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Società senza informazione: I media, i diritti e gli esclusi
Un Convegno a Milano dove giornalisti dei grandi quotidiani e giornalisti dei piccoli giornali "sociali" hanno parlato di una informazione che banalizza le storie, i problemi, gli interessi, i bisogni dei soggetti più deboli della società
A cura di Francesco Morelli
"Mettere a fuoco il chiaro e lo scuro del sistema dell’informazione, in particolare della grande informazione e dei grandi media. Il chiaro e lo scuro vuol dire appunto i tic, i limiti, le omissioni, e magari anche una tendenziale omologazione, che alcuni giudicano oramai aver preso piede, forse in maniera inarrestabile, nel sistema dell’informazione". Così Sergio Segio, che i temi legati all’informazione dal sociale tenta da anni di imporli con forza all’attenzione di chi ha la memoria corta e preferirebbe dimenticarseli in fretta, ha aperto il Convegno "Società senza informazione. I media, i diritti e gli esclusi", che si è tenuto il 21 giugno alla Camera del Lavoro di Milano. Perché le notizie che riguardano il "sociale" ottengono raramente l’attenzione dei mass media? E perché, quando la ottengono, si deve ogni volta fare i conti con una tendenza a banalizzare le storie, i problemi, gli interessi, i bisogni dei soggetti più deboli della società? Cosa possiamo fare perché questo tipo di informazione, fondamentale per la vita civile di un paese, arrivi al pubblico? A Milano si è provato a rispondere a queste domande, mettendo a confronto punti di vista (ed esperienze) che stanno un po’ agli antipodi nel mondo della comunicazione: i giornalisti delle grandi testate nazionali e quelli dei giornali sociali, di strada e dal carcere. Volendo estremizzare, da una parte c’è chi ha fatto proprie le "regole del mercato" e troppo spesso dà ai lettori esattamente quello che s’aspettano, cioè un’informazione molte volte stereotipata; dall’altra parte c’è chi alle regole del mercato non si adegua, fa approfondimento, non usa luoghi comuni, ma spesso non riesce a conquistarsi un pubblico.
Sui temi sociali, come la povertà, l’immigrazione, il carcere, la comunicazione è insufficiente o inefficace ed è troppo facile giustificarsi dicendo: "questi argomenti non interessano a nessuno". Se ricordiamo bene, una volta l’informazione contribuiva a formare l’opinione pubblica (basti pensare alle dispute tra innocentisti e colpevolisti in alcuni grandi processi), oggi invece si orienta sempre più a "far parte" dell’opinione comune: una "notizia" comunemente creduta viene ripresa e ripetuta all’infinito, poco importa che abbia poco a che fare con la realtà. Pubblichiamo qui alcune opinioni dei protagonisti del dibattito, e anche alcune proposte, su cui cercheremo di tornare al più presto, perché anche noi, con la nostra Redazione, siamo dentro a questa discussione e vorremmo esserlo sempre di più, per non restare confinati nella nostra nicchia, a leccarci da soli le ferite quando le cose vanno male, come vanno male oggi, che buona parte della società mostra una totale indifferenza verso il carcere e chi lo "abita".
Pierluigi Magnaschi, direttore dell’Ansa
"Noi possediamo la materia prima informativa: ogni giorno battiamo circa 1.500 notizie e di queste, sui giornali, anche i più grossi, ne compaiono dalle 100 alle 150. Pertanto il lavoro che facciamo è 10 volte superiore a quello che viene poi accolto dal sistema. Bisogna domandarsi come mai il resto dell’informazione, che pure esiste, circola, arriva sulle scrivanie e sui computer dei giornalisti, dei capi servizi e dei redattori, poi non vede la luce. I grossi media parlano a quelli che sono "nel margine", e tendono ad escludere quelli che sono fuori dal margine della società. Questa è una constatazione ovvia, però è essenziale, se noi vogliamo, partendo da questa constatazione, cercare delle misure per superare questo handicap, per riportare gli emarginati dentro al margine. Le modalità sono tutt’altro che facili, perché uno dei modi usati dai grandi media è la soluzione buonista, o strappalacrime. Questo rende l’emarginato sostanzialmente una barzelletta, una cosa che è, appunto, nell’anormalità. Peggio di tutti è quando l’emarginato diventa un oggetto da consumare nei talk show, suscita un’emozione puntuale, che finisce lì e poi… se ne riparlerà alla prossima occasione. Questo è il caso della cannibalizzazione"
Fabrizio Ravelli, giornalista di "Repubblica"
"Il giornale quotidiano ha alcune caratteristiche particolari: una di queste è la velocità e la fretta con cui il prodotto viene confezionato; l’altra, conseguenza della fretta, ma non solo, è la superficialità. Molte volte c’è un’aspettativa forte (da parte dei lettori, così come da parte anche degli attori dell’informazione), di approfondimento, di maggior serietà e complessità, forse anche ingiustificata, nel senso che attribuisce ai grandi mezzi d’informazione un compito che probabilmente non è il loro. È vero che certi temi, come l’emarginazione, il carcere, il lavoro, la sanità, sui giornali hanno uno spazio limitato, ma bisognerebbe lasciar perdere il discorso sullo scarso approfondimento, che forse non si può pretendere dai mezzi d’informazione, ed esercitare tutta la propria capacità di persuasione per far sì che questi spazi si amplino, in modo che chi manovra i grandi mezzi d’informazione, i direttori, possano ritenere appetibile un determinato prodotto giornalistico. Può sembrare una cosa anche insultante, lo stare a pensare se un tema forte, importante, decisivo, come può essere il lavoro o la scuola, può essere "appetibile"… sembra un discorso un po’ pubblicitario, ma io credo sia fondamentale, perché anche i professionisti dell’informazione sociale, sempre più mi sembra, hanno modificato il proprio linguaggio, che oggi è più svelto, più capace d’infilarsi nell’attenzione di tutti, rispetto a un’informazione specialistica come ce n’è tante. La capacità di rendere appetibili questi temi passa, in gran parte, attraverso la conoscenza profonda di un determinato argomento, conoscenza che raramente è patrimonio di un giornalista, se non di giornalisti che hanno un campo di esercizio specifico nella loro professione. Un giornalista di un grande giornale, uno che fa informazione come fanno quasi tutti i giornali italiani, ha bisogno di qualcuno che lo metta in relazione con quel che succede in ambiti che lui, per limiti suoi, ma anche per limiti di tempo, non può seguire costantemente e non può conoscere costantemente".
Giovanni Bianconi, giornalista del "Corriere della sera"
"Dobbiamo pensare anche al legame che c’è tra il mondo dell’informazione, le proprietà dei giornali e la politica: in realtà ci si occupa di certi temi se e quando hanno un’influenza anche nello scontro tra i partiti, che è la cosa che più interessa ai giornali in Italia. Due anni fa si è parlato un’estate intera di carcere, ma solo ed esclusivamente perché c’era il Giubileo, perché il Papa è andato a Regina Coeli e c’erano le proposte politiche sull’amnistia e l’indulto. Oggi le carceri sono più piene di due anni fa, il problema è molto più grosso rispetto a due anni fa, ma non se ne parla, perché non è all’ordine del giorno nelle agende della politica. Non c’è il Giubileo, non c’è un Governo che in qualche maniera se ne interessi, e quindi non si parla di questo".
Riccardo Bonacina, direttore di "Vita"
"Una delle cose più importanti dell’esperienza di "Vita", è questo cercare di comprometterci molto con la realtà, alla faccia del giornalismo inglese, anglosassone. Ad esempio abbiamo fatto un’esperienza straordinaria sulla crisi mediorientale, abbiamo fatto le pagine del giornale attraverso le corrispondenze dei volontari che erano laggiù, mentre nel paese si stava dibattendo se stare con gli israeliani o con i palestinesi… insomma una cosa astratta e irrealistica, che rispondeva a interessi di bottega di pochissime persone. Ecco, siamo riusciti a fare delle pagine di giornale grazie a questa vicinanza, alla possibilità di essere molto vicini alla realtà che si andava raccontando, tramite la corrispondenza di "corrispondenti sui generis". Noi abbiamo una carta dei principi nel nostro lavoro e, alla fine della carta dei principi, una delle raccomandazioni è quella di lavorare nel cestino delle informazioni, nel cestino dei rifiuti perché, oltre alle 1.500 notizie dell’Ansa, sui nostri computer ne arrivino circa 5.000/5.500, tra altre agenzie e le altre fonti di informazione. Poi c’è quest’imbuto, delle 100/120/200 notizie sulle quali tutti lavorano: ma perché tutti lavorano su quelle 200? Per noi è bello andare a vedere ciò che gli altri hanno buttato via, che invece è più interessante di quello che compare su tutti i giornali".
L’informazione come strumento di libertà
Non si parla mai di diritto all’informazione senza parlare di libertà che, per i lettori, è la capacità di porre delle domande e non solo la possibilità di ricevere delle risposte. I giornalisti, quindi, non dovrebbero limitarsi a trasmettere un’informazione asettica, ma avere la voglia e la forza di approfondire i problemi, di dar loro un senso, smettendo di considerare i lettori solo un elemento di mercato, anche perché, attraverso l’informazione, passano molte possibilità per i cittadini di partecipare alla vita pubblica. Questo tema cruciale è stato affrontato soprattutto da due operatori dell’informazione che sono anche impegnati in importanti attività politiche e sociali, Franco Corleone e Luigi Manconi.
Franco Corleone, presidente di "Forum Droghe"
"Sono convinto che c’è un clima deteriorato nei rapporti tra la politica e il giornalismo, perché ho l’impressione che molte energie dei giornalisti sono spese a seguire e a coltivare la politica politicante e non la politica come questioni aperte su cui far crescere il dibattito e la discussione. Ho un esempio, nella mia vita, a cui sono particolarmente legato. È il caso del manicomio di Agrigento, che facemmo scoppiare, con l’aiuto di Gad Lerner, sull’Espresso, molti anni fa, con un’inchiesta vera. Un’inchiesta vera perché lavorammo giorni e giorni, andando in questi luoghi terribili e, grazie appunto agli articoli, alle fotografie, perché anche le fotografie per rendere questa realtà devono essere efficaci e non strumentalizzanti, rinacque un dibattito sulla questione dei manicomi, su come risolverla, su come agire. Questo per dimostrare che si può fare molto e non usare invece solo, com’è accaduto negli ultimi anni, una modalità d’intervento, per esempio sul carcere, che a me non è mai piaciuta molto: bastava che ci fosse un arrestato "eccellente" e c’era sempre qualche giornalista che chiamava qualche parlamentare per dirgli "andiamo in carcere"… ma non per occuparsi del carcere, quanto piuttosto per vedere quel detenuto eccellente e fare un pezzo sulle sue prime ore in carcere... Ecco, io trovo che questa sia stata una modalità non particolarmente edificante, né per gli uni né per gli altri, perché invece le questioni del carcere sono lì presenti e ci sarebbe notizia ogni giorno, volendo occuparsene."
Luigi Manconi, presidente dell’Associazione "A buon diritto"
"Siamo in una società dell’informazione massiccia e si può affermare, con un po’ di forzatura, che in questa società dell’informazione massiccia tutti hanno diritto (il che è semplicemente il riconoscimento di un diritto costituzionale) ma, aggiungo, possibilità e spazio di far sentire la propria voce come mai in passato. Io credo che sia difficile, oggi, che i rappresentanti di una qualunque forma organizzata di domanda sociale non abbiano accesso alcuno ai mass media. Forse che il "giornale che non c’è", invece c’è, e i mass media sono espressione, precisa e puntuale, autentica e soddisfacente, di domande collettive? Ovviamente no, perché il problema oggi non è il diritto d’accesso, che è ampio, esteso, articolato quanto una moderna democrazia può garantire, ma il vero problema è la gerarchia della notizia: cosa sta in prima pagina, come ciò che sta in prima pagina viene valorizzato, fatto emergere e imposto. E lì, ciò che decide è il rapporto di forza tra i diversi interessi in conflitto (…)."
Alcune proposte per far "pesare" di più l’informazione sociale
Al termine del convegno, una volta esaminati tutti i problemi che, di fatto, impediscono una corretta informazione sui temi sociali, da alcuni rappresentanti dei "giornali minori" sono venute delle proposte per cercare di superare questa situazione.
Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)
Faccio due proposte, alle quali stiamo pensando da tempo. La prima è che i giornali nazionali, quotidiani o periodici, adottino le esperienze d’informazione dal sociale, o dal carcere, o dalla strada, per veicolare questa informazione verso un più ampio pubblico: i giornali sociali potrebbero uscire come supplemento di quelli grandi, magari in forma sperimentale. La seconda proposta è quella di creare un organismo di coordinamento, che potrebbe essere un ufficio stampa che coinvolga tutta l’informazione del sociale. Questa struttura potrebbe garantire una maggiore penetrazione sul mercato e anche una maggiore tutela del lavoro dei giornalisti sociali, una maggiore possibilità di lavorare con meno condizionamenti.
Carlo Giorgi (Terre di Mezzo)
"Partendo dalla consapevolezza di queste differenze, che esistono fra le testate, è comunque possibile pensare a un lavoro insieme: noi lo abbiamo sempre fatto, quando ci è stato possibile, perché riteniamo che sia utile. L’anno scorso, in collaborazione con Ristretti Orizzonti, abbiamo fatto una piccola inchiesta rispetto ai detenuti che hanno, a loro volta, un parente detenuto contemporaneamente a loro. Chi ha il padre detenuto, la moglie detenuta, oppure i figli detenuti, e abbiamo scoperto, facendo un questionario, che nel carcere di Padova e in quello di San Vittore la percentuale è alta, attorno al 30%. Questo è stato possibile perché ci siamo sentiti e abbiamo visto, assieme ai detenuti, le domande più utili da sottoporre ai loro compagni e la cosa ha funzionato. È stata una esperienza abbastanza semplice, tutto sommato, perché c’è stata la voglia di fare qualcosa assieme (…)."
Sergio Cusani (Associazione Società INformazione)
"Quando, con Sergio Segio, abbiamo fatto i commessi viaggiatori dell’indulto e amnistia, girando per l’Italia, ci siamo accorti che anche nei paesi più piccoli c’era un foglio di informazione… c’è sempre, in ogni città. Allora ci è venuta questa idea, di fare una proposta concreta, di fare una F.I.G.S. (Federazione Italiana Giornali Sociali), perché noi possiamo anche avere una voce in capitolo nel nostro territorio, però poi a livello generale non contiamo niente. I grandi media non s’interessano a noi, ma non è questo il punto, il punto è che bisogna cercare di aggregare tutte queste realtà, che si occupano della povertà, dei senza opportunità, degli ultimi insomma, di aggregarle in un organismo che possa contare. Se noi riusciamo a creare un organismo di coordinamento come la Federazione, che possa avere un suo statuto, che si possa presentare a livello nazionale, solo così possiamo proporre ad un grande giornale, che sia sensibile a quei problemi, di fare un inserto sul sociale. Non possiamo chiedere questo direttamente ai giornalisti, ai media, che hanno comunque delle priorità, ma hanno molto spesso anche un’incapacità loro, di capire, di cogliere, di sapere, perché lavorano su notizie A.N.S.A, le elaborano etc. Dobbiamo essere noi ad usare loro, a chiedere loro di farsi veicolo delle problematiche di questo mondo, di chi non ha voce, non ha speranza, non ha possibilità di farsi sentire. Parlare delle proprie esperienze fa sempre bene, però a questo punto troviamo un comune denominatore e troviamo un qualcosa che ci possa veramente unire tutti, per creare una struttura pensante che però poi abbia voce in capitolo a livello nazionale".
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