Comunicato
stampa di Lucia Castellano in merito alla sentenza sul caso Cucchi
Il
carcere deve diventare “una casa
di vetro”
I detenuti, i loro familiari si affidano a noi, alle risposte che siamo capaci di dare loro. Non possono fare altro. Se qualcuno (e si tratta di una minoranza) queste risposte non è capace di darle, se non con la violenza e con l’omertà, deve, semplicemente, cambiare lavoro
di Lucia Castellano*
La vicenda tragica della morte di Stefano Cucchi, all’indomani della sentenza di primo grado e proprio nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, mi fa riflettere sul mio lavoro di sempre e sulla sua complessità. Stefano Cucchi è morto perché non adeguatamente curato all’interno dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La Corte d’Assise condanna i medici e gli infermieri per omicidio colposo. Le condizioni in cui versava quel ragazzo esigevano ben altre attenzioni, ben altre cure, che non sono state prestate. Questi i fatti, questo il verdetto, che nessuno mette in discussione. Quello che la sentenza non dice, forse perché è un quesito ultra petitum, è di chi sia la responsabilità per averlo ridotto nello stato in cui tutta l’Italia l’ha visto (ormai, purtroppo, da morto). A questa domanda non c’è risposta. E la mancanza di una risposta getta un’ombra su quell’Amministrazione della Giustizia a cui la Costituzione chiede non solo di prendere in carico le persone private della libertà e di tutelarne i diritti fondamentali, ma addirittura di restituirle migliori, una volta libere. Quest’ombra si estende su tutte le forze dell’ordine e gli operatori penitenziari che ogni giorno lavorano con dedizione per compiere, forse, il più delicato dei servizi alla persona. Questo è inaccettabile. Io spero che si faccia strada, nella cultura istituzionale dell’amministrazione penitenziaria, la consapevolezza che la violenza, la mancanza di trasparenza nella comunicazione agli utenti e ai familiari non sono solo penalmente e amministrativamente rilevanti. Sono anche un fenomenale boomerang per la crescita dell’istituzione e dei suoi operatori. Questa cultura non paga. Il presidente del Dap Nicolò Amato, qualche decennio fa, diceva che il carcere deve diventare una casa di vetro. Così che tutti possano guardare alla fatica, alla delicatezza e alla preziosità del nostro quotidiano lavoro all’interno di quelle mura. Nel 2013 ancora non è così, e questo ci mortifica. I miei venti anni all’interno del carcere mi hanno insegnato che i detenuti, i loro familiari si affidano a noi, alle risposte che siamo capaci di dare loro. Non possono fare altro. Se qualcuno (e si tratta di una minoranza) queste risposte non è capace di darle, se non con la violenza e con l’omertà, deve, semplicemente, cambiare lavoro. Prima che sia troppo tardi. Non è un lavoro per tutti. E quel terribile gesto di alzare il dito medio contro una famiglia che ha perso un figlio affidato alle cure dell’amministrazione, purtroppo, lo dimostra. L’amministrazione penitenziaria, nonostante le assoluzioni, di cui ho il massimo rispetto, rischia di perdere la partita della credibilità, di fronte al Paese. Oggi ci resta un ragazzo morto che qualcuno ha ridotto in fin di vita e qualcun altro non ha curato. Una sentenza che ci dice parte della verità. E un dito medio alzato in Tribunale, bandiera della legge del più forte che, ancora una volta, ha trionfato. Non è questo che vogliamo, credo.
*
Lucia Castellano è Vicepresidente della Commissione Carceri in Regione
Lombardia e ex-direttrice del carcere di Bollate.
La
privazione della libertà non è la fine di tutti i diritti
In
questi giorni il Governo sta disperatamente cercando soluzioni al
sovraffollamento: un anno di tempo è quello che gli ha dato la Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo per riportare nelle carceri la dignità e il rispetto
di chi vi è detenuto, e anche di chi lavora all’interno, ma se non cambierà
nulla la prospettiva è di dover pagare enormi risarcimenti per i danni
prodotti da una detenzione disumana. Speriamo che almeno, se non è l’umanità,
sia la paura delle somme da sborsare a far trovare al nostro Paese la strada
per ridurre drasticamente il sovraffollamento e ridare un senso alle pene. A
sostegno di questa speranza portiamo una sentenza della Corte costituzionale,
un’ordinanza di un Magistrato di Sorveglianza di Padova, la testimonianza di
un detenuto: ma l’idea di base è la stessa, che la persona detenuta resta
comunque una persona, che viene privata della libertà, ma non degli altri
diritti.
La
Corte costituzionale “dà una mano” ai magistrati a far tornare nella
legalità le carceri
di Elton Kalica
“L’estensione
e la portata dei diritti dei detenuti può subire restrizioni di vario
genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia
in carcere. In assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe
unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della
libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost”.
A
dirlo è una nuova sentenza della Corte costituzionale che stabilisce un
principio particolarmente importante per la giurisprudenza penitenziaria.
L’amministrazione penitenziaria tre anni fa aveva disposto che venisse
impedito ai detenuti sottoposti al regime di 41 bis di guardare alcuni canali
televisivi (il regime del 41 bis prevede condizioni di detenzione molto
ristrettive rispetto alla quotidianità del carcere: un colloquio al mese e
una telefonata, corrispondenza censurata, un’ora d’aria e niente contatti
con il resto della popolazione detenuta. Una specie di isolamento prolungato
dove l’unica cosa “libera” è la televisione). Un detenuto aveva fatto
reclamo al magistrato di Sorveglianza, che era intervenuto ordinando
all’Amministrazione penitenziaria il ripristino della possibilità di
assistere ai programmi trasmessi dalle emittenti televisive Rai Sport e Rai
Storia, in quanto il relativo “oscuramento” aveva leso il diritto
soggettivo all’informazione del detenuto medesimo. Ma gli effetti di questa
sentenza potrebbero andare oltre la restituzione ai detenuti della possibilità
di guardare alcuni programmi televisivi. L’aspetto più interessante è il
riconoscimento del dovere che la direzione del carcere ha di dare esecuzione ai
provvedimenti del magistrato di Sorveglianza nel suo ruolo di “tutore” dei
diritti delle persone private della libertà personale.
La
discussione sul potere del magistrato di Sorveglianza non è nuova e ritorna,
specialmente in materia di sovraffollamento, ogni volta che un giudice riconosce
una violazione ma si scontra con la direzione del carcere che prende atto, ma
non rimedia alla violazione. Ecco perché, oltre alla questione del diritto
all’informazione, questa sentenza scioglierà qualche nodo anche in
materia di sovraffollamento. E di nodi ce ne sono tanti. Porto come esempio un
caso concreto.
A
Padova un detenuto ha fatto ricorso denunciando una violazione complessiva
dei propri diritti in quanto condivide una cella di circa 9 mq con altri due
compagni e le condizioni di sovraffollamento rendono tutti i servizi (l’area
dei passeggi, i locali docce, i problemi sanitari con pochi medici in istituto,
le scarse possibilità di lavorare) inadeguati per i detenuti presenti.
Il
magistrato di Sorveglianza di Padova, dopo aver raccolto informazioni sulla
planimetria delle celle e letto le relazioni ispettive dell’ULSS, ha fatto una
visita all’istituto, ha ascoltato anche il detenuto ricorrente. Alla fine
ha accertato l’esistenza di condizioni di detenzione del reclamante tali da
costituire un trattamento inumano nella parte riguardante lo spazio
personale vivibile, in pratica il magistrato ha detto alla direzione del carcere
che ai detenuti non è garantito spazio sufficiente se vivono in tre in una
cella prevista per uno. Quindi ha chiesto l’adozione urgente di misure per
rimediare a questa violazione, specificando che al detenuto dovrebbe essere
garantito uno spazio minimo individuale pari o superiore a 3 mq.
Cosa
farà ora la direzione del carcere? La Corte costituzionale ha appena
affermato il dovere del direttore di attuare il provvedimento del
magistrato. È vero che un conto è dire al direttore di lasciare i detenuti
guardare qualche canale televisivo in più, e un altro è fargli togliere le
brande aggiunte da qualche anno in quasi tutte le celle. Ma la Corte ha
affermato un giusto principio e quello va applicato.
Certo
che mai come questa volta il detto “esagerare, ma con equilibrio” ha avuto
senso: se non “esa geravano” nel voler togliere anche la televisione ai
detenuti sottoposti al regime duro del 41 bis, non ci sarebbe stata questa
sentenza che potrebbe restituire molto di più ai detenuti. E potrebbe anche
mettere ulteriormente alle strette il governo italiano che deve dimostrare
alla Corte europea di aver preso misure concrete per rimediare al
sovraffollamento carcerario. Altrimenti rischia di vedersi piombare addosso
una cascata di condanne che per il momento sono state solo congelate.
Se
calpestano i miei diritti, come io ho calpestato quelli degli altri, qual è la
differenza fra me e loro?
di
Lorenzo Sciacca,
redazione di Ristretti Orizzonti
È
impressionante come il carcere possa
cambiare una persona, e troppo spesso non in una persona migliore, ma peggiore
di quanto può essere già di suo l’essere umano. Noi che siamo detenuti
dovremmo partire assumendoci la nostra responsabilità per le nostre azioni,
ma se voglio tentare di spiegare l’odio che invece si prova qui dentro per
le istituzioni, devo cominciare a cercare all’interno di loro stesse.
Quello
che più mi ferisce, guardandomi attorno, è la presenza di molti giovani.
Osservandoli so già definire il loro futuro, conosco questi posti e vedo
quello che possono produrre. A volte mi chiedo se non siano proprio le
istituzioni a volerci far diventare quello che siamo, per poter mandar avanti
un loro perverso piano. Ovviamente non è così, però è vero che si parla
tanto del reinserimento dei giovani nella società, ma non si riesce a proporre
qualcosa di concreto. Possiamo fare tante discussioni, confrontarci su questi
temi con le persone competenti, direttori, educatori, psicologi, magistrati,
ma il problema rischia di incrementarsi sempre di più per le condizioni di
sovraffollamento. Io stesso sono stato un diciottenne carcerato e mi sono imbattuto
in questa realtà. Da allora ad oggi (19 anni) le cose sono peggiorate. Cosa
succede a un giovane quando entra in carcere? Una volta fatta la visita medica
di primo ingresso, in cui la domanda primaria è se ha bisogno di farmaci per
dormire, si fa un colloquio con l’educatrice e uno con lo psicologo, e poi
spesso, per mancanza di personale e di opportunità per tutti, si viene
abbandonati al proprio destino. Capisco il sovraffollamento, le difficoltà
economiche per poter integrare altro personale, i pesanti tagli che ogni anno
vengono fatti alle risorse disponibili nonostante la gente sia sempre di più,
ma non giustifico il menefreghismo in particolare nei confronti dei giovani
che dovrebbero essere aiutati a tornare a diventare parte integrante nella
società. Il futuro del Paese sono i giovani, questa frase si sente dire dai
politici solo per opportunismo, e invece spesso si tagliano fuori dalla società
ragazzi che potrebbero essere recuperati e credere in un futuro migliore.
Nella
mia esperienza, ho girato parecchie carceri e il problema l’ho sempre
trovato, anche se in alcune carceri forse viene affrontato in maniera più
responsabile, si cerca di avere un contatto più frequente tra operatori e
detenuti, si dà più spazio per quanto riguarda il lavoro e i corsi in cui un
giovane può scoprire passioni o imparare un mestiere. Sono stato nel carcere di
Torino, all’interno c’è una comunità, Arcobaleno, dove si prova a fare
qualcosa di diverso soprattutto per i tossicodipendenti, con persone
competenti, dunque in grado di ascoltare i problemi che inducono un ragazzo a
drogarsi e commettere reati. Finito il programma, ti aiutano a proseguire al
di fuori un percorso lavorativo attraverso una misura alternativa.
Da
pochi mesi mi trovo nel carcere di Padova, e faccio parte della redazione di
Ristretti Orizzonti. All’interno del carcere c’è la possibilità di
frequentare scuole medie, superiori, polo universitario e vari corsi, o di
lavorare nei laboratori interni, ma voglio ricordare che queste belle
opportunità non sono per tutti. Penso ai miei compagni che questa possibilità
di fare un percorso di cambiamento non l’avranno mai. Nelle sezioni vedo
giornalmente gli sguardi di uomini vagare nello sconforto, lamentarsi della
mancanza di educatori, di un sostegno da parte di psicologi e molto altro, ma
sempre tra di noi, perché protestare, anche se con una forma pacifica,
comporterebbe farsi mettere l’etichetta del rompiscatole e non riuscire ad
ottenere il riconoscimento dei propri diritti.
In
una società, civile come la nostra, questi diritti non dovrebbero essere
calpestati, perché se no dov’è la civiltà? Abbiamo commesso degli errori
e per quanto mi riguarda ho anche persistito nel commetterli, ma se la società
attraverso le sue istituzioni si comporta come mi sono comportato io,
calpestando i miei diritti come io ho calpestato quelli degli altri, qual è la
differenza fra me e loro? Paghiamo i nostri errori e dobbiamo accettarlo con
responsabilità, ma non siamo uno scarto di una società che vuole apparire civile.
A
proposito del decreto legge messo a punto dal Ministro della Giustizia
Cancellieri
IL
TERMINE “SVUOTACARCERI” È FUORVIANTE
“Il
termine svuota-carceri è fuorviante. Pare l’annuncio funebre per lo
svuotamento di una discarica umana. Il messaggio che arriva è: cari italiani,
metteremo in libertà qualunque mascalzone e via. Io credo invece che ciò che
il ministro della Giustizia voglia fare abbia contenuti molto diversi. Niente accadrà
per chi ha condanne per delitti gravi: terrorismo, mafia, traffico di droga,
violenza sessuale di gruppo”: queste
sono parole della direttrice del carcere di San Vittore, Gloria Manzelli,
utili per capire che cosa succederà davvero con questo decreto appena approvato
per far fronte al sovraffollamento delle carceri. “Svuotacarceri”, “Salvacarceri”,
“Sfollacarceri” non sono definizioni adeguate, si tratta di provvedimenti
che possono far uscire prima i tossicodipendenti e rendere un po’ meno
difficile l’accesso alle misure alternative al carcere a chi sta scontando
la parte finale della pena.
La
direzione in cui va questo decreto è quella giusta, ridare un senso alla
pena, renderla meno inutile e dannosa, e le testimonianze dei detenuti
spiegano che cos’è invece una pena, che piuttosto che responsabilizzare
incattivisce.
Però
i numeri del sovraffollamento sono tali, che questo decreto è solo un piccolo
inizio: fa una cosa buona, perché mette mano a una delle leggi più “carcerogene”,
la ex Cirielli, ma è ancora davvero troppo POCO.
In
Italia 66000 persone invidiano gli animali per lo spazio e le condizioni di vita
che hanno
di
Clirim Bitri,
redazione di Ristretti Orizzonti
Carcere!
Ultimamente si parla molto delle condizioni in cui viviamo o per meglio dire
sopravviviamo noi detenuti nelle carceri italiane. Io sono straniero e
potrei non capire bene, ma da quando mi trovo in carcere (2009) hanno fatto
almeno due decreti soprannominati dalla stampa “svuotacarceri”, e
credetemi la situazione è rimasta sempre quasi uguale. Molte volte l’Italia
è stata condannata dalla Corte Europea per lo stato delle sue carceri, ma oltre
alle promesse non ha fatto molto per cambiare la situazione e le condizioni in
cui vivono i “cattivi”. Se fosse giudicata com’è giudicato uno di noi,
l’Italia sarebbe considerata un pluripregiudicato, recidivo, in parole
povere da “metterla in galera e buttare via la chiave”.
Il
Presidente Napolitano, Papa Francesco e molti senatori e deputati, appena
finita la loro visita in qualche carcere, hanno chiesto di trovare una soluzione
a questo problema, perché non è accettabile che gli esseri umani possano
essere trattati in questa maniera, ma con tutti i problemi che i politici
devono affrontare, per riparlarne si deve aspettare forse la prossima condanna
della Corte Europea.
Da
quando faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti e ho incontrato
migliaia di studenti, diversi parlamentari e giornalisti, mi ha meravigliato
che la maggior parte di loro, alla domanda classica del fine incontro “cosa
vi ha colpito di più di questa esperienza?”, rispondevano “voi, le vostre
facce”. All’inizio non li capivo, non capivo cosa loro si aspettassero di
trovare. Ma poi ho capito, tutto potevano aspettarsi ma non di trovare in
carcere persone come loro, persone che non erano solo il reato che avevano
commesso, ma avevano avuto un passato simile al loro, e con tanta fatica e
sofferenza cercavano di costruire un futuro. Un giorno la direttrice del
nostro giornale ci ha detto che “fuori le persone sono più preparate a
ricevere una telefonata che dice che un loro caro è morto in un incidente,
piuttosto che ricevere la notizia che l’hanno arrestato e portato in
carcere”, questa considerazione mi ha riportato alla mente le prime parole di
mio padre quando l’ho chiamato dal carcere, “tutto potevo aspettarmi da
te, ma che tu finissi in carcere, questo proprio no”. Come qui in Italia,
anche in Albania c’è quasi la stessa mentalità, è più facile accettare
la morte di un famigliare che vederlo in carcere. Questo è frutto di una
propaganda e una disinformazione dell’opinione pubblica in materia, a
volte creata volutamente.
Non
so se volutamente sono state riempite le prime pagine dei giornali, e si è
parlato per settimane intere sui telegiornali di reati che le statistiche dicono
che non stanno affatto aumentando. Non so se volutamente qualche governo,
sull’onda di questa propaganda, ha fatto delle leggi che in qualche maniera
l’hanno aiutato a vincere le elezioni in nome della sicurezza. Credo solo che
si sia fatta la scelta sbagliata. Io che di scelte sbagliate ho qualche
conoscenza, vi posso dire che il primo passo verso un radicale cambiamento è
ammettere di aver fatto la scelta sbagliata.
Spero
che sia finito il tempo di quel legislatore moralista, che chiudeva in cella
ladri d’appartamento e piccoli truffatori e “buttava via la chiave”,
ma lasciava impuniti quelli che rubavano milioni, rovinando la vita a migliaia
di persone.
Credo
che dimostrarsi più cattivo con i “cattivi”, non vuol dire essere buono.
Spero
che i nuovi parlamentari abbiano il coraggio di fare la scelta giusta. In
questi giorni l’Italia ha partecipato al G 8, dove si decidono i destini del
mondo, e credo che non si possa permettere più che all’interno del suo
territorio ci siano quasi 66000 persone che invidiano gli animali, per lo
spazio e le condizioni di vita che hanno.
Paura
di trovare un mondo ostile
di
Sofiane Madsiss,
redazione di Ristretti Orizzonti
Tante
volte mi guardo allo specchio e mi viene una domanda: quale sarà il mio futuro?
che progetto di vita ho? sembra facile immaginare qualcosa, sognare, lavorare
con la fantasia, ma non lo è affatto per me, che devo passare una bella fetta
della mia vita qui in carcere. Certo so che non soltanto per me è difficile
pensare a un futuro così remoto, perché l’incognita del futuro è un
tratto che oggi più che mai ci accumuna tutti, e l’incertezza di quello che
succederà domani è purtroppo, in tempi di crisi, una cosa che abbatte i muri e
ci rende simili, liberi o detenuti.
Allora
cosa mi aspetto dal domani? non lo so, perché dopo tanti anni di detenzione
avrò paura di trovare un mondo cambiato, ostile, e di scoprirmi inadeguato ad
affrontare l’ebbrezza della libertà e del “non controllo”.
Qui
nella redazione di Ristretti Orizzonti facciamo tanti incontri con gli studenti,
e una delle domande che più spesso ci fanno è qual è il nostro progetto per
il futuro. Una persona in libertà che fa una vita tranquilla cerca sempre di
immaginare il suo futuro, e prova a realizzarlo, ma non è detto che riuscirà a
ottenere quello che desidera, immaginate un detenuto che deve scontare una
pena lunga dieci o quindici o venti anni, che progetto potrebbe avere? in carcere
ci concedono solo sei ore di colloquio al mese con i famigliari, io non so come
si possono rafforzare gli affetti in cosi poco tempo. Come si può far
continuare un amore che durava prima da tanti anni dedicandogli solo una manciata
di ore? In più abbiamo una telefonata di dieci minuti alla settimana, anche
questa non risolve niente, e allora mi viene in mente una domanda: chi mi
aspetterà domani? E questa domanda mi provoca un’ansia che mi tiene sveglio
di notte e mi incalza di giorno, l’ansia del “che ne sarà di me dopo il
carcere” che qualche volta mi paralizza.
Io
sono un extracomunitario ma vivo qui in Italia da venti anni e dopo aver
scontato una pena di diciotto anni alla fine dovrei avere l’espulsione
immediata, che prospettive ho allora nel futuro? dopo più di trent’anni di
immigrazione vivendo qui come straniero, se torno nel mio Paese penso, anzi
sono sicuro che mi sentirò più straniero che nel vostro Paese.
La
vita in carcere inghiotte i giorni uno dopo l’altro, tutti simili, passano
con velocità vertiginosa, ieri e l’altro ieri sono eguali, non si può
distinguere un fatto avvenuto tre giorni o venti o un anno prima, finisce per
sembrare tutto ugualmente lontano, cosi si svolge la fuga del tempo. È come
se il tempo ci sfuggisse di mano, e tutto questo perché manca un programma di
rieducazione per essere inseriti nella società e diventare utili in futuro.
Il futuro è anche frutto del passato, ma se il passato è fatto di carcere
senza che l’istituzione ci aiuti con un percorso verso la libertà, per me
non c’è futuro e rispetto alla mia vita fino a qui potrei avere soltanto un
senso di fallimento.
Io cerco di guardare sempre il bicchiere mezzo pieno, e non perdo mai la speranza e la fiducia nelle istituzioni. Però credo che con il problema del sovraffollamento, se tante persone detenute non fanno niente dalla mattina alla sera, quando saranno libere il loro futuro sarà peggiore del loro passato, e loro incattivite e arrabbiate torneranno forse a fare quello che facevano prima. Ecco perché è così importante che non stiano in carcere le persone che hanno pene brevi o problemi di tossicodipendenza, e per quelli come me, che ci devono stare parecchi anni, ci sia la possibilità di impegnarsi a fare qualcosa di utile e avere più tempo per incontrare le nostre famiglie.