
giusti che giustamente la condannavano, come farebbero tutti.
Meluzzi
ha detto a un certo punto (per fortuna) ciò che a mio parere è la base di
qualsiasi convivenza umana, di qualsiasi idea di giustizia e di legge: e cioè
che uno, finché non è provato colpevole, va trattato da presunto innocente.
Aizzato
dalla conduttrice (fuori campo), il pubblico in sala ha preso a urlargli:
“Pedofilo! Pedofilo!”. Io non ho avuto il tempo di aprire bocca; Vittorio
Sgarbi, pur senza avermi sentito parlare, ha dato subito ragione alla signora di
Rignano Flaminio (unitasi al coro, non so con quali parole), perché, ha detto,
“dalla faccia si capiva subito che era quella più affidabile”. Io non so
che faccia avevo in quel momento: so solo che ero vestita male, che ero la più
coperta (anche se nella vita giro sempre in abiti corti), perché so come i
riflettori in quei programmi trattano le donne.
Volevo
alzarmi e andarmene, ma l’aveva fatto Fabrizio Corona una settimana prima, e
non volevo rischiare di trovarmici accanto su Blob. Oltretutto, avevo il
microfono spento. Il litigio è degenerato, le urla durate per l’intera
puntata (nessuno le ha interrotte, perché si sa, fanno audience), e così a me
non è restato il tempo per parlare. Ho poi cortesemente declinato l’invito a
ritornare.
La
cosa che mi ha colpito, è che in entrambe le trasmissioni era del tutto
irrilevante che io avessi scelto un mezzo ben preciso per far parlare la mia
storia, ovvero quello del romanzo, oltretutto uscito per il più importante
editore italiano.
La
cosa importante era forse, dopo che la vita aveva gridato al mostro, benché
innocente, gridare alla vittima: io, giovanissima caso-umano, un po’ tenero un
po’ straziante. In una confusione strana tra il mio vissuto doloroso di cui
ero disposta a parlare (e poco importava che io lo facessi per farmi giustizia),
le mie caratteristiche apparenti (donna, giovane, con un faccino angelico) e la
mia storia editoriale (un libro autobiografico di cui si era parlato): tutti
ottimi ingredienti per la “cultura” che si vende, per sbattere in prima
pagina ancora un’altra vittima.
Chi
fa informazione spesso aggiunge crudeltà alla crudeltà del reato
di
Ulderico Galassini,
Ristretti Orizzonti
Il
mio arrivo nella Casa di reclusione a Padova risale al 25 gennaio 2010, con un
fine pena al 31 maggio 2023 per un reato in famiglia.
Ho
avuto l’opportunità di entrare a far parte della redazione di Ristretti
Orizzonti ad aprile dello stesso anno. Non conoscevo bene questa realtà, ma
gradualmente ne ho condiviso gli scopi e tra questi il “Progetto Scuola -
Carcere”.
Ho
assistito a tanti incontri e sentito raccontare le storie di altri compagni di
sventura; tanti gli interventi e confronti costruttivi con i ragazzi.
Più
volte mi ripromettevo di raccontare la mia vita, la parte più “nera” della
mia vita, ma come mi sedevo di fronte a tanti giovani il mio pensiero andava a
mio figlio, a mia moglie, a quanto da me causato, e mi bloccavo.
A
febbraio di quest’anno, con uno sforzo non indifferente, ho iniziato il mio
dialogo e confronto.
Quale
lo scopo? Mettere a disposizione dei ragazzi il racconto di ciò che, secondo
una mia analisi su quella che per molti anni è stata la mia “vita normale”,
può essere stato la causa del mio comportamento, il non rispetto dei limiti che
ha comportato un tragico epilogo per la mia famiglia
Quando
si parla con gli studenti non si raccontano i particolari agghiaccianti del
reato, non siamo come la stampa e tutti i media che si soffermano su ogni
dettaglio, amplificano la notizia, molto spesso strumentalizzata per vendere di
più, magari con il falso obiettivo di fermare il ripetersi di casi analoghi.
Qui
si cerca di non rompere la serenità delle persone, ma di far emergere quei
problemi, magari sottovalutati, quelle difficoltà che hanno poi fatto scattare
un comportamento mostruoso anche in persone, che non sono però “il mostro”
da sbattere in prima pagina.
È
certo che ciò che ho fatto è tremendo, non umano. È altrettanto dimostrato
che quasi giornalmente capitano, purtroppo, casi simili al mio, ma ognuno con
una propria storia, anche se poi la fine è la soppressione di una o più vite
umane e soprattutto di quelle con le quali hai magari trascorso una vita anche
invidiabile per certi aspetti.
Non
cerco giustificazioni, ma mi domando perché così tante vittime. Perché la
società, anche attraverso i media, non investe sulla prevenzione, perché non
si riflette abbastanza sulla necessità di ritornare ad una vita meno
stressante, riconsiderare la famiglia in un’ottica di garantirle più serenità,
più tempo, più attenzione, più sostegno?
Al
contrario la stampa e la TV vivono e sfruttano la negatività dei reati in
famiglia, “usano i mostri” per raccogliere audience, si sostituiscono agli
inquirenti, a chi deve svolgere le indagini, si sovrappongono alla giustizia,
spesso istigando, con domande assurde, al “farsi giustizia da soli”.
Nel
mio caso i giornali locali hanno raccontato tutti i particolari, anche quelli più
insignificanti, hanno cercato notizie senza rispettare il dolore dei miei altri
famigliari.
Hanno
telefonato a casa dei miei genitori, quasi novantenni (mio padre cieco e
collegato alla bombola d’ossigeno 24 ore su 24, mia madre con problemi di
cuore e altro). Proprie lei ha raccolto la telefonata, ma per fortuna non ha
percepito la situazione, non ha proprio capito. Purtroppo sono mancati mentre
ero in carcere e non gli è mai stata detta la verità. Poi hanno cercato in
tutti i modi mia sorella con insistenza, per sapere chissà che cosa della mia
vita personale.
E
più volte i titoli a grandi caratteri, anche sulle locandine esterne,
ribattevano sempre le stesse frasi, riportando l’evoluzione drammatica
dell’aggressione che avevo rivolto a mia moglie e poi a mio figlio e a me
stesso. Si riportavano nomi, cognomi, dati personali, senza il rispetto della
privacy pur in presenza di un minore.
Trasformare
la realtà in film dell’orrore
È
successo addirittura che, per richiamare l’attenzione dei lettori, anche in
occasione della pubblicazione di una dichiarazione di un rappresentante
sindacale degli agenti penitenziari sulla situazione critica che si era
determinata in carcere per il sovraffollamento e le carenze di organico, i
giornali hanno riportato i dati sulla popolazione detenuta presente nel carcere
di Rovigo, oltre 100 unità, molti stranieri, alcuni italiani dei quali pochi di
Rovigo, e a quel punto hanno inserito la frase: “E fra questi, Ulderico
Galassini, ex direttore di Banca che ha ammazzato la moglie, ferito il figlio e
cercato di togliersi la vita”.
Purtroppo
i media aggiungono crudeltà alla crudeltà del fatto, una crudeltà che non
insegna nulla, e viene propinata ed assorbita in tutti i momenti della giornata,
nei cosiddetti orari protetti. Se questa è da chiamare informazione, con
immagini raccapriccianti sulla cronaca nera e dibattiti tra esperti che sfiorano
l’indecenza, cosa si insegna ai giovani: l’assuefazione al male, trasformare
la realtà in film dell’orrore?
E
poi naturalmente, se si creano continuamente i mostri, la soluzione diventa
“tutti in carcere”, e nessuno ragiona più sul fatto che, pur nella
privazione della libertà, le persone, invece che “marcire in galera” senza
far niente, possono fare un percorso per essere poi utili alla società, per
dedicarsi a chi ha bisogno presso ospedali, centri di assistenza a chi soffre,
centri traumatologici.
Una
riabilitazione socialmente utile, un riscatto personale dovrebbe essere sempre
possibile, ma quello che è certo è che ciò che ho fatto rimarrà sempre e
costantemente in me, con il peso di tutto quello che ho perso, annullando in un
attimo 54 anni di soddisfazioni, obiettivi positivi, sentimenti importanti,
tutto quello di buono che c’è stato nella mia vita prima che si aprisse “la
voragine”.
Un
po’ di luce l’ho comunque trovata anche qui dentro. Devo ringraziare chi mi
ha dato l’opportunità di un impegno “volontario” presso la redazione, che
mi permette, negli incontri con gli studenti, di ripercorrere la mia esperienza
perché torni utile ad altri.