Studenti che pensano al carcere con occhi nuovi, liberi dai pregiudizi

 

Un progetto che ha coinvolto più di 6000 studenti delle scuole di Padova e di molte città del Veneto, 150 incontri con detenuti, ex detenuti, magistrati, operatori, nelle classi (260 classi hanno partecipato) e poi in carcere, organizzati dalla redazione della rivista del carcere, Ristretti Orizzonti, con il sostegno del Comune di Padova e della Casa di reclusione: ma i numeri non bastano a spiegare il senso e l’importanza del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, che si è concluso di recente in un cinema gremito di ragazzi. Forse meglio di tutto quel senso lo spiegano i testi con cui quattro studenti hanno vinto il concorso di scrittura collegato al progetto, due per le medie inferiori, due per le superiori.

 

Quelli che seguono sono i testi che hanno vinto il primo e il secondo premio del concorso di scrittura per le Scuole Medie Inferiori:

 

Anch’io stavo iniziando a prendere cattive abitudini

 

di Kevin Deffogang, 3aB Scuola media Falconetto, Padova

 

Caro Rachid, mi chiamo Kevin e frequento la scuola media Falconetto. Martedì 9 aprile ho potuto ascol­tarti mentre parlavi della tua storia e del perché sei finito in carcere.

Tra le tante storie la tua è stata quella che mi ha colpito di più per due motivi:

1) perché l’avevamo già letta in classe, in un articolo del vostro giornale, e quindi è stato molto più coinvolgente sentirla racconta­ta da te,

2) perché mi ha spinto a riflettere sul fatto che tu sia partito da pic­cole abitudini negative prima di arrivare a compiere il reato.

Il secondo motivo è quello che mi ha spinto a riflettere su me stesso.

Anch’io stavo iniziando a prendere cattive abitudini che però dopo il tuo incontro sto cercando di eli­minare. La più pericolosa è quella di non rispettare il codice stradale mentre vado in bici, e questo mio mancato rispetto del codice è do­vuto alla “filosofia scatto fisso” (le scatto fisso sono bici con le quali devi pedalare sempre, sennò la bici frena). Perciò io, siccome non voglio frenare la mia corsa a cau­sa di ostacoli (semafori, macchine, dare la precedenza), cerco sempre di aggirarli compiendo azioni che vanno assolutamente contro il co­dice stradale. Il brutto di queste azioni non è il fatto che io possa causare gravi incidenti, ma che esse mi diano una sensazione di libertà che mi spinge a compierle ancora e ancora. Così come a te il coltellino dava una sensazione di forza e di superiorità rispetto agli altri, e quindi per provocare queste sensazioni decidesti di portartelo sempre dietro.

Rachid, la tua storia mi è stata mol­to di aiuto perché non so dove o come sarei finito continuando ad avere queste cattive abitudini. La parte che mi ha colpito di più è stata la descrizione del momento in cui eri latitante in Francia. Ciò mi ha fatto capire quanto difficile sia vivere da “fuorilegge”; con la paura di essere catturato 24 ore su 24, con il sospetto verso qua­lunque persona tu veda. Queste sono, secondo me, le cause della perdita della propria vita sociale. Non ha senso scappare tutta la vita per provare queste emozioni, tan­to vale farsi arrestare, scontare la propria pena, uscire e godersi quel che ti resta da vivere.

Infine questo incontro mi ha co­stretto a riflettere sul fatto che voi carcerati siete persone normali, che hanno sbagliato commetten­do errori, molto più gravi rispetto ad altri. Ma almeno voi vi pentite ogni giorno di quello che avete fatto, a differenza di altra gente, qua fuori, che sbaglia e se ne frega. Prima di incontrarvi io sinceramen­te non avevo nessuna aspettativa, zero emozioni, ma voi siete riusciti a mostrarmi la “retta via”.

Rachid sono molto felice di averti incontrato e spero di rivederti ancora, ma da uomo libero.

 

 

Mi avete mostrato che “carcerato”NON VUOL DIRE “ALIENO”

 

di Lucia Cortesi, 3^B Scuola media Falconetto, Padova

 

Caro Andrea, mi chiamo Lucia, ho tredici anni, frequento la scuola Falconetto e come sport pratico la canoa ca­nadese. Sono ancora piccola, ma spesso mi pongo domande sul fu­turo. Come sarò? Che lavoro farò? Mi sposerò? Tu te lo chiedevi mai?

Un paio di settimane fa abbiamo visto in classe il tuo video, e ci ho molto riflettuto. Quando prendevi la prima dose di eroina, non pen­savi alla tua vita? Non pensavi ai tuoi sogni?

Durante l’incontro con i tuoi com­pagni ho capito davvero che può capitare a chiunque un’esperienza come la tua. Spesso noi ragazzi preferiamo vedervi come perso­ne lontane, ma dopo l’incontro ho sentito che non è così. Il modo che hanno Dritan e Paola di parla­re dei loro figli mi ha commossa perché hanno mostrato che “car­cerato” non vuol dire “alieno”. Tutti in fondo sbagliamo perché, come si dice, “errare è umano”, e sia che gli errori siano grandi sia che siano piccoli, la cosa importante è capire che si è sbagliato e ammetterlo.

All’inizio ti ho scritto che faccio canoa canadese. Molto probabil­mente non sai cos’è, ma ti basti sapere che è uno sport che si basa sull’equilibrio. La bravura del ca­noista sta nel trovare la posizio­ne corretta per non sbilanciarsi e, nel caso accada di cadere, la pri­ma cosa da fare è girare la barca in modo che non affondi. Ti dico queste cose perché penso che la vita sia proprio questo: un viag­gio in barca alla ricerca di se stessi, del proprio equilibrio. Per quanto riguarda le cadute in acqua sono come gli errori: o giri subito la bar­ca in modo che non affondi e che tu ci possa risalire, o sarà sempre più difficile.

Sentendo le tue parole e quelle degli altri carcerati sono rimasta molto colpita dai tanti pregiudizi che abbiamo noi ragazzi nei vo­stri confronti. Se chiedessi a qua­lunque bambino di disegnare un carcerato sono sicura che avrebbe come minimo una catena alla cavi­glia e una faccia cattiva.

Eppure voi siete come noi.

Per quanto mi riguarda dopo que­sta esperienza del progetto non credo riuscirò più a guardare dal­lo stesso punto di vista di prima i film gialli, e proprio su questo vo­levo chiederti: dopo essere anda­to in carcere hai più visto un film poliziesco? Se sì, che effetto ti ha fatto? L’altro giorno, con alcuni compagni cercavamo di immagi­narci un carcerato che guarda alla televisione un telefilm poliziesco e provavamo a pensare a come do­veva essere. Tu lo hai provato?

Nel video hai raccontato di aver iniziato tutto con la sigaretta per poi passare alla droga. So che al drogarsi si arriva dalle piccole tra­sgressioni, ma quello che ci hai raccontato sulla tua infanzia mi è molto familiare, perché molti miei amici fumano. Come ho detto pri­ma, noi ragazzi abbiamo un’idea su di voi basata solo su pregiudi­zi del tipo “avrà avuto un’infanzia difficile”, o “avrà avuto una fami­glia difficile”, eppure voi mi avete dimostrato il contrario, mostran­domi che anche la persona più in­sospettabile può cadere in acqua.

Per tutte queste riflessioni che mi avete fatto fare voglio ringraziare te e i tuoi compagni, perché pen­so che anche se non cambierà molto la mia futura scelta, mi farà comunque riflettere sulle conse­guenze.

Buon viaggio in barca.

Lucia

 

 

Quelli che seguono sono i testi che hanno vinto il primo e il secondo premio del concorso di scrittura per le Scuole Medie Superiori

 

 

Dialogo immaginario tra due ragazze che hanno incontrato la Redazione di Ristretti Orizzonti

 

di Sara Guerriero, classe 5^I , liceo delle Scienze umane Duca d’Aosta, Padova

 

“Certo che questi detenuti se le vanno proprio a cercare, eh!”

“Ma cosa stai dicendo? Hai sen­tito le storie che hanno racconta­to? Secondo te è colpa di Carmelo se è nato in una famiglia in cui non ha ricevuto alcuna forma di affet­to?”.

“Secondo me sono tutte scuse per non prendersi le proprie respon­sabilità. Non mi fanno pena. Se rubi, vai in carcere. Punto. Se ucci­di poi… dovrebbero rinchiuderti e buttare via la chiave!”.

“Non devono farti pena infatti. Dovresti solo provare un briciolo di empatia. Emma, ora ti chiedo… perché tu non sei in carcere?”.

“Che razza di domanda sarebbe? Non sono in carcere perché non ho commesso alcun reato”.

“E perché non hai commesso al­cun reato? Sei forse nata in una fa­miglia povera? Sei cresciuta in un ambiente in cui la delinquenza era la routine? Hai mai subito violenze da parte dei tuoi familiari? Nella tua famiglia ci sono persone che hanno problemi gravi e per questo sei costretta ad assumere farmaci a causa di un’instabilità psicologi­ca?”.

“È inutile che continui così. Ho ca­pito dove vuoi arrivare, ma non mi farai cambiare idea”.

“Questo è il nostro problema: la chiusura mentale, l’egocentrismo. Se io vivo serenamente, non ho bisogno di alzare lo sguardo per conoscere altre realtà. Io sono nel giusto e ho i miei diritti. Se tu ti droghi vai in galera, senza vie di mezzo, senza scuse. E l’articolo 27 della nostra Costituzione potreb­be anche non esistere”.

“Adesso ti improvvisi anche avvo­cato, Sara?”

“No, cerco solo di tirarti fuori un qualche infimo represso istinto di umanità”.

“Sì, eccola la santarellina! E di Mar­co cosa mi dici? È un tossicodipen­dente! Cosa c’era che non andava nella sua storia?”

“Gli incontri sbagliati. Chi cerca la droga è insoddisfatto affettiva­mente, altrimenti non si rifuge­rebbe nella tossicodipendenza. C’è sempre una grande sofferenza dietro a un detenuto. È questo che non capisci. Vedi tutto in modo così rigido, ma non puoi permet­terti di giudicare chi non conosci.”

“Bene, allora lasciamoli tutti liberi! Viviamo in un mondo di assassini, ladri, stupratori, mafiosi, tossicodi­pendenti e criminali… Cosa vuoi che sia? Poverini, non hanno fatto niente, non è colpa loro! È questo che mi stai dicendo, no?”

“Certo che no. Chi ha commesso un crimine deve pagare. Ma non deve rimetterci la propria esistenza, vi­vendo in una realtà carceraria pie­na di disagi, che non rieduca, che non ascolta. Tra coloro che scon­tano in carcere la propria pena, appena il poco più del 20% non ricade nella delinquenza. È come dare una sberla a un bambino per­ché ha detto una parolaccia. Non gli hai insegnato ad utilizzare altre parole, hai solo fatto in modo che non ricommetta lo stesso errore per la paura di essere nuovamente punito. Cosa ha imparato? A non dire le parolacce in tua presenza! Appena esci di casa, le ripete agli amici. Allo stesso modo, un carce­rato come può capire il suo errore se lo si rinchiude ventiquattro ore al giorno in una cella senza far nul­la? Io sinceramente darei di matto e, una volta scarcerata, vorrei solo vendicarmi per la tortura subita. Ma indubbiamente questa volta cercherei di non farmi scoprire”.

“E un uomo che arriva a fare del male a moglie e figli? Ulderico non doveva finire in carcere secondo te?”.

“A volte penso che dovrebbe es­sere la società a finire in carcere. La società intesa come tutte quel­le ingiustizie e sofferenze che ci portano ad avere come obiettivo la sopravvivenza anziché la vita. Ulderico ha conosciuto la depres­sione, una malattia di cui anche la società è responsabile. Ti auguro di non provarla mai”.

“Dimmi una cosa, Sara. Se un uomo facesse del male alla tua fa­miglia, ti piacerebbe vederlo girare liberamente per la città? O faresti di tutto perché venisse arrestato?”.

“Ovviamente vorrei che fosse arre­stato, ma non per questo dovreb­be marcire tutta la vita in carcere. Le carceri ti soffocano, ti rendono peggiore. Non sempre, ma spesso. E adesso posso farti io una doman­da? Se tuo padre venisse arrestato per un qualsiasi reato, vorresti che vivesse in terribili condizioni di so­vraffollamento, lontano dai suoi affetti, chiuso in una cella, privato di ogni forma di umanità?”

“A mio padre non potrebbe mai capitare”.

“Ah già, dimenticavo che noi siamo le persone normali, giuste, la razza ariana. I detenuti invece sono be­stie, gli ebrei di razza inferiore. Non è possibile che i nostri due mondi si incontrino. Siamo così diversi! Dico bene? Ma dove credi di vi­vere?! Nell’Empireo insieme all’Al­tissimo Onnipotente? Tu non sei perfetta. Nessuno lo è”.

“Io lo sono più di loro sicuramen­te”.

“Siamo tutti esseri umani”.

“Cosa c’è di umano in un assassi­no?”

“Gli errori”.

“Un errore è voltare le spalle a un amico, ma per questo non si va in galera”.

“Un errore è credere di poter risol­vere le cose pugnalando tua mo­glie. Un errore è pensare di non farcela da solo, affidandoti ad una compagnia di spacciatori. Un erro­re è credere che tutto quello che fa tuo padre sia giusto, quindi se lui ruba, puoi farlo anche tu. Ma il peggiore di tutti gli errori è per­mettersi il lusso di giudicare. Non parlare di ciò che non conosci”.

“E tu da quand’è che conosci un detenuto, scusa?”.

“Da quando abbiamo incontrato i detenuti che fanno parte della Redazione di “Ristretti Orizzonti”. Li ho guardati negli occhi uno ad uno. Ho ascoltato il loro dolore. Ho vissuto virtualmente le loro storie. Mi sono commossa, perché io non so se avrei trovato la forza di an­dare avanti. Li ho accolti con occhi nuovi, libera dai pregiudizi. C’eri anche tu durante quell’incontro, ma non hai fatto altro che ripetere di essere spaventata perché uno di loro avrebbe potuto farti del male.”

“E perché non dovevo avere pau­ra? Erano carcerati!”.

“Sinceramente mi fai molta più paura tu. La tua chiusura mentale mi disgusta più di qualunque cri­mine. Non lasci spazio a nessun raggio di speranza, ma tutti que­sti pregiudizi un giorno ti si ritor­ceranno contro. Spero solo che, quando quel momento arriverà, troverai qualcuno disposto a cam­biare opinione su di te.

 

 

Lettera ad un uomo libero

 

di Martina Cavinato, 4aB Istituto Tecnico Statale Pietro Scalcerle, Padova

 

Caro Uomo Libero, Nietsche diceva che “L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo”. Tu hai una grande fortuna a poter essere chiamato così, il tuo cavo tende verso il su­peruomo, ma c’è anche chi pro­tende alla bestia. E cosa si fa con le bestie, soprattutto con quelle feroci? Le si chiude in gabbia, è il metodo più semplice perché non provochino ulteriori offese.

Sarebbe facile, se fosse questa la realtà, se ci fossero davvero gli uo­mini buoni e quelli cattivi. Ma le cose non stanno così. Tutti gli uo­mini hanno in sé una parte cosid­detta “buona” e una “cattiva”, ma prima di tutto, sono uomini. Tutti hanno debolezze, paure, soffrono e nessuno può salvarsi da solo.

Ho fatto una visita al carcere qual­che settimana fa, mi ricordo anco­ra quel tremendo rumore dell’in­ferriata che si chiude, sembrava un terremoto, già quello era terribile. Alcuni detenuti, facenti parte del­la redazione di “Ristretti Orizzonti”, hanno raccontato le loro storie.

Non sapevo se guardarmi la pun­ta delle scarpe o il soffitto men­tre parlava Gianluca, non potevo guardarlo in faccia, non potevo avere pietà di lui dopo quello che aveva fatto, mi ripetevo. Non è fa­cile, per niente, né raccontare né sentire queste “storie”. Gianluca disse che la sua condanna è inizia­ta il giorno in cui ha deciso di non affrontare i problemi, di lasciare tutti gli scheletri nel loro armadio creando questa messinscena e mostrando ad amici e conoscen­ti la sua famiglia come quella del “mulino bianco”, cioè perfetta. Non disse mai niente, non chiese aiuto a nessuno, forse per orgoglio, for­se per vergogna. Sette anni fa è entrato in carcere, ma, per questo motivo, era prigioniero da molto prima.

Per cercare di motivare e NON di giustificare il suo crimine, disse che voleva “eliminare la fonte del suo dolore” (che, a mio parere, è la causa principale soprattutto dei crimini in famiglia e di vendetta); e chi non lo vorrebbe? Tutte le persone cercano di stare meglio, di spianarsi la strada per il futuro, la differenza tra lui e te è la sua maggiore debolezza: sta tutto qui. Gianluca, come è chiaro, ha usato il metodo più drastico in assoluto per eliminare questa sua soffe­renza. Il coraggio, la forza di af­frontare le cose non sono da tutti, e poi quando ci si ritrova da soli, sull’orlo del baratro, è li che si fa l’ultimo assurdo disperato gesto di salvezza da questo turbamento incontrollato. Ma ripeto, nessuno si salva da solo.

Gianluca commettendo il suo crimine era affetto da problemi psicologici, ma questo pochi lo sanno e dalla maggior parte viene etichettato come “la bestia che ha ucciso la giovane moglie”. Questo ovviamente non vuole giustifi­carlo, è solo un modo per capire come si arrivi a questi gesti estre­mi, cosa che tanti, spesso anch’io e anche tu, si ostinano a non fare, perché è più facile giudicare dalle quattro righe del quotidiano.

Ammiro molto coloro che hanno fondato questa redazione, perché credono nell’umanità e nella di­gnità anche di coloro che sbaglia­no. In effetti tutti sbagliamo, chi in maniera superficiale o pesante o grave o irreparabile. Questi ultimi sono i carcerati. Tu lo sapevi che molti vengono continuamente imbottiti di psicofarmaci o me­tadone per tenerli tranquilli? La metafora con le bestie in gabbia è inevitabile. Questi vengono let­teralmente fatti marcire in galera. A prima vista mi verrebbe da dire che un po’ se lo meritano perché se sono lì ci sarà un motivo, ma questo non è per niente un modo per rieducarli.

Non dimentichiamo infatti che la prigione serve per “rieducare”, cioè far in modo che ci sia una presa di responsabilità, quindi un pen­timento e un reinserimento nella società. Tu, Uomo Libero che tutto puoi, dimmi il nome di un farmaco che possa far avvenire questo.

Non dimentichiamo neanche che i detenuti sono pur sempre perso­ne, con una testa e, te lo giuro, an­che un cuore. La redazione fa tan­tissimo da questo punto di vista: Luigi ad esempio, trentenne che entra ed esce da ormai 15 anni, ha smesso di prendere psicofarmaci da quando fa parte della redazio­ne e sembra sulla buona strada per la rieducazione. A loro basta una chiacchierata, o scrivere un articolo o fare qualcosa di diverso dalla solita massacrante routine per rimettere in moto il loro cer­vello e permettere un processo di autocoscienza.

Stai attento, caro amico, che la li­bertà è come la salute: non ti rendi conto della sua importanza finché non ne perdi anche solo una pic­cola parte. Potresti diventare un prigioniero in qualsiasi momento e modo, e non necessariamente finendo in carcere, dove sono gli altri a privarti della tua libertà: la prigione peggiore è quella che ci creiamo da soli.

Con affetto,

una Donna Libera