Ci
sono piccoli fatti che raccontano più di tante denunce
Ci
sono piccoli fatti che raccontano più di tante denunce: qualche giorno fa un
detenuto è stato portato al Pronto Soccorso perché nessuno riusciva a
togliergli dall’orecchio uno scarafaggio. Il degrado c’è a Poggioreale, ma
c’è anche, eccome, nel carcere di Padova. E i motivi sono tanti: certo, il
sovraffollamento, che fa vivere tre persone in spazi che sarebbero decenti per
una, ma anche la miseria diffusa, perché in carcere ci finiscono sempre più
spesso le persone prive di risorse, e l’amministrazione però ha sempre meno
soldi per distribuire prodotti per l’igiene.
E
poi ancora il fatto che in questi anni sono stati ridotti moltissimo i
finanziamenti per il lavoro “domestico” dei,detenuti, e questo vuol dire che
le carceri sono sempre più sporche perché le ore pagate ai “lavoranti” per
pulire le aree comuni sono sempre meno e i detenuti che non hanno i soldi
neppure per comprarsi detersivi e disinfettanti sempre di più.
Ma
finché buona parte della società resterà convinta che queste sono lamentele e
non la giusta rivendicazione del diritto alla dignità, è sempre più difficile
che venga davvero rispettata la Costituzione, là dove dice che “le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Carceri
che qualche volta assomigliano a un film horror
di
Erjon Celaj
Un
urlo mi fa sobbalzare sul letto, quasi sbatto la testa sulla seconda branda, ma
l’allenamento negli anni mi ha fatto prendere in modo magistrale le misure di
quei 2 metri e 88 centimetri quadrati che mi spettano per scontare la mia
condanna in una cella delle carceri italiane. Butto uno sguardo dalla finestra,
fuori è ancora buio e nel frattempo l’urlo si prolunga in tutte le sue
sfumature, paura, angoscia e ricerca d’aiuto, cerco di capire cosa sta
succedendo, in due passi e mezzo raggiungo il bagno e agguanto lo specchietto,
mi fiondo davanti al blindo e da una fessura di 25 centimetri tiro fuori la mano
con lo specchietto cercando di intravedere se ci sono movimenti di agenti
penitenziari, per me il calcolo da fare è semplice: se vedi tre agenti scelti e
un brigadiere significa che qualcuno ha tentato di impiccarsi e stanno
attendendo la barella per portarlo fuori dalla cella, ma non vedo nulla, nessuno
si trova lì vicino, intanto l’urlo non smette e comincia a diventare
fastidioso per gli altri in sezione: questi posti infatti ci hanno resi
insensibili, e solitamente quando qualcuno cerca di impiccarsi lo sgomento dura
poco, ma questo è già venti minuti che urla. Di persone che tentano di
impiccarsi ne vediamo una o due a settimana, oramai non ci stupisce più nulla,
siamo attori contro voglia di un film horror di cui è responsabile quella parte
della politica che non si vuole assumere impegni concreti per cercare di
umanizzare le carceri. Ma torniamo a questa trama raccapricciante, proprio così,
una cosa da non crederci: ai giorni nostri, in una società colta ed evoluta,
uno scarafaggio è entrato all’interno dell’orecchio di un detenuto, uno dei
peggiori incubi che un essere umano possa avere si è avverato qui nel carcere
penale di Padova, questo carcere pochi mesi fa fu definito bellissimo
dall’allora ministra Cancellieri, ora io mi domando se qui succede questo
figuriamoci cosa succederà in quelle carceri che non sono “bellissime”.
Questa è una di quelle situazioni che dobbiamo affrontare oltre alla privazione
della nostra libertà, ma se con azioni non rispettose della società abbiamo
noi stessi contribuito a farci privare della libertà, la galera può starci
anche bene, ma chi ci ha condannato nel nome del popolo italiano si rende conto
a cosa ci sta mandando incontro? L’uomo dell’urlo è stato portato in
ospedale dopo un’ora e verso mezzogiorno lo si è rivisto in sezione, e noi
abbiamo cercato di scherzare chiedendogli “ma sei ancora vivo?”, e anche per
lui che non gridava più la giornata è continuata poi normalmente. Usare il
termine normale non è però proprio azzeccato, perché gli incubi che siamo
costretti a subire stanno diventando realtà quotidiana.
Ma
come si fa ad alzare la voce contro questa disumanità se poi non sai dove
finirai, come puoi
combattere
questa quasi totale indifferenza se non hai speranza di cambiare le cose? noi
detenuti ci
abbiamo
provato ma quasi nessuno ci ascolta, e questo però non significa che dobbiamo
smettere di chiedere i nostri diritti: perché una giustizia sia veramente
giusta bisogna infatti avere la forza di riconoscere i detenuti come esseri
umani e non alieni. Il carcere dovrebbe essere una specie di riparazione al
danno che subisce la società per azioni delinquenziali, ma dovrebbe soprattutto
aiutare chi commette reati a reinserirsi nella società stessa una volta
scontata la pena. E però come si fa a non portare rancore quando per anni ti
hanno rinchiuso in luoghi degradati fra violenza sporcizia ignoranza, senza mai
darti la possibilità di fermarti una volta a pensare al perché dei gesti che
hai commesso, come si fa a non essere incazzati quando si è ricevuta tanta
indifferenza?
Inquilini
indesiderati
di
Luca Raimondo
Quando
mi hanno raccontato che a un nostro compagno è entrato uno scarafaggio
nell’orecchio e lo hanno portato in ospedale per levarglielo, non potevo
credere a quell’assurdità, poi un suo compagno di sezione ha detto che gli
hanno dovuto estrarre lo scarafaggio con un divaricatore, allora ho capito che
la storia non era frutto della fantasia.
È
un dato di fatto che nelle carceri oltre al sovraffollamento dei detenuti, c’è
il sovraffollamento di blatte, che io chiamo “inquilini indesiderati”, è
una cosa schifosa anche solo descriverla.
Devo
dire che la Direzione fa fare la disinfestazione nelle sezioni e nelle celle
detentive almeno due volte al mese, ma niente, il problema è che tutto il
carcere è infestato da questi parassiti e ci vorrebbero delle disinfestazioni e
una pulizia radicali.
Nelle
tante carceri dove sono stato ho visto di tutto, ricordo che nel carcere di
Catania Piazza Lanza, nei gabinetti alla turca dovevamo mettere una bottiglia
piena d’acqua nel buco di scarico, perché uscivano i ratti, e una volta ad un
detenuto lo hanno dovuto portare in ospedale, perché mentre era seduto a fare i
suoi bisogni un ratto lo ha assalito mordendolo, non so neppure spiegare la
paura di quando dovevi levare quella bottiglia per poter usare la turca. Ma in
che schifo di posti veniamo rinchiusi? È normale convivere con tutte queste
bestie, rischiando giorno dopo giorno di prendere malattie e infezioni a causa
di condizioni di miseria e degrado che ti privano anche della dignità?
Eppure
non siamo più nell’era delle pestilenze o delle guerre, quando le galere
erano posti dove trovavi di tutto, questo senso di abbandono è allucinante, se
si pensa che siamo nel 2014 e il diritto alla salute dovrebbe essere garantito a
tutti.
Io
su questo penso che mi vergogno di essere un cittadino italiano: anche se al
momento sono detenuto, sono ancora cittadino di questo paese e non credo che sia
da Paese civile tenere degli esseri umani in situazioni così degradanti: non
solo infatti dobbiamo stare nelle carceri sovraffollate, ma dobbiamo anche
rischiare di prenderci delle malattie o delle infezioni. Io ricordo che sono
entrato in buona salute e a questo punto non sono così sicuro di uscirne nella
stessa maniera.
Spero
che questo mio sfogo arrivi a chi di dovere, perché finalmente si riesca a
risolvere questi problemi di degrado. E voglio per lo meno credere alla
sensibilità delle ASL, che dovrebbero monitorare lo stato di igiene di tutte le
nostre carceri.
Carceri
piene di uomini, vuote di speranza
Ha
usato il cavo della televisione per farla finita con una vita, che doveva
sembrargli priva di qualsiasi speranza: il 25 aprile si è ucciso nella Casa di
reclusione di Padova un detenuto, Alessandro Braidic. Lo vogliamo ricordare, per
continuare anche in nome suo a batterci per condizioni più civili nelle
carceri, per le persone detenute, ma anche per chi ci lavora. Perché non
possiamo dimenticare che pure tra gli agenti c’è sofferenza per le condizioni
di lavoro sempre più frustranti, e che il 29 aprile si è tolto la vita uno di
loro, in servizio nella Casa circondariale di Padova.
a
cura della Redazione
Il
sovraffollamento non è un problema di numeri
di
Ornella Favero,
Redazione di Ristretti Orizzonti
Sabato
26 aprile, quando sono entrata nel sito del Mattino di Padova, ho sentito un
pugno nello stomaco: “Padova, detenuto si impicca in carcere con il filo
elettrico”. Sono andata subito a cercare il nome, io in quel carcere ci entro
ogni giorno da diciassette anni, conosco tanti detenuti e ho avuto paura. Ma il
nome non c’era, c’era solo un fine pena MOSTRUOSO, 2039. Mi sono allora
attaccata al telefono per cercare quel nome, e alla fine l’ho saputo:
Alessandro Braidic. Io non lo conoscevo, Alessandro, e quindi un po’ di
sollievo l’ho provato, non era uno della mia redazione, ma è stato un
sollievo amaro. Perché poi cominci a farti tante domande, a cercare delle
ragioni, a pensare se ci sono delle responsabilità, se SI POTEVA EVITARE. È
una domanda anche stupida, per carità, nessuno è in grado di dire se si poteva
evitare un suicidio, però una riflessione su quello che sta succedendo nelle
carceri io voglio tornare a farla. Io personalmente sono stanca di difendere
queste istituzioni, di essere obiettiva, di richiamare le persone detenute alla
loro responsabilità, che certamente hanno, a volte anche pesantissima, sono
stanca e avvilita per la grande e diffusa EVASIONE dalla responsabilità che mi
vedo intorno. Perché bisogna pur ripeterlo ogni giorno che il problema non è
mille detenuti in più o in meno, mezzo metro di spazio in più o in meno, il
problema è il vuoto di speranza di tutto il sistema: a partire dalle pene
inumane come quel 2039 di Alessandro, uno che comunque era un “predestinato”
alla galera già solo per il suo essere un “sinto, giostraio, nomade, rom”
(i giornali le hanno usate tutte, queste definizioni, quando hanno parlato di
lui). E poi la sua carcerazione, inutile, disperata. Prima a Milano, poi a
Padova.
Io
non so cosa ci facesse a Padova, lontano dalla sua famiglia, solo, ma alcuni
dubbi li ho, alcuni motivi di rabbia anche:
Non
vorrei più vedere servizi televisivi sul carcere modello di Bollate o su
quello di Padova. Bollate è una specie di santino, Padova un mezzo santino
dell’Amministrazione penitenziaria. Prendiamo Padova, che conosco bene,
qui sono impegnati a fare qualcosa, con la pasticceria, Ristretti, la
scuola, la detenuti, ma ce n’è quasi cinquecento che vivono, come altre
migliaia in Italia, la stragrande maggioranza, nel vuoto, nell’assenza di
futuro, nella fragile speranza di un trasferimento in un altro inferno, solo
un po’ migliore. Come Alessandro Braidic, che per farsi mandar via si era
isolato da tutti.
Voglio
credere alle promesse dell’Amministrazione, che dichiara con una nuova
circolare l’intenzione di umanizzare i trasferimenti e di dare risposte
“entro 60 giorni” alle richieste dei detenuti di essere trasferiti. Ma
allora perché Alessandro Braidic si era chiuso e isolato proprio per essere
trasferito da Padova, dove non aveva nessuno, e andare a Milano, vicino alla
famiglia, e aspettava credo da più di un anno una risposta alla sua
richiesta di trasferimento?
Vorrei
che tutto quello che riguarda le “morti di carcere”
fosse oggetto di una informazione chiara, attenta, precisa: perché
è importante ricostruire ogni passaggio delle vite e delle morti come
quella di Alessandro Braidic, per capire, per cercare le responsabilità,
per spezzare la catena di indifferenza che c’è dietro queste storie e
fare davvero TUTTO il possibile per ridare umanità alle galere. E non per
paura dell’Europa e delle sue sanzioni, ma per rispetto di noi stessi e
delle nostre istituzioni.
Morti
che si tolgono la vita
di
Carmelo Musumeci
Sui
quotidiani di Padova del 26 aprile leggo “Nel
carcere di Padova si è tolto la vita Alessandro Braidic. Condannato al carcere
fino al 2039 si impicca in cella con il cavo della TV”. Qui si continua a
morire, ma nessuno fa nulla perché la morte dei “cattivi” non interessa
quasi a nessuno. Un altro detenuto che se ne va, un altro ancora, che forse
amava la vita e per continuare ad amarla è dovuto morire perché in carcere si
vive una non vita. Forse là fuori, molti “buoni” del mondo libero non sanno
che quando in carcere un compagno si toglie la vita tanti altri detenuti lo
invidiano. Cercano di indovinare i suoi ultimi gesti per ricordarsi di quando
toccherà a loro. Ed io questa notte ho immaginato i pensieri che forse
gireranno nella mia testa quando toccherà a me.
Ho
sempre vissuto come ho potuto. E non certo come avrei voluto, ma non ho mai
smesso di amare l’umanità anche quando questa mi ha maledetto e condannato a
essere cattivo e colpevole per sempre. Mi viene in mente che i filosofi non
consideravano la scelta di suicidarsi un crimine o un peccato, ma solo un modo
di abbandonare la scena quando la vita diventava inutile. E la mia vita oltre
che inutile ora è diventata anche insopportabile. Non temo la morte. È già da
tanto tempo che la aspetto. E lei per farmi dispetto e per lasciarmi in prigione
tarda a venire. Ora però sarò io ad andare da lei. Ogni ergastolano resiste a
stare in carcere fino a un certo numero di anni, che cambia a seconda degli
uomini.
Poi
ad alcuni non rimane altro che impiccarsi alle sbarre della propria cella. Io già
ho superato di molti anni questo limite, ma non ho ancora avuto il coraggio di
togliermi la vita per l’amore della mia famiglia.
A
un tratto immagino che non esiste un ergastolano che non abbia mai pensato a
togliersi la vita per uscire prima. Per un po’ cammino avanti e indietro per
la cella. Mi sdraio sulla branda. Fisso il soffitto macchiato di umidità per
una decina di minuti. Mi scrollo gli ultimi dubbi da addosso. Poi non ci penso
più di tanto. Mi guardo intorno per la cella come se qualcuno mi potesse vedere
e impedirmi di fuggire da dentro l’Assassino dei Sogni, come io chiamo il
carcere. Tento un debole sorriso a me stesso. Mi tolgo la malinconia con una
scrollata di spalle. E faccio quello che ho pensato sempre di fare. In tutti
questi anni ci avevo pensato anche troppo. Provo l’impressione che le pareti
della cella si stringano intorno a me. Poi viene il buio. Ed è così denso che
sembra che mi sorrida. La libertà e la morte sono così vicine che basta
allungare la mano per toccarle. Ed io lo faccio. Prima tocco la morte. Poi
abbraccio la libertà. E mi addormentò come fanno solo i morti.
Ciao
Alessandro, non ti conosco, non ti ho mai visto, ma ti ammiro per esserti
rifiutato di vivere una vita da cani. Spero un giorno di avere anch’io il tuo
coraggio. Buona morte.
25
aprile 2014, giorno di morte in carcere a Padova
di
Andrea Zambonini e Biagio Campailla
E’
morto
un altro detenuto, Alessandro, un ragazzo che ho conosciuto personalmente, un
ragazzo con il quale ho parlato, qualche volta anche scherzato, un ragazzo che
non avrei mai immaginato potesse fare una fine del genere: essere trovato
pendente da una corda…
Era
arrivato dal carcere di Milano, e da subito si è dimostrato aperto al dialogo
con gli altri detenuti. Era nella mia stessa sezione fino a qualche mese fa, poi
per suoi motivi legati a problemi, io credo psicologici, o psichiatrici non so
bene, ha deciso di isolarsi da tutti e ha chiesto il divieto d’incontro con
tutto il carcere, perché voleva essere trasferito, ed era stato portato nella
sezione isolati.
Nell’ultimo
periodo, prima di essere messo in isolamento, si vedeva chiaramente che stava
male, il suo carattere era cambiato da un giorno all’altro, parlando con le
persone che conosceva esprimeva chiaramente dei comportamenti dettati da un
disagio, era diventato una persona del tutto diversa.
Ora
mi chiedo: qualcuno si sarà accorto che non stava bene? Sicuramente sì, perché
già da quand’era in sezione assieme a me veniva visto dal medico e lui stesso
chiedeva di poter essere visitato dallo psichiatra, cosa che poi era successa.
Risulta evidente che i medici erano al corrente della sua situazione e del fatto
che non era una persona che poteva stare là, dove poi alla fine si è tolto la
vita, per triste coincidenza nel giorno della “Liberazione”.
A mio parere non si può tenere un ragazzo per mesi e mesi in una sezione di semi-isolamento. E prima che lo mettessero lì tutti sapevamo bene che lui aveva dei seri problemi psichici e che il carcere di Padova non era il posto adatto a lui. Qui, secondo me, qualcuno dovrebbe chiedersi se davvero è stato fatto tutto il possibile per capire il suo malessere, perché comunque non è giusto che un ragazzo giovane, l’ennesimo ragazzo, perché in carcere sono tanti i ragazzi giovani che si tolgono o cercano di togliersi la vita, faccia una fine del genere. Io credo che sia giusto che qualcuno, nelle carceri italiane, si chieda: ma si poteva evitare? Ma davvero abbiamo fatto tutto il possibile perché nessuno pensi a un gesto così tragico come una forma di liberazione?