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Rieducazione e trattamento. È vero che l’etica, l’ideologia, l’impostazione normativa sul trattamento sono in crisi?
Ne abbiamo parlato con Giovanni Tamburino, magistrato, direttore dell’Ufficio Studi del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria
Giovanni Tamburino, magistrato, è direttore dell’Ufficio Studi del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e degente di lungo corso delle patrie galere, come si è definito lui stesso, in un incontro nella Redazione di Ristretti Orizzonti: anni di "frequentazione" delle carceri gli hanno dato infatti una conoscenza più che approfondita delle nostre galere. Con lui abbiamo parlato di "trattamento", parola orrenda che usiamo per definire tutto quello che viene fatto, o dovrebbe essere fatto per favorire un reinserimento del detenuto nel tessuto sociale.
Giovanni Tamburino: Vorrei fare una premessa. Io seguo la vostra rivista, la leggo e la apprezzo perché è una rivista che mi sembra faccia uno sforzo di sincerità, e che si distingue da tante altre, dato che spesso la produzione scritta che viene dagli istituti è un po’ impostata sulla giustificazione, il giustificazionismo, o l’autocompatimento. Questo ha naturalmente delle ragioni, che chiunque capisce: tenete presente che io frequento le carceri ormai da oltre trent’anni, esattamente da trentadue, e quindi possiamo parlare con franchezza. Ora, questa vostra rivista cerca, direi in modo particolarmente forte, di liberarsi da questo aspetto, ed è una cosa positiva, che io apprezzo, perché i problemi vanno considerati da tutti gli angoli visuali. Evidentemente ognuno parte dal proprio e conosce meglio il proprio, questo è ovvio e non è eliminabile, però è importante confrontarsi con gli altri, sennò si fa una cosa rivolta solo a se stessi. Voi cercate di fare una rivista che parla anche agli altri, grazie alla rottura di questa specie di capsula, in cui spesso si trova la produzione letteraria delle carceri, che finisce sempre per essere, appunto, segnata da una nota di compatimento o di giustificazione.
Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Questa premessa naturalmente ci fa un gran piacere, ci piace soprattutto che venga apprezzato il nostro "sforzo di sincerità". Oggi con lei vorremmo parlare del "trattamento", che ci sembra veramente in crisi, per l’insufficienza di personale (a Padova ci sono due educatrici e "mezza" per 700 detenuti) ma, forse, anche perché c’è un forte disinteresse al riguardo, e pare che in tanti non ci credano più.
Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Partiamo comunque da un problema particolare del trattamento, il fatto che negli ultimi anni è cambiato anche il ruolo degli agenti, che oggi dovrebbero essere più direttamente coinvolti in una funzione trattamentale. Secondo lei, la loro formazione è fatta tenendo conto di questo nuovo ruolo che gli è attribuito?
Giovanni Tamburino: L’attribuzione al personale di custodia di compiti anche trattamentali risale alla legge del ‘92, che ha riformato il corpo degli agenti di custodia, facendoli diventare polizia penitenziaria: cambiamento di denominazione, civilizzazione, cioè non più corpo militare ma corpo civile e, in uno degli articoli della legge, si dice chiaramente che la polizia penitenziaria concorre, con gli altri operatori, all’attuazione delle attività trattamentali. Da allora, sul piano della formazione, direi che si fa abbastanza per dare questa nuova impostazione, questo nuovo taglio, alla polizia penitenziaria. Diciamo però che rimane un problema di fondo, quello di mettere insieme due competenze che, a un certo momento, divergono e, forse, sono difficilmente compatibili. Esistono anche altri modelli, e ve ne voglio citare uno: quello spagnolo. La Spagna è un paese di recente accesso alla democrazia, ma proprio per questo è quello che si è avvalso di più e meglio delle esperienze degli altri, in vari campi. Nel campo penitenziario qual è stata la soluzione adottata? Praticamente nelle carceri c’è un personale che ha compiti trattamentali e insieme compiti di sicurezza, con delle specializzazioni; all’interno. Il servizio di sicurezza vero viene effettuato dall’esterno, dalla polizia normale: è un servizio perimetrale e, naturalmente, ove occorra la polizia interviene, però tutto il personale interno ha compiti trattamentali. Questo modello non riguarda tutto il settore penitenziario spagnolo, però la maggior parte degli istituti: al primo contatto lascia anche perplessi, ed è difficile, dal nostro punto di vista, immaginare che possa funzionare, però funziona, abbiamo visto che funziona. Probabilmente il problema di conciliare questi due compiti (la custodia e il trattamento), ma anche due mentalità, due preparazioni diverse, esiste dappertutto. Parliamoci con franchezza, la preparazione destinata alla custodia, alla tutela dal rischio, è una preparazione che deve basarsi sulla sfiducia, sul sospetto, sulla preoccupazione. Questo atteggiamento è difficile da conciliare con l’atteggiamento educativo, che si fonda invece sulla fiducia. Allora vedete che qui, alla radice, c’è una spaccatura che è difficile da conciliare.
Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Io volevo chiedere se c’è un criterio di distribuzione, sul territorio nazionale, degli educatori. In tutta Italia ci sono 600 educatori per quasi 60.000 detenuti, quindi un educatore ogni 100 reclusi. Ma in carceri come Padova, dove ci sono circa 700 detenuti, ne abbiamo due e mezzo. Le conseguenze ricadono su di noi, molte camere di consiglio vengono rinviate perché non ci sono le relazioni di sintesi e questo è un problema forte, che noi sentiamo molto.
Giovanni Tamburino: Riguardo alla distribuzione del personale devo premettere che è un settore dell’amministrazione penitenziaria che conosco poco e che viene gestito da un’apposita direzione generale che, come si può immaginare, è afflitta da molti problemi. La realtà del personale (che poi è fatta di uomini, persone, con tutti i loro problemi), tende a diventare una cosa autonoma, che ha le sue esigenze, per cui quella domanda che si potrebbe porre dall’esterno in termini molto semplici "Ma perché, se in quel posto occorrono due persone, ce n’è solo una o ce ne stanno zero?", poi diventa molto complicata quando la si va a rapportare con i bisogni delle persone, per tutti i motivi che sono intuibili, come lo stare vicino alle famiglie. Per fare un altro esempio, noto a tutti, sapete che c’è anche un criterio che riguarda la polizia penitenziaria. Questo è notissimo, non occorre che lo dica io: se si va a vedere nel meridione d’Italia ci sono dei rapporti numerici molto diversi da quelli che ci sono a Monza, a Padova, a Tolmezzo, a Udine, c’è una sproporzione da uno a due. La domanda sulla distribuzione del personale potrebbe essere posta anche in relazione a questo, e non potrei che rispondere come ho detto un attimo fa, cioè che giocano tutta una serie di fattori, a volte anche di carattere personale. Con questo non intendo dire che siano capricci, magari ci sono esigenze anche serie, abitative, familiari, però alla fine il risultato è che l’amministrazione non risponde, o risponde poco, a certe esigenze. Il secondo aspetto è quello di una stasi nelle assunzioni, o comunque nell’aumento del personale destinato alle attività trattamentali. Anche questa è una domanda difficile, perché dovremmo riprendere un punto toccato nella prima domanda, e cioè: "Il trattamento è in crisi? L’etica, l’ideologia, l’impostazione normativa sul trattamento, sono in crisi"? Noi abbiamo una legge degli anni 70 che ha abbracciato abbastanza con convinzione questa ideologia, o etica, del trattamento. Sono passati 25 anni, da quel momento (di più se si guarda alla concezione della legge), e in questo periodo molte cose sono cambiate. La fiducia nel trattamento, in campo internazionale, è calata, ed è calata per due ragioni essenziali: una di carattere economico, perché costa, e la seconda, strettamente collegata a questa, perché sembra che renda poco. La crisi di questa ideologia è arrivata proprio quando si è cominciato a cercare di misurare quanto "rende" in termini di recidiva, perché è questa l’unica domanda legittima che si può porre ad un sistema trattamentale. Se a questa domanda si dà una risposta negativa, si dice che incide poco o, peggio, non incide per nulla, la ragione della spesa viene meno, o diventa meno forte. A questa obiezione degli antitrattamentalisti, cioè quelli che sono critici verso il trattamento, si risponde dicendo che non è il trattamento che non rende, ma è la circostanza che non viene fatto come dovrebbe essere fatto, o non viene fatto per niente. Dire quale di queste due posizioni sia fondata è difficile, perché dovremmo approfondire molto questo punto. Sta di fatto che, sul piano internazionale, un certo numero di paesi si è orientato per abbandonare l’ideologia del trattamento, e sostituirla con altre forme o con altri tipi di risposta, magari spendendo gli stessi soldi, o investendo addirittura risorse maggiori, però nella convinzione (o nell’illusione) che siano soldi spesi meglio. Ripeto, a volte è soltanto un’illusione, però questo è il panorama generale nel quale ci muoviamo. Nel nostro paese non c’è stato il rifiuto dell’ideologia del trattamento, né sul piano normativo né sul piano politico-ideologico, anche perché abbiamo un ancoraggio, che è molto forte, nell’articolo 27 della Costituzione, che pone un obiettivo della pena, tendere alla rieducazione. Quello è un pilastro che non esiste in altri paesi a livello costituzionale, e che nel nostro paese invece esiste. Quindi sul piano dei principi e anche delle disposizioni di legge non c’è stato un rifiuto, un tornare indietro, però la crisi complessiva di questa ideologia può spiegare (assieme ad altri fattori) perché sia stata un po’ abbandonata, cioè perché in sostanza si sia detto: "Lasciamo pure che il fiume scorra, però noi non costruiamo più argini. Che vada, continui ad andare, però non ci impegniamo molto a lavorare, perché non sappiamo se serve, non sappiamo se facciamo una cosa utile, non sappiamo se sono soldi ben spesi". È interessante appunto vedere che nel ‘92, quindi in epoca recente, si è cercato, più che di investire specificamente nel trattamento, di utilizzare gli operatori esistenti: non pensiamo più ad una specializzazione, a qualcuno che lavori solo per il trattamento, ma utilizziamo le risorse che abbiamo. Poi c’è da dire che la stessa idea del trattamento non è del tutto chiara, cioè su cosa significhi il trattamento, su come si possa fare trattamento, occorre ancora approfondire: bisognerebbe capire di più cosa vuol dire, quali sono gli obiettivi. Io vivo le cose dall’altra parte, però mi chiedo molto spesso se il detenuto ci crede, quanto ci crede, quanti detenuti ci credono. Per essere banale (e, se volete, anche brutale) faccio un esempio molto chiaro: se si dicesse che quel denaro viene messo da parte per un’attività lavorativa, quanti detenuti direbbero "Preferisco così"? Mi rendo conto che sono esempi estremi, ma li faccio per mostrare qual è il punto finale del ragionamento: credere al trattamento fino in fondo significa condividerne le finalità, ma condividere le finalità del trattamento vuol dire uscire da un’ottica di recidiva.
Nicola Sansonna: Ma per uscire dalla recidiva devi anche trovare una situazione esterna dove non sei lasciato a te stesso e, secondo me, questa è una delle cose che mancano di più. Io sono in galera da 24 anni, ho avuto anche qualche fallimento, rientro un po’ in quelli che vengono chiamati i casi di recidiva, e posso dire però che all’interno del carcere il trattamento mi è servito a ricostruire la mia personalità, mi ha aiutato ad avere fiducia in me stesso, a cercare di andare avanti, a trovare la forza di dire che ce la posso fare. Però tante volte esci fuori in misura alternativa e la realtà che trovi non è quella che hai qua, dove puoi usare strumenti informatici, frequentare corsi ed essere in contatto con persone di un certo livello. Fuori magari devi tagliare l’erba per 400 euro al mese, e poi tornare dentro a dormire. Non hai altri spazi, non hai la possibilità di curare degli interessi culturali, se io fossi religioso non potrei andare nemmeno a messa, perché chi è in articolo 21 o in semilibertà non lo può fare. Dal punto di vista umano bisognerebbe ripensare qualcosa, dare anche qualche opportunità di contatti culturali e di relazioni.
Alessandro Pinti (Ristretti Orizzonti): Io aggiungerei che i risultati del trattamento non devono essere misurati soltanto in termini di recidiva, il suo successo è stato che oggi le carceri sono governabili, sotto tutti i punti di vista, proprio per la maturità e la consapevolezza che è più forte nei detenuti. Perché oggi un detenuto, per quanto possa fingere, sta cercando con maturità di rivedere parte degli errori che ha commesso. È chiaro che se uno, dopo vent’anni, va fuori e va a tagliare l’erba e basta, è molto facile che gli venga voglia di andare a rubare un’altra volta, ma se una persona viene messa nelle condizioni di fare un percorso di analisi critica, complessiva, del proprio passato, quando andrà a tagliare l’erba probabilmente gli verranno in testa altri progetti, altre relazioni sociali. Cioè un eventuale fallimento concreto nella sua vita fuori non sarà il fallimento del trattamento, ma sarà la constatazione che la vita è dura, che bisogna guadagnarsi gli spazi per vivere e per andare avanti.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Io vorrei dire invece che mi ha un po’ "spaventato" la sua ultima affermazione, quella dove lei ha detto che forse non ne vale la pena, e mi sono visto l’ammalato di cancro al quale si decide quasi di negare l’operazione o le cure perché ha solo il 30 % di possibilità di salvarsi, e allora tanto vale non sprecare soldi. Anch’io penso che probabilmente il trattamento avrebbe bisogno di essere rivisto, così com’è non è sufficientemente incisivo, ma sono anche del parere che a nessuno debba essere negata la possibilità di rivedersi e recuperarsi, e senza il sostegno delle attività trattamentali questo non è facile, per non dire impossibile. Recuperare anche "solo" il 30 % di 60.000 persone significa reinserire nel tessuto sociale circa 18.000 individui che non rappresentano più un pericolo per la collettività, che rispettano le regole, e in questo caso non mi sembra si siano sprecate risorse economiche, ma penso piuttosto che si sia effettuato un investimento lungimirante. È forse giusto gettare la chiave dicendo "Se ce la fate bene, altrimenti arrangiatevi, per voi non spendiamo più nulla?". Lei ha anticipato che era un’affermazione cruda, che non rispecchia il suo punto di vista, ma la strada imboccata ultimamente e lo scarso interesse per il carcere sembrano portare proprio in questa direzione.
Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Rispetto al doppio ruolo degli agenti di polizia penitenziaria, quello della sicurezza e quello rieducativo, è una schizofrenia che si sente, all’interno del carcere italiano, che dovrebbe avere questo compito… ma più che un compito si rivela una velleità rieducativa. Può essere che i numeri della recidiva arrivino anche un po’ da questa contraddizione del carcere. Molti lamentano che c’è solo il 30 % che non ricade nella recidiva, ed io ogni tanto mi meraviglio che ci sia addirittura il 30 % che non ci ricade, perché la mia impressione è che quando ci sono dei percorsi di ravvedimento - e ci sono, all’interno del carcere - questi avvengano non "grazie" ma "nonostante" il carcere. Il carcere mette la persona di fronte a un modello che dovrebbe seguire, ma in realtà è un modello schizofrenico, è un modello che a volte gli dà esempi di ingiustizia, se non di abuso e sopraffazione.
Giovanni Tamburino: Faccio una premessa: io non sono contro la rieducazione, e da questo punto di vista non sono neanche contro il trattamento anche se, in questa nozione, c’è qualcosa che mi sembra un po’ oscuro, che richiederebbe un ulteriore chiarimento che io non riesco a darmi. Questa è una riserva che non significa però contrarietà, perché se avessi una ragione di contrarietà avrei già risposto dicendo che è fatica sprecato. Penso che, alla fine, questo chiarimento può e deve venire dagli utenti. In sostanza il trattamento è una sorta di servizio e sono gli utenti, alla fine, che dicono se questo servizio serve, se va bene, se è efficace, se lo vogliono e se giova, se ha qualche risultato. Anche se poi è vero che la società magari è sempre più avara e pian piano si abbandona all’idea che ognuno si arrangi. Questa è esattamente l’opposto della mia idea, e direi che è l’opposto dell’idea della società voluta nella Costituzione del ‘48, è la negazione radicale dell’idea di società della Costituzione, che è una società di solidarietà. E questo non per ragioni etiche o religiose, ma perché il costituente nel ‘48 usciva da una situazione per la quale sapeva che l’altro modello, la società non solidale, non può che portare al conflitto, alla violenza, alla guerra, e noi uscivamo appunto da un conflitto che era diventato conflitto generale, e dall’idea di distruggere una popolazione perché era di una determinata razza. Però, attenzione, nella storia non esiste un vaccino che duri per sempre, non esiste a livello individuale e neanche a livello sociale. In alcuni paesi il trattamento è iniziato decenni prima che nel nostro paese, ed è lì che si sono manifestate le critiche, cioè ad un certo momento si è detto di fare un bilancio, di vedere cosa ne è venuto fuori. Non è che queste critiche siano condivise da tutti, però è sorta una forte tendenza a criticare il trattamento, in sostanza dicendo che si parla di una cosa che non si capisce bene cos’è, che spesso i detenuti, i diretti interessati, gli utenti finali, se andiamo a farli parlare sinceramente, a distanza di tempo, dicono che è servito poco o non è servito per nulla. Siccome il trattamento ha dei costi alti, questi argomenti hanno portato a quel tipo di critica. In più c’è quell’atteggiamento, di carattere politico generale, tendente a dire che è necessario ridurre le spese in generale, per cui se le riduciamo per la scuola, le riduciamo per la sanità, perché non le dobbiamo ridurre per il carcere? Nell’altra osservazione, invece, si parla della governabilità degli istituti, ma su questo aspetto bisogna fare un po’ di attenzione… lasciate che vi riferisca la mia esperienza personale. Io sono entrato in carcere nel 1970, ed ho visto il carcere di prima, l’ho visto per sei anni, perché la riforma è cominciata parecchio dopo: ebbene, la gestibilità esisteva anche prima della riforma, anche se abbiamo avuto un periodo di forte turbolenza, il periodo della transizione, perché come sempre le turbolenze si hanno nelle transizioni. La gestibilità degli istituti, anche senza ricorrere a strumenti di rigore, si può ottenere per esempio attraverso la gestione dei benefici, che non sono il trattamento. Non dobbiamo confondere, ancora una volta, due idee diverse, perché il beneficio di per sé non è trattamento. Il punto è che il trattamento non è solo un problema di gestibilità, anzi non deve essere problema di gestibilità, deve essere un’altra cosa. Torno alla recidiva. Non c’è solo quella, c’è anche il problema di agevolare la ricostruzione della persona: ecco, questo è un obiettivo importante, reale, è un obiettivo ulteriore rispetto alla recidiva, ed è un obiettivo positivo. Mi chiedo, però, se possa essere incluso negli obiettivi della pena. Questa domanda ha due versanti, è un punto difficile da chiarire. Il primo versante è questo: in sostanza, la società ha diritto di utilizzare la pena per intervenire sulle persone che sono soggette alla pena stessa? Il secondo versante, che è collegato, è questo: perché dovremmo dare questo tipo di servizio a persone che sono condannate, quando non lo diamo agli altri? Dal punto di vista giuridico la risposta è molto semplice, la legge prevede questo, punto e basta, ma qui stiamo discutendo su un piano precedente, per così dire, rispetto alla legge. Stiamo vedendo quanto tiene questa costruzione, e arriviamo al nocciolo di tutta la questione: la rieducazione, spesso, avviene non "grazie al carcere", ma "nonostante il carcere". C’è una forte resistenza, da parte di chi opera nelle istituzioni, ad ammettere questo, però, realisticamente, oggi sarei portato a dire che quest’affermazione coglie un aspetto di verità. È il problema principale del carcere, di questa sanzione che sembra non avere alternative, che oggi non ha alternative reali, nel mondo, nella storia. Però tutti devono ammettere che non è una buona cosa, e, allora, ci ritroviamo tutti nella stessa situazione, ad essere disarmati, pur su posizioni diverse.
Ornella Favero: Io sono convinta che nel discorso del trattamento ci sia un difetto di fondo, che è uno scarsissimo legame con il "fuori". Il trattamento, che dovrebbe preparare ad uscire, in realtà molto spesso è troppo "rinchiuso" nel carcere. Se invece il discorso del trattamento toccasse, in qualche modo, tutta la vita della persona, con il lavoro, ma anche gli affetti, il bisogno di relazioni, la cultura, con una forte proiezione verso l’esterno, forse ci si potrebbe anche credere di più, non nei termini tradizionali della rieducazione, perché è difficile che io rieduchi una persona di 40 - 50 anni, però nel senso di ricreare un rapporto con il mondo esterno, che si è spezzato o in certi casi non è mai esistito. Forse bisognerebbe rimettere in discussione il concetto di trattamento, più che decretarne troppo in fretta il fallimento.
Giovanni Tamburino: Torno a dire che non condivido l’idea che il trattamento sia un fallimento, e mi sembra, però, che anche da tutto quello che è venuto fuori oggi, sia vero che esistono degli aspetti problematici. Però lo sforzo che stiamo facendo è di capire, perché sempre da là si parte. C’è un momento in cui certe cose sono credute dalla società, e allora la politica segue, mentre ci sono delle cose alle quali ad un certo punto la società crede meno, o non crede più, o dubita, o si insinuano delle perplessità, e allora la politica si tira indietro, soprattutto in un momento in cui c’è questa tendenza a smobilitare. Lo Stato fa passi indietro, ripeto, non nel settore penitenziario, ma in tanti altri settori, smobilita, lascia, e allora bisogna porsi effettivamente questi problemi. Manca qualcosa di positivo come riscontro, occorrerebbe questo qualcosa di positivo, per rilanciare un concetto che, altrimenti, visto appunto il clima nel quale siamo, corre dei rischi, a mio parere. Ecco, occorre rilanciare qualcosa di positivo, perché queste cose positive ci sono, e voi nella vostra rivista lo evidenziate. Anche noi, come Dipartimento, un po’ cerchiamo di farlo, forse non abbastanza o non abbastanza bene. Nella nostra rivista, Le due città, ad esempio, mostriamo senza trionfalismi come in molti istituti il trattamento sia una realtà, e non sotto il profilo della governabilità, ma sotto il profilo che gli operatori sono più contenti, vivono meglio, si vive meglio. Anche questa è una comunità, è una piccola società, ma è un settore della società e, quindi, se questo settore è meno intossicato, tutta la società è meno intossicata. Intervista all’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone
Il nuovo regolamento... ancora al palo
Nonostante ci fossero risorse economiche importanti, non si è fatto quasi nulla per ristrutturare le carceri e attuare le riforme
Fino a un anno fa lei era Sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri. Durante il suo mandato sembrava esserci una certa attenzione al cosiddetto "trattamento" per i detenuti, mentre adesso pare che l’attenzione sia rivolta altrove… Quello del "trattamento rieducativo" è un concetto che ha un fondo di equivoco, perché dà l’idea che ci siano delle persone che possono davvero rieducare e altre persone davvero disponibili ad essere rieducate. È un concetto non felicissimo, che io tradurrei invece così: il carcere, per rimediare al paradosso che rappresenta, avrebbe bisogno di rapporti umani, di relazioni. Questa è la sfida, perché se noi non vogliamo alzare la bandiera della "liberazione dal carcere" e prendiamo atto che è una struttura esistente, ma vogliamo che risponda a dei principi, a delle speranze, a delle suggestioni sul reinserimento o, meglio, sull’inserimento sociale, c’è bisogno di relazioni umane. C’è bisogno di un percorso. Perché non possiamo idealizzare il detenuto come una persona che per sbaglio si trova nella struttura di contenimento. È una persona che ha avuto una vita spesso difficile, per mille motivi, ma dobbiamo anche rispettare la soggettività che l’ha portato a fare certe cose. Quindi io sono contro, sempre, all’irresponsabilità o all’incapacità di intendere e di volere, o all’idea che chi è in carcere è una vittima della società, della famiglia, dei genitori, etc., etc. Rispettandone la soggettività possiamo contemporaneamente impegnare ogni persona in un percorso diverso, il problema è che dobbiamo darle delle opportunità, e questa è la cosa più difficile. In alcuni casi, poi, bisogna riuscire a dare dei valori diversi. Se i valori dominanti nella nostra società sono il denaro, la forza, il successo, mi pare difficile pensare all’inserimento degli ex detenuti finché diamo loro la prospettiva di vivere con un lavoro poco interessante e, magari, con un milione al mese. È chiaro che così non può funzionare. Ci vogliono percorsi, relazioni e prospettive vere d’inserimento. Per questo bisogna immaginare una "non discriminazione" e, soprattutto, la possibilità di far emergere dal carcere delle capacità, anche imprenditoriali, per dei lavori che abbiano un margine di autonomia, perché l’idea del lavoro dipendente (a parte la crisi complessiva del lavoro dipendente) non è molto motivante.
Per realizzare tutti questi propositi serve personale specializzato e in numero sufficiente: finché avremo un educatore ogni 200 detenuti e un assistente sociale ogni 400 c’è ben poco da sperare… Occorre senz’altro personale di altissima capacità, di altissimo valore, e qui tocchiamo il punto dolente, perché l’Amministrazione penitenziaria ha delle carenze numeriche e, in parte, anche qualitative, nella disponibilità di personale. Il carcere non può limitarsi a tener buoni i detenuti, deve avere delle progettualità diverse, deve saper guardare lontano. Io avevo lanciato l’idea – e spero che qualcuno la riprenda – che il personale del trattamento fosse personale degli Enti locali (Comuni, Province e Regioni) comandato a lavorare in carcere, magari per uno, due, o tre anni, ma avendo conoscenza dei meccanismi del lavoro e del territorio e della rete produttiva, avendo contatti con i sindacati e gli imprenditori. Questo, forse, potrebbe essere – assieme alle più tradizionali figure del trattamento psicologico – il modo giusto per affrontare i problemi legati all’inserimento lavorativo, all’applicazione della legge Smuraglia per il lavoro dei detenuti, e così via.
Che cosa pensa, invece, dell’idea di stipulare convenzioni con soggetti privati perché si occupino del trattamento dei detenuti? Ad esempio del progetto iniziato alla Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia, che dovrebbe coinvolgere la Comunità di San Patrignano? In questo momento a Castelfranco Emilia è tutto bloccato, perché ci sono grosse difficoltà giuridiche e politiche per definire il modello che dovrebbe essere alla base dell’accordo tra il Ministero della Giustizia e la Comunità. Quando ho saputo di questo progetto sono stato il primo a denunciarlo: era un blitz, voluto soprattutto dal ministro Moratti – più che dal ministro Castelli – per i suoi legami con San Patrignano. Il problema è che quella Casa di Lavoro è comunque un carcere, quindi nessuno ha spiegato in cosa sarebbe consistita la responsabilità di San Patrignano. Se la struttura viene regalata (o data in comodato) a San Patrignano, che ci fa un’altra Comunità, allora non c’è nulla da dire. Invece se lì ci sono dei detenuti, con un direttore di carcere, con la polizia penitenziaria, come potrebbe funzionare la coabitazione? Nessuno ha saputo spiegarlo.
Si tratta soltanto di una questione burocratica, per la definizione delle rispettive funzioni, oppure secondo lei ci sono rischi concreti, legati al possibile ingresso dei privati nella gestione delle carceri? Se io sono detenuto, sono un cittadino detenuto con i diritti della Legge penitenziaria e del Regolamento e non posso essere sottoposto a regole fissate da un privato, altrimenti scendiamo davvero in un esperimento di privatizzazione del trattamento e, per fare questo, bisogna prima affrontare un dibattito politico - costituzionale, che non si è fatto: ecco perché, per il momento, il progetto si è fermato… ma credo che vorrebbero andare avanti. Il "modello San Patrignano" può funzionare, io non dico che non funzioni, ma il modello di Comunità, qualunque essa sia (e a maggior ragione se è una Comunità autoritaria), può funzionare solo partendo dalla libera accettazione, da parte del soggetto, delle regole che dovrà rispettare. In un carcere anche le regole sono stabilite da leggi e norme, non c’è libera accettazione, non c’è la possibilità di scegliere di andarsene, quindi il carcere e la Comunità terapeutica sono cose molto diverse.
La legge di riforma della medicina penitenziaria ha due anni di vita. La sperimentazione sul passaggio di competenze, dal Ministero della Giustizia al Ministero della Sanità, sembra essersi persa nel nulla. Mi pare che questo Governo, in un anno, abbia lasciato un disastro… non mi viene una parola più tenue. In alcune regioni non si è fatta la sperimentazione sul passaggio al Ministero della Sanità; non si è proseguito nel dare responsabilità ai Ser.T. per le politiche sulle tossicodipendenze; per il passaggio complessivo delle competenze ora si dirà che, siccome la sperimentazione non è stata fatta, bisogna tornare indietro… Rimane il fatto che c’è una legge per cui le tossicodipendenze sono nella competenza del Servizio Sanitario Nazionale, quindi si può anche scavalcare e annullare il passaggio complessivo della medicina penitenziaria, ma sulle tossicodipendenze mi domando cosa si è fatto e cosa s’intende fare, perché altrimenti qui non c’è solo da affossarla nei fatti, bisogna cambiare la legge altrimenti si è inadempienti. Cosa ci può dire invece, per quanto riguarda l’applicazione del nuovo Regolamento Penitenziario? È passato un anno e, nonostante ci fossero risorse economiche importanti, non si è fatto quasi nulla per quanto riguarda la ristrutturazione delle carceri prevista dal nuovo Regolamento. Io mi pongo il problema dell’utilità di avere, al vertice del Ministero della Giustizia, un ingegnere, che poi non si è dedicato a fare gli interventi strutturali che servono per dare applicazione al Regolamento Penitenziario. Non si tratta di sognare la riapertura di Pianosa, o vendere San Vittore, ma di ristrutturare le carceri esistenti in funzione del Regolamento, che è già un progetto trattamentale.
Recentemente a Padova abbiamo organizzato una giornata di studi per rilanciare il dibattito sul diritto all’affettività per le persone detenute. Anche lei si fece promotore di un’iniziativa in questo senso, inserendola nella bozza del nuovo Regolamento, ma non è andata a buon fine. Dopo quell’esperienza, quali suggerimenti può darci per vincere questa battaglia di civiltà? Purtroppo il Consiglio di Stato ha bloccato la proposta di sperimentazione che avevamo presentato. Suggerì (e di fatto impose) la via della legge. Mi auguro che, proprio a partire dai risultati del convegno fatto a Padova, ci siano le forze parlamentari, appartenenti a tutti gli schieramenti politici, per far approvare rapidamente questa proposta. D’altronde gli esempi in Europa sono tanti, in paesi con culture e religioni diverse, e penso che se la proposta riprende la mia idea, cioè di non prevedere colloqui di una o due ore ma un incontro "allargato" con la famiglia, si possano superare quelle obiezioni un po’ moralistiche che vengono talvolta fatte e, forse, anche le resistenze che ci sono tra le stesse persone interessate. Dire... non dire... dire troppo poco...
Gli impossibili equilibri dell’informazione dal carcere, di Ornella Favero
I fatti nudi e crudi
I fatti in realtà sono molto nudi, perché non ne sappiamo un granché, poco abbiamo visto e ancor meno ci hanno detto, ma in compenso ci abbiamo guadagnato una denuncia per favoreggiamento e per ora ci basta. Lunedì 24 giugno: Abbiamo sentito delle urla forti, siamo usciti dalla redazione a vedere cosa succedeva, morale della favola, non abbiamo visto pressoché nulla, dal momento che i fatti erano già avvenuti, ma abbiamo capito che c’era appena stato un conflitto, o forse un contatto, un’aggressione, uno scontro, un pestaggio, "qualcosa" insomma fra detenuti di ritorno dai passeggi (2 ?) e agenti. Quello che ho fatto io poi è una sola cosa: invitare ripetutamente i detenuti a rientrare nelle aule, sapendo bene come fanno presto a scattare i rapporti disciplinari e quanto delicata poteva essere la situazione in un luogo in cui è meglio, molto meglio anche per noi "esterni" essere cittadini "prudenti" e passivi, piuttosto che cittadini maturi e consapevoli che non fanno a finta di non sentire se qualcosa di strano sta accadendo. Io da parte mia mi assumo la responsabilità di dire che sono stata abbastanza vigliacca: in un attimo ho avuto solo il tempo di pensare ai detenuti che conoscevo, e che non volevo si cacciassero nei pasticci, e non mi sono affatto interessata di chi urlava e perché: Un comportamento piuttosto deprimente, direi, se fossi stata fuori, per strada, e non mi fossi fermata a vedere se qualcuno per caso stava violando i diritti di qualcun altro. Ma così vanno le cose in carcere. Alla fine (il fatto è durato qualche minuto) tutti sono rientrati senza nessun disordine, e io e Paola, le sole "esterne" presenti, in aggiunta abbiamo ritenuto corretto passare dal Comandante a riferire quel che era successo. Martedì 25 giugno: vengo chiamata all’Ufficio Comando, e penso che vogliano sapere più dettagliatamente come sono andati i fatti. Troppo ingenua! Dopo cinque anni di assoluta correttezza nel mio rapporto con l’"Istituzione carcere", mi vengono chieste le generalità e vengo invitata a nominare un difensore di fiducia. Reato contestato: favoreggiamento. La stessa cosa tocca a Paola Soligon e a un detenuto della redazione, Nicola Sansonna.
Storia di cinque anni di ragionevolezza
Ecco, la questione è tutta lì, nella correttezza. O meglio nella ragionevolezza. Cinque anni di vita di questo giornale, cinque anni di ragionevolezza, ma la ragionevolezza spesso fa a pugni col carcere, e allora è meglio sapere che il carcere prima o poi ti presenta il conto. La prima reazione, di fronte a una accusa come quella che ci è stata rivolta, è di pentirsi: pentirsi di essere stati troppo sensati, di aver portato avanti per anni battaglie perché il giornale non fosse il luogo delle lamentele e dei vittimismi, ma quello delle discussioni feroci e del coraggio di affrontare, nero su bianco, anche i temi che i detenuti amano meno, i tabù carcerari, quelli che il conformismo della galera tende a far sparire. Quando ti avventuri sul terreno dell’informazione, ti insegnano sempre che un buon giornalista è quello che scontenta un po’ tutti. In carcere, a differenza di tanti giornali "liberi" che non scontentano mai nessuno, ci abbiamo tentato davvero, di scontentare un po’ tutti, quando ce n’era bisogno: abbiamo scontentato molti detenuti, perché non abbiamo urlato e denunciato abbastanza, ma abbiamo scontentato pure "l’istituzione carcere", nel senso che anche ai direttori e agli operatori più illuminati dà fastidio che si mettano a nudo le cose che non funzionano, figurarsi a quelli non illuminati! Ma noi non vogliamo affatto pentirci della nostra ragionevolezza, sarebbe come "dargliela vinta" a chi pensa che i detenuti siano poco più che bestie, e come tali vorrebbe trattarli. La ragionevolezza, la pacatezza, la sobrietà sono qualità della nostra scrittura alle quali non vogliamo rinunciare, nemmeno ora che a tutti noi, me compresa, che vado predicando da anni noiosamente l’importanza di "raffreddare i toni", verrebbe voglia di dare un calcio a tutto ed essere sinceri fino in fondo, cioè rabbiosamente indignati per come siamo stati trattati.
Mi viene da dire: in questa storia sono stata trattata come un detenuto
Questa frase merita però una spiegazione. Un famoso giornalista tedesco un bel giorno decise di capire cosa si prova a vivere da immigrato in Germania e passò un anno travestito da lavoratore turco: fu un’esperienza sconvolgente. Io ho vissuto una piccolissima esperienza che mi ha dato però, per un attimo, la sensazione precisa di cosa vuol dire essere detenuto. Voglio prima precisare una cosa: non credo affatto a chi ama troppo le formule tipo "poveri detenuti", non ignoro i livelli di violenza e sopraffazione che certi detenuti esercitano, non penso neppure lontanamente che gli agenti stiano tutti a fare il loro lavoro con l’idea di umiliare i detenuti. Però credo che, non essendoci nessun tipo di tutela di chi sta in carcere e pochissima trasparenza su quello che succede all’interno delle galere, un detenuto che voglia tenere un percorso "regolare" per arrivare ai benefici debba sottostare, a volte, a forme di umiliazione e autorepressione che lentamente distruggerebbero chiunque. È difficile pensare che uno non esca alla fine logorato, incattivito, malato. Io da parte mia ho capito sulla mia pelle cosa vuol dire venire a sapere, dopo e da persone che non hanno assistito ai fatti, di essere stata accusata di qualcosa che non capisco neppure, ma che mi costringe a pagarmi un avvocato e sentirmi presa in giro, umiliata e privata di quel rispetto, a cui ritengo di avere diritto.
Volontari e "accamosciati"
Bisogna dirselo francamente: i volontari in carcere spesso sono in balia degli eventi, vivono alla giornata e hanno pochissime garanzie nel loro lavoro. E nessuno gli spiega i pericoli che sono "in agguato" in questo tipo di volontariato. L’articolo 17, quello che ti dà diritto a fare volontariato in carcere, gli può venir tolto in qualsiasi momento se ritenuti "inidonei". Io non mi considero una volontaria per vocazione, lo sono perché per entrare in carcere a occuparsi di informazione altri modi non ne conosco, eppure mi sento di difendere il volontariato perché sono stufa di vedere certe meschinità dell’ambiente carcerario e stare zitta. Ho visto togliere l’articolo 17 "senza diritto di replica", ho visto (e vissuto a volte in prima persona) cosa vuol dire sentirsi dei questuanti nelle richieste avanzata al carcere per le proprie attività. Ho capito cosa vuol dire lavorare con serietà e passione per anni, e poi scoprire che tutto quello che si costruisce in carcere è costruito sulle sabbie mobili. E si rischia di proprio. Qualcuno mi pagherà l’avvocato difensore? Qualcuno mi ridarà il tempo e le energie persi per difendermi da una accusa ingiusta? Qualcuno è venuto a dirmi: sono cinque anni che lei lavora con serietà ed equilibrio, può spiegarci cosa è successo? Il fatto è che ci sono agenti, spero pochi, che pensano che i volontari sono "accamosciati", orribile parola per dire che sono "troppo amici" dei detenuti, che nel gergo carcerario sono chiamati appunto "camosci". Rifiuto questa parola, non sopporto che qualcuno si senta in diritto di giudicarmi perché, invece di fare volontariato coi malati o gli anziani, lo faccio coi detenuti. Ritengo che ogni persona, a questo mondo, meriti qualche attenzione, e scelgo io a chi dare le mie, di attenzioni. L’ho sempre fatto nel pieno rispetto della complessità di un luogo come il carcere, e sfido chiunque a negarlo. Penso però anche che sia ora che chi non crede nella nostra Costituzione, e nell’articolo 27 in particolare, là dove dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", e va quindi ben più di me contro la legge e il Regolamento penitenziario, debba rispondere di questa sua scelta. Io, da parte mia, ci credo e sto lavorando in carcere per questo. Mi accorgo però che il clima, l’atmosfera, gli atteggiamenti che ho raccontato sono diffusi in molte carceri, ma non lo erano a Padova fino a poco tempo fa. A Padova avevamo costruito davvero insieme, volontari, operatori, insegnanti, agenti, detenuti, qualcosa che faceva dire a tutti quelli che arrivavano all’area delle attività culturali: non sembra neanche di essere in un carcere. E non perché non ci fosse nessun tipo di ordine e disciplina, al contrario le cose funzionavano con precisione notevole per un carcere, e quindi in modo disciplinato, ma era una convivenza basata su regole condivise dettate da anni di discussioni, confronti, di studio, di fiducia. In fondo, in un carcere provare a spiegare certe regole, invece di imporle e basta, è una battaglia importante, perché crea dei margini di responsabilità e di libertà che aiutano le persone a crescere. Tutti sanno che prima o poi quelle persone usciranno: noi abbiamo lavorato, in questi anni, nell’area delle attività culturali e di informazione, perché escano, appunto, delle persone, con un po’ più di capacità critica e un po’ meno di rabbia repressa. È quanto speriamo di continuare a fare, perché se invece prevale la voglia di affrontare i problemi con le denunce, i conflitti e le contrapposizioni, l’aria rischia di diventare ben presto irrespirabile per tutti
"Abbiamo parlato con i direttori, gli educatori, i medici e i poliziotti, abbiamo incrociato gli sguardi sorpresi o incuriositi dei detenuti!"
Questa frase viene dal secondo rapporto sulle carceri italiane dell’Associazione Antigone, un rapporto importante, che fotografa il disastro delle carceri oggi e porta un po’ di luce nelle tante zone d’ombra della vita dei detenuti. Io però, che con i detenuti faccio faticosamente un giornale, penso che si possa e si debba fare insieme un passo avanti, rispetto a questa immagine dei detenuti con gli sguardi sorpresi o incuriositi di fronte agli "osservatori" che arrivano dall’esterno. Un passo che significa lavorare in modo che si allarghino le esperienze nelle quali non siamo solo noi esterni a parlare dei detenuti, perché finché siamo solo noi a farlo, rischiamo di "abitare" sempre più lontano dal carcere, fino a farci sbattere del tutto fuori. La capacità nostra dovrebbe essere invece di lavorare insieme per fare informazione, in un confronto onesto e serrato che metta in gioco la nostra competenza e la loro voglia di assumersi delle responsabilità. Il senso di isolamento che vivono oggi realtà come quella di Ristretti Orizzonti è forte: è come se ognuno volesse fare un suo discorso sul carcere, occupare un suo spazio, e nessuno avesse voglia di "restringersi" un po’ per allargare un’esperienza comune di informazione. Questo però ci rende tutti più deboli, più ricattabili, e ricaccia il carcere in una zona d’ombra sempre più impenetrabile. Ma davvero non c’è modo di uscire da questo vicolo cieco? Ripensando
alla mia esperienza in carcere
Non mi soffermo a raccontare i fatti come li abbiamo vissuti, perché, anche se da punti di osservazione diversi, penso che li racconteremmo tutti allo stesso modo: urla, gente che esce dalle stanze a vedere cosa sta succedendo, qualche attimo per realizzare che c’è stato un conflitto e che nessuno di noi è in grado di ricostruirlo nei dettagli. Ma sicuramente molti di noi erano consapevoli che da quella situazione, del tutto anomala rispetto al tranquillo tran-tran di quella sezione, poteva arrivare qualche rapporto disciplinare.
Preferisco soffermarmi allora proprio sui rapporti, perché in carcere la prima cosa che impari al tuo ingresso da detenuto o da esterno è che devi muoverti con cautela, che ci sono molte regole, spesso non scritte, da rispettare e che se le trasgredisci viene scritto un verbale. In 5 anni di volontariato io non ne ho avuto neanche uno, non perché sia particolarmente attenta, ma perché spesso chi in carcere ci vive o lo frequenta da più tempo mi ha aiutato ad evitarli. Prima regola: Vietato portare qualsiasi cosa non autorizzata! Come l’ho saputo? La prima volta che ho portato delle graffette dentro, un volontario "veterano" mi ha detto che non lo potevo fare. A Padova non si possono avere con sé soldi all’interno dell’istituto (ma altrove pare di sì). Un detenuto ti chiede di portare fuori una lettera, non perché lui sia sottoposto a censura, ma solo perché all’interno del carcere la posta è più lenta. Devi subito insospettirti: cosa ci sarà al suo interno? Se ingenuamente non lo fai e vieni scoperto, ti viene revocato il permesso di ingresso, anche se il tuo progetto era innovativo e aveva risolto delle belle tensioni interne. In carcere non puoi semplicemente giustificarti, devi aspettarti la punizione. Per fortuna non succede sempre così, se per esempio ti soffermi qualche minuto oltre l’orario consentito, probabilmente perché non te ne sei accorto, o hai qualcosa di urgente da terminare, può venir fatto un verbale ma, per fortuna, in quel caso è ammessa la giustificazione. Libri con copertina rigida, assolutamente vietati a Padova (altrove pare che non sia così), e se porti dentro un vocabolario o simili, ti viene sventrato prima di essere dato in uso ai detenuti. Questi sono solo alcuni esempi di contestazioni fatte ai volontari, i rapporti disciplinari che riguardano i detenuti sono ben più numerosi in quantità e varietà, ma se ne conoscono molto pochi, perché non c’è nessun obbligo di trasparenza, il magistrato può rinviare o revocare un beneficio in base ad un rapporto di cui l’interessato stesso ignora i dettagli, e conosce al massimo solo l’esistenza. È dentro a questa atmosfera che impari a muoverti in carcere. A volte mi sono chiesta se ne valeva la pena: lavorare (perché il progetto culturale e informativo di "Ristretti Orizzonti" assomiglia molto di più a un’attività lavorativa che a un progetto "ricreativo") all’interno di una istituzione così poco trasparente, così facilmente punitiva, è difficile. Come scrive Ornella, impari a muoverti con ragionevolezza, perché credi in quello che stai facendo, perché vorresti che questo tipo di informazione dall’interno fosse presente in tutte le carceri, che le informazioni fossero in rete, e che chi scrive sul carcere avesse maggiore consapevolezza del significato della parola reclusione. È per questo motivo che in questi anni abbiamo lavorato tutti, come volontari, per realizzare un progetto ambizioso, un’esperienza che Nicola Sansonna definisce straordinaria dentro un carcere, possibile anche perché abbiamo trovato una direzione aperta e molti operatori, compresi alcuni agenti, che condividevano le attività proposte. Ma anche possibile perché abbiamo imparato assieme a chiedere finanziamenti ai vari enti e li abbiamo investiti tutti per fare formazione. Ci siamo impegnati in progetti che per molti di noi erano nuovi: organizzare convegni dentro al carcere con centinaia di invitati, sperimentare buffet multietnici, contattare esperti in tutti i settori del disagio, allacciare una rete di rapporti su tutto il territorio nazionale e non da ultimo creare un sito sul carcere ed aggiornarlo ogni 15 giorni, per rendere un servizio utile a tutte le persone che se ne occupano. Ora, dopo gli ultimi episodi, verrebbe voglia di lasciar perdere tutto, di dire: non ne vale la pena! Di essere d’accordo con quelli che sostengono che "in carcere ci impieghi anni a costruire e pochi istanti a distruggere tutto", e mollare davvero. Ma noi non lo possiamo fare, per lo meno non ora che l’agenda politica non ha in scadenza discussioni sul carcere (se non per confermare le situazioni peggiori, come il 41 bis), in questo momento in cui quasi nessun politico se ne occupa da vicino, e la stampa ufficiale è completamente assente. Anche se siamo definiti un "giornalino", continueremo a parlare e far parlare di carcere. Episodi come quelli che ci vedono coinvolti mi amareggiano molto, e in un altro luogo di lavoro me ne sarei già andata, ma in carcere devi anche fare i conti con le persone con cui collabori e essere consapevole che, se ti viene ritirato l’art. 17 o se rinunci di tua iniziativa, l’attività a cui tu partecipi può andare seriamente in crisi o addirittura essere interrotta. Concludo con un suggerimento a chi mi ritiene forse "indesiderata": ci sono modi più garbati, meno costosi e più civili per dire a una persona che non si è d’accordo con il suo operato. Un fulmine a ciel sereno
Cinque anni di volontariato in redazione, un’esperienza straordinaria, ma in carcere basta un minuto per distruggere un lavoro di anni, di Nicola Sansonna
Sono sempre stato un uomo fortunato, infatti tra parecchie decine di detenuti, presenti ai fatti accaduti il 24 giugno, risulto l’unico detenuto denunciato. Ma non voglio credere che si tratti di un tentativo di attacco al nostro giornale. Se volessero farci chiudere, hanno tutti i mezzi per farlo, non hanno bisogno di sotterfugi. Sta di fatto però che siamo stati denunciati noi tre di Ristretti Orizzonti. Il 25 giugno infatti mi hanno chiamato e mi hanno comunicato che ero stato imputato di reato, invitandomi a nominare un avvocato e a rilasciare le mie generalità. Ho avuto una reazione di totale incredulità: non poteva essere vero! Ho un permesso in corso, ho una liberazione anticipata in discussione, ho presentato una istanza per la semilibertà. Ho già scontato 24 anni di galera, non sono un novellino, conosco sin dove posso spingermi. Personalmente sono stato lì lì per lasciare tutto! Abbandonare il volontariato che faccio da 5 anni, dal settembre ‘97, quando con Ornella e pochi altri amici demmo vita a questa stupenda realtà editoriale che è Ristretti Orizzonti. Stavo lasciando perché ero amareggiato. La storia dell’esistenza umana, quindi anche la nostra, non è quasi mai un poema eroico. È piuttosto una novella modesta e volgare, intessuta di avvenimenti insignificanti, equivoci; sacrifici ignorati, gioie non sempre purissime, dolori, grandi delusioni, soddisfazioni spesso effimere. Ma è questo miscuglio di sensazioni, questo continuo rincorrersi tra bene e male che dà un senso alla vita. Qui in carcere questa è la normalità, come lo è anche nella vita delle persone non detenute. La differenza è che, di fronte agli eventi, in carcere sei spettatore, sei impotente, non ti puoi permettere di reagire. Quando pensi di aver raggiunto un equilibrio, un avvenimento anche estraneo al tuo "piccolo universo" può creare un cataclisma. Tutto il lavoro fatto sembra crollarti addosso. Le cose perdono di senso, di interesse. E ti domandi semplicemente: ma perché accade tutto ciò? Non so come finirà la questione perché è ormai di competenza della Magistratura, ma certo lascerà un segno, perché è indice della fragilità di realtà apparentemente solide. In carcere non c’è niente di sicuro, di duraturo, di certo, l’unica cosa certa è il fine pena, ma anche quello può variare. In questo momento mi viene in mente il senso di un mio intervento, fatto al convegno su Volontariato e informazione, che si è svolto qui nel carcere di Padova: "Spesso per il detenuto paradossalmente conviene di più starsene sdraiato in branda a rincoglionirsi con la televisione. Perché così non rischia rapporti, e quando è nei termini può godere di tutte le misure alternative. Se poi si prende 30 gocce per dormire tanto meglio, e se la mattina si sente carico di energie, no problem, ancora 20 gocce di tranquillanti". Questo molto cinicamente è il detenuto modello, quello che difficilmente prende denunce, rapporti. Ed in questo modo molti scontano la loro carcerazione. Sono stato tentato di chiedere di farmi mettere in terapia, forse è l’unico modo per uscire di galera! Forse ha ragione chi fa così e sono tanti. Ma sono altresì convinto che ciò che facciamo, le informazioni che riusciamo a fornire a chi ne ha bisogno, meritano di continuare ad esistere, sino a che ci consentiranno di fare il nostro lavoro. Sotto questo punto di vista, allo stato delle cose non ci dovrebbero essere timori (o almeno così ci hanno assicurato…). Mi chiedo cos’è l’informazione in carcere, cosa rappresenta, e soprattutto, com’è vista e percepita dalle diverse componenti che operano qui dentro. Per noi innanzitutto è una grossa garanzia di democrazia e trasparenza. Non è facile realizzarla, non è facile dare un servizio che soddisfi tutti. Ma lo abbiamo fatto, cercando l’equilibrio, cercando i toni giusti, a volte smussando gli angoli più acuti. O perlomeno ci abbiamo provato. Esponendoci a critiche anche feroci, ma ci abbiamo provato veramente convinti. Anch’io naturalmente guardo un po’ di televisione, uno dei miei programmi preferiti è: Il Mondo di Quark, adoro i servizi sulle grandi distese africane, il parco del Serengheti, il Masai Mara; documentaristi che osservano la natura selvaggia fare il suo corso, il leone che sbrana la gazzella, e loro filmano, documentano, non devono intervenire perché non devono rompere il naturale corso delle cose. Ma non credo che la gazzella sia felice di questa neutralità. Certo siamo detenuti, certo siamo in galera, ma quando sentiamo un grido d’aiuto disperato, è nell’istinto dell’essere umano alzare il culo dalla sedia e cercare di essere utile. È giusto! Ma non in carcere. In carcere è preferibile non avere reazioni da esseri umani.
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