A
proposito di trasferimenti e “umanizzazione” delle pene
In
carcere sono tanti a domandarsi perché c’è voluta l’Europa, con le sue
sentenze e la paura di risarcimenti colossali per le condizioni delle nostre
galere, per costringere il nostro Paese a prendere misure per “umanizzare”
la detenzione. Adesso però diventa fondamentale anche controllare che quelle
misure vengano davvero applicate ovunque. In particolare quelle sui
trasferimenti, che per i detenuti sono da sempre un incubo: ora una recente
circolare dell’Amministrazione penitenziaria dice che “deve essere
assicurato, nella misura più ampia possibile, l’accoglimento delle istanze di
trasferimento dei detenuti” e “pare congruo fissare un termine di sessanta
giorni entro cui fornire una risposta al detenuto, che decorreranno
dall’acquisizione da parte dell’Ufficio competente di tutti gli elementi
necessari alla decisione”. Finalmente chi chiede di essere trasferito vicino
alla famiglia potrà avere risposte rapide, e chi veniva trasferito invece
contro la sua volontà potrà sperare di non dover più subire quegli odiati
trasferimenti, di cui parlano le testimonianze di due detenuti che riportiamo.
a
cura della Redazione
Un
inferno nuovo
di
Lorenzo Sciacca
Ritrovarsi
rinchiuso in un furgone blindato alle 3-4 di mattina è una emozione che
consiglierei a tutti coloro che decidono i trasferimenti di noi detenuti.
Ovviamente c’è una provocazione dietro alle mie parole.
In
tutti i miei anni di detenzione ho girato molte carceri e vedere spuntare, da
quel piccolo spioncino arrugginito del cancello della tua cella, un agente
penitenziario, con una piccola torcia per fare luce, puntartela sugli occhi e
chiamare il tuo cognome con la classica formula: “Sciacca, Sciacca sveglia
sei partente” e con le solite risposte: “ma come, dove mi portate?”
oppure: “ma oggi faccio il colloquio, arrivano i miei famigliari”,
è un ricordo che ancora mi terrorizza. Non esiste nessun modo in cui tu possa
evitare un trasferimento, ti viene buttato lì, piomba sulla tua vita e su
quella dei tuoi cari in maniera prepotente. Anche se io oggi ho intrapreso un
percorso rieducativo nella redazione di Ristretti Orizzonti, questo non mi rende
immune da un eventuale trasferimento, anche in questo istante che mi trovo di
fronte al computer a scrivere questo articolo potrei essere chiamato
“partente”.
Ora
io potrei descrivere le condizioni pietose con cui vengono effettuati questi
spostamenti, ma il mio scritto potrebbe risultare una lamentela, dunque voglio
parlare solo dello sconforto che regna dentro a un detenuto al momento della
partenza.
Una
volta che ti hanno svegliato inizi ad andare alla ricerca dei classici sacchi
neri grandi, quelli della spazzatura, e inizi a buttarci dentro tutte le tue
cose personali, comprese le foto della tua famiglia. Nel frattempo il tuo
cervello continuerà a chiedersi dove andrai. Inizierai a pregare che sia un
posto a portata di mano per continuare a fare i colloqui con tuo figlio o con i
tuoi genitori, ma in cuor tuo, vedendo fuori dalla finestra che il giorno è
ancora molto distante, capisci che sarà un viaggio lungo. Sicuramente ti
allontanerai dalla regione in cui ti trovi, ed è proprio in quel momento che ti
fermi un secondo e inizi a pensare a come farai ad avvisare i tuoi cari. Oppure
c’è lo scenario più brutto. Magari vieni trasferito proprio il giorno del
colloquio. Questo vuol dire che tua moglie si presenterà con in braccio tuo
figlio di fronte al grosso portone metallico del carcere, per farti il
colloquio, ma riceverà un rifiuto da parte di un agente penitenziario con,
anche qui, la classica formula: “Suo marito è stato trasferito”. “Ma
dove?”. Ovviamente non le verrà detta la destinazione “per motivi di
sicurezza”. I finali di questi scenari sono gli stessi. Ti ritroverai giù nel
magazzino a riempire due borse, tipo militare, con un limite sul peso di 8
chili. Ovviamente la priorità ce l’hanno tutti quegli oggetti personali,
foto, lettere e piccoli regali che a volte hai il bisogno di guardare per
ricordarti che sei un essere umano. Poi vengono tutti i documenti processuali e
poi il resto. Sì ma il resto non ci sta. Dunque fai una selezione veloce, anzi
molto veloce perché quella presenza oscura dell’agente penitenziario, che
continua a incitarti a muoverti, rimbomba nel tuo cervello. Ok, ci siamo. Il
resto dei tuoi vestiti arriverà a destinazione da solo, forse è per questo che
lo riceverai dopo 4-5 mesi.
Comunque
eccolo lì il famoso furgone blindato. Lo vedi già con le porte posteriori
aperte, come se
fosse
un invito ad entrare nell’anticamera dell’inferno, ovviamente ammanettato.
La sicurezza non è mai troppa. Sarà inutile sprecare fiato per chiedere la
destinazione, non ti verrà mai detta. Io cercavo sempre di vedere attraverso
dei quadratini di vetro blindato con un diametro di 20 centimetri, la
segnaletica stradale, ma alla fine dopo vari tentativi rinunciavo e aspettavo
che le porte dell’anticamera dell’inferno si aprissero per entrare nel mio
nuovo inferno.
Pacchi
umani
di
Luca Raimondo
Forse,
non tutti sanno che un detenuto è spesso trattato come un pacco postale, io
personalmente dal 2008 ad oggi ho fatto una ventina di trasferimenti, per
processi in giro per l’Italia o trasferimenti cosiddetti “ministeriali”.
Tranne per i primi tempi di carcerazione quando ho fatto transiti anche nelle
carceri giù in Sicilia, mia terra d’origine, dove ho potuto fare qualche
colloquio con i miei familiari e in particolar modo i miei due figli piccoli,
poi mi hanno sballottato a destra e a sinistra per le carceri del Nord Italia.
Mi ricordo che quando ero libero, e vedevo quelle povere bestie che venivano
trasportate in quei camion con le sponde alte, e le vedevo affacciare da quelle
feritoie, dicevo tra me e me “ma guarda che trattamento disumano hanno quelle
bestie!”, ma poi entrando in carcere mi sono ricreduto. Le bestie vengono
trasportate meglio di noi.
Intanto
vorrei descrivere come sono fatti questi trasferimenti: vieni portato in angusti
furgoni blindati dove all’interno ci sono delle piccole gabbie con dei
seggiolini in plastica dura e queste gabbie sono rivestite da pannelli di ferro
bucherellato e smaltato, a malapena riesci a starci dentro e non hai nemmeno dei
finestrini da dove vedere le strade, e l’aria la respiri tramite una ventola
posta sul tetto del furgone.
Nel
trasferimento oltre allo stress ti aggiungono altre disumanizzazioni, che
chiamano “sicurezza”, cioè essere ammanettato, come se uno potesse scappare
da quella gabbia angusta, e con tutte quelle guardie armate.
Oggi
posso dire che invidio tanto quelle bestie che vedevo per le strade trasportate
in quei camion, almeno loro possono vedere, respirare aria naturale, non sono
legate e possono fare i propri bisogni
quando
vogliono. Io credo che ci possano essere dei modi per umanizzare questi
trasferimenti, ma il primo è quello di farne meno possibile. Ognuno di noi
detenuti dovrebbe stare nel carcere più vicino ai propri cari per poter fare i
colloqui e poter crescere i propri figli, e per quel poco che ti permettono le
nostre attuali leggi cercare di non rinunciare al ruolo di padre. Ma questo
troppo spesso non succede.
Non
voglio essere compatito e non voglio fare la vittima della situazione, ma credo
che la società dovrebbe sapere cosa succede nelle nostre galere, il modo in cui
veniamo trattati e spesso umiliati da questo sistema, e non credere tanto a
quello che dicono i mass media. Vorrei che la società entrasse dentro per
constatare che non siamo delle bestie feroci, e che vorremmo solo pagare per i
nostri errori, ma avere quello di cui ha più bisogno un essere umano, cioè la
dignità di uomini, e non di pacchi umani.
Carceri
fuori dall’Europa e dall’umanità
di
Carmelo Musumeci
Nella
“Rassegna Stampa” di “Ristretti Orizzonti” del 10.4.2014 ho letto:
“Torture e carceri sovraffollate”, il Parlamento europeo ri-condanna
l’Italia. Un dossier di Strasburgo sulle nostre carceri: ultimi in Europa,
giustizia da Terzo Mondo. Strapiene di tossicodipendenti, di stranieri e di
detenuti in attesa di giudizio, vittime della carcerazione preventiva. Spesso
con servizi igienici, sanitari e dì ristorazione insufficienti, vetusti e
inadeguati. Per non parlare dei sospetti sull’esistenza di vere e proprie
“stanze della tortura”, teatro di pestaggi dei detenuti. E’ il quadro
tragico dei penitenziari italiani tracciato da tre membri della Commissione
Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Ue guidati dal
socialista Juan Fernando Lopez Aguilar”. (di Maurizio Gallo Il Tempo, 10
aprile 2014). Eppure, a distanza di due mesi l’Europa ha deciso di
“graziare” il nostro Paese, dandogli ancora un anno di tempo per rimettere a
posto le cose nelle carceri, pur sottolineando che il problema del
sovraffollamento non è affatto risolto.
Credo
che non avrebbe dovuto esserci bisogno che lo dicesse l’Europa come sono le
carceri nel nostro Paese, bastava domandarlo a qualche detenuto o a qualche
famigliare di detenuti. Il carcere in Italia, così com’è oggi, non solo ci
punisce, ma ci fa soffrire, ci odia, ci isola, ci istiga e spesso ci convince a
ucciderci.
E
i più deboli, o i più forti, secondo i punti di vista, scelgono di fuggire, di
andarsene da questo mondo d’illegalità istituzionale. Il carcere così com’è,
quando va bene, ti convince a ucciderti e quando invece va male distrugge i
corpi e le menti, perché condannare le persone a farsi sempre e solo galera
invece di risolvere i problemi li peggiora.
Non
solo quelli dei detenuti, ma anche quelli della società. In carcere in Italia
non c’è solo il rischio che ti venga voglia di ucciderti, ma se non lo fai
hai buone probabilità di diventare più criminale e più cattivo di quando sei
entrato. E chi non ha il coraggio di morire, come me, sente spesso il desiderio
di farlo e si ferma solo per amore dei suoi cari.
Voglio
ricordare ai funzionari del Ministero di Giustizia, e in alcuni casi di morte,
che molti detenuti scelgono di morire perché non hanno scelta. Loro invece la
scelta per fare smettere queste morti l’avrebbero: umanizzare le carceri e
renderle luoghi di legalità e di diritto istituzionale.
In
questo modo molti detenuti preferirebbero vivere che morire.
Un
figlio malato e non potergli neppure telefonare
La
Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha concesso un anno di proroga per far
fronte al sovraffollamento delle carceri. Ma a noi non è piaciuta molto questa
“generosità” nei confronti del nostro Paese, perché il sovraffollamento
non è una questione di metri e di numeri, e noi questa volta non parleremo di
numeri, parleremo piuttosto di qualità delle condizioni detentive, e di umanità.
E lo faremo con due testimonianze, di una persona detenuta e di una operatrice
che in carcere si occupa di uno sportello di segretariato sociale per i
detenuti, accomunate da un problema: un famigliare che sta male. Solo che chi è
rinchiuso in galera ha una pena aggiuntiva: i rapporti con i famigliari ridotti
a una miseria, sei ore di colloqui e una telefonata di dieci minuti a settimana.
A Padova il direttore ha concesso a tutti due telefonate straordinarie in più
al mese, ma è sempre troppo poco. Se davvero vogliono umanizzare le carceri,
che inizino dagli affetti, e tolgano questi limiti alle telefonate, come avviene
in tanti Paese più civili del nostro: telefonare a casa non ha mai fatto male a
nessuno, semmai ha salvato qualcuno dall’abbandono, dall’angoscia della
galera, e gli ha ridato la voglia di cambiare vita.
Perché
ci separano dai nostri cari?
di
Biagio Campailla
I
miei primi cinque anni di
detenzione li ho passati nel carcere di Saint Gilles, Bruxelles, e posso dire
che nonostante tante difficoltà non mi hanno separato mai dalla mia famiglia. I
miei figli ancora mi dicono: quando ti trovavi in Belgio non ci sentivamo soli,
oggi ci sentiamo orfani.
Qualche
giorno fa telefono a casa come faccio una volta a settimana, le prime parole che
sento di solito sono “Pronto Papà!”, e mi si apre il cuore. Ma questa
volta, diversamente dal solito, sento una voce piena di ansia, al primo momento
sembrava la linea disturbata, cosa normale visto che telefono all’estero, ma
poi la voce mi dice: “Pronto, figlio mio come stai?” e io subito nel panico
“Mamma, che cosa c’é che piangi?”. Lei cerca di fare la voce normale, ma
con le persone di famiglia si capisce quando c’é qualcosa che non va, e già
non sentire la parola “papà” mi desta dei sospetti. Ed ecco che arriva la
brutta notizia: “Sono da sola, non c’è nessuno, tua figlia ha avuto un
incidente”, nel frattempo la voce va via, cade la linea, scadono i dieci
minuti consentiti, inizio a sudare freddo, cerco di chiamare l’agente per
dirgli: “È successo qualcosa a mia figlia, potrei usufruire oggi della
telefonata prevista per la settimana prossima?” .
Mi
rispondono: “Purtroppo lei ha finito i suoi dieci minuti settimanali, ci
dispiace, la potrà fare la settimana prossima”. Mi sono sentito la persona più
inutile al mondo.
Sono
un ergastolano, l’unico amore che potrei dare ai miei figli sono quelle
telefonate che posso fare per dieci minuti a settimana, oltre alle sei ore di
colloquio che potrei fare ogni mese, cosa per me molto difficile, dato che la
mia famiglia abita in Belgio.
In
questi ultimi anni non sono stato mai presente nella crescita dei miei figli,
neppure con un banale gesto d’affetto. In Belgio non è così, ecco perché
loro mi dicono: quando eri in Belgio, non ci sentivamo orfani. La detenzione in
quel Paese riguardo agli affetti è molto umana, molto attenta, se ti trovi in
detenzione preventiva, in attesa di giudizio, ti lascianofare i colloqui per tre
ore a settimana, oltre a due colloqui affettivi di quattro ore al mese, e poi
sei in possesso di una carta telefonica, che ti dà accesso ai numeri
autorizzati, che puoi chiamare dalle 8:30 fino alle 18:30, anche più volte al
giorno, e se hai figli minori fino al diciottesimo compleanno puoi fare, tutti i
mercoledì dalle 14:00 fino alle 18:00, i colloqui senza la presenza degli
agenti, ma seguito da un’educatrice, per fare i compiti di scuola insieme,
giocare, parlare dei loro problemi. E poi sei anche sicuro che ti assegnano un
lavoro, con uno stipendio mensile che ti permette di inviare qualcosa alla
famiglia e di coprire le tue spese in carcere. Ma soprattutto, in Belgio ti
lasciano fare il padre, il marito, il figlio, in modo che il giorno che rientri
a casa non sei una persona estranea, che potrebbe “invadere” le vite dei
tuoi famigliari spezzando i loro difficili equilibri.
In
Italia tanti detenuti, nel momento in cui finiscono di scontare la loro
carcerazione, iniziano un’altra pena, quella determinata dalla difficoltà di
riallacciare i rapporti con le famiglie, perché spesso la galera causa
l’allontanamento dei figli e della moglie, e quando le persone escono e non
hanno un lavoro, si scontrano con tutte le difficoltà che oggi ci sono nella
società. Tanti di loro poi, se si ritrovano soli e senza nemmeno l’affetto
della famiglia, rischiano di tornare presto a delinquere.
Ma
siamo sicuri che in Italia vogliano che la persona che esce dal carcere sia
inserita nella società?
Siamo
sicuri che non ci siano tantissimi figli che finiscono per odiare quelle
istituzioni, che hanno trattato anche loro come dei colpevoli? Siamo sicuri che
tenere in carcere le persone in modo poco umano, e farle uscire più arrabbiate,
aiuti a ridurre la criminalità?
Ricordiamoci
che siamo già stati condannati dall’Europa e potremmo esserlo di nuovo per le
nostre carceri disumane. E se per fare i cambiamenti necessari a umanizzarle
cominciassero proprio trattando più umanamente i nostri figli?
Ho
pensato a quello che farei io se non potessi chiamare a casa quante volte voglio
di
Francesca Rapanà,
operatrice dello
Sportello
di Segretariato sociale in carcere
Entro
in carcere da dodici anni e a differenza delle persone con cui collaboro, ad una
certa ora posso, anzi devo, uscire. Conosco il carcere da persona libera, e ne
ho ovviamente una visione parziale, perché non vivo sulla mia pelle la
quotidianità della vita in sezione e la continua privazione della libertà.
Certo
ci sono alcune regole, a cui chiunque entri in un carcere deve sottostare, ma
sono sopportabili perché limitate alle ore in cui sei “dentro”. Tra tutte,
trascorrere le ore in carcere senza cellulare l’ho sempre vissuto con
sensazioni contrastanti, a volte di liberazione, a volte di fastidio.
Quest’anno
purtroppo mio padre ha avuto un serio problema di salute e da quando è
ricoverato in ospedale ci sono stati diversi episodi gravissimi e inaspettati,
durante i quali per fortuna ho potuto sempre stargli vicino. Nei momenti in cui
si è stabilizzato, ho deciso di riprendere le mie attività e
quindi
di ricominciare a entrare in carcere.
La
prima volta che sono rientrata, al momento di lasciare il cellulare
all’esterno, mi è preso quasi il panico. E se succede qualcosa come mi
avvisano? Come faccio a stare dentro sei ore senza avere notizie? Ogni tanto
mentre sto facendo un colloquio mi viene il terrore che stia succedendo qualcosa
e in un paio di occasioni, appena ho potuto, sono corsa fuori ad accendere il
cellulare per chiamare a casa.
Questa
situazione mi ha avvicinato per un secondo alla sensazione di rabbiosa o
rassegnata impotenza che deve provare una persona detenuta che ha una persona
cara che sta soffrendo o che sta attraversando un momento difficile, o anche
semplicemente che ha bisogno per varie ragioni di sentire vicini i propri
affetti.
Ho
pensato a quello che farei io se non potessi chiamare a casa quante volte
voglio, una, dieci, venti al giorno, per sapere minuto per minuto come sta mio
padre.
Penso
alle volte in cui quando telefono mi concentro così tanto sulla voce di mia
madre, che una pausa in più, una parola incerta, un tono di voce stonato mi fa
entrare in uno stato d’allarme tale che dopo cinque minuti richiamo per essere
sicura che non mi stiano nascondendo qualcosa. E se non sono sicura, chiamo
qualcun altro per confrontare le diverse versioni.
Io
credo che sia contro natura accettare un atto violento come la lontananza
forzata dai propri affetti, con solo dieci minuti di telefonata a settimana.
Io
non so se in quella situazione riuscirei a mantenere l’autocontrollo,
rispondere in modo educato, tenere una condotta “regolare e partecipativa”
anche nel tempo, perché farei fatica a dissociare l’immagine di
un’istituzione che dice di volermi rendere una persona migliore da quella di
un’istituzione che mi tortura allontanandomi dai miei cari anche in momenti
così delicati, quando si tratta della vita e della morte delle persone.
E
allora penso a quale stato d’animo possa aver generato alcuni rapporti
disciplinari per reazioni violente di detenuti, certamente le emozioni, la
frustrazione, l’ansia in quei casi sono esplose nel modo sbagliato, ma non
deve essere facile gestire l’angoscia e la preoccupazione per una situazione
che riguarda i propri cari, accettando di non poterli sentire. Perché 4
telefonate al mese significa non poterli sentire; io in questi mesi faccio
almeno 4 telefonate al giorno, e non mi bastano.
Io
non capisco il senso della limitazione del numero e della durata delle
telefonate: a chi nuoce che una persona detenuta possa sentire quante volte
vuole le persone a cui vuole bene? A quale idea di rieducazione nuoce
esattamente?
L’emozione
della festa del papà
di
Federico Torchia
Come
far capire a voi che leggete cosa può voler dire la festa del papà in carcere,
sia per noi detenuti che per i nostri figli? È di difficile comprensione anche
per me che ho vissuto quei momenti d’emozione. Riabbracciare un figlio,
stringerlo a sé, camminare con lui, mangiare un boccone scherzando e
guardandolo negli occhi. Sul momento non ti rendi conto quale fortuna hai, però
dopo qualche giorno quando prendi coscienza delle emozioni che hai provato, dei
tuoi sentimenti, e rivivi le scene della giornata, ti senti stanco e pensieroso.
Il sorriso, era l’espressione preponderante della giornata vissuta nella
palestra della Casa di Reclusione di Padova dove si è svolta la festa del papà.
Finalmente molti di noi dopo tanto tempo, anche alcuni anni, abbiamo potuto
riabbracciare i nostri figli. All’apertura la mattina di domenica la fila alle
docce era già lunga. Tutti silenziosi e assorti nei propri pensieri ci si
lavava, ci si radeva. Alla ricerca di una parvenza di benessere che mai come in
questa domenica è importante.
In
realtà noi detenuti siamo molto attenti nei colloqui cercando sempre di farci
vedere dalle famiglie che stiamo bene, una apparenza di tranquillità e buono
stato di salute, anche quando non è così.
Però
questa domenica era speciale, avremmo passato quattro ore con i nostri figli,
cosi ci siamo tirat a lucido come non mai. E pian piano abbiamo iniziato ad
aspettare che ci chiamassero a colloquio. Poi finalmente ci siamo ritrovati in
palestra. Piccoli gruppi si formavano per scambiarsi i saluti, però i volti
erano tesi e gli occhi correvano alle sbarre cercando i volti dei figli. Ed ecco
che finalmente sono arrivati, e il mondo si è fatto più dolce, baci e sorrisi
hanno preso il posto delle parole, sguardi teneri e attenti ascoltavano quelle
faccine che raccontavano la loro ultima avventura. Che bello poi un mare di
chiome colorate, e tagli di capelli strani, però sempre tutto come detta la
moda del momento. Il tutto era incorniciato di palloncini colorati, e splendidi
volontari vestiti da pagliacci. I ragazzi del telefono azzurro hanno fatto
proprio uno splendido lavoro. Sono passati tavolo a tavolo parlando con ognuno
di noi e facendo sognare i più piccoli. La pazienza e la gentilezza che hanno
tenuto con tutti sia grandi che piccini è encomiabile.
E
mentre la mattinata avanzava la palestra si è riempita di faccine colorate a
forma di coccodrillo, pirati, fatine, principessine e uno splendido gattino.
Tutto questo grazie alla bravura della decoratrice, e alla collaborazione dei più
piccoli, che straordinariamente stavano fermi mentre lei li dipingeva. Il
karaoke ha fatto da sottofondo alla festa dove baby cantanti provetti hanno
intonato le canzoni classiche italiane. Con l’aiuto dei genitori che gli
suggerivano le parole all’orecchio. Partecipavano tutti, sia italiani che
stranieri.
Posso certamente dire che è stata una gran giornata, dove tutti si sono divertiti. Tutto questo certamente ci ha fatto riflettere e capire cosa ci siamo persi per seguire quell’istinto che ci ha portato lontano dalla realtà. I nostri errori non solo hanno condizionato la nostra vita, ma anche quella delle nostre famiglie. Facendo soffrire chi ci ama a prescindere da quello che siamo. I nostri figli.