Incontri con le scuole prevenzione al bullismo
Alla
ricerca delle domande tradite
di
Juri Angelo Aparo
Un
paio d’anni fa eravamo a San Vittore per un convegno/concerto: Le
domande abortite del bullo. Accanto ai detenuti, partecipavano
all’incontro adolescenti e insegnanti provenienti da scuole dove il bullismo
dilaga. Obiettivo della giornata era promuovere, fra detenuti con un passato
fallimentare, insegnanti in difficoltà e allievi in cerca di riscatto, delle
alleanze e degli strumenti utili a recuperare, appunto, le domande franate sotto
quel senso d’impotenza che è alla base di ogni atto di bullismo.
Fra
una canzone e l’altra di Fabrizio de André, tutte le persone intervenute
avevano cercato di decifrare le domande dimenticate degli adolescenti di ieri (i
detenuti) per ascoltare meglio quelle degli adolescenti di oggi. Ecco una
sintesi delle risposte più frequenti alla domanda che faceva da filo conduttore
alla giornata: Cosa cerca chi si comporta da bullo? Egli:
copre
la sensazione e la paura di essere fragile e impotente, simulando di
essere già forte e sicuro;
ricorre
all’abuso sul debole per negare la propria debolezza e proiettarla sul
malcapitato di turno;
si
nasconde dietro la maschera di un’adultità posticcia per la paura di
non poter crescere e di non poter mai diventare l’adulto delle proprie
prime fantasie;
sostituisce
la guida che gli manca o che gli chiederebbe uno sforzo per migliorarsi con
una banda che lo sostiene nell’illusione di essere già grande e che gli
chiede solo di simulare forza;
cerca
di surrogare il contenitore che gli manca per sentirsi protetto attraverso
la forza della banda e la conferma che ciascun membro della banda riceve
dagli altri;
ricorre
all’eccitazione che deriva dall’uso di droghe e dall’esercizio del
potere come strumento privilegiato per provare piacere e gratificazione
perché teme di non avere risorse e capacità per raggiungere altre
gratificazioni;
copre
il lutto conseguente alla sfiducia negli adulti che avrebbero dovuto
fungere per lui da guida con il rancore contro il mondo;
proietta
la propria condizione di orfano o, attraverso un abuso di potere analogo a
quello che egli sente di aver subito, cerca di ridurre le sue vittime alla
sua stessa condizione.
17
ANNI
Tutti
a scuola parlavano di me con paura e così feci le mie prime amicizie
di
Ivano Moccia,
Gruppo della Trasgressione
Sono
cresciuto in un quartiere molto piccolo dove regnavano l’omertà e la
delinquenza. Quando avevo 13 anni mio padre decise con mia madre di trasferirsi
in un quartiere molto grande e dispersivo. Lì non conoscevo nessuno.
Frequentavo una nuova scuola e nuovi compagni e mi accorsi che, arrivando da un
quartiere particolare, con gli studi ero molto indietro rispetto ai miei
coetanei.
di
Ivano Moccia, Gruppo della Trasgressione
L’unico
modo che avevo imparato per comunicare era la forza fisica e così iniziavano
piccoli scontri con i miei nuovi compagni. Tutti a scuola parlavano di me con
paura e così feci le mie prime amicizie.
Ricordo
che indossavamo dei giubbotti di pelle e, senza nemmeno dircelo, avevamo creato
un nostro gruppetto. Per sentirci alla moda rompevamo gli stemmi della Mercedes
e li indossavamo sulla spalla della giacca. Iniziammo a frequentare il centro
commerciale della zona, cercavamo con gli sguardi lo scontro con altri ragazzi
più grandi di noi per sentirci più grandi e apprezzati.
A
un certo punto mi allontanai dai miei coetanei per frequentare ragazzi più
grandi di me anche di 10 anni, iniziai a frequentare un gruppo chiamato
“Skinhead”, con i capelli rasati, anfibi e come giubbotto portavamo i
bomber. La caratteristica era quella di picchiare altre persone, specialmente
quelle con i capelli colorati i famosi leoncavallini “pancabbestia”. Ricordo
che con me portavo sempre un tirapugni di ferro, mi sentivo più sicuro data la
mia età, ero molto giovane e già bevevo birra, ma solo per essere accettato
dalla compagnia che frequentavo. Se mi tiravo indietro da una rissa, mi
catalogavano come una persona che ha paura e non degna di stare sul gruppo.
Lasciai
questo gruppo, iniziai a frequentare persone sempre più grandi di me, ma con
altre caratteristiche, giubbotti di pelle e vestiti firmati per così far colpo
sulle ragazze. Avevo 16/17 anni, iniziai ad avere relazioni con ragazze più
grandi di me e per sentirmi più grande iniziai a rubare macchine per portare
con me soprattutto la ragazza; iniziai a commettere reati per andare in
discoteca e per avere soldi in tasca quando uscivo con le donne.
Solo
oggi mi rendo conto che fare il bullo era la pedana di lancio nella vita di
illegalità, commettendo gradualmente reati sempre più pesanti. Oggi mi trovo a
fare i conti con il mio passato e tirando le somme: sono cresciuto all’interno
di istituti penitenziari sin da quando avevo 17 anni, bruciando la mia vita da
adolescente che nessuno mi può più ridare.
Ai
bulli di Bollate
Dai
loro racconti di vita emerge un grave senso di rancore verso la scuola che non
li ha aiutati, ascoltati, che non ha dato loro l’occasione giusta per crescere
di
Rita Oliverio,
insegnante
Faccio
questo “mestiere” già da tempo (sono insegnante in un Istituto Tecnico) e
ancora, con una ritualità di cui non so fare a meno, preparo con cura le
lezioni, sperando ogni volta di far emergere un aspetto nuovo del tema o del
personaggio da presentare. Mi piace cercare documenti e citazioni da offrire
nella speranza di trasmettere ai miei ragazzi qualcosa in più; mi piace
l’idea di “stuzzicare” il loro interesse…
Inizia
la lezione e questa volta si parla di Leopardi, il vecchio, caro, tormentato
Leopardi. Leggo con enfasi alcuni versi, parlo di infelicità, di natura, di
senso di vuoto, morte… tiro fuori dalla mia borsa di Rita Oliverio, insegnante
tutto quello che ho meticolosamente raccolto e per un po’ m’illudo che mi
stiano seguendo… poi il primo sbadiglio… le occhiate furtive al cellulare
nascosto nella manica e qualcuno che alza la mano.
Chissà
- mi dico - forse ora c’è la domanda giusta… “Prof, pensa che, se ai
tempi di Leopardi ci fosse stato il Prozac, avremmo potuto risparmiarci tutte le
sue paranoie…”
Rido
alla battuta, in fondo non si può negare che sia divertente, ma mi sento
sprofondare…
Con
la disinvoltura maturata nel tempo, ripongo il caro Leopardi nel cassetto, mi do
un po’ di contegno e, sforzandomi di camuffare la mia frustrazione, passo ad
altro. Sono un’insegnante di letteratura italiana e storia (me lo ripeto per
non dimenticarlo!)..
Poi
incontro i Bulli di Bollate e dai loro racconti di vita emerge un grave senso di
rancore verso la scuola che non li ha aiutati, ascoltati, che non ha dato loro
l’occasione giusta per crescere… mi sono sentita peggio che riconoscere
Leopardi depresso..
Cerco
di ripercorrere a ritroso il mio lungo cammino nella scuola nell’intento
assurdo di assicurarmi di non avere sbattuto in faccia la porta a qualcuno… ma
penso che sia solo un patetico modo per sentirmi con la coscienza a posto.
Cosa
posso dire ai “Bulli di Bollate”? Fare l’insegnante non è certo facile,
oggi più che mai. Tutto viaggia ad una velocità sorprendente, mentre la scuola
perde sempre più terreno e si scontra con una realtà in cui la crisi dei
valori ormai è un dato di fatto: a complicare il tutto spesso l’assenza della
famiglia che ci “consegna” i ragazzi come “pacchi postali”.
Ogni
giorno con gli scarsi mezzi a disposizione (e con tanto volontariato) cerchiamo
di rispondere alle mille domande, ai mille bisogni; mentre qualcuno dall’alto
ci dice che siamo dei “fannulloni” che alimentiamo l’ignoranza, che non
siamo al passo coi tempi.
Tra
una lezione e l’altra ci sforziamo di far capire agli alunni l’importanza
della cultura come veicolo di libertà, del dialogo, del sapersi mettere in
gioco, dello scoprire e valorizzare le proprie qualità, ma può capitare che
qualcuno non voglia ascoltare e magari è proprio quello che ne ha più bisogno
perché è più solo degli altri. E’ così che, a volte, cominciano le brutte
storie! Ma io continuo a credere nella scuola e sono stati proprio i Bulli di
Bollate, con le loro accorate parole, a ricordarmi quanto sia importante il mio
lavoro.
Ogni
regola era per me UN
INVITO A VIOLARLA
Non
so come e quando mi convinsi che la mia ribellione e la mia rabbia fossero parte
naturale di me
di
Antonio Catena,
Gruppo della Trasgressione
Ero
ancora un bambino quando assorbivo il malessere del mondo in cui vivevo. A poco
a poco divenne mio quando fui indotto a pensare d’esserne io la causa; il
dolore si trasformò in frustrazione e poi in rabbia. Manifestavo quello che mi
affliggeva con comportamenti ribelli e talvolta aggressivi, ma questi venivano
interpretati come quelli di un bambino solo un po’ vivace. Di conseguenza, al
problema che mi portavo dentro non venne mai data l’attenzione che meritava;
le risposte che ebbi ai miei atti di ribellione furono soltanto punizioni
fisiche e psicologiche, che non fecero altro che nutrire la mia rabbia e
aumentare i miei comportamenti instabili.
Non
so come e quando mi convinsi che la mia ribellione e la mia rabbia fossero parte
naturale di me. Ricordo solo che iniziai a racchiudere delusioni, frustrazioni e
sofferenze in una nicchia per evitare che questo genere di emozioni potesse
uscirne. Nella stanza buia vi era solo una finestra, per permettere ad altri
dolori di entrare e di accumularsi su quelli precedenti.
Man
mano che crescevo, il mio modo d’essere mutava, la mia aggressività si
trasformò in violenza fisica e psicologica nei confronti di altri, il mio
carattere ribelle divenne antisociale, ogni regola era per me un invito a
violarla, trascorrevo le mie giornate con altri che avevano questi
atteggiamenti, oggi definiti da bullo. Intuivo che i miei comportamenti mi
avrebbero portato ad autodistruggermi, a togliermi il futuro, ma a me questo non
importava; vivevo ogni giorno come se fosse l’unico, senza pensare alle
conseguenze delle mie azioni e mi appagava l’essere riconosciuto e valorizzato
dai miei compagni per quella facciata che mostravo.
Durante
la mia crescita alla nicchia si aggiunse una sorta di crosta che mi rendeva
insofferente verso ogni tipo di emozione positiva e amorevole. Per quello che
ritenevo di avere scelto di essere, non c’era spazio per pensieri che
potessero scuotere la mia coscienza e indebolirmi.
Inevitabilmente
sono arrivati i giorni più bui della mia vita ed è lì, nella più piena
confusione e perdizione, che ho incontrato delle persone che si riunivano e si
confrontavano su vari temi. Alcuni di loro erano come me, altri diversi, ma
nonostante le differenze, il confronto si rivelava costruttivo.
Mettendomi
in gioco con queste persone, ho iniziato una riflessione che mi ha riportato in
quella nicchia buia, colma del caos e delle sofferenze da me provate e causate.
Mi sono ritrovato in mezzo alla stanza con una sedia per sedermi e un archivio
per farvi ordine. Da lì ho iniziato a lavorarci con molta fatica e con la
consapevolezza che solo mettendo in ordine la mia nicchia avrei trovato me
stesso.
In
alcuni momenti ho avuto la sensazione di cominciare a capirmi. In quello
sfracello di caos e dolore, ho sentito a tratti un odore così forte che non
potevo negarlo, era il rosmarino. Entrava dalla mia finestra portando il
richiamo di una vita avuta e mai vissuta. Non mi era mai successo in libertà di
fare attenzione alle sensazioni ed emozioni datemi dalla pioggia di fine
settembre; mai ho apprezzato questo, mai come quella sera di fine settembre
dalla finestra della mia cella, da dove non potevo toccarla con mano, ma ne
sentii la vita.
Il
mio progetto è TORNARE UN UOMO LIBERO
Noi
siamo specialisti nel trovare scuse con riferimenti alla nostra infanzia, alla
società, alle istituzioni, alla compagnia
di
Giuseppe Liuni,
Gruppo della Trasgressione
Nei
primi tempi in cui frequentavo il Gruppo della Trasgressione, mi colpì una
poesia che venne letta durante un incontro con degli studenti. Già quella volta
l’avevo sentita molto veritiera, si intitolava La scusa. Sì, amici miei, noi
siamo specialisti nel trovare scuse con riferimenti alla nostra infanzia, alla
società, alle istituzioni, alla compagnia… l’importante è che la colpa non
ricada mai su di noi. Leggo degli scritti in cui nessuno si assume le vere
responsabilità, o almeno, non integralmente.
Ultimamente
vengono arrestate molte persone per spaccio di stupefacenti. Quasi tutti
ricorrono alla stessa scusa: “lo facevo per drogarmi”. Altri affermano che
rapinavano per lo stesso motivo. Chi vende droga si nasconde dietro la scusa che
sarebbero i compratori a cercarla, senza nessuna costrizione.
Io
ho 52 anni e quando iniziai a commettere reati lo feci per gioco; se qualcuno mi
avesse mai detto che un giorno avrei venduto droga gli avrei riso in faccia. Col
passare del tempo i reati aumentavano di gravità. Dai piccoli furti passai alle
rapine alle banche e alle oreficerie
A
quell’epoca si usavano armi vere, i conflitti a fuoco erano più numerosi di
oggi e spesso qualcuno moriva. Ci sentivamo invincibili e nulla ci spaventava.
Almeno così pensavamo. Quando qualcuno non ce la faceva, non era mai colpa
nostra ma una fatalità. Non ci preoccupava se qualcuno soffriva o si creavano
disagi agli altri.
Rapinare
banche poi non diede più i frutti sperati. Ma dov’è il problema? Vendiamo
cocaina! L’eroina no, perché nella nostra ignoranza solo l’eroina causava
morte, inoltre vedevamo come si riducevano coloro che la usavano. Ma anche
queste erano scuse. La vera ragione era che, avendo dei figli, non volevamo che
loro pensassero che noi eravamo responsabili della morte di loro coetanei.
Infatti a noi degli altri e delle loro sofferenze non interessava nulla.
In
realtà sappiamo bene cosa provocano tutte le droghe e la cocaina non è certo
migliore delle altre. Tante persone oggi si nascondono dietro ai reati che
reputano meno gravi dello spaccio, ma chi ha il mio passato, nella maggioranza
dei casi, vende droga. Nessuno pensa alle conseguenze che ne derivano, solo ad
aumentare il proprio profitto e il proprio potere, perché sono i soldi a
portare il potere. Come ulteriore scusa, ad avvalorare che la cocaina non faccia
male, la maggioranza di chi vende ne è anche consumatore. Quindi… “se la
uso io, non porta sicuramente alla morte”.
Se
solo noi ci fermassimo a riflettere sui danni che qualsiasi tipo di sostanza
causa, allora sì che non la useremmo. Ma la venderemmo ancora? Sì, il potere
acquisito è da mantenere e non permette di fermarsi.
Solo
se ci si rimette in gioco e se si pensa al male causato a sé e agli altri,
abbandonando tutte le scuse e ritrovando i valori perduti, ci si può riguardare
allo specchio e vedersi cambiati. Solo allora io potrò dire “ce l’ho fatta,
adesso sono un uomo come tanti altri e non più quel “Dio” fasullo che
credevo di essere”.
Solo
così posso uscire da quel gioco crudele, ritornare alla realtà ed essere
veramente un uomo libero.
Fabrizio
De André e il Gruppo della Trasgressione
Cosa
c’entra De André col Gruppo della Trasgressione?
Per
Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini
inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia
di splendore”
di
Juri Angelo Aparo
Perché
De André è così importante per il Gruppo della Trasgressione?
Ho
ascoltato i primi dischi di De André nella seconda metà degli anni ’60.
All’epoca, ancora adolescente, trovavo nelle sue canzoni un eccellente vaccino
contro la banalità e gli stereotipi. L’album “Tutti morimmo a stento” fu
per me l’invito di un fratello maggiore a riflettere sulla nefandezza della
guerra, ma anche sulla fragilità dell’uomo che si lascia affascinare dal
potere o che si dimette dalla vita. Un paio d’anni dopo venne “La buona
novella” e il suo anelito a mantenere vivo il legame fra sacro e profano. Un
giorno, in terza liceo, chiesi all’insegnante di religione di ascoltare il
disco nella sua ora di lezione. Era il 1970. Ne parlammo insieme tutta la
classe; il mio amore per Fabrizio De André si radicò definitivamente e le sue
canzoni sono diventate parte significativa del prisma attraverso il quale mi
guardo attorno.
Mentre
lui, in viaggio sulla sua “cattiva strada”, rimescolava senza sosta le
categorie del bene e del male, io giungevo alla laurea in psicologia, approdavo
nel ’79 al lavoro in carcere e cominciavo a chiedermi quali stati d’animo
vive chi spaccia, rapina, commette abusi di potere in genere.
De
André, come egli stesso mi disse l’unica volta che ci siamo incontrati di
persona, il carcere lo fece per qualche tempo da “privatista” nei pochi
metri quadrati in cui furono costretti a vivere lui e Dori Ghezzi durante il
sequestro. Ma lui continuò a interrogarsi per cercare l’uomo anche dopo
quella esperienza; anzi, lì, all’Hotel Supramonte, poté toccare con mano
quello che, nel “Testamento di Tito” e poi con l’”Antologia di Spoon
River” e con “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, aveva già più
volte riconosciuto e cioè che quando ci si sente senza diritti, spesso si
ricorre all’abuso verso gli altri o verso se stessi o, come accadrà in
seguito a Pasquale Cafiero, si diventa conniventi col potere.
Dai
tempi del sequestro, passano quasi due decenni, fino ad arrivare al ’97. La
lista dei suoi personaggi imperfetti, fragili, sospesi, vitali si è allungata.
Ai già noti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, il suonatore Jones, si aggiungono
Andrea, il servo pastore, Princesa. De André ne canta le aspirazioni, le
incertezze, continua a raccogliere la ricchezza umana delle loro difficoltà, ma
valorizza anche la loro dichiarata incapacità di inamidarsi dietro le maschere
del successo, del potere, delle certezze.
Accetta
l’errore e l’inganno che l’uomo produce verso se stesso, ma combatte il
potere che dell’inPer Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci
sono mai stati uomini inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse
rintracciare quella “goccia di splendore” Cosa c’entra De André col
Gruppo della Trasgressione?
ganno
fa strumento per perpetuarsi. Nelle persone che mancano il bersaglio pesca le
nostre aspirazioni più durature, le raccoglie e le accudisce. Non crede a nulla
di assoluto, procede, anzi, fra illusioni sfiorite, ma ogni volta ritrova nella
speranza zoppa un’amica più sincera del trionfo della vanità (“La ballata
dell’amore cieco”). Le sue rare canzoni d’amore parlano di frammenti di
eternità (“Le passanti, amore che vieni amore che vai”), un ossimoro che si
accompagna alle atmosfere di tante canzoni dove vivono insieme sacro e profano
(Il sogno di Maria).
Ma
il suo approccio alla vita è tutt’altro che dimissionario o minimalista.
Direi, piuttosto, che Fabrizio De André assegna a se stesso il compito
impegnativo di vivere nella giocosa e vitale coscienza della sua fragilità. Nel
frattempo io lavoro nel carcere di San Vittore a Milano per 18 anni, ma mi rendo
conto che non riesco nemmeno a sfiorare i detenuti dei quali dovrei pronosticare
il futuro nelle mie relazioni.
Nel
’97 lui giunge alle “Anime Salve”, l’imperfetto e prezioso gruppo dei
suoi compagni di viaggio; io, dopo anni di diagnosi e prognosi piuttosto sterili
commissionate dal Ministero della Giustizia, individuo nei detenuti dei buoni
compagni di ricerca e nasce, appunto, il “Gruppo della Trasgressione”. Con
loro comincio a scoprire i fondali del rancore e a toccare con mano i sogni
abortiti o congelati di chi vive con la pistola in mano o con lo scettro sulla
scrivania. (…)
Avrebbe
dovuto essere lui il nostro primo ospite. Al gruppo non lo aspettavamo perché i
detenuti si sentissero parte degli ultimi. Nei miei desideri c’era che lui
venisse a raccontare la ricchezza della imperfezione, la bellezza della fragilità,
che venisse a cantarci o a parlarci di quanto può essere eccitante vedere
“Nina Volare”, mentre qualcuno mastica e sputa da una parte la cera e
dall’altra il miele.
Ma
pochi mesi dopo il nostro invito si ammalò e non venne mai. Venne la sua morte
e il lutto e, dopo qualche anno, la voglia di tenerlo vivo dentro e, da lì, le
tante iniziative del gruppo a lui collegate. La principale è costituita dal
mescolare le sue canzoni ai nostri testi e portare l’impasto nelle scuole
medie superiori nell’ottica della prevenzione di bullismo e tossicodipendenza.
Con gli adolescenti, strano a dirsi, i detenuti riescono ad essere efficacissimi
quando raccontano della riscoperta delle loro antiche paure mentre
ricostruiscono il percorso delle loro scelte (Trsg.readings).
Per
Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini
inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia
di splendore” che, dalla “Ballata del Miché” all’ultima “Smisurata
preghiera”, egli trova in ognuno dei suoi personaggi imperfetti. Da “Via del
campo” alle “Anime Salve” egli ci ha offerto per 40 anni decine di inviti
a cercare l’uomo non solo e non tanto quando vola vittorioso verso il
traguardo, ma soprattutto quando manca il bersaglio o ne coglie uno lungo una
strada di periferia. Il Dio al quale egli chiede, a 56 anni compiuti, di
ricordare chi viaggia in direzione contraria è lo stesso al quale, circa 30
anni prima, aveva rivolto la “preghiera in gennaio” per chiedergli di
accogliere il suo amico Luigi Tenco.
Per
il Gruppo della Trasgressione, l’eredità di De André è soprattutto il
piacere di rintracciare nella propria e altrui imperfezione le tessere con cui
giocare la partita della vita.