Una
consapevolezza più ampia di noi stessi
di Ornella Favero
Nelle
sue Lezioni Americane, scritte nel 1985, Italo Calvino indica la LEGGEREZZA come
uno dei valori letterari da conservare nel nuovo millennio: “Dedicherò la
prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della
leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno
valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo
quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto
esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva
per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle
volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure
umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere
peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.
Ecco,
la SOTTRAZIONE DI PESO, mi viene da dire che il linguaggio usato in materia di
giustizia, i processi, le perizie, le sentenze sono, al contrario, esempi di
“aggiunta di peso” invece che di sottrazione: testi complicati, uso
superfluo e fastidioso del latino, frasi lunghissime, parole che danno
l’impressione di essere usate per stabilire una distanza, un dislivello, una
superiorità tra chi amministra la giustizia e chi la giustizia in un certo modo
la subisce.
Nell’incontro
che abbiamo fatto in redazione con un linguista di grande competenza, Michele
Cortelazzo, si è parlato senza mezze misure proprio di quel linguaggio
giuridico, che sempre più si configura come uno strumento di potere, perché,
sostiene Cortelazzo, “le perizie per esempio, oppure il linguaggio
processuale, alla fine rendono la persona che è lì davanti qualcosa di diverso
da noi, ed è questo secondo me un elemento interessante, che è simile a quello
che noi troviamo in un certo tipo di giornalismo: si deve sempre raccontare la
persona che ha a che fare con la giustizia, che ha commesso reati, facendoci
immaginare che sia diversa da noi, e quindi si crea una distanza ancora maggiore
usando questo linguaggio”.
Viene da pensare a quella teoria del “diritto penale del nemico”, quel diritto penale che contempla pene più severe per una determinata categoria di autori di reato, (i terroristi, per esempio), reputati nemici, e in quanto tali non-persone a cui i diritti non vengono riconosciuti, e che bisogna neutralizzare per difendersi dalla minaccia che costituiscono. Forse allora un certo linguaggio, usato da chi ha un potere enorme sulle vite delle persone, perché può arrivare anche a privarle della libertà, finisce proprio per far sentire ancora di più come nemici quelli che hanno violato la legge, ed espropriandoli della loro umanità, non riuscendo a comunicare con loro, rischia di spingerli a una guerra continua con le istituzioni. Ecco perché abbiamo scelto da anni di cambiare linguaggio, e di privilegiare le parole di una giustizia MITE: il dialogo, quindi, il dare alle persone la sensazione che le loro narrazioni vengono ascoltate, la scelta di abbattere le barriere costituite da un linguaggio che esclude, la consapevolezza che imparare a comunicare è il primo passo per imparare a interessarsi agli ALTRI e a diventare di conseguenza persone più responsabili.