Capitolo primo
“Quante
sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante,
impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?” (Primo Levi)
Non
ci hai pensato prima? Paga
La
domanda che fanno i ragazzi delle scuole, nel sentire i racconti dei detenuti,
è sempre, ossessivamente la stessa: ma non potevate pensarci prima? C’è in
loro, ma anche in tanti adulti, una cieca fiducia nella propria razionalità,
nel fatto che, conoscendo i rischi connessi al male, loro sceglieranno sempre il
bene, e se non lo faranno meritano la più dura delle punizioni. E invece, le
vite di tutti noi sono piene di situazioni in cui, anche da persone adulte,
mature, non siamo riusciti a pensarci prima, e di rimpianti per non averlo
fatto.
L’informazione
allora, proprio a partire dai fatti di “cronaca nera” per arrivare alle
testimonianze dal carcere degli autori di quei fatti, dovrebbe essere una specie
di “allenamento a pensarci prima”, in contrapposizione a tanta informazione
ufficiale, che tende a far credere alle persone che il mondo è diviso fra i
buoni, che sanno sempre razionalmente pensarci prima, e i cattivi, che se ne
fregano delle conseguenze delle proprie azioni e quindi vanno puniti senza pietà.
Imparare
ad ascoltare gli altri, anche i “cattivi”
di
Ornella Favero,
direttore di Ristretti Orizzonti
Quando
andiamo nelle scuole io faccio sempre una preghiera agli studenti, di imparare
ad ascoltare senza commentare, senza l’urgenza di dire a chi ti sta vicino le
tue impressioni, i tuoi dubbi, perché poi il tempo per le domande, le
riflessioni, i commenti c’è sempre, ma deve venire dopo un ascolto vero,
profondo, rispettoso delle difficoltà di chi, come le persone detenute, mette a
disposizione degli altri la sua esperienza più negativa. Questo stesso invito
lo ripeto all’inizio di una giornata di studi come questa, che è complessa,
perché siamo in un luogo difficile, parliamo di temi difficili, e le persone
che intervengono hanno bisogno di un ascolto serio, quindi io vi chiedo davvero
di non commentare, di non parlare fra di voi, di rispettare questo bisogno di
serietà nell’ascolto, che poi in fondo è al centro di tutto il nostro
progetto: imparare ad ascoltare gli altri, anche i “cattivi”.
Allora,
comincio leggendo due titoli di testi che i ragazzi delle scuole ci scrivono
prima di iniziare questo percorso: “Io eliminerei qualsiasi legge che faccia
sconti di pena, la rieducazione non serve a nulla, anzi, a peggiorare le
cose”. “Diminuire la pena per buona condotta è offensivo per le vittime”.
Questi sono i testi iniziali che ci arrivano quando chiediamo ai ragazzi di
dirci la loro idea sulle pene e sul carcere. È significativo che lo sconto di
pena sia ritenuto “offensivo per le vittime”, perché è un po’ la base
del nostro lavoro questa idea che nella società ci sentiamo tutti potenziali
vittime, e, guarda caso, non abbiamo ancora incontrato uno studente o un
genitore che pensi che forse potrebbe capitare anche nella sua famiglia, con un
suo figlio, un fratello, che qualcuno uscisse dalla legalità e finisse in
carcere. Questa invece è una società che ci fa temere solo che potrebbe
capitare a noi di subire un reato, cioè alimenta quella che l’Osservatorio di
Pavia chiama “angoscia sociale”. E credo che su questo abbia un peso enorme
l’informazione, ecco perché questo convegno segue due filoni,
l’informazione e la narrazione. Perché sono due filoni che noi cerchiamo di
conciliare, narrando e informando. Ma, molto spesso, l’informazione, certa
informazione, semplifica e banalizza fino a creare, appunto, “i totalmente
buoni e gli assolutamente cattivi”.
Faccio
due piccoli esempi: un giornale femminile, in cui una moglie racconta di essere
minacciata dall’ex marito. Risposta della giornalista: “Non c’è giustizia
cara Ester, fai bene a urlarlo, basta con questi assistenti sociali che si
intromettono nelle famiglie, basta con una legge che non protegge abbastanza i
figli dei padri violenti e non mette a riparo le madri che si sacrificano per
loro, è scandaloso che tutto questo avvenga alla luce del sole, e che una
povera mamma come te debba pagarsi l’avvocato per difendersi da una situazione
che non la tutela”. Allora, può essere anche tutto vero, può esserci stata
l’assistente sociale che ha fatto un disastro, può esserci il giudice che ha
sbagliato, ma queste banalizzazioni, questi giudizi sommari ci danno un’idea
distorta della realtà, ci abituano a ridurre tutto a una semplificazione
estrema. Invece noi lavoriamo sulla complessità, noi lavoriamo con storie
difficili e non ci possiamo permettere di ridurre tutto a degli schemi
elementari.
Il
secondo titolo che voglio proporvi è: “Palermo. Travolge un bambino e fugge,
poi si suicida credendo di averlo ucciso”. Io l’ho trovata una notizia
terribile, perché ho pensato a questo ragazzo che ha travolto con la sua auto,
e credeva, tra l’altro, di averlo ucciso, un bambino, ed è scappato. Immagino
questa notizia come sarebbe stata presentata alla televisione: il mostro, quello
che uccide il bambino e fugge. E questo ragazzo, quasi per ritrovare la sua
dignità, ha “dovuto” suicidarsi. Cioè, il suicidio è stato l’atto che
ha impedito che lui fosse trattato come un mostro, che ha impedito che la
cattiveria sociale facesse i titoloni sul mostro che investe il bambino e fugge.
Allora c’è qualcosa di malato, io credo, in tutto ciò, ed è esattamente su
questo che vogliamo riflettere.
E
vogliamo riflettere su questi due percorsi, su come informare, ma anche come
narrare. Perché noi, prima di tutto con le testimonianze delle persone
detenute, raccontiamo. Il racconto è un momento fondamentale, io credo, per
capire la realtà, o meglio, per capire che la realtà è complicata.
Ecco
perché ci saranno parecchi interventi di persone detenute della Redazione, e
sono sicura che le persone si emozioneranno, non faranno l’intervento che
volevano fare, e sarà tutto difficile. Ma io credo che sia importante provarci,
e farvi anche capire che cosa è questo progetto che noi facciamo nelle scuole,
e come raccontiamo ai ragazzi la complessità.
L’esperienza
di confronto tra scuole e carcere è una risorsa importante per tutta la società
di
Claudio Piron,
Assessore del Comune di Padova con deleghe a
edilizia
scolastica, politiche scolastiche ed educative, politiche giovanili
Grazie
per questo appuntamento che ritorna nella nostra città, il mio è un grazie che
dice la riconoscenza per il lavoro che ogni giorno si svolge all’interno di
questo carcere. Un grazie che è sincero perché questa struttura, da molti
anni, si è proposta come risorsa anche per il territorio.
So
di usare un termine che può sembrare un po’ eccessivo, ma in questo modo,
come una risorsa importante, è stata vista questa esperienza di confronto tra
scuole e carcere anche da molte scuole, anche da molti amministratori. Dobbiamo
ringraziare tutti gli operatori, e tutti i detenuti che si sono messi a
disposizione per un confronto continuo, strutturato, soprattutto con le giovani
generazioni. Il tema, «I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi», viene
posto partendo da una domanda che i ragazzi delle scuole spesso ci fanno «Come
mai è successo? Perché non ci avete pensato prima?». Io credo sia importante
darsi il tempo per scavare su queste affermazioni “totalmente buoni –
assolutamente cattivi” che sono definitive, e credo sia importante farlo in
una società come la nostra, cosiddetta “della comunicazione”, dove uno dei
rischi più alti che abbiamo è proprio quello della “incomunicabilità”,
che vuol dire rinchiudersi ciascuno nelle nostre verità certe, totali, che
riguardano tutto, dalla partita di calcio alle campagne elettorali dove, anziché
entrare nel merito delle questioni, ci rinchiudiamo ciascuno in definizioni
assolute, per cui “sei rosso, bianco, nero, sei diverso, quindi non mi
interessi, non sei interessante, non sei utile”, e pensate che anche le cose
più banali diventano questioni di vita o di morte, basta vedere i genitori ai
bordi dei campi di calcio o di basket, a volte.
Allora,
io credo sia importante partire da questa domanda «Potevamo pensarci prima? Si
può pensarci? Perché non è stato fatto? O perché non si è riusciti a farlo?».
Questa
riflessione indica un metodo, ma anche una scelta di civiltà, ed è importante
che i giovani le rivolgano a noi adulti, a chi ha sbagliato e anche a chi ha
rischiato di sbagliare, queste domande, e che abbiano voglia di cercare di
capire. Al cardinal Martini, anni fa, scriveva una lettera molto interessante, e
ci chiedeva di collocarci “sui lembi del mantello”, cioè di provare a
restare sui margini dove ci sono le situazioni più difficoltose, più
impegnative, che chiedono più passione, più tempo, più pazienza, più
disponibilità, per provare a capire le ragioni dell’altro, degli altri, per
provare a capire le cause, i motivi, i percorsi, i processi, per provare anche a
ricucire. Ridando prima di tutto dignità alle persone, e a ciascuna persona.
Credo che questa sia una delle poche strade che conosco per darci una
prospettiva, un senso, una speranza, soprattutto per ridare dignità alle
vittime, ai famigliari delle vittime, e però anche dare alle persone che hanno
commesso dei reati, ma decidono di riemergere da questa situazione, una
possibilità vera di riscatto.
Chiudo
dicendo che mi sembra importante questa giornata, non solo per i numeri delle
persone, certamente un dato significativo, ma per la qualità delle presenze e
per il fatto che è una giornata di condivisione, di riflessioni importanti,
dove c’è la volontà dei singoli, sostenuta dal servizio di moltissime
persone che fanno volontariato all’interno del carcere, dalla responsabilità
delle istituzioni e delle istituzioni civili, che vogliono accompagnare il
percorso di chi è all’interno di questa struttura. Allora è un segnale
importante che la legge, la giustizia, il pagare la pena, sono un punto di
partenza. E questo significa riconoscere le ragioni delle vittime, riconoscere
il loro diritto ad avere giustizia, e la possibilità anche di aprire nuovi
confronti, nuovi dialoghi che sembravano impossibili. Questo forse è anche un
modo per ripagare tante persone che hanno subito violenze, per rigenerare la
vita delle persone, dei parenti, ma anche di una società che ha bisogno di
guardare avanti e di aumentare il proprio tasso di civiltà.
C’è
un pensiero in uno dei tanti libri che abbiamo stampato con Ristretti Orizzonti,
scritti dai ragazzi delle nostre scuole medie, una ragazza di 12 anni di una
scuola dell’immediata cintura urbana, che, dopo aver incontrato e ascoltato le
persone detenute, dice così: «È stata un’esperienza unica, ho capito che
prima di compiere qualsiasi azione bisogna pensarci più volte, la vita è un
dono prezioso, bisogna viverla al meglio, anche perché abbiamo solo una
possibilità». Credo che questi ragazzi abbiano da insegnarci soprattutto
questo, che se tutti noi, davvero usiamo questo metodo di ascoltare, valutare e
poi agire, la vita di ciascuno di noi e delle nostre comunità può senz’altro
migliorare. Quindi, grazie a tutti voi e grazie, ribadisco, ai più giovani che
hanno accettato questa responsabilità.
I
ragazzi oggi hanno bisogno di fare cose impegnative
di
Alessandro Lion,
direttore del Centro Servizi
per
il Volontariato della Provincia di Padova
Io,
oltre al saluto, volevo fare due riflessioni. Innanzitutto un po’ di pubblicità,
ci sono molte associazioni che si danno da fare e, a volte, hanno bisogno di
volontari, qui c’è tanta gente, hanno bisogno di denaro per poter andare
avanti, in questi giorni si può versare il cinque per mille attraverso la
propria dichiarazione dei redditi, e quindi attenzione a chi date il vostro
cinque per mille, controllate l’operato delle associazioni, aiutate le
associazioni a crescere.
L’altra
cosa che volevo dirvi è “Perché siamo qui? Per il convegno? Per
l’associazione? Perché abbiamo qualcosa in noi che ci muove, che ci fa venire
qui? Perché abbiamo qualche vuoto da colmare?”. È una domanda che dobbiamo
farci. Siamo in un posto di reclusione, e quindi la cosa più interessante su
cui discutere potrebbe essere la libertà. Stefano Zamagni, l’economista che
è anche presidente dell’Agenzia per il terzo settore, parla di libertà di,
la “libertà di” fare qualcosa, la “libertà da”, quindi essere liberi
da catene, da costrizioni, da qualcos’altro. Ma dice che la società ha saputo
coniugare queste due libertà e però si dimentica di coniugare la “libertà
per”, una libertà da costruire insieme, una libertà che diventa vocazione,
una parola scomoda, demodé, una parola che non vogliamo neanche sentirci dire.
Qual
è la nostra vocazione? Qual è il nostro fine ultimo? Cosa stiamo cercando? Io
in questi giorni ricevo continue telefonate di mamme che hanno i figli di 16
anni che non vanno più a scuola, da mesi, non da giorni, da mesi. E la scuola
non era in grado di tenerli, di attirarli, di farli propri, di coinvolgerli. E
poi le scuole mi chiamano e mi chiedono anche di poter far fare del volontariato
ai ragazzi. Io dico che forse questi ragazzi non hanno bisogno di far
volontariato, questi ragazzi hanno bisogno di avere delle finalità, hanno
bisogno di vivere, hanno bisogno di fare cose impegnative. Cosa dico io a quelle
mamme? Se noi lasciamo cadere questi ragazzi di 16 anni, sappiamo già dove
vanno a finire, magari non andranno in carcere, ma si uccideranno con il
motorino, o comunque si faranno del male. Ma allora la nostra vocazione di oggi
è quella di avere maggior attenzione, sarà difficile, sarà utopico, ma se ci
mettiamo tutti insieme, e quindi una comunità intera si mette insieme a capire
cosa ogni associazione può fare, cosa ogni cittadino può fare, ecco che allora
una risposta, qualche risposta a questi ragazzi potremo dargliela. E allora,
questa è la libertà per, è la nostra vocazione. Io vi ringrazio di essere qui
numerosi, però vi esorto a questo impegno, vi esorto a fare di più perché
c’è bisogno in questo momento. Sembra che sia impossibile, che siamo di
fronte a una società completamente in crisi, che non ci sono i soldi, che non
si possa fare niente. Qual è la crisi di oggi? È una crisi di valori, c’è
chi ha deciso che il suo impegno è finito, che deve andare in pensione, c’è
chi ha deciso che ha già dato tanto, c’è chi dice “Io sono già troppo
vecchio”. Ma io vedo sempre monsignor Nervo lucido, attivo. Voi volete
diventare vecchi e lucidi come monsignor Nervo? State sulla breccia,
impegnatevi!. Grazie a tutti.
I
giornalisti devono raccontare con meno semplificazioni il mondo del carcere
di
Gianluca Amadori,
Presidente
dell’Ordine
dei giornalisti del Veneto
Inizio
portando i saluti dell’Ordine dei giornalisti del Veneto, che si sta
impegnando, assieme a Ristretti Orizzonti, in una attività importante sul
fronte dell’informazione. Sui temi della giustizia e del carcere infatti si fa
tanta demagogia, si alimentano molte paure, anche per acquisire consensi. La
politica non è molto avanti su questi temi, anzi fa un lavoro che, spesso, ci
porta indietro. Le semplificazioni non spiegano in nessun modo la realtà, non
è mai tutto nero o tutto bianco, il titolo della Giornata di studi, “I
totalmente buoni e gli assolutamente cattivi” credo rappresenti in modo
chiarissimo che le persone non sono affatto o tutte buone o tutte cattive. E noi
facendo informazione abbiamo un ruolo determinante, e però non sempre facciamo
buona informazione. Bisogna fare autocritica su questo, anche se è difficile
farla, perché c’è un’atmosfera pesante che respiriamo oggi anche nel
nostro Paese, un’atmosfera di scontri e di posizioni troppo spesso
demagogiche, ma sicuramente un po’ di più possiamo fare ed è anche per
questo che noi con l’Ordine ci stiamo impegnando con Ristretti Orizzonti, e
abbiamo già organizzato dei seminari per portare i giornalisti all’interno
del carcere e approfondire insieme i temi legati alla giustizia e
all’esecuzione penale, e per trasmettere ai giornalisti una sensibilità, una
conoscenza maggiori su questi temi.
C’è
ancora tanto da fare, un percorso lungo, ma credo che ne valga la pena, perché
attraverso questi temi, che sono anche quelli della dignità della persona,
passa un pezzo importantissimo della nostra libertà e dello sviluppo della
nostra società. Per cui credo che su questi argomenti siano importanti questi
seminari e noi ci impegneremo, come mondo dell’informazione, ancora di più,
perché i giornalisti riescano a raccontare con più consapevolezza, con meno
semplificazioni, con più precisione, per riuscire a fare capire di più alla
gente come funziona il mondo della giustizia, il mondo del carcere.
Le
paure reali e quelle mediatiche dei cittadini italiani ed europei
Quanto
più aumenta la rappresentazione del crimine, tanto più cresce un sentimento di
insicurezza tra i cittadini
di
Paola Barretta,ricercatrice
presso l’Osservatorio di Pavia,
si
occupa di comunicazione mediatica dell’emergenza,
di
rappresentazione della criminalità e della sicurezza in Italia e in Europa,
di
comunicazione istituzionale
Nel
2009 nasce l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, composto dalla Fondazione
Unipolis, da Demos & Pi, l’istituto di sondaggi di lIvo Diamanti e
dall’Osservatorio di Pavia, allo scopo di analizzare e comprendere il rapporto
tra percezione dei cittadini e rappresentazione mediatica in merito ai temi
della paura e dell’insicurezza.
Si
deve la nascita del progetto all’osservazione di una peculiarità italiana:
l’attenzione e lo spazio alle notizie di criminalità. A partire dal 2005, nei
telegiornali di prima serata (che costituiscono ancora oggi una delle principali
fonti di informazione) la trattazione dei fatti criminali è piuttosto costante
con alcuni “picchi” nel corso del 2007 e del 2010. Nel corso del 2007 si
assiste a una vera e propria “bolla” della criminalità, pari a circa 3500
notizie di reato, accompagnata da una maggiore percezione di insicurezza da
parte dei cittadini rispetto all’insicurezza associata alla possibilità di
essere vittima di un reato.
Il
primo risultato del confronto tra rappresentazione della criminalità nei tg e
percezione dei cittadini è proprio questo: esiste una correlazione tra queste
due dimensioni, tanto più aumenta la rappresentazione del crimine, tanto più
cresce un sentimento di insicurezza tra i cittadini. Il secondo risultato è che
non esiste una correlazione tra rappresentazione della criminalità e numero dei
reati, che sono costanti negli anni e che conoscono anzi una leggera flessione
(come da figura 1).
Nel
secondo semestre 2010 si assiste di nuovo a un’impennata della criminalità,
ma non a una crescita della percezione di insicurezza: una delle ragioni
principali è il tipo di narrazione dei fatti criminali. Se nel 2007 la
rappresentazione nei telegiornali riguardava per lo più rapine, violenze
sessuali (il caso della Storta a Roma), omicidi (Giovanna Reggiani e a seguire
altri fatti di cronaca nera in cui erano implicati rumeni); nel 2010
l’attenzione si concentra su un unico caso, le cui modalità narrative si
discostano dall’immagine di una criminalità pervasiva e diffusa su tutto il
territorio: il caso Sarah Scazzi.
Le
modalità narrative di un caso come il caso Sara Scazzi sono molto diverse
rispetto ad una rappresentazione del furto, della rapina, di tutta una serie di
reati che, per chi sta tanto tempo in casa davanti alla televisione, ed è solo,
rappresentano motivo di ansia, di paura. Non a caso la percezione di rischio
aumenta tra le persone che sono esposte per molto tempo alla televisione e che
sono anziane e che, magari, sono in casa, quello è un contenitore informativo
che utilizzano e non vivono effettivamente la realtà esterna. Le modalità
narrative del caso Sarah Scazzi sono diverse: esse, per certi versi, ricordano
le logiche di un reality crime, con la ricerca del colpevole, la visibilità dei
protagonisti della vicenda. Si tratta inoltre di un caso che invade tutti i
palinsesti mattutini e pomeridiani, la cui trattazione alimenta una “passione
criminale” da seguire come un serial. Una trattazione ben diversa rispetto a
quella di crimini diffusi sul territorio e che minacciano l’integrità fisica
delle persone.
Lo
conferma il fatto che il caso Sarah Scazzi in soli 4 mesi ha totalizzato 867
notizie, posizionandosi al terzo posto sul complessivo della trattazione dei
casi criminali degli ultimi dieci anni (figura 2).
Un
altro elemento peculiare nella rappresentazione della criminalità è la
prevalenza della criminalità comune, e nella maggior parte dei casi si tratta
di reati che interessano l’integrità fisica della persona, ovvero quei
crimini che massimizzano il senso di insicurezza. Emerge, a questo proposito,
un’ulteriore discrepanza con la percezione di insicurezza dei cittadini che si
ritengono maggiormente preoccupati dalla criminalità organizzata rispetto a
quella comune (rispettivamente il 68,8% contro il 21,6%).
Complessivamente,
nei telegiornali italiani la criminalità dunque occupa uno spazio centrale: se
confrontiamo le agende ci accorgiamo che, esclusi Tg3 e Tg La 7 – che seguono
linee editoriali diverse – tutti gli altri telegiornali hanno la criminalità
al primo o al secondo posto.
Ne
segue che il potenziale ansiogeno delle notizie si concentri, dal 2007 al 2010,
principalmente sulla criminalità. Oltre a quegli eventi che possiamo definire
come congiunturali e che trovano spazio nell’agenda in ragione della loro
eccezionalità e della loro portata emergenziale (nel 2009 il virus N1H1, nel
2010 l’emergenza rifiuti a Napoli e l’alluvione in Veneto), vi è una
dimensione strutturale costante nel tempo, connessa alla rappresentazione della
criminalità (che occupa il 55% delle notizie che possono creare ansia).
Ci
si può chiedere a questo punto se la trattazione mediatica della criminalità
negli altri Paesi europei segue modalità simili a quella dei telegiornali di
casa nostra, soprattutto in ragione della sostanziale uniformità nelle
percezioni di insicurezza dei cittadini europei. Dal sondaggio condotto nel
dicembre 2010 in 5 Paesi europei (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e
Spagna) emerge che i cittadini europei si sentono maggiormente preoccupati dai
temi economici: il peggioramento delle condizioni di vita, l’erosione dei
risparmi. In tutti i Paesi europei è marginale l’insicurezza legata alla
criminalità, altrettanto marginale, a eccezione della Gran Bretagna, quella
legata all’immigrazione. L’agenda dei telegiornali europei, in parte,
riflette questo dato: i principali Tg pubblici di Germania (Ard), Gran Bretagna
(Bbc One), Francia (France 2) e Spagna (Tve1), esteri, politica estera, economia
e politica sono i primi temi. La media europea dedicata alla criminalità è del
5,9% (il doppio in Italia), vi sono alcuni telegiornali che non dedicano alcuno
spazio alla criminalità.
Una
prima differenza riguarda proprio la quantità di criminalità: sono 1.023 le
notizie che il Tg1 dedica nell’intero 2010 alla criminalità, contro le 60 del
Tg tedesco, le 255 di quello francese, e 514 di quello spagnolo.
Oltre
al dato quantitativo relativo alla sovra-rappresentazione della criminalità, vi
sono anche delle osservazioni qualitative: la serialità tipicamente italiana
nella trattazione dei casi criminali. Ci sono alcuni casi presenti nei nostri
telegiornali che risalgono a 5, 7, 10 anni fa, sono un esempio Cogne, la strage
di Erba, il Delitto di Perugia. Anche negli altri Paesi europei il caso
criminale ha una grande eco mediatica, che però si conclude dopo pochi mesi e
nella fase immediatamente successiva alle indagini. Inoltre, difficilmente nei
telegiornali europei alla criminalità comune viene dato ampio spazio e, se
succede, essa è inserita in una cornice tematica ben precisa. Un esempio è
quello della Spagna: il tg pubblico spagnolo ha dedicato l’intero anno alla
trattazione della violenza di genere, il reato “comune” è stato tematizzato
all’interno di un progetto complessivo di sensibilizzazione rispetto al
problema. Tant’è vero che è stato utilizzato un registro stilistico proprio
della cronaca di guerra: è la 25ª vittima di genere, la 26ª vittima. Anche in
Gran Bretagna infanticidi compiuti da madri con problemi psichici lasciate sole
dai servizi sociali sono diventati l’occasione per riflettere sui tagli al
welfare.
Complessivamente
nei telegiornali europei prevale una narrazione dei reati comuni finalizzata
alla problematizzazione e a una contestualizzazione sociale e politica.
Viceversa
narrare la criminalità comune, “omicidio a Bari per futili motivi”,
“aggressione a Milano nella metropolitana”, “rapina a mano armata in una
banca nel bergamasco”, sganciata da una tematizzazione, ha un effetto potente,
soprattutto per le persone esposte al flusso televisivo, anziane e sole, sulla
percezione di insicurezza.
Inoltre,
nel nostro Paese, rispetto alla dimensione della criminalità, c’è una
dimensione connotativa relativa all’immigrazione. Il reato spesso è
accompagnato dalla definizione dell’etnia. Il che comporta che il tema
dell’immigrazione in Italia abbia una valenza più allarmistica rispetto a
quella di altri Paesi, perché in quasi tutti i casi di cronaca nera, se
presente, vi è una dimensione esplicita della nazionalità.
L’informazione
oggi è più penale che sociale
Non
si danno più notizie, si danno emozioni, si danno lacrime, si dà rabbia
Daniela
De Robert,
giornalista della redazione esteri del Tg2,
volontaria
a Rebibbia, autrice di
“Sembrano
proprio come noi. Frammenti di vita prigioniera” e “Frontiere nascoste.
Storie
ai confini dell’esclusione sociale”
Credo
ci siano delle tappe che hanno segnato profondamente l’informazione in Italia.
Semplificando, ne individuo tre.
Il
1994, è l’anno in cui per la prima volta la campagna elettorale nei
telegiornali si basa più che sull’informazione politica, sulle notizie di
cronaca, in particolare sulla cronaca nera. Vi dò anche un nome e un cognome:
Clemente Mimun, allora direttore del Tg2, che impostò la campagna elettorale
sull’uso della cronaca per creare paura, insicurezza, individuare un nemico, e
così ricompattare.
La
seconda data la ricordiamo tutti molto bene, è l’agosto del 2006, l’anno
dell’indulto. Non credo sia un caso che il picco di informazione sulla
criminalità che l’Osservatorio di Pavia ha individuato sia nel 2007. Subito
dopo l’indulto, a pochi giorni dalle prime uscite dal carcere, La Stampa già
titolava “La banda degli indultati”, come se si trattasse di una variante
della banda della Magliana, e La Nuova Sardegna, raccontando di una rapina
avvenuta in un supermercato dove era stato fermato un rapinatore, diceva:
giovane, occhi azzurri, faccia da indulto.
La
terza data è il novembre 2007, l’omicidio Reggiani. Anche qui siamo in piena
campagna elettorale per il Comune di Roma. Vincerà poi la destra.
Sono
tre tappe importanti che, secondo me, segnano proprio dei passaggi decisivi.
Lavoro al Tg2 e so bene come si creano questi meccanismi. Vi voglio raccontare,
per dovere di cronaca ma anche perché credo che sia importante che si sappia
anche all’esterno, che nelle redazioni si combatte contro queste cose, ma non
sempre si riesce a vincere, anzi. Perché, trasversalmente, tutti i telegiornali
fanno un uso strumentale della cronaca nera. A cosa serve? Prima di tutto a
creare un nemico, un nemico comune, e quando c’è un nemico esterno ci si
ricompatta. Poi serve a distrarre, perché per difenderci dal nemico esterno, ci
distraiamo dagli altri problemi (quelli che nei Tg degli altri Paesi europei
trovano spazio), ci dimentichiamo della crisi economica. Nei nostri Tg si parla
molto di cronaca nera, molto poco e sempre meno di sociale. È un po’ come la
risposta che si dà a questi problemi, si danno risposte penali a problemi
sociali e così l’informazione è più penale che sociale.
Il
nemico chi è? Il nemico è innanzitutto lo straniero, quello che nei giornali e
nei telegiornali viene chiamato “clandestino”. Ci sono delle parole, che
vengono usate anche dai media, e che servono a disumanizzare. Clandestino è una
di queste: non sei una persona, sei un clandestino. La parola “clandestino”
viene usata anche per i morti: morti in mare tre clandestini, si legge. Ogni
tanto, proviamo a spiegare che in realtà quel morto non ha fatto in tempo a
diventare clandestino perché è morto in mezzo al mare, prima di arrivare in
una terra che lo renderà un cladenstino. Ma è più facile dire che è morto un
clandestino, perché se a morire è un clandestino, il fatto sembra meno grave
che se muore una persona. Se muore un bambino clandestino ci sembra meno grave
che se muore un bambino.
L’altro
nemico che Baumann chiama “lo straniero perpetuo” sono i rom. Credo che
l’omicidio Reggiani abbia segnato una tappa irreversible. I rom, i rumeni (poi
si tende a fare confusione) sono gli stupratori. C’è un video fatto dalle
Camere penali di Roma, sono sette minuti, un blob dei Tg sullo stupro della
Caffarella. Anche lì è impressionante che tutti i telegiornali in qualche modo
sono coinvolti, da La7, ai tre Tg della Rai, e a quelli di Mediaset. Il video
delle Camere penali si apre e si chiude con la stessa immagine, Vespa che
intervista “faccia da pugile”, così l’abbiamo sempre chiamato, quando
ormai era stato prosciolto, dopo essere stato indicato come il responsabile di
quello stupro. Quindi quest’uomo, il mostro anzi l’ex mostro ormai
prosciolto, veniva intervistato,. E Vespa lo guarda e sfregandosi le mani, come
fa lui, gli dice: “Noi adesso le abbiamo dato un lavoro. Ma se lei poi non se
lo dovesse meritare non le vorremo più bene”. La condanna mediatica conta più
della giustizia penale vera. Comunque il dubbio rimane, comunque il dubbio viene
insinuato, oltre le indagini, oltre il proscioglimento. Quell’uomo ha dovuto
lasciare l’Italia perché per lui non c’era possibilità di rimanere: era è
e sarà sempre lo stupratore..
Il
terzo nemico sono i detenuti. I detenuti sono i mostri, e per i mostri non c’è
speranza di cambiare. Se sei un mostro resti un mostro.
Sono
i tre nemici prediletti dai nostri telegiornali. Sono gli “assolutamente
cattivi”, tutti e tre: stranieri, rom, e detenuti. Gli assolutamente buoni,
inutile dirlo, siamo noi.
C’è
un altro aspetto che vorrei sottolineare, il linguaggio che si usa. Ci sono
parole che disumanizzano, clandestino, rom, criminale, stupratore. Non sei più
una persona, sei uno stupratore, sei un rapinatore, sei un pedofilo. Ci sono
delle parole magiche che servono a calmare o a orientare: sicurezza, paura,
emergenza. C’era l’emergenza stupri, poi l’emergenza cani abbandonati, poi
l’emergenza sbarchi, poi l’emergenza pirati della strada, poi l’emergenza
pedofili. È tutto un susseguirsi di emergenze. Andiamo avanti a emergenze.
Gli
stereotipi. C’è questa bellissima frase di Primo Levi, “Quante sono le
menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile,
forza di penetrazione dei luoghi comuni?”. Quando studiamo giornalismo di
solito ci insegnano a evitare i luoghi comuni, a evitare quelli che chiamano gli
“aggettivi autoadesivi”, per cui gli amanti sono sempre diabolici,
l’inchiesta è a 360°, la vittima è innocente e così via. Poi però, strada
facendo, ci scordiamo di questo insegnamento e gli stereotipi e le frasi comuni
abbondano. Gli stereotipi sono facilissimi da creare e difficilissimi da
distruggere. Gli stereotipi creano la realtà che raccontano e non te ne liberi
più. Per questo si riesce a dire che in carcere non ci va nessuno e nello
stesso articolo scrivere che le carceri sono sovraffollate all’inverosimile.
Ma se in carcere non ci va nessuno, chi ci sta in carcere? Non ce lo chiediamo
mai.
Le
modalità del racconto
Non
si danno più notizie, si danno emozioni, si danno lacrime, si dà rabbia. Nelle
riunioni di redazione, quando si decide come impostare un servizio, non si
chiede di andare a parlare con gli inquirenti, ma di trovare la mamma, il papà,
lo zio, il cugino, l’amico, il familiare. Se piange o grida è meglio
Le
parole sono importanti. Vi dico allora che al Tg2 siccome di tante cose non si
deve parlare per cui l’economia con la crisi va poco, la politica solo quando
serve, gli esteri sono considerati noiosi, c’è il problema di come riempire
il giornale, dove trovare quelle 20, 22 notizie. Allora nelle riunione di
redazione si dice “Va be’, aspettiamo che apra la macelleria, vedrai che in
mattinata qualche morto ammazzato lo troviamo”. E noi aspettiamo che apra la
macelleria, e la macelleria apre, regolarmente.
Il
linguaggio è quello della semplificazione, quello degli stereotipi. Qualche
giorno fa ho sentito una collega Rai, di una sede regionale, che raccontava di
una persona che ha investito un bambino con l’auto ed è scappata e poi
successivamente si è costituita alla polizia. Il testo diceva “Il bambino è
stato investito da un’auto, un’auto pirata”. Cos’è un’auto pirata? Ha
la bandiera nera col teschio, che cos’è? Però l’auto pirata colpisce di più.
C’è
un problema di ignoranza. Pochissimi sanno come funziona il carcere, pochissimi
sanno cos’è un permesso premio, cos’è l’affidamento, cos’è la
semilibertà, cos’è l’articolo 21, come funziona. E allora si dice “È
fuggito durante gli arresti domiciliari” e magari era un permesso. Negli
articoli si fa spesso molta confusione, ma tanto va tutto bene. Se però io
faccio un pezzo sul calcio e dico che la palla del calcio è ovale vengo
licenziata, perché non è ammissibile che io non sappia. Oltre all’ignoranza
ci sono le scorciatoie. Di solito ci danno un minuto per raccontare una storia
complessa, e allora è più facile semplificare, se poi non so neanche le cose,
semplifico a modo mio. C’è la serialità, le soap opera, e qui non ci sono
solo i Tg, ma ci sono, soprattutto a rinforzo, i servizi del cosiddetto
infotainment (“informazione-spettacolo”). Allora abbiamo avuto Cogne, Erba,
Erika e Omar, Meredith, Sara Scazzi, Yara, adesso Melania. Tutti sanno tutto, è
un po’ come Beautiful: il padre che piange e poi diventa l’assassino, poi la
sorella, poi la cugina, poi interviene un altro, siamo tutti coinvolti e questa
cosa funziona. È più facile parlare di Melania che non parlare di altre
situazioni più complesse.
Infine,
parlo di carcere. Il carcere non è più un luogo, il carcere è un simbolo, e
come tale viene usato. Il carcere è una bandiera, è la bandiera della vittoria
del bene sul male, è il luogo del male. Non so se ci avete fatto caso, ma
quando qualcuno non viene condannato alla galera, alla galera vera, cioè
dentro, non in detenzione domiciliare, non si è soddisfatti, è come se non
fosse stato punito. Perché il vero luogo dove devono stare i cattivi è il
carcere, perché il carcere è il simbolo, e quindi questo deve rimanere. Il
carcere noi lo raccontiamo attraverso delle maschere: la cronaca nera, cioè
l’evasione, le violenze quando ci sono; la cronaca bianca, quindi il meglio
del carcere, il teatro, gli spettacoli musicali, le sfilate di moda; le singole
storie che sono comunque decontestualizzate, per cui ci sono i totalmente
cattivi, i detenuti, e poi la storia di Giacomo, Filippo, Maria, che sono
un’altra cosa.
Devo
dire che in questo quadro, molto brutto, molto faticoso, è molto difficile
lavorare, è molto frustrante, io vedo la fatica che fanno i colleghi che vanno
a Lampedusa per usare non il termine “clandestino” ma “migrante”, e ogni
volta è una battaglia.
C’è
una riflessione che la categoria dei giornalisti sta facendo sull’informazione
e il sociale, l’ha fatto molto sugli stranieri quando, anche su sollecitazione
dell’Alto Commissariato dei rifugiati, si è detto basta con la parola
“clandestino”, e da li è nata una riflessione e poi è nata la Carta di
Roma, una carta deontologica per darci delle regole, per non essere razzisti
quando raccontiamo, per non istigare al razzismo. È una cosa importante, un
documento condiviso, dovrà essere più condiviso, e soprattutto dovrà essere
applicato.
Sulla
giustizia, sul carcere ancora non c’è questa coscienza. Allora io credo che
un’attenzione e una critica costante, anche da parte dei cittadini, sia
fondamentale. Quando arrivano segnali di insoddisfazione dal pubblico, quando i
cittadini, le associazioni della società civile protestano per
un’informazione sbagliata, razzista, parziale, nelle direzioni dei TG ci si
sta più attenti. Allora ben venga un’alleanza tra giornalisti e cittadini, in
nome di un’informazione libera, completa e pluralista.
Il
racconto delle persone detenute
Ma
davvero la galera non se la fa nessuno?
di
Antonio Floris,
Ristretti Orizzonti
Il
tema che vorrei affrontare è quello della “pena giusta”, così come
cerchiamo di parlarne con i ragazzi delle scuole.
Quando
un colpevole viene condannato, se si chiede ai familiari delle vittime che hanno
subito il reato, o alle vittime stesse, se sono soddisfatti della pena che gli
è stata inflitta, il più delle volte sentiamo dire che la pena è troppo mite,
e anche quando essa è pesante sentiremo dire che tanto non verrà scontata, che
fra pochi anni il colpevole sarà un’altra volta fuori e così via.
È
ovvio quindi che, quando si parla delle pene, gli studenti siano convinti che in
carcere non ci finisce quasi mai nessuno e che quei pochi che ci finiscono dopo
poco tempo riescono a uscire grazie a delle “scappatoie”, perché questo è
quello che pensano delle misure alternative, che siano delle scappatoie, per cui
la pena intera in carcere non la sconta quasi più nessuno. I ragazzi traggono
queste convinzioni leggendo articoli scritti da quei giornalisti che, in base a
calcoli tutti loro, fanno credere che, in concreto, sommando tutte le misure
alternative, la pena espiata sia generalmente meno di un quarto, sette otto anni
anche in caso di condanne pesantissime.
In
realtà non è così, non è proprio così, noi spieghiamo ai ragazzi che se
fosse così, con esempi concreti di noi stessi, tutti quanti dovremmo essere
fuori. Il caso mio, per esempio, è che io ho scontato 21 anni di carcere senza
aver mai preso nessuna misura alternativa.
Un’altra
cosa che noi cerchiamo di spiegare ai ragazzi è che le misure alternative non
si possono sommare in modo semplicistico, come se un detenuto potesse usufruire
sicuramente di tutte, addirittura sommandole automaticamente. Un’altra cosa
che spieghiamo sempre è che non scattano affatto in modo automatico, le misure
alternative, e neanche per tutti. Per esempio ci sono certi reati, come i reati
di associazione mafiosa, sequestro di persona, terrorismo che sono esclusi da
qualsiasi beneficio. E per quelli che non sono esclusi non è detto che le
misure alternative vengano concesse quando la persona è nei termini, perché
per avere una misura alternativa ci vuole un’osservazione lunghissima, di anni
e anni da parte degli operatori del carcere, psicologi, educatori, assistenti
sociali, i quali guardano il comportamento della persona, la sua storia, il
reato, l’ambiente famigliare. Solo quando ci sono tantissimi elementi che
fanno ritenere che questa persona non sia più pericolosa, allora c’è
speranza di poter uscire.
Ma
non basta neppure non essere più socialmente pericolosi, perché per uscire,
anche in detenzione domiciliare, ci vuole un alloggio che sia considerato
“affidabile”, e non tutti ce l’hanno, basta pensare che in carcere ci sono
circa 27.000 stranieri, quanti di questi hanno una casa?. Anche fra gli italiani
ci sono moltissimi che non hanno casa, e ce ne sono tanti che non sono accettati
dalle proprie famiglie, perché magari hanno dei conflitti, o perché sono
tossicodipendenti e le famiglie non se la sentono di riaccoglierli. Inoltre, per
andare in semilibertà o in affidamento ci vuole un lavoro, e oggi sappiamo
tutti quanto difficile sia trovare lavoro, i datori di lavoro stanno licenziando
i loro operai perché c’è la crisi, figuriamoci se assumono dei detenuti
sconosciuti, magari stranieri. C’è una ricerca fatta dall’Osservatorio
carceri delle Camere penali in dieci tribunali di Sorveglianza che raccoglie i
dati di quante sono, in percentuale, le richieste di misure alternative accolte
e quante respinte. Dai dati emerge che quelle accolte sono il 20, il 25, il 30
per cento, quindi di quali automatismi parliamo? Allora forse bisogna credere un
po’ meno a certe notizie pubblicate dai giornali, che uno dopo pochi anni
esce, che i criminali anche condannati a pene pesantissime escono presto in
libertà, perché non è assolutamente così. In carcere è facile entrare, dal
carcere è molto meno facile uscire.
Tornando
allora al tema della pena giusta, non stiamo discutendo se sia giusto il numero
degli anni che vengono inflitti da un giudice, ma il modo come essa viene
espiata. Se un detenuto sconta la sua pena in un modo umano e dignitoso con la
possibilità di lavorare e studiare, con l’assistenza di educatori e
psicologi, con la vicinanza della sua famiglia, è molto più probabile che esca
dal carcere con la consapevolezza di quello che ha fatto e difficilmente lo
ripeta in futuro. Ma se il detenuto viene privato di tutto questo, gli viene
fatta perdere la dignità e gli vengono inflitte sofferenze aggiuntive, succede
che da colpevole si sente lui stesso vittima ed esce dal carcere avvelenato e
pieno di rabbia, quindi disposto a delinquere più ancora di quando è entrato.
In
questo caso il carcere non è servito a niente, anzi ha ottenuto l’effetto
esattamente contrario. Il mantenimento dei detenuti è costato dei soldi alla
società e questi soldi sono stati spesi per far si che dal carcere escano
delinquenti più esperti e più cattivi di quando sono entrati. Ecco perché il
modo in cui viene scontata la pena è molto più importante del numero di anni
di galera.
È
una colpa anche alzare la testa a fare un sorriso ai propri famigliari durante
il processo
di
Cesk Zefi,
Ristretti Orizzonti
Mi
chiamo Cesk e sono albanese. Sono stato arrestato per detenzione di sostanze
stupefacenti e da quel momento ho dovuto affrontare diversi problemi, come il
carcere, il processo, le sofferenze che ho dato ai miei famigliari e a tutte le
persone a me care.
Nella
fase iniziale della mia detenzione, prima di essere processato, ero interessato
a leggere gli articoli dei giornali che parlavano degli arresti di diversi
autori di reati e dei loro processi.
Mi
colpiva il fatto che alcuni giornali giudicavano come “un comportamento da
strafottente“ quello di qualcuno che, nonostante la pena esemplare che aveva
preso, trovava il coraggio di alzare la testa a fare un sorriso ai propri
famigliari e agli amici per rassicurarli e dare coraggio, perché ne avevano
bisogno.
Mi
ha colpito molto tutto questo, perché pure io sono stato processato e
condannato, però nel momento in cui ho potuto intravedere i miei famigliari,
non ho pensato alla condanna che avevo appena preso, ma ho girato la testa verso
di loro, e mi è venuto un sorriso spontaneo perché cercavano di starmi vicino
e sostenermi. Allora ho alzato la mano per salutarli e cercavo di
tranquillizzarli perché erano diventati pallidi piangendo per me e a malapena
si reggevano in piedi.
Sono
uscito dal tribunale apparentemente sereno come se avessi appena superato un
esame universitario, nonostante avessi avuto una condanna di 4 anni e 6 mesi che
sicuramente non sono pochi, e nonostante io non sia affatto un tipo
“strafottente”, ma semplicemente uno che cerca di rassicurare e tirare su il
morale dei propri famigliari, perché oltre al fatto che devo scontare i più
begli anni della mia vita in carcere, sia per me che per chiunque altro debba
scontare anni in galera una preoccupazione altrettanto forte è il fatto che i
propri famigliari debbano soffrire per colpa sua, e quindi si fa di tutto per
rassicurarli, si è forti proprio per loro, per non appesantire ulteriormente le
loro sofferenze per colpe nostre, per colpe che loro non hanno. Anche nei
colloqui con loro si cerca di ridere e scherzare, di avere un’aria più felice
possibile, io ho cercato di avere un’aria felice a tal punto da sentirmi dire
che non avevano visto nessun altro che si sentiva bene come me in carcere, ma vi
posso assicurare che nessuno e in nessun carcere si trova bene.
Gli
scivolamenti che hanno contrassegnato tutta la mia esistenza
di
Filippo Filippi,
Ristretti Orizzonti
Mi
chiamo Filippo e sono una persona detenuta in carcere da tre anni. Volevo
brevemente parlare di quello che è, per me, l’importantissimo progetto
“Scuola e carcere”, al quale ho partecipato per due anni qui, ma in
precedenza anche nel carcere di Verona, Montorio. È importante perché io,
avendo una storia di tossicodipendenza che parte dall’età adolescenziale,
riesco a parlare con i ragazzi di quelli che sono stati gli inizi, ma non gli
inizi di uso di sostanze, iniziare a bucarsi o a fumare spinelli o a bere in
modo smodatissimo, bensì dei passaggi sottili, gli scivolamenti che hanno
contrassegnato tutta la mia esistenza, oltre trent’anni di tossicodipendenza.
E riesco a farlo con fatica, ripercorrendo proprio quei passaggi che mi hanno
portato in questa situazione, primo fra tutti il fatto che all’epoca non
riuscivo nemmeno a farmi consigliare nulla, non accettavo consigli. Proprio con
gli studenti trovo la forza di raccontare di me, anche se è un’enorme fatica.
Noi
qui cerchiamo di trasmettere le nostre esperienze, senza tante giustificazioni,
del tipo: è stata colpa della società, della mamma, i miei genitori sono
divisi. No, agli studenti non è che bisogna andare a dire un sacco di motivi,
è chiaro che le implicazioni sono molteplici e che la famiglia, la società, il
periodo sociale, tutto conta, ma la prima responsabilità è stata mia, per ciò
che mi riguarda. Nel senso che io ad un certo punto, questo è quello che
racconto agli studenti, ad un certo punto ho smesso di frequentare il gruppo che
faceva le cose bene, che studiava, e ho preferito andare con il gruppo delle
persone che “cazzeggiavano”, passatemi il termine, quelli sono stati gli
inizi. Questo è ciò che racconto, che al posto di andare a scuola, primo anno
di scuola alberghiera, andavo in sala giochi, e per andare in sala giochi ci
volevano i soldi, per avere un po’ di soldi ho cominciato a rubare le
cinquecento lire dalla borsa di mia madre.
Questo
è quello che racconto agli studenti, non è che servono molte cose complicate,
difficili, studi di settore, io credo che sia anche un problema quello di
riuscire a capire l’effetto che possono avere, secondo me dirompente, questi
incontri, dove noi è come se parlassimo a quattrocchi con gli studenti,
interagendo con loro. Perché è fondamentale interagire con i ragazzi, io non
ho figli però faccio a finta di averli quando parlo con loro, perché, a parte
che mi immedesimo e mi riconosco nei loro comportamenti, riesco anche, con
fatica, a rivivere certe situazioni della mia adolescenza.
Da
adolescente poteva capitare che mi ero innamorato di una ragazzina, e non
riuscivo a dirglielo, e allora bevevo, ubriacandomi mi disinibivo, solo che
ubriacandomi magari facevo un incidente in motorino, in macchina, era un
continuo rischio.
Per
me questo progetto è stato fondamentale. Fondamentale molto più di tante
sessioni psicologiche, terapeutiche, psicoterapeutiche, gruppi e tutto quello
che ci va dietro e che ho vissuto in trent’anni di tossicodipendenza. Una
volta infilatomi dentro la droga, sono stato in tante comunità, ho fatto
parecchi anni di carcere, ai ragazzi racconto anche che più di qualche volta mi
è capitato di finire in carcere e mi accorgevo di esserci finito dentro una
settimana, dieci giorni dopo. E questo rende l’idea di cosa può capitare a
una persona che si stravolge in modo smodato, che sia con l’alcool, da noi
riconosciuto come legale, o con altre sostanze cambia poco. E questo non lo dico
perché penso che si debba vietare tutto, ma il problema è che bisogna capire
che, superato un certo grado di dipendenza che è da stabilirsi in ogni singolo
individuo, perché non c’è una regola che vale per tutti, una volta entrati
dentro, può succedere qualsiasi cosa. A cominciare da incidenti disastrosi, ma
anche atti più gravi, alcuni miei amici si sono ritrovati ad aver fatto reati
di sangue gravissimi, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. È questo che
raccontiamo agli studenti.
Non
è per niente facile raccontare i propri reati
Non
ci si abitua mai all’idea del male che si è fatto, ma credo che sia stata
proprio tutta questa fatica a farmi trovare la direzione giusta per dare una
svolta alla mia vita
di
Dritan Iberisha,
Ristretti Orizzonti
Parlare
con gli studenti è per me troppo importante, anzi importante è riduttivo, ma
è l’unica parola che mi viene in mente in questo momento. Parlare coi ragazzi
mi fa vivere in maniera diversa il carcere e in carcere: dialogare con gli
altri, soprattutto con giovani che hanno l’età di mia figlia, mi fa capire i
miei sbagli meglio di qualsiasi altro esempio o ragionamento.
Parlando
sono costretto a riflettere sul passato, ma anche sul presente e perfino sul
futuro: la mia mente è occupata e sono “obbligato” a rimanere attaccato
alla realtà della vita, perché uno dei rischi del carcere, almeno quando il
periodo trascorso dietro le sbarre è lungo come nel mio caso, è quello di
farsi assorbire dalla “vita”, dalle abitudini e dai modi di pensare di
questo luogo, che difficilmente portano a qualcosa di buono.
Invece,
anche adesso mentre sto scrivendo queste parole, alle 10 di mattina di un giorno
in cui la redazione di Ristretti Orizzonti è chiusa, anziché fossilizzarmi nei
soliti discorsi o nei soliti pensieri distruttivi da galera, mi concentro su una
domanda che ultimamente mi accompagna spesso: “Cosa farò oggi? Come potrò
essere utile e come potrò dare un valore alla giornata?”.
E
se ripenso a qualche anno fa, a quando mi svegliavo la mattina con l’obiettivo
principale di trovare il modo per combinare qualche casino, quando la mia
occupazione ed aspirazione massima era quella di scatenare qualche rissa o di
fare a tutti i costi qualcosa che andasse contro le regole, sono il primo a
meravigliarmi per come sto imparando a controllarmi.
Di
conseguenza la mia vita sta cambiando, e stanno cambiando in meglio anche quelle
di mia moglie e di mia figlia che, oltre a trovarmi più paziente e riflessivo,
più “umano”, da qualche anno non sono più costrette a “seguirmi” da un
carcere all’altro come quando, a causa della mia cattiva condotta, venivo
continuamente trasferito. È infatti il quinto anno che faccio parte della
redazione di Ristretti e per me, abituato a cambiare carcere un paio di volte
l’anno, è già questo un motivo di orgoglio che mi fa vivere meglio.
Se
dovessi dare un “valore” a Ristretti, e al progetto con le scuole, la prima
osservazione che mi viene da fare è che si tratta di un’attività molto
“faticosa” (non è mai facile raccontare i propri reati, e non ci si abitua
mai all’idea del male che si è fatto), ma credo che sia stata proprio tutta
questa fatica a farmi trovare la direzione giusta per dare una svolta alla mia
vita.
Sono
cinque anni che partecipo anche al progetto con le scuole, e ogni volta che
entrano gli studenti sono emozionato come le prime volte: ci siamo infatti resi
conto che negli incontri non c’è mai nulla di ripetitivo; gli atteggiamenti
dei ragazzi non sono mai gli stessi, non sai mai quali domande faranno, i loro
pensieri, i giudizi e a volte anche i pregiudizi nei nostri confronti sono
sempre un’incognita. I ragazzi hanno la grande capacità di guardarti dritto
negli occhi e di dirti e di chiederti tutto, tutto quello che un adulto magari
ti risparmia.
Le
domande sono difficili e pungenti, il tempo per ragionare o per riflettere è
minimo e si cerca di rispondere ciò che si pensa veramente. È vero che non
siamo obbligati a rispondere, magari possiamo aspettare che si faccia avanti
qualche altro nostro compagno detenuto, ma quando ci mettiamo a sedere davanti
agli studenti e agli insegnanti dobbiamo almeno essere disponibili al dialogo,
altrimenti il progetto non avrebbe nemmeno senso.
Ogni
volta che entrano le classi e mi metto a sedere di fronte a loro, mi viene
spontaneo pensare a come mi comporterei e cosa risponderei se lì davanti, a
farmi le domande, ci fosse mia figlia, coetanea di quegli studenti, con la
differenza che, mentre a loro che in fin dei conti sono degli sconosciuti,
potrei forse anche rifiutarmi di rispondere, a qualsiasi domanda di mia figlia
– non foss’altro per il fatto che l’ho lasciata da sola quando era ancora
piccolissima, aveva da poco imparato a camminare, e ora ha più di diciotto anni
- non potrei proprio in alcun modo sottrarmi.
Io,
che non sono riuscito a dare consigli nemmeno a mia figlia
Quello
che in libertà è un comportamento assolutamente normale e quotidiano, parlare
con i propri figli, diventa invece un’impresa quasi impossibile dal carcere,
figuriamoci per me che in questi ultimi 16 anni ho “costretto” mia figlia e
mia moglie a girare l’Italia da Nord a Sud in oltre 20 carceri diverse, in
sale colloqui a volte strapiene dove è difficoltoso perfino sentire la voce del
proprio caro, per non parlare dei gesti di tenerezza limitati al minimo.
Io
dunque, che non sono riuscito a dare consigli nemmeno a mia figlia, come posso
darne ai ragazzi delle scuole? Posso quindi limitarmi a raccontare la mia
storia, spiego cosa mi ha portato a sbagliare e descrivo anche le difficoltà
famigliari, ma i ragazzi hanno la capacità di metterti spalle al muro con le
domande più inaspettate. Un giorno una ragazza, dopo aver sentito la mia
storia, e cioè che ero in carcere per omicidio per vendetta, mi ha chiesto:
“Ma se qualcuno facesse del male a tua figlia, tu cosa faresti?”.
Non
sapevo cosa rispondere. Nonostante stessi cercando di ragionare non riuscivo a
mettere a fuoco quale comportamento avrei avuto, e alla fine ho risposto che non
lo sapevo. Sono stato sincero, perché avrei potuto trovare una risposta di
comodo, invece davvero non so come reagirei in una circostanza del genere. Non
lo so veramente, però una cosa l’ho imparata, e anche di questo devo essere
grato al progetto con le scuole: mentre prima pensavo poco e agivo d’istinto,
da ora in avanti, e questo varrà per ogni questione della mia vita, prima di
fare qualsiasi gesto penserò e ragionerò non una ma cento volte.
I
ragazzi, con le loro domande, riescono a metterti a nudo, ti costringono a
pensare e a ragionare facendoti sentire prima di tutto una persona normale.
Giravo
con un coltello in tasca con l’idea di non usarlo mai
di
Rachid Salem,
Ristretti Orizzonti
Questa
è la prima volta che parlo a un convegno, anche se sono tre anni che partecipo.
Mi chiamo Rachid e intervengo spesso nelle scuole, o qui in carcere agli
incontri con gli studenti, a partire dalla mia esperienza di vita, perché io ho
cominciato a 18 anni a girare con un coltello in tasca. Giravo con un coltello
in tasca con l’idea di non usarlo mai, perché è così, succede così a
tutti, di sentirsi più sicuri con un coltello e nello stesso tempo essere
convinti che il coltello resterà sempre in tasca, finché mi è capitato di
avere una discussione con un mio coetaneo e, senza pensare alle conseguenze, ho
tirato fuori questo coltello e l’ho usato con l’idea di “dare una
lezione” a questa persona. Invece non è andata come volevo io, proprio perché
non è vero che ci si pensa prima, soprattutto quando si ha l’incoscienza dei
vent’anni, e questo ragazzo è morto dissanguato.
Io
ho avuto una condanna di 16 anni, e ho scontato più della metà della pena. Non
mi sento di dare consigli a nessuno perché non sono adatto a farlo, ma leggo
tanti casi nella cronaca nera di studenti che si accoltellano anche a scuola, e
di ragazzini minorenni che girano con un coltellino, non siamo solo noi
stranieri che giriamo con il coltello o che facciamo questi reati. E allora
negli incontri con gli studenti quello che faccio è mandare un piccolo
messaggio per far capire a questi ragazzi che a girare con un coltello in tasca,
prima o poi si arriva ad usarlo, si arriva ad usarlo e finisce con una tragedia,
come l’ho vissuta io, che ho rovinato due famiglie, ho rovinato la famiglia
della persona che ho ucciso e ho rovinato anche la mia, che non vedo da circa 11
anni.