Il
Gruppo della Trasgressione è
una cosa “pungente”, cartavetrante
L’esperienza
del Gruppo della Trasgressione raccontata a Ristretti dal suo ideatore
Incontro
in redazione
Tante
volte abbiamo riflettuto sul fatto che Ristretti Orizzonti si occupa di
informazione in maniera “anomala”, scegliendo per esempio uno stile diverso
da quello di articoli in cui qualcuno disquisisce sullo stato delle carceri, sul
sovraffollamento, sui diritti negati, perché noi cerchiamo il racconto,
vogliamo che le persone leggano e capiscano, ma anche provino delle emozioni,
cioè che siano coinvolte non solo razionalmente, e per coinvolgerle abbiamo
scelto di approfondire la riflessione sui reati, su come si finisce in
carcere, su quanto sottile sia la linea che separa il bene dal male, e quanto
ognuno di noi possa rischiare di “passare dall’altra parte”. In questo
nostro percorso di riflessione profonda, di confronto serrato, di continuo
scambio, di coraggio di assumersi le proprie responsabilità, abbiamo incontrato
un’altra realtà, quella del Gruppo della Trasgressione, che in qualche modo,
pur nella diversità, sentiamo vicina, con la quale condividiamo molto
soprattutto sul metodo con cui affrontiamo i temi più spinosi. Ne abbiamo
parlato con Juri Aparo, psicoterapeuta che opera presso la ASL Milano e le
carceri milanesi di Opera, San Vittore, Bollate, e che del Gruppo della
Trasgressione è l’ideatore e “l’anima”.
Ornella
Favero:
Possiamo chiedere subito perché l’avete chiamato Gruppo della Trasgressione?
In che senso Gruppo della Trasgressione?
Juri Aparo:
Gruppo della trasgressione semplicemente perché nasce dai trasgressori,
dall’esperienza della trasgressione, riflette della trasgressione e poi… si
dice anche che chi fa parte del Gruppo della Trasgressione trasgredisce rispetto
al suo passato e ai vincoli della condotta delinquenziale, ad esempio lavora e
costruisce con una persona che rappresenta l’istituzione.
Il
sito si chiama trasgressione.net. E l’obiettivo con cui è nato il Gruppo era
riflettere su questo.
Nel
Gruppo c’è questa situazione un po’ ibrida, qualcuno ne fa parte come
detenuto, c’è chi ne fa pare come cittadino libero, c’è chi ne fa parte
come studente tirocinante, quindi con un interesse specifico, c’è chi ne fa
parte in modo integralmente libero, semplicemente perché gli piace, e c’è
chi ne fa parte perché ha uno stipendio, anche se lo stipendio non impedisce il
coinvolgimento dal punto di vista emotivo, metodologico.
Ornella
Favero:
Ci spieghi un po’ come lavora il Gruppo della Trasgressione?
Juri Aparo:
Quello che mi viene in mente è che il Gruppo, in ogni caso, è una cosa
“pungente”, cartavetrante, di solito con i detenuti divento amico dopo un
po’ di tempo, dopo un certo numero di insulti o comunque di scontri più o
meno faticosi.
Io
per scelta rifletto su come si diventa delinquenti e comunque do poco spazio
alla critica verso l’istituzione. Tendenzialmente non gradisco che i detenuti
del Gruppo, all’interno dell’attività del Gruppo stesso, si spendano o
diano troppo spazio alle critiche alle istituzioni. Non è che ci sia una regola
al Gruppo, se non quelle della mia “tirannia”, mi baso così sulla mia
istintività, su quello che sento, anche se inevitabilmente soggettivo e per
molti antipatico. Ma alla fine si diventa molto amici. Io lavoro in carcere da
più di trent’anni, nei primi diciotto anni non accadeva mai che i detenuti,
usciti dal carcere, mi cercassero. Da quando esiste il Gruppo della
Trasgressione casa mia ospita detenuti a non finire, cioè con i detenuti si
crea nei fatti, si produce a poco a poco un rapporto che è questo piacere di
costruire insieme. Uno può naturalmente dire “Ma perché io non devo parlare
del fatto che l’agente è uno stronzo, o il magistrato è distratto”...”.
Perché tendenzialmente ognuno appoggia il proprio “buio della mente” sul
fatto che gli altri sono stronzi, per cui i detenuti che hanno commesso magari
più reati, siccome vedono davanti a sé delle persone che a loro volta
commettono delle ingiustizie, abusi, soprusi, (è chiaro che ovunque questa
macchina della giustizia, questa macchina penitenziaria è una nefandezza per
tantissime ragioni, perché dovrebbe favorire un’evoluzione dell’uomo ed
invece non la favo favorisce per niente) si sentono autorizzati a “pensare ad
altro”. Per cui non gradisco che i detenuti facciano diventare queste cose una
saracinesca per smettere di guardare dentro la propria storia. Certo che le
celle sono piccole, certo che il carcere fa schifo, certo che i processi sono
distratti. Certo tutto, ma al Gruppo non voglio che tutto questo venga usato
come alibi per trascurare poi il lavoro di ricerca.
Detto
questo, il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio, è una ricerca
continua, è una ricerca che si serve di tutto quello che capita, incontri con
l’Arte, Musica, insomma tutto quello che capita. Si prende per esempio il mito
di Sisifo e se ne fa una rappresentazione ove i detenuti recitano le diverse
parti del mito, però lo fanno diventare loro, si va nelle scuole esattamente
come fa Ristretti Orizzonti, insomma c’è un’enorme quantità di iniziative,
si ospitano persone di ogni tipo, viene il filosofo, il genetista, il docente di
letteratura russa, con ognuno si fa qualcosa di diverso sempre nella prospettiva
comunque di cercare.
Le
persone che vengono da fuori in carcere o che incontrano i detenuti per esempio
fuori, all’esterno, sono persone che hanno gratitudine, rispetto per i
detenuti, semplicemente perché incontrano i detenuti in una fase in cui i
detenuti stessi cercano, sono alla ricerca. Incontrano l’uomo mentre fa
l’uomo, cioè quando cerca. È chiaro che si rimane stupiti e ammirati se si
arriva qui in carcere dall’esterno e si vedono delle persone intente a
cercare, a maggior ragione se a cercare è un detenuto dal quale non ci si
aspetta un atteggiamento simile. Se tu incontri una persona che dovrebbe avere i
tratti dell’omicida o dello spacciatore disegnati sulla faccia e invece vedi
che quello cerca se stesso e gli altri, se tu vedi che questa persona
costruisce, allora rimani stupito, rimani incantato ancora di più che se senti
un docente di filosofia parlare della ricerca dell’uomo.
Filippo
Filippi
(Ristretti Orizzonti): Io ho lunghi
trascorsi di tossicodipendenza, quindi anche con diversi gruppi in comunità e
gruppi in carcere preparatori per chi avrebbe voluto poi andare in una comunità.
E credo che sia fondamentale che la persona non partecipi a questi gruppi perché
ambisce ad avere chi sa quali salvacondotti o benefici, ma perché sente di
poter fare un percorso di presa di coscienza, di ricerca personale, sulle
ragioni originarie scatenanti il problema della dipendenza e quello che sta
dietro allo sviluppo della stessa. Questo implica anche dei conflitti interiori
profondi, che riguardano il prendere coscienza soprattutto, in uno stato di
detenzione, di come può essere la vita in comunità, con tutte le sue molte
regole. Poi mi pare di capire che Juri Aparo non è un esperto “teorico”,
ideatore dall’alto, nel senso che la sua vasta esperienza di “prima linea”
lo porta a condurre il gruppo o la riunione a seconda dei singoli componenti che
ha in quel dato momento e spazio. Per cui probabilmente non ha una strategia
predefinita o immutabilmente stabilita in origine. Mi corregga se sbaglio,
intendo dire che lei cerca di adeguare di volta in volta quello che è
l’obiettivo della ricerca della/sulla trasgressione, dei motivi e delle
“cose che sarebbe stato meglio non fare”. Io poi preferisco questo modo di
dire, perché essendo stato da adolescente uno che trasgrediva quasi in modo
sistematico, ho un po’ di riluttanza nei confronti di parole come
trasgressione, rieducazione, riabilitazione, e nel corso degli anni ho notato
che anche i miei compagni detenuti hanno questo problema, questa riluttanza a
usare parole come trasgressione, rieducazione, trattamento. C’è, come dire,
una sorta di ostruzionismo personale mentale nei confronti di queste parole,
anche perché per anni ci è stato detto: sarebbe meglio che tu… tu non devi
fare questa cosa… questo è vietato…
Juri Aparo:
Si, in effetti mi ritrovo in quello che lei sta dicendo. Una cosa che ho
accennato prima di sfuggita è che una delle tantissime cose che al Gruppo si fa
è che di ogni persona e per ogni persona viene cercato quello che la persona può
aver desiderio di dire, con il risultato che tutti i membri del Gruppo,
indipendentemente dal fatto che siano detenuti o non detenuti, contribuiscono a
che quella persona a un certo punto dica qualcosa, dica qualcosa da cui si sente
rappresentato, quindi ciò che dice lo dice perché è lui che ha bisogno di
dirlo. A tale scopo viene sfruttato tutto quello che c’è intorno a un tavolo,
tutte quelle risorse possibili per fare in modo che la persona giunga a dire
quello che ha bisogno di dire.
Uno
dei concetti cardine del Gruppo riguarda la complessa problematica delle
microscelte, il tema della scelta al Gruppo in pratica è pane quotidiano e
allora uno dei concetti è quello che ci sono le scelte che allargano la gamma
delle scelte possibili domani, e ci sono le scelte che restringono la gamma
delle possibili scelte di domani. Le persone spesso si interrogano sulla libertà,
che diavolo è la libertà? Tutte quelle grandi cose per cui ci sono interi
libri di filosofia che ragionano su che cosa è la libertà, quando un uomo si
sente libero. E uno dei concetti di riferimento è che la libertà è una
esperienza, è l’esperienza dell’allargamento delle proprie possibilità di
scelta. Allora domenica al Gruppo c’era una guida scout che, avendo capito
questo concetto, stava cercando di riassumerlo, dicendo: abbiamo capito che la
libertà consiste nel lavorare affinché si allarghino le scelte possibili e
perché si allarghi la gamma delle vostre conoscenze. E io ho aggiunto che in
verità la libertà di scelta si allarga non solo in funzione di quante cose si
conoscono, ma anche e soprattutto in funzione di quante emozioni si riesce a
vivere. Il reato, lo spaccio, l’omicidio, l’abuso in genere, non sono
effetto del fatto che la persona è ignorante, non sono la conseguenza del fatto
che la persona non conosce abbastanza della vita, sono effetti del fatto che la
persona non sa vivere abbastanza, non ha il coraggio di vivere abbastanza.
L’uomo in definitiva, in proporzione alla gamma dei sentimenti che può
vivere, avrà spazio per coltivare la propria libertà o meno. Queste cose al
gruppo sono motivo frequentissimo di riflessione, perché, come si sa, in
carcere tutti chiamano libertà l’uscire fuori, e allora si cerca di
ragionare, di recuperare, di mettere insieme materiale perché ciascuno possa
ricostruire, attraverso la propria esperienza di sé e delle proprie relazioni,
che cosa va cercando, e una delle cose che più spesso si coglie è che ciascuno
va cercando un ampliamento della possibilità di sentire.
Un
altro concetto è quello del “tradimento”, perché è difficile essere
uomini senza tradire; nei confronti del tradimento io ho un atteggiamento di
grande tolleranza, di grande accoglienza, anche perché l’uomo non può non
tradire, però è importante contribuire alla crescita della consapevolezza, a
far crescere nell’umanità il piacere della lealtà, il piacere della
responsabilità. Il tema del tradimento non nel senso dell’accusare chi
tradisce, ma nel senso che le persone tradiscono senza accorgersene, si
tradiscono i propri figli, si tradiscono anche le proprie ambizioni, al Gruppo
si parla di queste cose di continuo, utilizzando Delitto e castigo, Il ritratto
di Dorian Grey, utilizzando quadri, musica. Insomma, tutto quello che capita
viene messo nella stessa pentola e tutti ci cercano dentro, e tutti, trovano
qualcosa, e questo è il Gruppo della Trasgressione.
Bruno Turci
(Ristretti Orizzonti): Io ho vissuto
l’esperienza del Gruppo della Trasgressione, e ora di Ristretti Orizzonti, e
secondo me hanno molto in comune. C’è la differenza che Ristretti Orizzonti
si occupa di informazione, ma in realtà trae spunto, trae molta energia
dall’attività di introspezione, dall’attività di confronto che si fa con
le scuole, che si fa durante le riunioni, trae molta energia da questo. Ma anche
per l’attività di informazione noi scegliamo di partire sempre da noi stessi,
dalla nostra esperienza, quindi ci riferiamo alle nostre storie di cui parliamo,
su cui riflettiamo, un po’ come nel gruppo della Trasgressione, in cui si
cerca sempre di andare a fondo delle cose, di ragionarci su, di non aver paura
di uscire dai propri schemi mentali. A proposito di quello che diceva Aparo del
tradimento, capita che quando si inizia a discutere si dia magari
un’interpretazione banale di certi concetti, a me è capitato le prime volte,
ero ancora infarcito dal mio passato, sono stati quasi trent’anni della mia
vita, mi ricordo una discussione con Bruno D., si parlava appunto del
tradimento, lui diceva “Io non ho tradito nessuno”, però poi ha cominciato
a riflettere, a dire “forse ho tradito mia figlia, mia figlia era piccola e io
l’ho tradita, perché mia figlia non pensava che io l’abbandonassi, che me
ne andassi via per 20 anni, che finissi in carcere”. Ecco l’importanza del
confronto, dello scambio, quando tu ti incontri con delle persone mostrando la
tua fragilità, la tua umanità, lo spessore delle tue debolezze e le tue
ricchezze, è chiaro che tutto assume una dimensione più forte, più
importante.
Juri Aparo:
Il detenuto, quando va a scuola, negli istituti, o quando i ragazzi vengono
dentro in carcere, sente di avere una funzione, è una funzione civile, è una
funzione di civiltà. E mentre svolge questa funzione, indipendentemente dal
fatto che parla della cella, o di come si fa la barba, mentre svolge questa
funzione lui diventa cittadino, ritorna ad avere un ruolo sociale che forse non
ha mai avuto prima. Per il Gruppo delle Trasgressione l’incontro con la scuola
è importante perché il detenuto che parla con i ragazzi svolge un ruolo, una
funzione di cittadino e quindi diviene cittadino e il ragazzo contribuisce a
questo, mentre ascolta il detenuto, mentre fa obiezioni, mentre dice al detenuto
“Va bene, ma non ci pensavi alla tua famiglia mentre ti facevi di cocaina,
visto che mi stai dicendo che la cocaina fa MALE ?”... Ecco il ragazzo a sua
volta svolge una funzione, motiva il detenuto alla riflessione e alla
consapevolezza di sé.
Fondamentalmente
questi incontri hanno lo scopo di permettere a detenuti e giovani studenti di
svolgere delle funzioni reciprocamente responsabilizzanti.
La
storia del Gruppo
Aprire
le finestre sulla propria fragilità
di
Juri Angelo Aparo
Nel
1979 giungo a San Vittore con i primi esperti ex art. 80. Difficile orientarsi,
né ci sono psicologi più anziani cui chiedere indicazioni. A farmi da guida
nel primo periodo sono i colloqui con i detenuti e le riunioni d’equipe. Scopo
degli incontri è rendere tangibili gli obiettivi cui tende la pena, cioè dei
piani di trattamento finalizzati alla rieducazione del condannato, al recupero
di un’attitudine (forse smarrita, forse mai avuta) a interagire
costruttivamente con la società.
Ma
mancano le premesse indispensabili perché la comunicazione col detenuto possa
puntare autenticamente agli obiettivi suddetti: la persona detenuta non sceglie
il colloquio di sua iniziativa, lo accetta solo perché necessario a che venga
formulata un’ipotesi di trattamento. Egli tende perciò a presentare se stesso
come un soggetto che non ha alcun bisogno di diventare altro rispetto a quello
che è già. All’autorità e agli esaminatori (educatori, psicologi) egli
cerca di presentare il volto di un cittadino già maturo per i benefici di legge
previsti; ai compagni di detenzione, il volto del duro. In entrambi i casi, una
maschera che ne ostacola l’evoluzione personale: ci si può riconoscere
incompiuti e insicuri solo di fronte a chi identifichiamo come supporto al
nostro compimento; è difficile farlo con coloro che, proprio per la nostra
incompiutezza, potranno giudicarci inadatti allo scopo o facile preda.
In
queste condizioni le insicurezze, se affiorano, allagano la mente. Molto meglio
tenerle chiuse a chiave! In carcere (e non può stupire) si preferisce soffocare
dentro un’identità posticcia piuttosto che aprire le finestre sulla propria
fragilità. Tante volte, inoltre, chi sconta lunghe pene viene raggiunto e messo
con le spalle al muro dai suoi fallimenti affettivi: i figli che si sentono
traditi, gli abbandoni. Difficile fare i conti con se stessi e rimanere in
piedi.
Quanto
più mortificanti sono le condizioni in cui il detenuto vive, tanto più egli
vagheggia la sua vecchia corazza affettiva come l’unica difesa capace di
garantirgli una parvenza di salvezza. Dentro la cella la corazza brilla come la
mela che sedusse Adamo. Vorrebbe saperne fare a meno il detenuto e di certo
nuoce alla società; ma se la si toglie, dilaga il senso del fallimento e
dell’impotenza.
Oggi
va un po’ meglio. Dagli anni 80 l’apertura del carcere al mondo esterno è
in continuo aumento. Crescono le attività espressive che permettono di
esplorare e di allargare gli spazi mentali e affettivi del detenuto. In molti
istituti sono oggi presenti numerosi corsi professionali, corsi scolastici,
corsi di pittura, di teatro, di poesia. Il muro personale che il detenuto
contrapponeva alle mura dell’istituzione per difendere un’identità
cristallizzata, oggi, grazie a mille iniziative, comincia a cadere.
Il
mio contributo specifico in tal senso ha preso forma nel 1997, quando con una
ventina di detenuti di San Vittore viene fondato il Gruppo della Trasgressione.
Fra i tanti obiettivi di allora, il primo era potere interrogare la propria
storia senza accontentarsi di risposte scontate o che dovessero servire per le
sintesi dell’equipe.
Sono
trascorsi molti anni. Oggi il gruppo è composto da detenuti delle carceri
milanesi di San Vittore, Opera e Bollate e da comuni cittadini, soprattutto
studenti universitari. Da una decina d’anni esiste www.trasgressione.net, il
sito dove il gruppo raccoglie i suoi scritti e propone i temi trattati al
confronto con il mondo esterno. Eccone uno che rimane in tema.
La
corazza, di Giulio Martino
Eccomi
qua, con la mia corazza
addosso
che
appesantisce il mio cammino.
Dentro
questa corazza le emozioni
soffocano
sotto
il peso dell’odio e del rancore.
È
stato molto difficile indossarla.
In
passato mi ha permesso di
sopravvivere.
Oggi
è difficile staccarla di dosso.
Vorrei
essere aiutato a farlo.
Non
è facile per me, non è facile per gli altri.
Qui
e là vengono avviati oggi tanti progetti per favorire lo scambio e la
collaborazione fra ristretti e mondo esterno, anche se mi sembra che, in linea
di massima, il detenuto rimanga ancora un
po’ troppo una persona che procede sotto la guida altrui. Io credo che il
condannato, per diventare il cittadino che la Legge auspica, abbia bisogno di
essere e di sentirsi un adulto che progetta, collabora e si confronta con altri
adulti, che gode e soffre con i partner esterni dei risultati e dei fallimenti
comuni.
Se
questo non accade, nella migliore delle ipotesi, egli si sentirà come il
bambino per il quale è stato fatto un programma, ma che dal programma stesso può
prendere le distanze appena svoltato l’angolo. Sappiamo che, in definitiva, le
cose che amiamo maggiormente sono quelle che concepiamo e nutriamo con la nostra
fantasia e per le quali spendiamo il nostro sudore. Tante volte non occorre
nemmeno che siano economicamente redditizie; è indispensabile però che la
persona vi si riconosca, vi scopra parti stimabili di sé, vi raccolga la
gratificazione che discende dalla espressione di parti dimenticate di sé e dal
sentirsi riconosciuti dalle persone con le quali si è progettato insieme.
Gli
obiettivi principali del lavoro del Gruppo della Trasgressione sono:
riflettere
sulle diverse trasgressioni di cui l’essere umano ha esperienza, cercando
assonanze ed elementi di continuità nella differenza;
stimolare
la società esterna a rivolgere la propria attenzione al carcere, per
cercare, dentro al mondo dei detenuti e dell’istituzione, parte di sé e
delle proprie contraddizioni.
L’assunto
di riferimento è che in ogni campo dell’espressione umana possono essere
rintracciati esempi di trasgressione, giacché da sempre avviene che l’uomo:
codifica
dei criteri per esprimere il proprio mondo interno e per organizzare
efficacemente il proprio rapporto con la realtà;
sente,
prima o poi, che i codici espressivi, le regole sociali, i criteri scientifici
elaborati in precedenza non gli garantiscono più lo spazio sufficiente per
esprimersi e per operare nella realtà fisica e sociale attuale;
deroga,
in maniera più o meno esplosiva, dai codici precedentemente elaborati,
stimolando in tal modo la collettività ad una riflessione critica sulle
norme precedenti e, qualche volta, alla rielaborazione delle stesse.
Perché
in carcere?
La
scelta di attivare in carcereil “Gruppo della Trasgressione” nasce dalla
considerazione che nell’immaginario comune la trasgressione identifica lo
sconfinamento dalle regole operato da chi commette un reato, ma anche l’area
entro la quale è possibile visualizzare con simpatia:
molti
comportamenti del mondo infantile
alcuni
aspetti seminascosti, ma accettabili di sé
alcune
personalità eccentriche, ma dotate di fascino
alcuni
interventi creativi degli uomini che hanno inciso positivamente sulla storia
dell’arte, della scienza, del costume.
Nel
settembre del ‘97 cominciano gli incontri del gruppo. Sono disordinati,
tumultuosi, ma molte persone appaiono sinceramente interessate. Non è facile
superare le difficoltà che l’ambiente comporta, né le resistenze che molti
detenuti vivono verso un’attività che li invita a mettersi pubblicamente in
gioco assai più di quanto sia costume all’interno delle mura carcerarie.
Anche
se lo stile della comunicazione fra i partecipanti lascia molto a desiderare,
nel giro di qualche settimana si viene a creare una base comune di
interrogativi, di idee e di intenti.
Nel
corso degli incontri ci si chiede, insieme con i primi ospiti, se esista una
matrice comune:
nel
comportamento del bambino e dell’adolescente, la cui trasgressione
corrisponde a volte ad una ricerca della propria identità attraverso la
sfida;
nel
comportamento distruttivo di chi trasgredisce alle regole con danno per sé
e per gli altri;
in
quelle trasgressioni ai codici che così frequentemente avvengono nel campo
dell’arte, della scienza, del costume, e che contengono un potenziale
creativo e di rinnovamento della società.
Le
mete
la
crescita individuale e collettiva dei partecipanti attraverso una
riflessione critica sui diversi aspetti della trasgressione, compresi quelli
che hanno inciso sul loro percorso personale;
un
rapporto con la realtà esterna tale per cui i partecipanti passino dal
ruolo di persone da aiutare a quello di soggetti attivi, portatori di un
loro sapere in divenire.
contributi
scritti personali o di piccoli gruppi sul tema a partire da un comportamento
o da un evento che possa essere considerato trasgressivo, con lettura e
commento collettivo delle riflessioni proposte;
interviste
a personaggi famosi e non, con una competenza specifica nei campi
dell’arte, della scienza, del diritto, della comunicazione, del costume.
Il
gruppo ha poi continuato ad ampliarsi e ad arricchire la sfera dei suoi
interessi.
Studenti
e detenuti incrociano i loro scritti sul sito e conducono all’interno e
all’esterno del carcere attività coordinate: interviste sugli argomenti che
trattiamo, progetti per intervenire in quartieri o in situazioni scolastiche con
adolescenti a rischio.
Per
orientarsi nel sito trasgressione.net
Il
Gruppo della Trasgressione è composto da detenuti delle carceri milanesi, e da
liberi cittadini, soprattutto da studenti universitari e neolaureati di
Psicologia, Giurisprudenza e Filosofia.
Dentro
e fuori dal carcere, il gruppo studia e si interroga su temi che riguardano
esperienze di sconfinamento, come la trasgressione, la sfida, il limite.
Nelle
riunioni vengono commentati gli scritti che tutti i membri del gruppo producono
e che vengono poi inseriti nelle varie aree del sito e riportati su INDICI.
Fra le
attività del Gruppo, frequenti convegni e INCONTRI aperti anche a cittadini
comuni. L’obiettivo principale è l’esplorazione, insieme con professionisti
di aree disciplinari diverse di analogie e differenze nelle esperienze che vanno
dalle comuni e più semplici fantasie, ai piccoli vizi personali, al reato.
Temi
di discussione del Gruppo
L’hacker
e il melograno
Al
Gruppo della Trasgressione bisogna diventare hacker della propria coscienza.
Scovare password su password per accedere a cose dolorose e spiacevoli accadute
nell’infanzia e nell’adolescenza e poi segregate
di
Eugenio Pipicelli,
Gruppo della Trasgressione
Cos’è
per me il Gruppo della Trasgressione? Io mi sento la gramigna e il melograno nel
giardino. La gramigna ha infestato tutto, il melograno, seppur vivo, non è
cresciuto perché tutta l’acqua arrivava alla gramigna. Il Gruppo è un
ambiente dove l’acqua arriva anche al melograno e il melograno sta crescendo.
Spero che metta anche frutti.
Con
la rabbia ho permesso che la parte negativa prendesse il sopravvento su quella
positiva al punto da provare anche piacere, un piacere mesto, doloroso, questo
lo so perché non sono mai stato felice.
Come
stavano le cose ho cominciato a capirlo prima che frequentassi il gruppo, ma
capirle e poi non metterle in atto non serve a niente.
Al
gruppo non è come fare matematica, scienza o studiare legge, sarebbe troppo
facile. Qui bisogna diventare hacker della propria coscienza. Scovare password
su password, decine di password per accedere a cose dolorose e spiacevoli
accadute nell’infanzia e nell’adolescenza e poi segregate. Il Gruppo della
Trasgressione è come un moderno Freud che fa in modo che le password tornino in
mente una dietro l’altra, facendole riaffiorare dall’inconscio. A ogni
password corrisponde un conflitto, un chiarimento e poi un’altra password
ancora. È una guerra con te stesso per fare pace con te stesso e con il mondo.
Non
bisogna perdere tempo, devi bere, tuffarti e non restare lì a guardare e a
domandarti da dove arrivi l’acqua, se sarà buona, se giri a destra, se giri a
sinistra. La verità è che si ha paura di bere per timore di aprire quello che
la password nasconde. Bere non costa nulla, ognuno può cominciare
dall’esperienza degli altri e, via via, rivolgersi alla propria, soffrendo in
un primo momento, ma rinforzando la propria parte buona.
Io
sono al buio ed è un momento critico, travagliato. Di una cosa sono sicuro: che
la scelta che farò sarà fatta con consapevolezza. Cosa sono realmente? Un uomo
che ha sbagliato strada per molto tempo e vuole recuperare o sono quello che ho
sempre fatto? Quando il tempo giusto arriverà saprò se voglio continuare con
la gramigna, ma senza giustificazioni, o riprendere il percorso che sognavo da
bambino: quello del melograno.
Questo
è tutto. Anzi no! Con i frutti che darà il melograno dobbiamo arrivare ai
giovani che hanno una vita complicata. Io credo che questo sia possibile. È
quello che è successo a me, che pure non sono più così giovane.
Un’identità
da condividere
Una
nuova identità sociale è possibile maturarla, ma solo se a un decoroso posto
di lavoro si affiancano attività, interessi e progetti da coltivare con il
gruppo con il quale ci si è orientati verso il nuovo stile di vita
di
Dino Duchini,
Gruppo della Trasgressione
L’esperienza
che sto vivendo in questo periodo mi dice che, per il detenuto che torna alla
vita libera e per quello che fruisce di una misura alternativa, la formazione
lavorativa e un posto di lavoro sono cose di grandissima importanza, ma non
bastano a zittire il richiamo di passate abitudini a risolvere o a tentare di
risolvere i problemi di tutti i giorni secondo il vecchio stile.
Chi
esce dal carcere, nella gran parte dei casi, è una persona che, oltre ad aver
commesso svariati reati, è anche abituata a ricercare tipi di gratificazione
che sono poco compatibili con un modesto stipendio e con uno stile di vita fatto
di lavoro, famiglia e piaceri semplici; inoltre, chi è stato detenuto si
trova per un motivo o per l’altro ad avere numerose difficoltà di
reinserimento che mettono a dura prova la volontà di portare avanti i suoi
programmi.
Il
lavoro è certamente una condizione necessaria a che si possa procedere, ma non
sufficiente! Sarebbe illusorio credere il contrario. Per mantenersi coerenti con
i propri propositi di reinserimento, anche quando questi siano stati individuati
in perfetta buona fede, occorre che la persona abbia, oltre al lavoro, anche la
capacità e le condizioni per saper trarre gratificazioni e ulteriori
motivazioni dal nuovo stile di vita verso cui ci si è orientati. Occorre
pertanto che l’ex detenuto possa condividere le proprie esitazioni,
frustrazioni e speranze con un gruppo di persone con cui trovarsi in sintonia,
un gruppo che, ovviamente, non può essere quello dei vecchi compagni di
cordata, ma che, per comprensibili ragioni, non è facile costruire nei primi
tempi della nuova vita. Occorre che la persona possa avere degli scambi con
gruppi di riferimento con i quali coltivare e dare sostanza a un nuovo stile di
vita.
Per
vivere in equilibrio e in sintonia con la collettività di cui si fa parte, per
assimilare e far diventare veramente propri i valori sociali che costituiscono i
necessari punti di riferimento di una collettività, per diventare, insomma, un
cittadino sensibile agli interessi della collettività occorre maturare una
nuova identità sociale, una identità che si sviluppa e si rafforza giorno per
giorno solo se ci sono le condizioni per poterlo fare.
Avere
un posto di lavoro costituisce una risorsa indispensabile, ma non equivale ad un
repentino cambiamento di quella identità sociale, di quelle relazioni e di
quella immagine di sé, di quelle coordinate valoriali cui si è fatto
riferimento all’epoca dei reati. Questa nuova identità è possibile maturarla
solo se a un decoroso posto di lavoro si affiancano attività, interessi e
progetti da coltivare con il gruppo con il quale ci si è orientati verso il
nuovo stile di vita.
(Da
una riflessione di Dino Duchini, detenuto in art. 21, a un incontro con gli
allievi del corso di specializzazione in criminologia dell’Università di
Padova coordinato dal prof. Gianvittorio Pisapia)
L’identità:
Il
campanello
Quando
commettevo reati, avvertivo prima, durante e dopo, quel campanello d’allarme
di cui è dotata la coscienza, ma nello stesso tempo, cercavo di attutirne il
suono attraverso la pseudo gratificazione che mi trasmetteva il mio gruppo di
appartenenza
di
Roberto Cannavò,
Gruppo della Trasgressione
Ognuno
di noi possiede una sorgente di purezza dal valore inestimabile. Quando, per
varie ragioni (tra cui l’ignoranza, l’insicurezza e la mancanza di una
guida) non riesci ad attingervi, cadi nell’oscurità. Cadere nella devianza è
facile, poiché la mente t’inganna, lasciando terreno fertile alla profondità
del male.
Nel
mio caso, quando commettevo atti indegni e irreparabili, avvertivo prima,
durante e dopo, quel campanellino d’allarme di cui è dotata la coscienza, ma
nello stesso tempo, cercavo di attutirne il suono attraverso la pseudo
gratificazione che mi trasmetteva il mio gruppo di appartenenza.
Spesso,
guardandomi allo specchio, non mi riconoscevo nell’immagine che vedevo, però
era anche vero che ero io a commettere quei reati che portavo a termine con la
massima determinazione.
L’unico
elemento che mi distingueva dagli altri membri del branco era la limitatissima
frequentazione con loro, al di fuori dei momenti in cui, in gruppo, commettevamo
dei reati. La maggior parte dei miei ex compagni, invece, instaurava rapporti
d’amicizia, che spesso sfociavano in unioni con lo scopo di imparentarsi, di
condividere momenti di quotidianità tra famiglie. Ho preferito agire
diversamente per evitare che i miei figli crescessero in quell’ambiente.
Dopo
un’analisi del mio passato, credo semplicemente che, quando commettevo reati,
non concedevo alla mia coscienza l’opportunità di consigliarmi.
Il
mio arresto, che poi è stato il male minore, visto che altrimenti sarei stato
ucciso, mi ha condotto, dopo un decennio di tentennamenti, ad ascoltare
finalmente la mia innata coscienza, che altro non è che quella fonte di purezza
insita in ognuno di noi. Dal profondo ho fatto emergere pian piano la mia vera
identità, quella che oramai è mia e che voi accettate durante i nostri
incontri, senza rimanere voi stessi ancorati al mio passato.
Vittime:
A
distanza quasi di un anno, ho ancora il sapore della paura dentro di me
Temevo
ora tutto quello che non avevo avuto il tempo di temere durante la rapina: che
il rapinatore mi conoscesse, che potesse sapere chi fossi, dove abitavo
di
Desirèe,
Gruppo della Trasgressione
Una
classica serata invernale, faceva freddo ed ero in una farmacia di paese, con
mia madre. Mentre compravo quello che mi serviva ridevo con gli altri clienti,
amici, scherzando sul ritorno, una strada buia, con pochi lampioni.
Chiacchieravamo
sul cattivo tempo e sulla possibilità di fare “brutti incontri” sulla via
del ritorno, scura, nella zona industriale… avrei voluto riaccompagnarli in
automobile, ma la coppia voleva fare una passeggiata, un po’ come gli
“innamorati di Peynet” immaginando che i pochi lampioni fossero la luce
della luna.
A
quel punto decidemmo di andarcene, io e mia madre, e ci dirigemmo come al
solito verso la porta vetrata dell’uscita.
La
mamma è davanti a me ma improvvisamente, mentre cammina, si ferma,
indietreggia e io, stupita del suo atteggiamento insolito, la spingo
vigorosamente ma lei mi ripete di andare indietro e io non capisco, le chiedo
perché…”Desy è una rapina, vai indietro”…vedo un braccio che la spinge
ancora contro di me e una mano che tiene una pistola.
Spostata
mia madre, il rapinatore carica l’arma, la punta al soffitto e dice solo
“Fermi e zitti”. Lo guardo, vedo un collant sopra a un volto e mi rendo
conto che la situazione comincia a prendere forma. Io sono smarrita,
intontita, vengo spinta verso il bancone dalla mamma, che mi tiene abbassata
per proteggermi. Lui si muove verso il retro, si ferma alla cassa… io lo
guardo, non riesco a staccare gli occhi dai suoi movimenti, sono impotente,
ridotta all’immobilità con la paura, la paura che qualcuno possa muoversi o
parlare e fargli perdere il controllo, mentre la pistola è sempre tesa nella
sua mano. La farmacista continua a dirgli di prendere i soldi e di andarsene,
apre la cassa e ripete, ripete le stesse parole ancora, continuamente.
Io
mi alzo, d’istinto, voglio vedere cosa sta facendo, dove si sta dirigendo,
se si sta avvicinando a noi. Temo che voglia qualcosa senza sapere cosa e nella
confusione, nella paura più cieca, senza staccargli gli occhi di dosso,
nascondo la borsa tra le gambe; i movimenti che avrei voluto fare per proteggere
le mie cose, mia madre e me stessa sono paralizzati perché ho paura che possano
essere intesi da lui come un tentativo mio di offesa.
Temevo
una sua reazione ed ero così costretta a restare immobile, costretta alla piena
obbedienza, costretta a sentire l’impotenza che solo una pistola vera o
presunta può farti sentire. Avrei voluto vederlo chiaramente in viso, avrei
voluto vederlo senza quel brutto collant sulla faccia… perché era un ragazzo
giovane, intravedevo di lui gli occhi chiari e per un attimo la mia paura era
diventata il dolore di non sapere nemmeno il perché dovessi patirlo.
Credo
che in quel momento fosse spaventato, era un uomo solo che doveva tenere sotto
controllo 9 persone attorno a lui, in quella farmacia… mi domandavo quanta
adrenalina e non so che altro potesse spingerlo a fare quello che stava
facendo. Finalmente prende i soldi e se ne va, non prima di intimarci di
restare sempre fermi e zitti. Nessuno si muove, per nessuna ragione.
Io
sono in piedi, al bancone, mia madre si siede per terra impietrita, un’altra
donna cade in ginocchio. Marito e moglie, gli innamorati di Peynet, scoppiano in
lacrime, insieme, pensando al loro bambino a casa, pensando che se la rapina
si fosse trasformata in trgedia magari non l’avrebbero più rivisto. Le parole
di rassicurazione della farmacista non sembravano servire a dissipare la
confusione, lo smarrimento, il dolore, la sensazione di stordimento.
Mi
sono resa conto, mentre cercavo di ricostruire l’accaduto, che avevo perso il
senso del tempo. Non ricordavo la quantità di minuti, che non potevano essere
più di due o tre, ma dentro di me era stato un tempo senza tempo, dilatato a
tal punto da annebbiare la mia cognizione della durata dell’accaduto.
Reagisco
con sarcasmo alle domande dei carabinieri, scherzo con mia madre tornando a
casa, forse per allontanare la paura, forse per non spaventarci ancora di per
tutte, anche se, in fondo, i soldi non sono l’unico motivo di interesse.
Certo, i soldi fanno comodo e li vogliono, ma delle rapine credo che apprezzino
soprattutto il più fra di noi e cancellare in fretta il ricordo, esorcizzare il
terrore di quei minuti in cui mi sono sentita un ostaggio in balia di quello che
avveniva attorno a me.
Pensando,
nei giorni successivi, sentivo la presenza costante e onnivora di quella paura
che non decresceva ma saliva; temevo ora tutto quello che non avevo avuto il
tempo di temere durante la rapina: che mi conoscesse, che potesse sapere chi
fossi, dove abitavo, che potesse aver pensato che io lo avessi visto tanto bene
da riconoscerlo e denunciarlo.
Continuavo
ad avere terrore di chi per pochi minuti si era impossessato della mia volontà,
della mia coscienza, per un istante, ma che era bastato per sentirmi derubata
rischio; quello di essere soli, armi in pugno, contro tutto e tutti, giocandosi,
in un solo istante, passato, presente e avvenire e forse anche la pelle.
Il
rischio è come una droga, se piace non se ne può più fare a meno; è una
sensazione unica, a volte affascinante. Forse, prova la stessa sensazione il
paracadutista che si butta da un aereo o il motociclista che corre a tutta
velocità. Entrambi sanno perfettamente che possono rompersi l’osso del collo,
ma lo fanno ugualmente, forse proprio per questo. La rapina, per di più, è
proibita, è un reato gravissimo. È sicuramente più rischiosa di un salto con
il paracadute; è la trasgressione per eccellenza.
In
realtà il rapinatore si costruisce un’identità di comodo, fabbrica del mio
diritto alla libertà, la libertà di poter camminare guardando i volti, gli
alberi, le vetrine.
Non
ebbi la forza per mesi di rientrare in quella farmacia, aspettavo fuori, in
macchina, col motore acceso, aspettavo mia madre pensando che se fossi stata lì
fuori nessuno avrebbe “serenamente” pensato di entrare e minacciare ancora i
miei affetti, la mia sicurezza, la mia libertà.
A
distanza quasi di un anno, ho ancora il sapore della paura dentro di me quando
entro a far compere in qualche negozio e non riesco a restare con le spalle
voltate alla porta perché non voglio rivivere quelle sensazioni, che nella mia
memoria, come braci, rimangono sommesse e vive.
Rapinatori
e paracadutisti
Il
rischio è come una droga, se piace non se ne può più fare a meno; è una
sensazione unica, a volte affascinante. Forse, prova la stessa sensazione il
paracadutista che si butta da un aereo
di
Claudio Nocera,
Gruppo della Trasgressione
Credo
che tutti i rapinatori amino il rischio, il botto senza precedenti. Aspirano,
come al cinema, al “colpo gobbo”, sognano di sistemarsi una volta per tutte,
anche se, in fondo, i soldi non sono l’unico motivo di interesse. Certo, i
soldi fanno comodo e li vogliono, ma delle rapine credo che apprezzino
soprattutto il rischio; quello di essere soli, armi in pugno, contro tutto e
tutti, giocandosi, in un solo istante, passato, presente e avvenire e forse
anche la pelle.
Il
rischio è come una droga, se piace non se ne può più fare a meno; è una
sensazione unica, a volte affascinante. Forse, prova la stessa sensazione il
paracadutista che si butta da un aereo o il motociclista che corre a tutta
velocità. Entrambi sanno perfettamente che possono rompersi l’osso del collo,
ma lo fanno ugualmente, forse proprio per questo. La rapina, per di più, è
proibita, è un reato gravissimo. È sicuramente più rischiosa di un salto con
il paracadute; è la trasgressione per eccellenza.
In
realtà il rapinatore si costruisce un’identità di comodo, fabbrica un
personaggio freddo, aggressivo, che riconosce il valore della vita solo
attraverso le rapine, mete fantasticate all’interno di uno stile di vita
respirato e fatto proprio con gli anni.
Anche
all’interno dello stesso contesto di chi ha deciso di vivere nell’illegalità
ci sono differenze: il rapinatore, dal suo punto di vista, pretende di avere un
rapporto leale col reato perché pensa di mettersi in gioco in prima persona e
in maniera frontale.
È
difficile da spiegare a chi non ha provato.
Da
quando trattiamo quest’argomento, al gruppo sono stati letti alcuni scritti di
cittadini vittime di questo reato. Nonostante le persone e le situazioni fossero
diverse, tutti abbiamo notato come i sentimenti, le emozioni e le cicatrici
fossero pressoché identiche.
Ci
si è aperto un nuovo scenario, perché fino a quel momento il confronto con
queste persone terminava con l’azione stessa, o in alcuni casi, si concludeva
successivamente nei vari incidenti probatori, i famosi “confronti
all’americana”, dove vittime e rapinatori si ritrovano, divisi da un vetro,
per il riconoscimento. Quel vetro che separa è anche l’emblema del distacco:
il bene da una parte e il male dall’altra.
Adesso
la cosa è un po’ diversa, non c’è più il vetro e siamo messi di fronte ai
loro sentimenti, al loro dolore e alla loro voce che rivendica rispetto. Tutto,
ora, è più difficile, non si può più contare su quel personaggio fabbricato
comodamente e sarebbe anche un atteggiamento vile, in questo contesto, affermare
che non si poteva immaginare la violenza e l’umiliazione che tali azioni
procuravano a chiunque avesse avuto la colpa di trovarsi nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
Ci
sono voluti anni di carcere, sofferenze e riflessioni per iniziare a capire che,
più che un reato contro il patrimonio, la rapina è un’offesa alla dignità e
ai sentimenti delle persone che vi restano coinvolte, anche solo come
spettatori.
Saltare
il bancone
Cosa
sentivamo prima e dopo una rapina? Beh! Io ho sempre evitato di “sentire”,
perché so che se avessi ascoltato, se mi fossi fermato a guardare i volti delle
persone che avevo intorno, forse mi sarei fermato
di
Ivano Longo,
Gruppo della Trasgressione
Nell’ultimo
gruppo, dopo aver ascoltato lo scritto letto da Silvia, “Desirèe”, ho
provato una sensazione di pesantezza, mi sentivo soffocare; ascoltare quegli
ultimi quattro paragrafi mi ha fatto stare male.
Non
avevo mai pensato che io potessi, essendo stato un rapinatore, far provare
quelle emozioni, quel dolore, quell’ingiustizia e quell’impotenza, alle
persone che ho coinvolto nelle rapine che ho commesso.
Il
gruppo l’ho sentito pesante, quelle emozioni così descritte mi hanno tagliato
lo stomaco.
L’Emilia
un giorno ci ha chiesto cosa sentivamo prima e dopo una rapina.
Beh!
Io ho sempre evitato di “sentire”, perché so che se avessi ascoltato, se mi
fossi fermato a guardare i volti delle persone che avevo intorno, forse mi sarei
fermato.
Ho
sempre cercato, anche se ne avevo un contatto, di non coinvolgermi più di
tanto, il mio compito era quello di entrare in un posto, saltare il bancone,
prendere in ostaggio il direttore o l’impiegato di questa o di quella banca,
tenere sotto controllo gli impiegati e i clienti, prendere i soldi dalle casse
ed uscire. Era una situazione molto veloce la mia, cercavo di pensare solo a
quello che dovevo fare, farlo bene e velocemente, poi uscire e tornare a casa
vivo e con i soldi.
Era
quello l’importante, come era importante non toccare nessuno, non togliere gli
oggetti privati come orologi d’oro o cellulari, sapevo che se avessi tolto le
cose personali, qualcuno poteva reagire, ed io ero da solo.
Sì,
avevo con me una pistola, ma questa mi serviva esclusivamente per far fare agli
altri tutto quello che volevo, e per potermi difendere se qualcosa fosse andato
storto.
Non
volevo la vita di qualcuno, volevo solo i soldi.
Ma
nell’ultimo gruppo ho ascoltato un pezzetto di quello che non ho mai voluto
sentire e mi sono trovato travolto dal senso di colpa.
Il
virus delle gioie corte
di
Juri Angelo Aparo
Il
“virus delle gioie corte” corrisponde all’abitudine a ricercare
principalmente il piacere dell’eccitazione, dunque una “gioia corta”, che
si esaurisce con l’ebbrezza del rischio, della conquista, della trasgressione,
della scarica adrenalinica, della droga.
Lo
chiamo “virus” perché questa forma di piacere, così immediato,
circoscritto e solitario, induce gradualmente la persona a disattendere altri
percorsi del piacere, in particolare, il piacere che viene dalla mistura fra
fantasia e azione.
Il
virus delle gioie corte, dunque, mentre dilaga nella mente, lega sempre più la
persona al piacere chimico e immediato dell’eccitazione e la depaupera delle
esperienze collegate ai progetti; in tal modo, la allontana dall’esercizio
delle funzioni e delle competenze che permettono il gioco di cucire fantasia e
realtà, di sentirsi e di essere riconosciuto dagli altri come cittadino
responsabile.
L’illusione
delle gioie corte
Credo
che si tratti di quel virus che ci contagia quando ci si abitua a raggiungere
piaceri immediati
di
Gualtiero Leoni,
Gruppo della Trasgressione
Mi
chiamo Gualtiero Leoni, sono parecchi anni che sono in carcere e ne ho
altrettanti da fare prima di uscire. Faccio parte da quattro anni del Gruppo
della Trasgressione. Da allora ho cominciato a guardarmi dentro. Sembra troppo
semplicistico, eppure è così. Non so cosa mi
sia capitato, ma è come se per la prima volta avessi trovato il coraggio di
mettere in discussione il mio vissuto. Ho avuto la possibilità di ripercorrere,
passo dopo passo, il mio passato, con occhi diversi, con occhi curiosi.
Tutto
ciò che fa parte di noi, la positività, le debolezze, sono il nostro bagaglio,
è la nostra storia e possiamo decidere se conoscerla e farla conoscere, se
farla diventare un punto di partenza per la nostra ricostruzione, materia di
studio e di gratificazione per la nostra nuova vita.
Il
convegno a cui dovrei partecipare ha come titolo “Il virus delle gioie
corte”. Credo che si tratti di quel virus che ci contagia quando ci si abitua
a raggiungere piaceri immediati, confondendoli con gratificazioni o meriti che
una vita improntata su un progetto possono portarci.
Da
parte mia, ho sempre avuto difficoltà ad uscire dalla normalità in modo
normale. Intendo dire che non sono mai riuscito ad unire fantasia, progetti e
realtà per potere allargare i miei limiti e superarli nella realtà comune.
Usavo quelle “gioie corte”, a me così congeniali, che mi portavano ad
illudermi di essere, appagandomi nell’immediato e allontanandomi dalla
possibilità di stare nelle regole. Le regole mie le creavo io, giocando gran
parte delle volte fuori campo, oltre i limiti.
Noi
e il “virus delle gioie corte”
Sono
cresciuto elaborando in solitudine le sensazioni, le emozioni e i comportamenti
che mi circondavano; ciò mi ha limitato enormemente, rendendomi facile preda
del virus
di Alessandro Crisafulli, Gruppo della Trasgressione
Noi
del Gruppo della Trasgressione siamo consapevoli della difficoltà delle domande
che ci poniamo. Ma siamo anche consci di quanto sia importante affrontarle per
cercare, con umiltà e partendo dalle nostre singole storie, il nutrimento per
evolverci.
Questo
cammino è irto di ostacoli, di fili scoperti che versano ancora materia:
dobbiamo cercare di confrontarci con le nostre paure, i nostri sensi di colpa, i
nostri fallimenti e, soprattutto, con il dolore causato ai familiari delle
vittime. La consapevolezza oggi acquisita che, a distanza di un ventennio dai
miei ignobili atti, ci sono persone che soffrono ancora a causa mia, mi impone
di non essere passivo di fronte al dolore e di cercare di riequilibrare, almeno
parzialmente, la bilancia delle mie azioni.
Questo
è possibile soprattutto grazie al Gruppo della Trasgressione, il cui scopo è
appunto dare “nutrimento” a chi, per i motivi più disparati, non l’ha
ricevuto nell’infanzia, stimolando così l’autostima, il senso critico, le
potenzialità costruttive rimaste allo stato latente, il senso di appartenenza e
il senso del limite, vissuto finalmente non come un’imposizione ma come una
condizione di protezione.
Tutto
ciò ha anche la finalità concreta di portare la nostra storia e il nostro
recupero principalmente ai giovani deviati, i quali vivono la prima e pericolosa
fase in cui il “virus”, subdolamente, si insinua.
Penso
che il virus della devianza trovi terreno fertile soprattutto negli ambienti in
cui la sottocultura non consente di comprendere le problematiche che si creano
nelle menti dei bambini. Credo che ogni bimbo nasca con una voglia insaziabile
di vita, una voglia che può essere supportata e accompagnata oppure bloccata e
mortificata. Credo perciò che, se questo istinto non viene da una parte
protetto e dall’altra guidato sin dall’inizio, le azioni future che il bimbo
metterà in atto, molto probabilmente, non saranno indirizzate verso la
convivenza civile. Il compito dei genitori è molto impegnativo e quando non si
è maturi per tale ruolo, i disastri che possono derivarne sono enormi.
Purtroppo
nella mia infanzia mi è mancato un punto di riferimento: mio padre era spesso
assente e, anche quando c’era, non comunicava; mia madre, povera donna, non
aveva gli strumenti per sopperire a tale mancanza, era frustrata e infelice e a
stento riusciva a mantenere il suo equilibrio. E così sono cresciuto elaborando
in solitudine le sensazioni, le emozioni e i comportamenti che mi circondavano;
ciò mi ha limitato enormemente, rendendomi facile preda del virus.
Quando
manca una relazione diventa difficile evolversi: ci si chiude in se stessi e si
arresta il processo di una crescita positiva. Sopravvivere diventa un’impresa,
impari a contare solo sulle tue forze, a leccarti le ferite emotive in un angolo
(un po’ per vergogna e forse perché inizi a credere di essere
“sbagliato”) e aspetti che il tempo ti offra l’occasione per il tuo
“riscatto”. Cresci senza regole, hai difficoltà ad assimilare quei principi
che portano a vivere civilmente in una comunità: rispetto verso gli altri,
tolleranza, senso dello Stato. In questo modo ti senti in diritto di fare ciò
che vuoi e calpesti tutto quello che ti ostacola. Finché un giorno sarai
violentemente fermato (con la morte o con la galera) e in quel momento tutto il
tuo pseudo mondo si frantumerà.
A
questo punto la situazione è critica: il virus è ben radicato e le condizioni
per estirparlo sono pressoché inesistenti. Qui è necessario che le istituzioni
entrino in gioco con autorevolezza per riportare vita dove giacciono le macerie
del passato criminale. Certo non è semplice, sono necessarie persone sensibili
e competenti, in grado di svolgere la funzione di guida e di fungere da modelli
positivi.
Naturalmente,
il presupposto fondamentale è che il detenuto abbia maturato la consapevolezza
del male causato: solo così è possibile una lenta risalita dagli abissi. Ma è
altrettanto necessario che chi incarna la funzione di guida creda fermamente che
ogni uomo, se ha il giusto nutrimento, può evolversi e ricomporre i pezzi di un
mosaico male assemblato.
Credo
che questo sia possibile tanto più quanto prima si interviene sulla persona e,
ancora meglio, quando il “mosaico” è in fase di formazione. Si sa, i
giovani rappresentano il futuro, favorirne una buona evoluzione è il bene più
grande che la società possa dare a se stessa.
Per
noi membri del Gruppo della Trasgressione è gratificante dare un contributo in
tal senso, portando la nostra testimonianza sugli effetti devastanti che produce
il virus. Come il mito di Sisifo insegna, non c’è punizione peggiore per un
uomo che sentirsi inutile.
Ci
sono delle microscelte assai gravide di conseguenze
Le
persone non iniziano a fare le rapine in banca a 12 anni; di solito, anche se
non sempre, si comincia dai piccoli furti
di
Juri Angelo Aparo
Quanto
una persona è consapevole e libera di fare quel che fa?
Come
si giunge a compiere certe scelte piuttosto che altre?
Quali
sono le condizioni che portano a certi comportamenti?
Quale
percorso ha portato chi sta in carcere a compiere un reato o chi sta fuori a
scelte auto afflittive come quelle che portano all’anoressia?
Il
tema della scelta è oggetto dell’attenzione dei filosofi da sempre.
A
volte le cose accadono senza che l’uomo debba scegliere quale direzione
imprimere alle cose, Più spesso succede che siamo chiamati ad assumere una
specifica posizione, a optare per questo o quello…
Il
tema delle scelte non sembra molto rilevante quando tutto funziona bene.
D’altra parte, non facciamo caso al nostro cuore e al suo funzionamento quando
non ci sono problemi. Quando il cuore inizia ad avere qualcosa che non va,
invece, ce ne accorgiamo; parimenti quando ci troviamo di fronte alle
conseguenze negative delle nostre scelte passate siamo motivati a interrogarci
sull’importanza delle decisioni che all’epoca ci erano parse irrilevanti…
La
mia esigenza di parlare della scelta nasce dopo una ventina d’anni di
esperienza in carcere, nel corso della quale avevo già constatato mille volte
che per i detenuti con i quali parlavo:
era
facile identificare alcuni momenti o scelte cruciali che avevano comportato
prima il reato, poi l’arresto e la condanna;
ma
era difficile identificare come a quelle scelte determinanti erano giunti
nel tempo… Possiamo dividere le nostre scelte in due categorie:
le
MICROSCELTE sono scelte che danno l’impressione di essere piccole e di
poca importanza, in particolare danno l’impressione che non portino a
nessuna conseguenza e che si faccia sempre in tempo a cambiare direzione;
le
MACROSCELTE sono invece quelle in corrispondenza delle quali abbiamo
l’impressione di poter e/o dovere determinare il corso della nostra vita.
Le macroscelte possono essere la conclusione di un percorso graduale
compiuto consapevolmente dall’individuo, oppure può succedere che le
persone si sentano costrette a dover compiere una macroscelta a seguito di
un percorso nebuloso di cui non si è del tutto consapevoli.
Cercare
le risposte a questa domanda all’interno del carcere non significa “studiare
i detenuti”, bensì studiare “insieme ai detenuti”,
costruire insieme a loro delle risposte a delle domande che sono comuni a chi
sta dentro e a chi sta fuori dal carcere.
Facciamo
un esempio. C’è una persona che arriva in un prato al di là del quale c’è
un albero di buoni frutti, e per arrivare a questo albero deve attraversare il
prato.
All’inizio
il prato è perfettamente verde, immacolato e quindi la persona ha l’imbarazzo
della scelta: ovunque poggi i piedi, lascia la sua impronta, delle tracce. La
persona che arriva dopo, troverà una parte di queste tracce, mentre una parte
è già stata cancellata dal fatto che l’erba (Poveretta!) ha ripreso ad
alzare la testa. Questa seconda persona, volendo, ha la libertà di fare un
altro tracciato, però, tendenzialmente, ricorre al tracciato che trova davanti
a sé. La terza, la quarta, la diciottesima persona si troveranno davanti un
tracciato così nitido, che verrà loro automatico seguirlo.
Alcuni
studenti si chiedono: anche per esempio se il pedofilo da un certo punto in
avanti smette di essere padrone di quello che fa, ci sarà pure un momento in
cui avrebbe potuto rivolgersi ad un professionista? Nel momento in cui diventa
consapevole delle sue tendenze sessuali perverse, perché non sceglie questo
momento per chiedere aiuto, quando ci sono ancora margini di scelta?
Via
via che si procede, si operano delle scelte, che comportano una selezione ed una
differenziazione tra ciò che si esclude e ciò che rimane ancora possibile.
Quello che hai escluso, non lo puoi più utilizzare. Quello che è possibile è
lì, davanti a te, e verrà ulteriormente ridotto dalle scelte successive.
Questa
cosa vale per tutti, ma nel caso del percorso deviante, diventa particolarmente
importante, drammaticamente importante! Nel caso delle situazioni normali,
quotidiane, non ci accorgiamo neanche delle conseguenze che hanno le nostre
scelte; se anziché andare al cinema, andiamo a teatro o usciamo con gli amici,
cambia poco.
Ma
ci sono delle microscelte assai gravide di conseguenze: le persone non iniziano
a fare le rapine in banca a 12 anni; di solito, anche se non sempre, si comincia
dai piccoli furti.
Questi
furti sono certamente legati a qualcosa. Il ragazzino che commette un furto, di
solito lo commette insieme ad altre persone, e a queste altre persone giunge
magari perché in casa la situazione gli permette di giungere a queste persone,
che sono amici magari un po’ più avanti nell’arte del furto.
Certo
è che una volta che hai commesso il furto, si viene a creare un precedente; di
conseguenza il secondo furto, così come nell’esempio del prato dove ognuno
che passa lascia tracce via via più profonde, susciterà meno resistenze del
primo. Fatti anche il terzo ed il quarto furto, si presenta la possibilità di
alzare la posta, commettendo un furto più grave, magari passando dal furto
dello stereo a quello in un appartamento, con rischi e guadagni maggiori.
È
quasi sempre così! Il bambino di 12 anni ha un momento in cui per esempio i
genitori litigano quel tanto che basta per fargli passare la voglia di rientrare
a casa. In una delle sere in cui non ha voglia di rientrare in casa, va in
piazza dove si viene a creare una piccola comitiva che si diverte a fare
qualcosa di strampalato, magari vedere chi riesce a colpire il lunotto di una
macchina parcheggiata: chi ci riesce è bravo, e si guadagna il consenso e
l’ammirazione degli altri.
La
cognizione, la misura del superamento del confine, la gravità e le implicazioni
di questo superamento sono cose che viaggiano nella nebbia. Il ragazzino lo sa
che sta superando questo confine, perché superarlo è uno dei motivi di
“appetibilità” del suo comportamento. Lo sa bene che sta superando il
confine, ma non ne coglie tutte le implicazioni sociali, morali e ancor meno
coglie la dimensione delle micro e macroscelte.
Non
coglie quelle che saranno le implicazioni, le conseguenze pratiche di questo
primo comportamento deviante. Via via che questi comportamenti balordi si
producono, si apre lo spazio perché ne possano seguire degli altri con minori
resistenze.
Contemporaneamente
vanno riducendosi anche le risorse della persona. Mentre si allarga la
piattaforma sulla quale si collocano le possibili scelte trasgressive,
sull’altro versante, progressivamente si riduce la piattaforma sulla quale si
hanno le scelte costruttive, dell’espressione di sé costruttiva. Se tu affini
le tue competenze nell’aprire le automobili, difficilmente attiverai le tue
competenze nella conoscenza della mitologia ellenica.
È
una questione di investimento emotivo sulle cose! Quello che si vuole dire è
che, progressivamente, la persona, attraverso delle microscelte cui non dà
peso, si porta avanti su una piattaforma dove la gamma delle scelte possibili è
maledettamente ridotta. Questo è tanto più drasticamente vero, quanto più
grave è il comportamento di cui si sta parlando. (…)
Il
“PENSIERO VIGLIACCO” agisce
in ogni essere umano
E
lo fa eliminando la coscienza di un pensiero differente, annientando ogni
contraddittorio che dia origine al dubbio
di
Bruno Turci (prima
appartenente al Gruppo della Trasgressione,
oggi
nella redazione di Ristretti Orizzonti)
Pur
essendomi interrogato molte volte in passato su come io sia potuto riuscire a…
“rovinare la mia vita e quella degli altri…” in maniera così sistematica,
eppure…“ quasi senza accorgermene”, prima di entrare al Gruppo della
Trasgressione, non avevo mai fatto caso a quel demone che avevo dentro e che, al
tavolo delle nostre discussioni, qualcuno ha chiamato “Pensiero Vigliacco”,
giacché si nasconde mentre agisce.
Ho
cominciato a pensarci in maniera tanto più seria quanto più le nostre
riflessioni riguardavano il rapporto con l’altro. Ho cominciato a prendere
confidenza con l’idea che la vita… l’avevo rovinata, sì a me stesso, ma
prima ancora a qualcun altro che non me lo aveva chiesto. D’altronde, se anche
avessi voluto rovinarla solo a me stesso, avrei comunque finito per coinvolgere
anche altri, quanto meno le persone che hanno con me una relazione intima.
Credo
sia opportuno perciò correggere il pensiero su cui m’interrogavo, applicando
nelle giuste proporzioni il diritto di precedenza ai soggetti coinvolti: come
rovinare la vita 1° degli altri e 2° la propria, a poco a poco e quasi senza
rendermene conto.
Credo
che il pensiero vigliacco agisca in maniera più o meno forte in ogni essere
umano, nel senso che ognuno ha un potenziale per fare danni. Fortunatamente la
maggior parte delle persone riesce a evitarlo. Ma come mai alcuni, invece, non
riescono?
La
forza di questo demone che agisce nella nostra mente consiste nella sua abilità
di agire di nascosto, togliendo energia a quel lumicino che ci illumina i
pensieri, soprattutto quelli che riguardano la coscienza delle nostre azioni. In
questo modo riesce a non farsi identificare eliminando qualsiasi altra autorità
che lo contrasti. Rimane solo lui come unico ente di riferimento…
È
la maniera più efficace per nascondersi: eliminare la coscienza di un pensiero
differente, annientare ogni contraddittorio che dia origine al dubbio, ogni
perplessità che ci permetta la scoperta di altre spinte e motivazioni.
Tutto
questo non è per dire che ci si possa assolvere da qualcosa o attenuare le
nostre responsabilità: io resto comunque responsabile delle mie azioni al di là
di ogni scoperta postuma di questo tipo. Per quanto mi riguarda, la maniera
migliore di rendere giustizia alla fatica di questa scoperta consiste
nell’impegno di trasmettere ai giovani la consapevolezza di questo pericolo a
cui siamo tutti esposti, affinché riconoscano gli strumenti con cui difendersi,
soprattutto da se stessi. Questo è, a mio giudizio, un buon modo per restituire
qualcosa di quello che abbiamo tolto.
La
strada che ti fa vivere le emozioni del momento
É
quella delle microscelte che mi hanno fatto crescere con la predisposizione a
scegliere sempre la strada storta, quella piena di curve, quella che mi ha
portato più volte dietro le sbarre, quella che mi ha fatto trascurare gli
affetti più cari
di
Mario di Domenico,
Gruppo della Trasgressione
Ogni
volta che entravo in carcere mi chiedevano se appartenevo a qualche
organizzazione criminale. Rispondevo di no, ma solo oggi cerco di capire quali
sono state le mie appartenenze e perché.
A
otto anni appartenevo sicuramente alla mia famiglia, mi riconoscevo nel suo
nucleo, ubbidivo e mi sentivo coccolato, non conoscevo altro, ed ero trattato e
considerato per l’età che avevo.
Dopo
qualche anno, ho cominciato a frequentare i miei coetanei anche nei pomeriggi
dopo la scuola, e da quel momento la mia appartenenza ha cominciato a
scricchiolare. Non mi riconoscevo più nella mia famiglia, perché loro
pretendevano da me sempre comportamenti seri e responsabili e soprattutto perché:
“Stai zitto, è giusto cosi, hai fatto i compiti? Metti a posto le scarpe, ti
sei lavato le mani? Vai a letto che domani devi andare a scuola”. Solo adesso
mi rendo conto che erano costretti a farlo per la mia troppa esuberanza.
Queste
le cose che mi venivano imposte tutti i giorni. Era quasi diventata
un’ossessione, a tavola la sera si parlava solo di me, se avevo studiato e che
cosa avevo imparato. La maggior parte delle volte costretto a inventare, perché
non avevo neppure aperto il libro e così venivo preso in giro da mio fratello e
dalle mie due cugine diplomate che vivevano a casa mia.
La
mancanza della figura paterna è stata determinante per la mia formazione. Oggi
capisco che la mia povera mamma vedova, stanca di una giornata di lavoro in
fabbrica e dopo aver accudito la casa e preparato la cena, non aveva la fantasia
di spiegare a Mario il perché di tante cose, ed è per questo che Mario non si
sentiva più appartenente alla sua famiglia. Avevo bisogno di essere
riconosciuto, considerato ed apprezzato.
Così
mi è parso che tutto quello di cui avevo bisogno potevo trovarlo nei miei
amici. Mi sentivo importante quando prendevo decisioni e tutti mi ascoltavano.
Questi sono alcuni dei motivi per cui la mia appartenenza è cambiata.
La
compagnia che avevo a dodici anni non commetteva reati da codice penale, ma era
comunque improntata sulla trasgressione: bigiare la scuola, per andare in riva
al lago a sciogliere le barche e farci un mucchio di risate, immaginando la
faccia che avrebbe fatto il padrone di fronte al posto vuoto, senza la sua
barca; rubare le ciliegie, giocare a sassate con la banda dell’altro rione.
Erano
alcune delle microscelte che mi hanno fatto crescere con la predisposizione a
scegliere sempre la strada storta, quella piena di curve, curve che non mi
permettevano di vedere mai il traguardo. È quella la strada che ti fa vivere le
emozioni del momento, senza mai pensare al domani, ma è anche quella, che mi ha
fatto cambiare varie appartenenze, quella che mi ha portato più volte dietro le
sbarre, quella che mi ha fatto trascurare gli affetti più cari.
È
difficile cambiare modo di pensare e invertire la rotta quando le persone alle
quali credi di appartenere scelgono anch’esse la strada piena di curve, quando
non hai tempo per riflettere. Intanto gli anni galoppano, pensi a quando eri
giovane e ti dici “ormai è tardi”!
Dici
a te stesso che non hai alternative, non riesci a vederne attorno, non vedi le
premesse nemmeno per un proposito di cambiamento. Quali mezzi, quali
riferimenti?
È da tempo che coltivo la voglia di essere un cittadino, ma solo durante quest’ultima esperienza carceraria credo di avere iniziato un percorso vero grazie al fatto che sto frequentando un gruppo nel quale il confronto e l’arricchimento culturale sono alla base di tutto; un gruppo al quale mi sento di appartenere, composto da persone che, come me, cercano di ritrovare la strada diritta per dare un senso alla propria vita.