Storie
di ragazzi che giocano all’illegalità, prima del grande salto
Angelo
Ferrarini, conduce il Laboratorio di
lettura e scrittura al Due Palazzi
Raccontare
l’infanzia, l’adolescenza, il tempo della scuola, quando si impara a
vivere, si guarda gli altri, si fa gruppo e si comincia a scegliere, ma
attorno le famiglie sono ancora la nostra cuccia, il rifugio, la protezione
anche se in difficoltà, con i padri in carcere o in domicilio coatto…
Tempo lontano che diventa mitico, cioè remoto ma dorato, tempo da ricordare
forse con nostalgia. Si comincia con una frase starter: “sono nato nella
periferia…” e il resto viene, le parole sgorgano dalla cassaforte della
memoria, come soldi buoni, nostri. Molti qui sono gli accenni a una vita
trafugata, che gioca all’illegalità, prima del grande salto. Per ora si
salta in cortile, si gioca ai “saldi”. Negli anni a venire si riscoprirà
anche questa parola.
Ladri
di saldi
di Lorenzo Sciacca,
redazione di Ristretti Orizzonti
Sono
nato nella periferia milanese nel 1976, grossi palazzoni di cemento, dipinti
di colori forti, cupi. II mio era il numero 58, colore bordò, un palazzo fatiscente,
abitato da famiglie povere. Entrando dal cancello principale ti trovavi in un
atrio che precedeva un grosso cortile: quello era il mio mondo domenicale.
I
sei giorni precedenti entravo a scuola la mattina alle otto e uscivo alle
diciotto. Era un convitto, istituto Nazionale Longoni, gestito dai preti e la
parola gioco non rientrava nel sillabario del buon bambino.
Aspettavo
con ansia la domenica per scendere nel mio cortile, lì non c’era nessuno a
dirmi cosa poter o non poter fare. La scelta non era vasta ma qualcosa ci si
inventava sempre, per evadere dal solito tran-tran. Ovviamente la partita a
calcio era il gioco più frequente (con un pallone rubato all’oratorio).
Non dovevo comunque esagerare, le scarpe si sarebbero consumate e chi
l’avrebbe sentita poi mia madre. Oppure danneggiare con una caduta quei
pantaloni passati indenni da mio fratello maggiore, che tali dovevano rimanere
per il minore. I nostri padri erano per lo più carcerati e chi non lo era aveva
l’obbligo di permanere in casa. Era molto comune vedere passare uomini in
divisa che attraversavano sotto il cortile, per i controlli di routine.
Ecco
che passano i nemici! Ci nascondevamo dietro a grossi bidoni di ferro e con
i manici di scopa modificati (rubati dai balconi dei vicini), improvvisavamo
armi da sparo. Bum, Pam, colpito! Chissà, forse ci hanno sempre visti e non ci
hanno detto niente. Oppure eravamo veramente bravi a non farci vedere. Le
nostre armi silenziose certo facevano la loro parte.
Ogni
tanto si provava ad organizzare qualche scontro a fuoco tra banditi e guardie,
ma non si arrivava mai ad un accordo: chi avrebbe dovuto recitare la parte
della guardia? Eravamo bambini ragionevoli, si arrivava sempre al gioco, si
decideva di assaltare una banca, improvvisata nell’atrio: le cassette
orizzontali color marroncino per la posta diventavano i nostri obbiettivi da
dove poter trafugare i soldi.
Se
oggi penso a come organizzavamo nei minimi dettagli rimango sorpreso. C’era
il palo in cortile, il bambino che “teneva il punto sala”: in pratica
controllava l’atrio da persone che entravano o uscivano dall’enorme
palazzo. Gli altri trafugavano i volantini pubblicitari dalle cassette.
Finito
il colpo si contava il bottino, soddisfatti della nostra impresa. Sognavamo cosa
ci avrebbe permesso di fare tutto quel denaro sotto forma di “saldi, buoni
sconto, offerte”: scappare dal quartiere, entrare in concessionaria,
comprare motorini oppure quell’Atari ultima generazione.
A
casa, bambini!
Voci
di donne lungo le balconate a ringhiera richiamavano i figli.
Tutto
si scioglieva come, al tocco, fiocchi di neve.
Mi
chiamo… e ho voglia di cominciare a raccontare qualcosa della mia vita
Angelo Ferrarini, conduce il Laboratorio di lettura e scrittura al Due Palazzi
Racconto
di Lorenzo, il primo, steso a biro su un foglio protocollo. Scrivendo ha
cancellato alcune frasi, si chiamano “pentimenti” (li hanno anche gli
scrittori). È la prima azione che si fa quando si ha a che fare con le
parole: ci si rilegge al momento e si cambia, oppure si decide di togliere una
frase o una parola appena. Al computer queste revisioni scompaiono (a meno che
si intervenga con un “salva versione”). Qui il testo finale, passato nel
Gruppo di scrittura-lettura-ascolto
del lunedì.
Qualche
altra parola è stata tagliata con l’idea che il testo, come i panni, va
pulito e poi asciugato. Il titolo si riferisce alle numerose cifre presenti a
vario titolo, che formano volta per volta una somma, una partitura, un
bilancio...
Numeri
di Lorenzo Sciacca, redazione Ristretti Orizzonti
Mi
chiamo Lorenzo e ho voglia di cominciare a raccontare qualcosa della mia
vita: ho 36 anni, a breve 37, carcerato con una pena da scontare pari a 30
anni.
Da
dove arriva la voglia di raccontarsi? Credo di dover cominciare a rispondere a
questa domanda per capire bene il motivo che mi fa trovare sdraiato su una
branda con carta e penna tra le mani.
Sono
una persona molto curiosa, odio rimanere nell’indifferenza, devo capire -forse
è meglio dire capirmi. Oggi mi chiedo perché tra tante frasi che invitavano a
scrivere un breve racconto, abbia scelto proprio questa.
Sto
iniziando un nuovo capitolo della mia vita. Credo che quando un uomo inizia a
raccontarsi, andando a ritroso con i ricordi, sono due i motivi: o è giunto
al termine della sua vita terrena o cerca qual 2013
cosa.
La seconda ipotesi è quella che mi riguarda, perché la salute è l’unica
cosa che non mi manca.
Sono
un prigioniero, ma non perché sia rinchiuso dietro a muri e sbarre: sono
prigioniero di me stesso. Iniziare a raccontarmi potrebbe essere la chiave per
riconquistare una inaspettata libertà.
Ero
un ragazzino molto brillante e sveglio quando assaporai il gusto dei primi
soldi rubati ai danni dell’Agenzia Cariplo: avevo 14 anni, ero vergine.
Erano
anni molto diversi da oggi, iniziavo a giocare a fare il duro -un gioco che non
ti stanca mai e che cerchi di svolgere da protagonista. Essere protagonista
nella mia vita e nella vita del gruppo era fondamentale: dovevo sentirmi importante
perché mi gratificava.
Dopo
l’ennesima carcerazione, a 22 anni dissi una frase alquanto banale: «All’età
di Cristo mi fermerò: sistemato o rovinato, dirò basta». Non ricordo il
perché, molto probabilmente sentendo uomini di 50, 60 anni lamentarsi di una
vitta buttata, è uscita la parte presuntuosa che c’è in me. L’ho ripetuta
milioni di volte questa frase e sempre con la stessa fermezza e convinzione
della prima.
Da
22 a 31 anni avevo già scontato 8 anni di carcere, non consecutivi ma in
due detenzioni, e sempre con la solita idea che mi girava per la testa: «A 33
dirò basta». Ero molto convinto che all’età prestabilita, qualcosa
sarebbe successo: bello o brutto, qualcosa sarebbe cambiato.
Il
giorno del mio trentatreesimo compleanno lo festeggiavo da latitante, in Spagna.
Finalmente avevo chiuso con Lorenzo Sciacca, ormai ero un’altra persona e,
anche se falsi, i miei documenti lo dimostravano. Il 6 ottobre un lutto mi
colpisce da vicino. Il 9, rientrando in Italia per il funerale, sono stato
arrestato, il 12 ho compiuto 34 anni.
Mi
sono ritrovato con un cumulo di pene pari a 54 anni, diventati 30 perché non
avendo l’ergastolo più di 30 anni, non puoi averne così tanti come pena
definitiva (ma non per questo non puoi farli)
Nella mia vita ho voluto avere tutto e subito, bruciando le tappe che servono ad un ragazzino per crescere e diventare uomo, un ragazzino di 14 anni che giocava a fare il duro e forse aveva solo voglia di piangere.
Vedi
Sopra
Angelo
Ferrarini,
conduce il Laboratorio di lettura e scrittura al Due Palazzi
Dal
racconto all’articolo. Un altro tipo di scrittura dove si racconta, ma, prima
e dopo, si riflette esplicitamente. Il titolo (redazionale) proposto è
“Vedi Sopra”, che allude alla vita precedente e a tutti i rinvii al
“prima”: là si capiscono molte cose -e
la memoria e/o la scrittura aiutano a riscoprire, a riunire, a collegare fili
che ora danno un significato alla propria vita, una trama. E dal ricordo rinasce
una breve storia. La storia ricucita, o ritratteggiata così, aiuta a
ricordare e a capire. E alla domanda conclusiva che ritorna (ora anche nel
lettore) si risponde “Vedi Sopra”.
di
Lorenzo Sciacca, redazione Ristretti
Orizzonti
Da
ragazzino, dicevo che ero frutto di una società sbagliata, addossavo la colpa
a un qualcosa che neanche conoscevo. Iniziavo a fare una guerra con armi
invisibili (le peggiori), che distruggono e offuscano la mente.
Dopo
tanti anni di carcere, quasi 17 (ne ho 37), inizio a volere delle spiegazioni,
esigo delle risposte da me stesso. In un confronto in Redazione, Ornella ha
detto una frase che continua a farmi pensare: un sistema carcerario sbagliato,
dunque delle istituzioni, non devono essere un alibi per quello che ho fatto o
per quello che sono.
Alibi:
sento questa parola e mi viene in mente “cercare l’assoluzione”. Ecco la
realtà: non mi sono mai voluto prendere le responsabilità. Di fronte a un
giudice mi sono sempre assunto le mie responsabilità e a volte, spesso, anche
quelle di altri, ma quando devo fare i conti con i miei propri sbagli, ecco che
escono gli “alibi”.
Il
carcere è un sistema che gira al contrario, ormai è risaputo: entri per aver
commesso degli errori esci con la voglia di commetterne altri e sempre con un
incremento di pericolosità sociale. Non voglio, oggi, parlare del carcere,
voglio capire perché da ragazzino questo modo di vivere mi attirava.
Sono
figlio di un rapinatore e, a sua volta mio padre era figlio di un bandito. Ecco,
questi erano i miei miti. Non rinnego la mia famiglia e mai lo farò, anzi sono
cresciuto con i sacrifici dei miei genitori e la loro speranza che non
commettessi certi errori. Mio padre mi ripeteva che le regole servono per
condurre una vita di certezze, e che, senza, dentro di noi regna il caos. Parole
sagge di una persona che era arrivata ad una conclusione dovuta dalla scelta
di vita fatta.
I
miei primi reati sono stati dei furtarelli, all’età di 12 anni. A 15 ero
nel carcere minorile per una rapina in banca. Come fa un ragazzino ancora
vergine a passargli per la testa di entrare in un istituto di credito con un
taglierino per farsi consegnare i soldi? Non lo so cosa possa scattare in
questi casi, so solo che sentivo il bisogno di emozioni forti e ovviamente di
soldi. Ho provato a lavorare onestamente uscito dal minorile, una esperienza
durata tre settimane e non per me stesso ma per mia madre. Ovviamente un
fallimento completo. Sono tornato in carcere a 18 anni, sempre per lo stesso
reato, non ero neanche dispiaciuto di essere imprigionato, ero come
soddisfatto, non voglio dire che era il mio obbiettivo, ma ero sulla strada
giusta per diventare quello che oggi i giornali avrebbero definito un
“BANDITO”.
Iniziavo
così una guerra creata dal sottoscritto e come nemici tutti quelli che volevano
impormi regole. Il carcere ha dato il suo contributo, fornendomi di quella
rabbia, che con il tempo diventa odio, che serve per portarti
all’autodistruzione e ovviamente è stato anche la mia scuola del crimine.
Ogni volta che sono uscito ho commesso rapine più pericolose per la società
che mi circondava e per me stesso e la soddisfazione aumentava.
Conclusione: oggi sono nel carcere di Padova. Dovrebbe essere il trentesimo che giro, con 54 anni di carcere portati a 30 per dei continuati, per rapine a mano armata, conflitti a fuoco con guardie, tentato omicidio. Tutto questo per cosa? La risposta è diventata scontata: per fare una guerra, in cui il mio nemico sono sempre stato io. Vedi sopra.