Provo
un dolore piacevole nel rispondere alle domande degli studenti
“Piacevole”
perché il risultato è riuscire a essere una persona migliore e non peggiore di
quella che sono stato
di
Lorenzo Sciacca
Ho
scritto tanti articoli sul progetto che abbiamo nella Redazione di Ristretti
Orizzonti che vede entrare migliaia di studenti l’anno nel carcere per
confrontarsi con i detenuti. Ho sempre parlato del potere del confronto,
dell’importanza del raccontarsi, di rimettere in discussione una scelta di
vita e di trovare un dolore piacevole nel rispondere alle loro domande visto che
il risultato è riuscire a essere una persona migliore e non peggiore di quella
che sei stata, ma oggi voglio provare a dire altro.
Di
fronte ai ragazzi non puoi trovare alibi, certo volendo potrei raccontare un
sacco di cazzate, ma non raggiungerei mai lo scopo che mi sono prefissato e cioè
quello di riuscire ad uscire da quel vortice di male e odio che ha
caratterizzato la mia vita.
Se
penso che neanche la responsabilità di essermi costruito una famiglia, la
perdita di un figlio è riuscita a fermare quella voglia di vendetta che nutrivo
nei confronti della società, mi spavento da solo.
A
volte degli studenti ci chiedono se siamo pentiti di quello che abbiamo fatto e
che ovviamente abbiamo provocato. Se dovessi rispondere con la stessa cultura
che mi ha caratterizzato per una vita intera, mi spaventerei a pronunziare
questa parola, perché l’assocerei al pentimento di atti giudiziari, ma io
oggi non sono più la persona di ieri, questo è perché ho raggiunto la
consapevolezza del male recato a tutte le persone che mi circondavano e a me
stesso. Dunque: sono pentito di quello che ho fatto? Sì. Ho rimpianti? Sì. Non
c’entra niente con il pentimento su atti giudiziari, è un pentimento molto più
profondo, non riguarda neanche il pentimento che ha che fare con la fede, è un
pentimento tuo, personale.
Ho
buttato nel cesso anni della mia vita, anni che nessuno potrà ridarmi e solo il
pensiero che sarei potuto essere quello che oggi ho scoperto di voler diventare
è doloroso, ma piacevole, perché un giorno qualcuno che ha in mano il potere
decisionale capirà che Lorenzo Sciacca non è più la stessa persona del reato
che ha commesso. Quei pochi anni passati in libertà li ho utilizzati per
inseguire una passione triste, finta, una passione che aveva a che fare solo con
il materiale. Il potere che ti danno i soldi è un potere a dir poco infame, ti
fanno credere che puoi ottenere tutto, ti danno un senso di pienezza, di
raggiungimento, di felicità, ma è tutto un inganno. Se una persona trova del
piacere in questo, dietro c’è tanta tristezza e solitudine. Io ero così,
triste e solo.
Oggi
no e tutto questo lo devo alle persone che credono in me e agli studenti che
entrano nel carcere che mi hanno fatto scoprire passioni nuove, passioni vere e
positive, passioni su cui oggi baso la mia vita e progetto quella futura, questa
passione è lo scrivere e confrontarmi proprio con le persone che credevo
fossero nemici. Sono queste le due componenti fondamentali del mio cambiamento.
Il
confronto tra studenti e detenuti è il cuore di un progetto di autentica
prevenzione
Anche
quest’anno sono stati più di 6000 gli studenti delle scuole di Padova e di
molte città del Veneto che hanno partecipato al progetto “Il carcere entra a
scuola, le scuole entrano in carcere”: una marea di incontri con detenuti, ex
detenuti, magistrati, operatori, nelle classi e poi in carcere, organizzati
dalla redazione della rivista del carcere, Ristretti Orizzonti, con il
sostegno del Comune di Padova e della Casa di reclusione.
Il
filo conduttore del progetto resta la scrittura: i ragazzi scrivono
all’inizio, a ruota libera, la loro idea del carcere e delle pene, e poi
scrivono dopo gli incontri. E i loro sono spesso testi profondi, come quelli che
pubblichiamo, che sono stati scelti da Benedetta Tobagi* e hanno vinto il
concorso di scrittura collegato al progetto, due per le medie inferiori, due per
le superiori
*
Benedetta Tobagi , figlia di Walter Tobagi, giornalista assassinato nel
1980
da un commando di terroristi della “Brigata XXVIII marzo”. Per Einaudi ha
pubblicato
Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre (2009 e 2011)
e
Una stella incoronata di buio (2013).
Quelli
che seguono sono i testi che hanno vinto il primo e il secondo premio del
concorso di scrittura per le Scuole Medie Inferiori
La
droga ti tiene legato a sé con catene che nemmeno le tenaglie più forti
riescono a spezzare
di
Nadia Bortolami,
Scuola
Secondaria di Primo Grado “A. Doria” di Roncaglia
Che
malinconia che aleggiava oggi in Aula Magna... I muri apparivano più bianchi
del solito. Camminavo lentamente mentre osservavo il volto perplesso dei miei
compagni...
Questo
progetto non mi rendeva serena, mi sentivo come se fossi l’unico calcolo
errato in un compito perfetto, l’unica formica in un paese di giganti; insomma
mi sentivo strana, quasi imbarazzata... E forse era proprio così.
Una
volta varcata la soglia ho preso la prima sedia disponibile e mi sono seduta.
Mille pensieri mi affollavano la mente, ma ormai ero lì, non potevo scappare,
nonostante lo volessi. Non è che avessi paura dei detenuti; anzi a prima vista
erano anche simpatici; il problema era un altro. Avevo paura di incrociare i
loro occhi e notare qualcosa che loro stessi non riuscivano a dire...
Qualcosa
di brutto! Ma soprattutto avevo paura che anche nella mia coscienza, nella
coscienza di un’ingenua tredicenne ci fosse qualche macchia indelebile che
neanche le lacrime più sincere avrebbero potuto dissolvere...
La
prima persona che ha parlato è stata Paola, ha raccontato del traffico di droga
al quale aveva aderito nella speranza di guadagnare i soldi persi in precedenza.
Paola non ha voluto confessare a suo padre di aver sbagliato, di aver agito
d’impulso senza ricorrere alla ragione, senza pensare alle conseguenze.
Invece
di ammettere il suo errore, ha preferito “tuffarsi” in un traffico illegale,
un traffico che le ha giocato un brutto scherzo... Dopo essere stata scoperta ha
trascorso nove anni in una cella. Una cella fredda.
Nove
anni in carcere senza rivedere la figlia, la famiglia, gli amici sono come nove
anni in coma; un coma pericoloso che ti rende fragile, un coma a causa del
quale, se non sei aiutato o sostenuto, rischi di perderti completamente!!
A
mio parere il risveglio é la fase più dura; tutti, quando esci, tutti ti
guardano, tutti ti scrutano, tutti cercano di schivarti... Hanno paura che tu
possieda ancora qualche sintomo di una malattia rara ed incurabile; una malattia
che ti fa compiere azioni inspiegabili... Quando qualche mia amica mi dice che
lei non finirà mai in carcere, che quelli che sono in carcere sono tutti matti
e che lei è perfetta, io avrei voglia di urlarle contro... Le persone che
parlano in questo modo è come se lanciassero coltelli verso i più deboli!
Coloro che sono in carcere possono aver commesso anche l’atto più meschino,
ma sono pur sempre persone e vanno rispettate in quanto tali. Non sempre si
compie un reato lucidamente; si può essere ubriachi, drogati, obbligati...
Ci
sono moltissime situazioni che possono spingere qualcuno a compiere un reato.
Noi non conosciamo tali cause, noi sappiamo solo ció che ha fatto e ci
permettiamo di giudicare in base a quello...
Tutto
ciò è ingiusto!!!! Noi non siamo perfetti, io non sono perfetta, nessuno è
perfetto! Se qualcuno ha qualcosa da dire, la dica in modo consapevole.
Consapevole del fatto che può ferire gli altri, che può sbagliarsi... Credo
che non si debba puntare il dito contro nessuno; soprattutto non contro i
detenuti che hanno trascorso anni in carcere facendo i conti con il senso di
colpa.
Il
secondo detenuto si chiamava Andrea, un giovane con i capelli neri e gli occhi
piccoli, entrato in carcere a causa di un omicidio. Andrea era ancora giovane
quando ha iniziato a fumare, e poi a farsi le canne, e poi a prendere
l’eroina...
Eh
sì: è stata proprio questa la sua rovina, l’eroina. Quando ormai ne era
diventato dipendente dal punto di vista psicologico, ha iniziato a prendere la
droga troppo spesso, e questo ha comportato la successiva dipendenza fisica.
Alla fine, per procurarsi la droga, Andrea è arrivato a commettere un omicidio.
Secondo me cominciare a drogarsi significa entrare in un circolo vizioso dal
quale difficilmente ti liberi perché ti tiene legato a sé con catene che
nemmeno le tenaglie più forti riescono a spezzare: arrivi a farti di droga
dalla mattina alla sera, e mentre il tuo corpo trema, la tua mente ti dice di
continuare, e tu continui, continui finché... muori.
Io
credo che, quando un ragazzo o un adulto diventano dipendenti dalle sostanze,
perdano tutti i sentimenti, non abbiano paura di soffrire, non provino nemmeno
timore all’idea del carcere; vogliono solo la droga, droga, e ancora droga...
Per
questa farebbero di tutto!! Andrea era ancora un ragazzo quando ha iniziato a
drogarsi, e i ragazzi sono più fragili, più ingenui; vogliono apparire grandi,
ma purtroppo non lo sono; a volte non sanno che basta un secondo per rovinare
per sempre la propria vita e quella altrui.
Il
terzo detenuto, Edward, è entrato in carcere a causa di una lite tra ragazzi. A
quel tempo aveva diciotto anni, quella sera si trovava ad una festa, aveva
bevuto un po’ troppo; scoppiò una lite, calci, pugni...
E
poi il vuoto... Un ragazzo era morto. Edward era diventato un assassino. A mio
parere il motor che ha mosso Edward è stato, oltre all’alcol, l’orgoglio.
L’orgoglio è una brutta bestia che si trova dentro ognuno di noi, una bestia
che vuole sempre ottenere l’ultima parola anche quando questo non è
possibile.
L’orgoglio
ci spinge a difenderci, a farci valere sugli altri anche a costo di
schiacciarli. Le persone orgogliose non vogliono avere torto e sono pronte a
rovinare gli altri pur di avere ragione. Secondo me, a volte, bisogna accettare
la sconfitta, ammettere di avere sbagliato anche se si ha ragione. Nella vita
non si può essere sempre al centro dell’attenzione, é IMPOSSIBILE!!! E poi,
a volte, chi lascia perdere si dimostra più intelligente e coraggioso di chi
reagisce subito, come una molla, ad ogni istigazione. Credo che il sentimento di
autoreferenzialità sia strettamente collegato al bisogno di apparire. Il
“bisogno” di dimostrarsi migliori degli altri, la “necessità” di
apparire invincibili.
Quindi
l’orgoglio tante volte è un modo per mascherare le proprie paure, le proprie
debolezze, invece di imparare ad affrontarle senza dover difendere di sé
un’immagine fasulla.
L’ultimo
detenuto si chiamava Dritan, ha ucciso per vendetta. Anche la vendetta secondo
me è causata dall’orgoglio.
Personalmente
ritengo che, quando Dritan è venuto a conoscenza della morte del suo caro, si
sia sentito perso, impotente, e non sia riuscito ad accettare il fatto di non
avere più vicino quella persona. La rabbia è cresciuta dentro di lui
incrociandosi con il seme della disperazione, ed insieme hanno formato una
pianta rampicante che ha percorso tutto il suo corpo, perforando anche il cuore.
Tutto questo l’ha spinto a commettere quel reato. Nonostante ciò, lui stesso
ha ammesso di non essersi sentito soddisfatto in seguito all’azione commessa.
Alla fine Dritan ha capito il suo errore, ma purtroppo era troppo tardi.
Come
mi ripete sempre mio padre... bisogna pensarci prima!!
Comunque
è importante che i detenuti riconoscano i propri errori e si impegnino affinché
gli strappi
dolorosi
del passato possano essere ricuciti.
Prima
di terminare vorrei aggiungere ancora qualcosa in merito alle pene. E’
importante che le persone veramente pentite abbiano diritto ad una seconda
possibilità. Molti sostengono che le pene, per i recidivi, dovrebbero essere più
severe. Certo, è giusto punire coloro che sbagliano, ma non in modo esagerato,
altrimenti si rischia che l’individuo a causa della rabbia e della
frustrazione si incattivisca e smetta di pensare che sia possibile cambiare
strada.
Penso
che questa esperienza sia stata molto utile e formativa e spero che venga
proposta gli anni prossimi.
Per
ragionare bisogna essere liberi, specialmente dalla paura
di
Anna Savioli,
3aB,
Scuola Media G. M. Falconetto
L’incontro
che la mia classe ha avuto con i carcerati mi ha colpito molto. Mi ha fatto
capire quanto i pregiudizi possano far pensare delle cose totalmente sbagliate.
Le
classi terze si sono ritrovate nell’aula magna della mia scuola. Lì vi erano
quattro ragazzi: Andrea, Dritan, Elia e Rachid. All’apparenza erano delle
persone comuni, ma io dentro di me pensavo che stessero fingendo. Insomma se
erano lì avevano di sicuro qualcosa di diverso da me, dalle persone comuni.
Uno
di loro per volta raccontava la propria esperienza aspettando poi le nostre
domande. Mentre parlavano li guardavo negli occhi. Mi aspettavo raccontassero la
loro storia tranquillamente, per compiere ciò che avevano fatto dovevano essere
sicuramente persone forti, sicure di sé. Ma quando ho visto che i loro occhi a
mano a mano diventavano lucidi ho capito che non era così. Nonostante per la
maggior parte di loro siano passati molti anni dal reato commesso la ferita è
ancora aperta. Ho capito che spesso i pregiudizi non inquadrano correttamente
una persona, anzi talvolta sono del tutto sbagliati. Infatti si dimostravano
persone fragili, persone comuni, persone sincere, ma soprattutto persone. Si
vedeva dai loro sguardi che erano pronti a cambiare, volevano cambiare, volevano
un futuro migliore, volevano ricominciare dai loro errori.
Ma
quello che mi ha colpito più di tutto sono state due cose. Il fatto che
comunque loro abbiano capito e ammesso i loro errori. Abbiano capito che il male
che hanno fatto non l’hanno fatto solo alla loro vittima, alla famiglia di
quest’ultima e alla propria, ma l’hanno fatto anche a loro stessi. L’altra
cosa è che sono persone normali. Il che a me ha fatto pensare molto. Se sono
persone come noi, come me, vuol dire che anch’io potrei essere capace di fare
quello che hanno fatto loro. E allora la domanda non è, almeno per me è così,
perché sono arrivati a tanto? Ma è piuttosto perché anch’io non potrei fare
ciò che hanno fatto loro, cosa mi dovrebbe fermare?
Tra
le storie quella che mi ha colpito di più è stata quella di Dritan. Non
credevo che la faida fosse in alcune zone ancora viva. Mi sembra una mentalità
molto antica, chiusa. Ma poi ho provato a mettermi nei suoi panni e ho capito
che d’istinto mi sarei comportata tale e quale a lui. Sarebbe stata la cosa più
facile, la scorciatoia che forse mi avrebbe fatto sentire meglio, sapere che
colui che era morto nella mia famiglia avrebbe avuto giustizia, e che la
giustizia avrebbe alleviato il dolore. Ma come ha capito sulla propria pelle
Dritan, non è stato così. Anzi oltre al dolore per la morte del proprio caro,
deve ogni giorno sopportare il peso sulla coscienza della persona che ha ucciso.
Mi
ha colpito molto anche Rachid. Un ragazzo probabilmente sfortunato, ma questo
non lo solleva dalle sue responsabilità. Spesso un’arma in mano ci fa sentire
più sicuri, protetti, ma in realtà diventiamo schiavi della paura.
Ritornando
alla domanda di prima: perché anch’io non potrei fare ciò che hanno fatto
loro, cosa mi dovrebbe fermare? Sono arrivata ad una conclusione. Ciò che mi
dovrebbe fermare dovrebbe essere la ragione, o meglio la libertà di ragionare.
Quando sono stati compiuti quei gesti, le persone che li hanno compiuti non
erano libere di ragionare. A comandarli è stata la paura, l’istinto, la
droga, la vendetta.
Ecco
perché per ragionare bisogna essere liberi, specialmente dalla paura.
Proviamo
anche a pensare però come si devono essere sentiti questi ragazzi quando la
loro mente è tornata lucida. Secondo me appena si sono resi conto di ciò che
avevano fatto devono aver provato per loro stessi un forte odio. Le persone che
hanno capito di aver sbagliato dovrebbero essere aiutate. Perché per loro non
è difficile solo tornare ad essere accettati, ma tornare ad accettarsi. E penso
che in questo l’associazione Granello di Senape sia molto utile. Dev’essere
terribile svegliarsi la mattina, e ricordare cosa si è fatto, il volto e gli
occhi delle persone a cui si è fatto del male, ma ormai rassegnarsi perché
indietro non si può tornare. Sentirsi trafitto dagli sguardi di disprezzo della
gente. Perché, fino a quando non succede sulla propria pelle non si può
capire. Non si può capire la sensazione di abbandono come se le persone non ci
considerassero, o peggio ancora non ci volessero neanche. Non si può capire
quel senso di inadeguatezza. Nessuno potrà cancellare i loro sbagli, ma noi
possiamo aiutarli a rinascere da essi. Perché “Post fata resurgo”, “dopo
la morte torno ad alzarmi” ma io mi sento di aggiungere che, dopo la morte,
torno ad alzarmi ma più forte, e si spera consapevole dei propri errori e
pronto a non rifarli.
Quelli
che seguono sono i testi che hanno vinto il primo e il secondo premio del
concorso di scrittura per le Scuole Medie Superiori
Non
c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono
di
Massimiliano Bortolotto,
Liceo
Galilei di Caselle di Selvazzano
Stavo
ancora finendo di mangiare il gelato con i miei amici quando mia madre mi
telefonò agitata, ordinandomi di tornare a casa il più in fretta possibile.
Essendo in bici, dovetti pedalare con tutta la mia energia per arrivare in poco
tempo. Durante il tragitto di ritorno la mia mente era assalita da una miriade
di pensieri: mio padre si era sentito male? Avevo dimenticato qualcosa da fare
di importante? Mia madre aveva bisogno di aiuto? Le domande si sovrapponevano in
un crescendo d’ansia, ma a nessuna riuscivo a dare una risposta.
Maledissi
mia madre perché non mi aveva dato più dettagli. Arrivato, avevo già sulla
punta della lingua una lunga lista di domande da porre, ma mi morirono tutte in
una volta sulle labbra quando vidi il primo poliziotto davanti al cancello del
condominio. Molte famiglie discutevano animatamente nell’ingresso di casa, chi
piangeva, chi gridava in preda alla collera, chi restava in un silenzio
inquietante.
Abbandonai
la bici e iniziai a correre verso casa mia: ormai pensavo solo al peggio. La
porta era già aperta, mia madre era seduta sul divano con il volto rosso come
quello di chi ha pianto per diversi minuti, mio padre parlava con un agente che
prendeva appunti. Non mi servì chiedere nulla, perché ricevetti una risposta
prima di poter formulare qualunque domanda “Sono entrati i ladri... non hanno
portato via molto, ma…”, non diedi il tempo di finire la frase perché corsi
in camera dei miei e subito notai i cassetti in cui erano contenuti i gioielli,
rovesciati, con tutto il loro contenuto sparso sul letto. Sul momento non
riuscii a capire cosa ci fosse e cosa no, ma mi allontanai rapidamente e andai
in camera mia. La porta finestra era sfondata – probabilmente erano entrati da
lì - e trovai la stessa situazione caotica: i cassetti rovesciati, degli
oggetti per terra, la sedia capovolta e lo specchio in frantumi.
Tornando
in taverna notai che l’acquario era stato distrutto a bastonate, i pesci morti
giacevano sul pavimento e l’acqua era schizzata ovunque, bagnando il tappeto
regalatoci dai miei nonni.
Chiunque
fosse entrato non si era limitato a rubare, aveva anche compiuto, per qualche
gusto sadico e crudele, diversi atti di vandalismo. Mi sedetti su uno sgabello.
Inizialmente, ero sollevato dal fatto che nessuno si fosse sentito male, ma ora
ero confuso e depresso. In un pomeriggio molti ricordi erano stati distrutti da
un Vandalo che per divertimento aveva spazzato via tutto. Non credevo di essere
così attaccato alle mie cose.
Più
tardi scoprii che erano stati rubati una collana di mia madre, l’orologio
nuovo di mio padre, il braccialetto d’oro che avevo ricevuto per il mio
battesimo, i soldi tenuti da parte per le vacanze di Natale e qualche
videogioco. Quest’ultimo dettaglio mi lasciò abbastanza sorpreso, non pensavo
che qualcuno avrebbe mai rubato dei videogiochi.
Oltre
al valore intrinseco degli oggetti che ci avevano rubato, i ricordi legati ad
essi mi rendevano davvero difficile accettare il fatto che non li avrei mai più
rivisti. Tutto ciò che era stato distrutto mi faceva sentire svuotato, come se
ora mancasse una parte di me. Il fatto che uno sconosciuto, un Vandalo, avesse
violato i miei ricordi, le mie proprietà, mi faceva sentire a disagio. Il
Vandalo aveva rubato e distrutto anche in altri appartamenti, ma mi importava
poco. Desideravo vederlo in prigione, chiuso a chiave in una squallida stanza
per molto tempo. Lo odiavo. Lo vedevo in chiunque incontrassi per la strada.
Desideravo vederlo soffrire, così come avevo sofferto io per causa sua.
Circa
un mese dopo venne trovato e arrestato. Decisi di andarlo a trovare in carcere,
credevo che se mi fossi sfogato con lui, una parte della mia collera sarebbe
diminuito. Una volta arrivato da lui però fu tutto diverso.
Credevo
che in volto gli avrei trovato un sorriso sadico, noncurante e superiore, mi
aspettavo di trovare dell’orgoglio per il suo gesto nei suoi occhi. Credevo di
aver trovato le parole giuste, durante questo mese, e pensavo che finalmente ero
pronto ad un confronto con il tanto odiato ladro. Mi sbagliavo.
Era
un ragazzo della mia età, forse un po’ più grande. Tutto il suo essere
emanava un senso di inadeguatezza e di vergogna, come se si sentisse a disagio
di trovarsi lì, con me. Non sapevo cosa dire, mi sedetti e rimasi a guardarlo,
così come lui guardò me. Passato un po’ di tempo decisi che dovevo essere io
il primo a parlare. “Mi dispiace”, esordii “ho pensato male di te, per
tutto questo tempo, e ho desiderato che ti accadessero cose orribili, scusa”.
Lui non rispose e non alzò lo sguardo, dopo poco decisi di andarmene.
Non
riesco a spiegarmi come un semplice sguardo abbia potuto farmi cambiare idea così
rapidamente, non so come sia possibile che alla fine io mi sia sentito in colpa
al posto suo. Inizialmente pensavo che il Vandalo - anzi, quel ragazzo - mi
avrebbe ricordato il dolore che avevo provato quel giorno. Invece sentivo solo
un forte bisogno di perdonarlo, forse perché per quanto odiassi il suo gesto,
mi dispiaceva vederlo ridotto così, senza qualcuno che lo perdonasse, e ho
pensato che lui non si sarebbe mai potuto perdonare.
Forse
mi sono venute in mente molte frasi sul perdono e sulla riconciliazione che
avevo sempre sentito e che però non ero mai riuscito ad applicare. In
particolare una, di Karol Wojtyla: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è
giustizia senza perdono”.
La
frase detta da Giovanni Paolo II in occasione della giornata mondiale della pace
del 2002, mi era sembrata l’emblema di che cos’è davvero la giustizia. Non
l’odio, non la rabbia, tanto meno la vendetta, ma la capacità di perdonare.
Non
ero stato in grado di capirlo fintanto che non l’avevo messa in pratica, ma
ora credo finalmente di essere nel giusto. Giorni dopo, il ragazzo si scusò con
me del suo terribile gesto e mi ringraziò per averlo perdonato. Sono davvero
felice di aver cambiato idea.
Ho
sempre visto chi sbagliava come causa del suo stesso male
di
Beatrice Geusa,
4aB
Istituto Scalcerle, Padova
Ho
sempre pensato al carcere come a qualcosa di estraneo alla mia vita. Anzi, se
devo essere sincera nemmeno mi ero mai fermata a pensarci. Mai ne avevo visto
uno dall’interno, né mi interessava come fosse o chi ci fosse dentro. Come
ogni “brava” persona ho sempre pensato al carcere come a un luogo oscuro,
pieno di persone senza dubbio cattive e che meritavano di stare lì. Persone che
avevano il crimine nel loro DNA, che avevano scelto di sbagliare pur sapendo che
sarebbero finiti in prigione.
Persone
con cui io non avevo niente in comune. e che appartenevano a una realtà che non
mi riguardava affatto. Non so se la mia idea fosse influenzata dai media o dai
film, ma non mi sono mai posta il problema di metterla in discussione. Né mai
mi ha sfiorato l’idea che le persone lì dentro potessero essere simili a me,
o che anche io sarei potuta finire come loro, chiaramente.
Ho
sempre pensato che la vita fosse un susseguirsi di scelte, giuste o sbagliate,
che ogni persona compiva nel pieno della sua volontà. Quindi ho sempre visto
chi sbagliava come causa del suo stesso male, senza il diritto di lamentarsi
delle conseguenze dei suoi gesti.
Una
visione un po’ ristretta probabilmente, sicuramente legata al bianco o al
nero, senza possibilità di altre sfumature di cui mi sono però resa conto con
questo progetto. Se devo essere sincera l’ho trovato da subito interessante,
ma niente di più.
Un’esperienza
diversa dal solito, ma non abbastanza da cambiare le mie convinzioni, un po’
superficialmente se si vuole, senza preoccuparmi di andare più a fondo.
Pregiudizi, diciamo... E tutti sanno che chi parte con dei pregiudizi è poco
incline a cambiare la sua idea.
Eppure
questo progetto ha cambiato molto la mia visione del carcere. Già dopo i primi
incontri mi sono accorta che le storie raccontate dai carcerati stessi suonavano
diverse da quelle raccontate nei tg o nei giornali. Suonavano più umane, più
vicine a una realtà valutabile come “normale”. Non sembravano affatto
storie di mostri violenti e senza sentimenti, ma più vite piene di scelte
sbagliate. Errori di calcolo, orgoglio troppo forte, incapacità di chiedere
aiuto. Tutte cose vicine alla vita di ogni giorno e, personalmente, anche molto
vicine al mio carattere. Storie raccontate senza la pretesa di giustificare gli
sbagli fatti, ma volte ad avvisare tutti che chiunque può sbagliare. Anche noi
“brave” persone.
L’unica
differenza è quanto è grande il nostro errore. o quanto è forte il nostro
orgoglio. Persino le storie che non parlavano di un solo sbaglio dettato
dall’orgoglio, ma di più sbagli, uno dopo l’altro mi hanno colpito. Si
pensa che chi sbaglia una volta abbia imparato la lezione, ma se non ti viene
data la possibilità di capire il tuo errore, si può pretendere che tu non lo
rifaccia?
Questo
è quello che succede a molti detenuti nelle carceri italiane, soprattutto per
quanto riguarda i reati di rapina. A molti di loro infatti non viene data la
possibilità di capire che ciò che hanno fatto è sbagliato, e quindi l’unica
cosa a cui pensano è quale sia il dettaglio sbagliato del loro piano che li ha
portati ad essere presi.
Non
intendo giustificare i loro sbagli, ma si possono biasimare queste persone se
quando escono si impegnano per non essere presi piuttosto che per essere persone
migliori? D’altronde lo Stato non gli ha dato niente, perché dovrebbero
ripagarlo diventando cittadini onesti?
Ecco
quindi che ho capito che questo progetto era qualcosa di più di una lezione
fuori dal comune. È un insegnamento, un tentativo di avvicinare due realtà più
vicine di quanto non sembri.
Un
tentativo di avvicinare i detenuti al mondo esterno rendendoli consapevoli della
propria colpa, un tentativo di avvicinare noi a loro, per capire cosa li ha
spinti a commettere certe scelte sbagliate, o a pensare che agire come hanno
fatto fosse la loro unica possibilità.
Scelte
che se conosciute in anticipo, noi potremmo evitare. Un Progetto educativo per
noi e per loro. Già prima dell’ultimo incontro avevo quasi cambiato la mia
idea su questo mondo che non mi era più estraneo come prima. Avevo iniziato a
pensare che i detenuti fossero persone comuni che avevano fatto scelte
sbagliate, certo, ma che non per questo meritavano di essere chiuse in carcere e
dimenticate dal resto del mondo. Una persona, per quanti errori commetta, rimane
sempre una persona.
Certo
è che con i problemi che ha il nostro paese in questi anni, le carceri non sono
esattamente fra le realtà che stanno più a cuore ai cittadini estranei a
questo mondo. Cittadini convinti, come me all’inizio, che la prigione non
riguardi le loro vite. e che non meriti il loro tempo.
Ecco
perché mi è nata l’idea che questo progetto dovrebbe essere aperto a più
persone per quanto anche io mi renda conto dell’impossibilità della sua
realizzazione. Idea che ha avuto conferma nell’ultimo incontro, quando anche
alcuni genitori erano presenti.
Genitori
che non avevano fatto tutto il nostro percorso e che quindi non sembravano
capire lo scopo del progetto almeno non quanto noi. Genitori con giudizio
negativo nella loro voce, anche se inconsapevole, che potevano rappresentare
benissimo il cittadino medio: interessato a qualcosa di diverso, ma che
necessita un lungo percorso per poter riuscire a guardare le cose in modo
diverso. Percorso che noi ragazzi abbiamo fatto, e che ci ha aiutato ad
accogliere le storie che ci venivano raccontate senza pregiudizi, pensando ad
ascoltare e a tentare di comprendere prima di tirare le somme. Provando a capire
quali fossero le motivazioni che potevano aver portato a scelte sbagliate.
Cercando di capire quale sia il limite che non va superato. Perché molto
spesso, nella convinzione che tutto ciò non ci riguardi, non pensiamo che
potrebbe succedere anche a noi di oltrepassare questo limite.
Quanto
oltre si può andare prima di accorgersi che si sbaglia? Credo ci sia una linea
molto sottile a dividere il giusto e lo sbagliato, e chiunque può attraversarla
in qualsiasi momento.
Chi
ci dice che noi non saremo i prossimi? Nel caso succedesse. Io vorrei poter
trovare qualcuno disposto ad ascoltare e capire il mio mondo, dandomi la
possibilità di migliorare. È per questo che trovo il progetto molto
produttivo, capace di aiutare i detenuti a capire i loro sbagli e a rendere noi
consapevoli di quanto siamo vicini alla realtà del carcere. Più di quanto noi
non vogliamo credere.
Provare
a sognare una giornata “ideale” in carcere
di
Ulderico Galassini
Provare
a sognare non costa nulla, aiuta a mantenere in vita la speranza e di
conseguenza a pensare ad un futuro possibilmente migliore.
Quando
gli studenti ci chiedono “com’è la giornata in carcere”, facciamo sempre
fatica a descrivere “il nulla” che spesso caratterizza la detenzione, e
allora per una volta voglio provare a immaginare una giornata che non assomigli
per niente a quella che da anni sono costretto a “vivere”, immerso in una
realtà completamente diversa da quella in cui ho vissuto per oltre 50 anni come
cittadino libero e che non aveva messo in preventivo il fatto di compiere un
reato.
Ora
che frequento questa realtà, privato della libertà, sono sempre più convinto
che sia quasi impossibile per le istituzioni, in queste condizioni, gestire la
vita dei detenuti, per prepararli ad un ritorno nella società, per una serie di
fattori che hanno origine negli insopportabili livelli di sovraffollamento.
Siamo
in una “città murata” diversa da quelle storiche che erano costruite per
difendere i cittadini dagli attacchi dei nemici. Ora siamo noi i nemici della
società e siamo rinchiusi per non essere visti. Sembra una scatola cinese,
tanti contenitori, e per passare da una scatola all’altra c’è sempre
bisogno che qualcuno apra la scatola successiva. Ma come vorrei che fosse la mia
giornata?
È
doveroso premettere che io sono inserito nella redazione di Ristretti Orizzonti
e questo dall’aprile 2010, e psicologicamente percepisco la cosa come se fosse
un impegno lavorativo, solo che per arrivare in quei locali, per esigenze di
“sicurezza”, spesso ci impiego 30 minuti. Ho solo un piano da scendere, ma
tanti cancelli, ne conto sei, ad ogni “frontiera” devi attendere che un
agente ti apra ma solo se riceve l’ok per aprire da parte di un suo collega.
Certamente
gradirei mantenere un minimo di autonomia, per fare quel breve percorso,
rispettando in ogni caso le regole, ma sentendomi responsabilizzato, recarmi in
redazione e non trovarmi cancelli chiusi. Invece devi sempre dire il tuo nome ad
un agente, aspettare e poi sentire quel forte rumore del cancello che viene
chiuso con forza, un rumore che ti colpisce suscitando sensazioni sempre un
po’ sgradevoli. Ma le devo superare perché so che mi trovo in questo
“girone” e quindi mi aggancio al fatto che in ogni caso ho un impegno che mi
ripaga con delle piccole soddisfazioni personali, perché il mio “lavoro” ha
degli obiettivi che avranno, anche se piccoli, dei riflessi positivi per altri
detenuti.
Vorrei
un carcere più aperto, meno burocratico. Ma perché bisogna fare una domandina
per ogni minima necessità e dover attendere una risposta che a volte neppure
arriva? Perché non ci si può recare direttamente negli uffici appositi e
trovare risposte alle proprie esigenze senza caricarsi di ansie, come succede
oggi che non sai se e quando sarai chiamato, visitato, aiutato? Perché sentirsi
sempre umiliati, deresponsabilizzati, annullati, infantilizzati? Vorrei poter
telefonare liberamente, come avviene nelle carceri di tanti Paesi forse più
civili del nostro, vorrei avere la possibilità di mantenere più contatti con
chi ho lasciato fuori. Che colpa ne hanno i nostri famigliari per quello che
abbiamo commesso? Perché mio figlio non può chiamarmi per sue esigenze
urgenti, perché non può avere un conforto immediato anche se solo telefonico?
Che senso ha? Perché non voler capire che a fine pena il primo rientro nella
società è nella nostra famiglia? Vorrei avere un minimo di privacy in una
cella, che è stata costruita per una persona ma di fatto è abitata da tre con
le conseguenti limitazioni.
Mentre
sto scrivendo sono seduto sulla branda, ma devo rimanere in bilico sul lato
esterno della stessa con la testa piegata sotto il ripiano della seconda branda
che è sopra di me. Non ci si può muovere in tre persone contemporaneamente.
Ogni
angolo, ogni centimetro è occupato da pensili, ripiani costruiti con cartoni,
borse con abbigliamento vario, accatastate una sopra l’altra, scarpe mescolate
con secchi usati per lavare indumenti, confezioni di acqua, prodotti igienici
per chi può comprarli. Vorrei poter usufruire dei servizi igienici (un lavabo
ed un water) senza correre il rischio di essere controllato dagli agenti
attraverso lo spioncino, è imbarazzante quando succede.
Vorrei
non essere costretto a respirare il fumo di sigarette in ogni luogo, anche se
esistono molti cartelli con il divieto di fumare. Vorrei poter spegnere la luce
quando voglio, ma siamo in tre in uno spazio misero di circa tre metri per tre e
per quelle che sono le esigenze di civile convivenza devi accettare anche cose
che tu non faresti mai. E anch’io certamente faccio cose che agli altri due
non piacciono.
Una
detenzione poco umana e molto vendicativa
Provate
a chiudere gli occhi e pensare che nella vostra famiglia siete costretti a
vivere con altre due famiglie, nella stessa abitazione ma con le comodità che
erano sufficienti solo per il vostro nucleo famigliare. Aggiungete il fatto che
per ogni cosa dovete chiedere l’autorizzazione ad un sorvegliante che però
deve rispondere anche a tutti gli altri. Vivere l’attesa e spesso non ricevere
una risposta.
Nell’elenco
dei “vorrei”, vorrei poter avere l’acqua calda in cella, e la doccia, che
ora però è in un locale comune, con cinque erogatori da utilizzare per 75
persone e da mesi con l’acqua calda solo nel primo quarto d’ora.
Essere
in tre in cella significa vivere peggio di tanti animali, a cui sono garantiti
spazi più dignitosi, ma devo comunque sperare di non essere spostato in altre
celle, perché mi è già capitato che, ogni volta che l’amministrazione
penitenziaria deve gestire sue esigenze, vieni costretto a raccogliere i tuoi
bagagli e non puoi sapere con chi ti troverai.
Tante
altre cose si potrebbero aggiungere, ma poi ti devi rendere conto che i
“vorrei” personali si scontrano con la realtà di ogni giorno, che è quella
di una situazione delle carceri che, per quanto
pesantissima,
sino ad ora non desta scandalo in una gran parte dell’opinione pubblica, e di
un contesto politico che non difende l’idea della pena voluta dalla
Costituzione e non attua tutte quelle modifiche che potrebbero consentire di
superare l’attuale illegalità e di dare risposte serie alle condanne ricevute
dall’Europa. La proroga che l’Europa ha concesso al nostro Paese per
riportare la legalità nelle carceri non ci può far dimenticare che il numero
di detenuti presenti nelle galere è sempre talmente alto, che non consente una
detenzione umana ma solo vendicativa.
Che
senso ha tenere le persone chiuse 24 ore su 24 in una cella, o anche in una
sezione, cosa vuol dire “apriremo le celle per otto ore al giorno”, se non
si garantiscono percorsi di recupero delle persone?
In
ogni caso il carcere così com’è è un fallimento dell’intera società e
non garantisce la sicurezza sociale. Non fa bene a nessuno. Non sto dicendo che
chi compie un reato non debba andare in carcere, ma che il carcere dovrebbe
essere la via per un vero recupero e un autentico percorso di risocializzazione.
Di
fatto è spesso solo un allontanamento dalla società, ma quasi ogni pena ha una
scadenza, un giorno in cui finisce, e chi uscirà poi da quel carcere? Si
continua a dire che “in carcere non ci finisce nessuno, la pena non è certa,
sono subito fuori”, ma i numeri parlano, le carceri sono strapiene e ci sono
tanti detenuti con condanne lunghe, alcuni con fine pena mai o, come scrivono
nella sentenza, con fine pena “9999”. Le chiavi le hanno buttate da
parecchio tempo.
Lo so che anche fuori ci sono grandissimi problemi, che la vita è difficile, con molte ansie e con poche certezze se non quelle della grande crisi che colpisce quasi tutti. Ma se ci fosse più CONFRONTO fra chi abita le galere e la restante società, forse si conoscerebbe ogni lato di situazioni che sono sempre molto complesse e forse si troverebbero soluzioni utili per tutti e qualche paura per il futuro svanirebbe.