Numero giugno 2012

 

Baci proibiti

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Ristretti Orizzonti

(anno 14, numero 3 Maggio - Giugno 2012)

 

Editoriale

La tragedia di Vincenzo, il dramma di una madre di Elton Kalica

Parliamone

Il carcere raccontato attraverso lo sguardo dei famigliari incontro con Francesca Melandri

Che cosa significa l’assenza di rapporti sessuali per i detenuti di Mauro Palma

Diritto all’amore delle proprie famiglie proposte per “salvare”le famiglie dei detenuti

Un figlio in carcere, una disperazione mortale testimonianza della madre di Igor

La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere testimonianza di Giovanna, sorella di Antonio

Non ricordo la presenza di mio padre in casa testimonianza di Suela, figlia di Dritan

Sprigionare gli affetti

Una scelta difficile di Clirim Bitri

Non vedo i miei figli da parecchio tempo di Alain Canzian

Un “calendario carcerario” delle telefonate che mi allontanano… dai miei di Federico Torchia

Non bisogna spezzare il filo sottile che tiene “attacato” il detenuto ai propri cari di Qamar Abbas

Territorialità della pena di Antonio Floris

I miei genitori lo vogliono più di tutti, il mio cambiamento di Fatjon Cana

La tristezza degli affetti violati di Bruno Turci

Quei figli che quando arrivano sono esausti dalla lunga attesa per entrare di Luigi Guida

Ti senti spiato anche in quella tenerezza di tenersi le mani di Ulderico Galassini

Sarebbe molto bello se ci fosse anche in Italia la libertà di affetto di Miguel Arrieta

Alla fine del colloquio il mio stato emotivo è pieno di rabbia ed amarezza di Igor Monteanu

Attenti al libro

Quelle continue estenuanti bugie dette ai figli dai padri detenuti recensione di Luigi Guida

Prospettiva. Lavoro

Taralli: una specialità pugliese ancora più “speciale” intervista a cura di Paola Marchetti

Radiocarcere

Terremoto in carcere di Antonio Floris

Famiglie e tossicodipendenza

La droga ha “stravolto” non solo me, ma anche tutti i legami affettivi di Filippo Filippi

Ero incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava di Marco Cavallini

Donne-Dentro

La galera raccontata attraverso un letto

Elogio di una lettera da galera di Luminita

I figli sono sempre i giudici più inesorabili di Cristina Buiatti

C’è un che di vergognoso ad avere una persona in carcere di Giulia F.

Redazione

Editoriale

La tragedia di Vincenzo, il dramma di una madre

di Elton Kalica

 

E’ morto Vincenzo. Aveva quarantaquattro anni, e di fronte a una simile tragedia, in galera si usa dire “povera sua madre”. È un detto antico, che però esprime in modo perfetto il pensiero di chi ha sperimentato l’amore incondizionato di una madre verso il proprio figlio, e la capacità di resistere ai peggiori drammi della vita: e la madre di Vincenzo oggi dovrà resistere a una tragedia, una nuova sfida, nuovo dolore.

Ho conosciuto Vincenzo circa quattro anni fa, quando entrò nella redazione di Ristretti. Non parlava tanto di sé, ma mi raccontò un po’ dei suoi trascorsi: figlio di immigrati siciliani, era cresciuto nella periferia di Milano guardando la ricchezza degli altri, finché non aveva deciso di prendersene un po’ anche lui, illegalmente. Poi le condanne, lunghe per la recidiva, e così il destino alla fine aveva portato lui, vagante da una galera all’altra per il sovraffollamento, in carcere a Padova.

La madre di Vincenzo vive a Milano, ma conosce a memoria i treni, gli autobus e le strade che la portavano a vedere per un’ora il suo unico figlio a colloquio. Forse, durante gli ultimi colloqui si era accorta che Vincenzo dimagriva, forse si era preoccupata in silenzio – si sa come si annoiano i figli delle preoccupazioni delle madri – e non aveva avuto il coraggio di pensare alla malattia, perché in quell’ora di colloquio si finisce sempre per parlare di un futuro migliore, sognando il giorno in cui ci si potrà abbracciare fuori, in libertà.

Vincenzo però si era accorto del suo anomalo e progressivo dimagrire. Ci eravamo accorti anche noi che qualcosa non andava. “Ma come sei magro”, gli dicevano anche i volontari in redazione. “Mi curano per una infezione allo stomaco”, raccontava Vincenzo, “sto prendendo dei gastroprotettori”. Solo che i mesi passavano e Vincenzo aveva continuamente febbre e alla fine molte ghiandole si erano gonfiate come delle noci. Altre visite mediche in carcere, altri farmaci, mentre Vincenzo peggiorava: aveva ormai un colorito di un pallore anormale e gli occhi sempre più scavati.

Alla fine la diagnosi è arrivata. Scortato in ospedale, è bastata una visita per scoprire che quei grappoli di linfonodi gonfi erano l’effetto dall’attività micidiale di una forma tumorale che si chiama linfoma non Hodgkin.

A quel punto lo hanno ricoverato d’urgenza. La madre l’ha raggiunto immediatamente. Dopo alcuni giorni il magistrato ha ordinato la sospensione della pena, così Vincenzo è tornato ad essere un uomo libero e poteva ricevere visite. Sua madre non si separava più da lui, l’accarezzava, nonostante l’insofferenza del figlio a tanta tenerezza, lo baciava, lo guardava dormire, e dormiva anche lei, ai suoi piedi.

Però Vincenzo stava male. I dottori dicevano che era arrivato in ospedale troppo tardi, ma nessuno voleva crederci. Quando qualcuno gli chiedeva come stava, diceva “adesso sto meglio” e i suoi occhi cercavano sempre di trasmettere tranquillità al visitatore. Tuttavia, riusciva difficile a chiunque essere tranquilli, e immancabilmente ci si domandava come mai non gli avevano fatto fare degli esami prima, molto prima.

Dopo qualche giorno ha iniziato la chemioterapia, che pareva dare dei risultati buoni. Vincenzo ogni tanto si alzava lentamente e guardava allo specchio i rilievi scolpiti sul proprio corpo ossuto, ma la fiducia che sarebbe riuscito a sconfiggere la malattia aveva la meglio sulla paura della morte.

Aspettava anche la madre di vedere il figlio rinascere. C’erano anche alcuni volontari della redazione a turno a tenergli compagnia. Ma pochi giorni fa Vincenzo ha iniziato a sentirsi male di nuovo, e la morte l’ha colto di sorpresa, senza dargli nemmeno il tempo di arrabbiarsi, come si arrabbierebbe qualsiasi persona ancora forte se rischiasse una morte prematura. Ha colto di sorpresa anche la madre che ha chiesto di andargli di nuovo vicino per vederlo, per toccarlo e salutarlo, un’ultima volta.

Di fronte alla morte di una persona ancora giovane, il pensiero va alla madre che gli è sopravvissuta. Ma come si fa a capire il dolore che porta nel cuore la madre di Vincenzo? Impossibile calcolare le fatiche di una madre che viaggia per centinaia di chilometri per abbracciare il proprio figlio in una sala colloqui; inimmaginabile la rabbia verso un destino così crudele che dal carcere ha offerto quel figlio alla morte traghettandolo lungo i dolori della malattia; forse lei andrà avanti cercando forza nella fede, oppure sarà lo stoicismo di una vita di battaglie a farle superare anche questa prova, ma noi continuiamo a chiederci come mai è arrivato in ospedale così tardi. Se si cercano notizie su questo linfoma, si legge ovunque che “negli ultimi anni il trattamento dei linfomi non Hodgkin ha fatto registrare enormi progressi, anche nei casi in cui il tumore si è diffuso dal sito primitivo, ed è in costante aumento il numero di malati che oggi possono guarire”. Può darsi che quello che ha aggredito Vincenzo sia stato un tumore più cattivo di altri, ma i tempi del carcere sono davvero incompatibili con i tempi della cura. Vincenzo ha avuto il destino di tanti detenuti malati: è stato “consegnato” agli specialisti quando ormai era troppo tardi.

La vera battaglia in carcere è quella per costringere tutti a fare più in fretta nella corsa contro la malattia, perché la malattia non si ferma ad aspettare i tempi della galera.

Parliamone

 

Un incontro in redazione con la scrittrice Francesca Melandri

Il carcere raccontato attraverso lo sguardo  dei famigliari

Un padre e una moglie, in visita ai loro cari detenuti: un punto di vista diverso dai soliti, quello che Francesca Melandri ha scelto per il suo romanzo “Più alto del mare”

 

a cura della Redazione

                               

Francesca Melandri è sceneggiatrice e scrittrice, il suo secondo romanzo, “Più alto del mare”, è un libro particolare che ha a che fare con il carcere, cioè è in parte ambientato in carcere. O meglio, arriva alle soglie del carcere, perché protagonisti sono due famigliari, Paolo, padre di un giovane terrorista, e Luisa, moglie di un uomo condannato per omicidio, che vanno a colloquio dai loro cari detenuti, in un’isola che assomiglia a Pianosa e all’Asinara, negli anni cupi del sequestro Moro. Ne abbiamo parlato con Francesca in redazione.

 

Francesca Melandri: Io per tanti anni ho scritto sceneggiature sia televisive che per film, e questo è il mio secondo romanzo. Quindi ho sempre fatto cose che non sono documenti, io non sono una giornalista né una cronista, nel senso che io la realtà, o quello che posso capire della realtà, non è che la prendo così pari pari e la descrivo per quello che è, ma mescolo delle storie inventate. Questo per me è importante perché comunque mi dà una libertà ovviamente diversa da quella di un giornalista, che si spera riporti i fatti così come sono.

Mi fa però molto piacere se a voi che il mondo del carcere lo conoscete infinitamente meglio di me, non sembra che io abbia scritto troppe stupidaggini, perché comunque sia i miei romanzi non sono dei romanzi di fantasia, non parlano di un mondo del tutto immaginario. Io faccio sempre molte ricerche prima di scrivere qualsiasi cosa.

Quando mi chiedono se i personaggi del mio libro sono inventati, io rispondo che nei miei romanzi sono sempre persone inventate e che però io non avrei mai neanche potuto pensare chi fossero, se non avessi comunque cercato di capire innanzitutto che cos’è un carcere. Anche se, chi l’ha letto lo sa, nel mio racconto io dentro il carcere ci entro pochissimo, io resto fuori ed è la scelta che ho fatto perché i protagonisti della mia storia non sono i detenuti, ma sono due visitatori, sono due parenti di questi detenuti.

L’ambientazione è il 1979, quindi pieno momento buio dei cosiddetti anni di piombo, un anno dopo il rapimento e l’assassinio di Moro e un anno prima della strage di Bologna, quindi proprio un anno terribile perché in quegli anni non si vedeva la fine di tutta quella violenza insensata. La mia storia è ambientata in quegli anni lì anche perché poi nell’ottobre del 1979 ci fu la rivolta dell’Asinara, questo è lo sfondo storico.

Poi però mi sono presa tante libertà, i miei protagonisti sono appunto due visitatori, il primo è un padre che è forse il vero protagonista della mia storia e si chiama Paolo, poi c’è suo figlio che è ancora un ragazzo ed è dentro per degli omicidi almeno uno dei quali proprio a sangue freddo, quindi dei delitti veramente terribili.

L’altra protagonista è invece Luisa, la moglie di un detenuto comune anche lui pluriomicida, ha ucciso prima una persona in una rissa, poi è stato arrestato e in carcere ha ucciso un’altra persona, quindi anche lui è un pluriergastolano.

Il tema di cui soprattutto volevo parlare è che cosa vuole dire l’universo del carcere per tutti quelli che non sono detenuti e quindi innanzitutto i parenti dei detenuti. E poi c’è un terzo personaggio che apparentemente è un po’ secondario, ma che per me è molto importante, è Nitti Pier Francesco, un poliziotto, un agente penitenziario si direbbe oggi, che anche lui come tutti alla sera finito il suo turno se ne torna a casa.

Io non sono mai stata in carcere e non sono mai stata detenuta, e nella mia famiglia non ci sono detenuti e non ho mai dovuto andare a trovare qualche famigliare o conoscente in una sala colloqui, e mi rendo conto che sono fortunata in questo. Sento però che sono comunque una cittadina di un Paese, di uno stato in cui il carcere esiste e siccome è un mondo che non interessa, è un’esperienza che non interessa, ho pensato che l’unica possibilità che avevo io per la mia esperienza di vita, per la mia personalità di entrare in contatto con questo mondo era di trovare dei personaggi che avrebbero potuto essere me, cioè qualcuno che sta fuori e vive fuori ma va lì e fa questa esperienza.

Questa era la prima motivazione per scegliere questi personaggi così apparentemente “periferici” rispetto all’esperienza carcere, che rimane come dire il buco attorno al quale si sviluppa il mio romanzo.

Questi due personaggi vanno li perché devono fare questo colloquio, questa visita si svolge nella prima parte del libro e mentre io la racconto, cioè li accompagno fino alla perquisizione che devono subire per entrare, io li lascio li, finisce il capitolo e il capitolo dopo inizia che sono usciti.

Quindi è molto chiaro per me e spero che lo sia per il lettore che non è del dentro che mi occupo, ma del “rapporto con…”,

Quello che credo di aver capito io è che l’universo, la vita, l’esperienza del carcere è separata dal resto della società, perché c’è questa idea molto forte che quello che succede dentro il carcere non riguarda il resto della società. Questa è un’idea che mi indigna, non mi piace e soprattutto non la credo vera.

Quindi ho cercato questi personaggi che aiutassero soprattutto me mentre scrivevo e poi anche possibilmente il lettore ad entrare, come fossero dei traghettatori, dentro questo universo che è percepito come alieno, distante e che non c’entra niente con noi che siamo fuori, mentre invece appunto secondo me è proprio una finzione, non è così. Questo perché tutti voi che siete in carcere avete parenti, avete rapporti fuori, esiste un mondo dal quale siete venuti e al quale tornerete, per questo motivo mi interessava moltissimo anche la figura dell’agente carcerario, che appunto più di chiunque altro è il mediatore tra i due universi. Quello che sta veramente dentro per svolgere il suo lavoro e poi sta anche veramente fuori perché ha fuori una famiglia, dei figli.

A questo punto non avendo io esperienza diretta, io non ho mai fatto volontariato in carcere e la mia conoscenza di tutte queste realtà era solo e assolutamente teorica, ovviamente mi sono chiesta come fare a cominciare a capirne di più. E mi sono proprio fatta una riflessione sul senso che poteva avere andare in un carcere a farmi un giretto… ma quanto avrebbe potuto durare questo giretto, forse un pomeriggio, una giornata o forse anche due o tre giorni?

Non mi sembrava una cosa adeguata, nel senso che sarei entrata nel carcere, avrei incontrato dei detenuti con i quali avrei sicuramente parlato, però io ho pensato che il carcere, così come l’ho capito io, molto più che un posto, un edificio, un luogo è soprattutto un tempo, a voi hanno dato degli anni, dei mesi, una pena che si misura in tempo, e per gli agenti che lavorano qui è il luogo dove stanno tante ore tutti i giorni. E di questo tempo io, se mi venivo a fare il “giretto” di un pomeriggio o due, non avrei capito assolutamente niente. Allora ho deciso invece di andare a cercare persone che questa esperienza l’hanno fatta anche per tanto tempo, ho parlato per esempio con ex brigatisti che di galera se ne sono fatta anche tanta, insomma qualcuno che è stato proprio all’Asinara o a Pianosa, ho parlato con ex agenti in pensione, comunque persone per le quali questa è stata la loro vita. Ho pensato cioè che l’unica maniera per avere io un’idea di che cosa è questo mondo era farmi raccontare delle storie, farmi raccontare delle vicende personali.

Nessuna di queste vicende personali io poi l’ho presa e l’ho messa pari pari dentro il mio libro, perché io sono pur sempre una inventrice di storie e mi piace mescolare e anche ogni tanto inventare le cose. Però sicuramente tutte queste persone con grande generosità mi hanno raccontato le loro storie, anche storie molto complicate, che hanno lasciato segni molto duri in vite difficili.

 

Bruno Turci: Noi talvolta con i nostri famigliari ci impieghiamo del tempo a maturare la consapevolezza della devastazione a cui li abbiamo sottoposti per averli portati in carcere, ecco perché io mi sono abbastanza riconosciuto nel suo libro. Direi che manca soltanto la fuga… in quegli anni era imperante quel pensiero li ed era una costante, d’altronde non esistevano praticamente benefici di legge e quindi l’unica via d’uscita era la fuga. Io ricordo che sono entrato nel carcere speciale della Pianosa nel 1978, l’Asinara e la Pianosa sono due realtà diverse, due realtà toccate dal mare che poi diventa un mare odiato, io facevo i colloqui e bene o male quello che c’è scritto in questo libro è la storia di chi ha vissuto nelle isole la carcerazione.

Ricordo che alla Pianosa arrivava l’aliscafo e però non poteva attraccare perché c’era maltempo, gli ormeggi erano abbastanza fatiscenti e quindi quando il mare era grosso i nostri famigliari dovevano ritornarsene indietro. Loro poi non erano trattati molto bene, c’era sicuramente una tendenza a scoraggiare chi andava a trovare le persone detenute, esisteva proprio questa volontà da parte delle istituzioni.

Io l’ho maturato molto tardi il danno che ho prodotto ai miei famigliari, nel libro emerge ed è chiaro, c’è tutta una serie di sentimenti che sono reali. Tu perciò in questo libro hai sicuramente aiutato la società ad avvicinarsi al carcere attraverso il dolore di persone che non hanno nessuna colpa, io spero che questo serva a coinvolgere magari chi lo legge, le persone che vivono fuori dal carcere che sono lontane da questa realtà, e che magari le faccia un po’ ragionare.

 

Francesca Melandri: Ai parenti dei detenuti viene richiesto, ancora di più in quell’epoca ma anche adesso, di fare molti sacrifici per andare a trovare i propri cari, e però essendo loro persone “normali”, come tutte le persone normali mica è detto che abbiano solo sentimenti d’amore, vicinanza e affetto verso le persone che sono dentro.

Sono arrabbiate a volte, anche se non abbandonano i propri cari. Hanno molta rabbia perché i loro famigliari a volte hanno combinato dei grandi disastri, e quindi si chiede a queste persone di essere veramente sovrumanamente generose, perché devono fare qualcosa che si fa per amore, per curare una relazione, e lo devono fare nonostante la rabbia che possono provare.

Quindi da profana, da persona che di questo mondo sa poco e che ha appena cominciato a capirne qualcosa, mi sono proprio detta che non deve essere semplice fare i pacchi, affrontare il viaggio fino alla Pianosa con il mare alto e poi può succedere che ti rimandano indietro. Poi magari la volta dopo lo mandi a quel paese tuo figlio che sta li, eppure non lo abbandoni, quindi questa complessità mi interessava moltissimo, perché non credo che riguardi solo il mondo delle prigioni e dei detenuti, riguarda il mondo degli esseri umani e delle relazioni, poi alla fine è di quello che parliamo.

 

Antonio Floris: Io a Pianosa ci ho passato tre anni, ricordo che arrivavano i famigliari e dovevano imbarcarsi da Piombino, poi Porto Azzurro, Pianosa. Tante volte dovevano essere alle 7 a Piombino, se il mare era mosso non si imbarcavano, ci sono state delle famiglie che sono arrivate li e ci sono rimaste da lunedì fino a sabato senza poter imbarcarsi e finendo per tornare indietro.

Se invece partivano perché il mare era abbastanza calmo e poi diventava mosso mentre si faceva il colloquio, si doveva interrompere perché altrimenti rimanevano sull’isola.

La mia famiglia che arrivava dalla Sardegna doveva fare la traversata da Olbia a Civitavecchia, poi andare a Piombino il giorno prima perché bisognava essere alle 7 al porto e poi sperare che il mare fosse buono per andare a Pianosa, d’inverno diventava quasi impossibile arrivarci.

 

Francesca Melandri: Capite quindi il perché del mio interesse su questa figura dei parenti, perché è quella che porta noi cittadini del fuori dentro, e però anche quella che porta voi, cittadini del dentro, fuori, la vostra relazione con i vostri parenti è quella che vi porta fuori.

 

Sandro Calderoni: Io il libro l’ho letto con lo sguardo del detenuto, e mi è sembrato molto interessante il fatto di trovarvi il punto di vista del famigliare del detenuto, è bello il passaggio quando c’è il professore che arriva all’isola per incontrare il figlio e l’isola non la vede come isola, la vede solo come un carcere. Io mi sono molto immedesimato in questo, ho visto il padre che andava in un posto di sofferenza, non in un posto di bellezza.

 

Ornella Favero: Per me la scelta di raccontare il carcere facendolo fare a persone che ne sono coinvolte, però non sono protagoniste “dentro”, mi è sembrata una scelta interessante, perché le voci di queste persone intanto sono un tramite tra il dentro e il fuori, e poi ti fanno capire che questa idea del “pianeta carcere” come di un mondo “altro” non esiste, o meglio è un altro mondo perché rinchiude ed esclude, ma non perché i protagonisti siano dei mostri, o esseri strani, diversi. Quindi questa scelta narrativa mi sembra una scelta interessante “di avvicinamento”, di fare avvicinare questi due mondi, cioè di far capire che non esiste, non esistono “gli assolutamente cattivi e i totalmente buoni”. Perché ognuno di noi non si immedesima facilmente nel “delinquente”, però non può alla fine non capire che essere padre, moglie, figlio di un detenuto invece può capitare a chiunque. Il padre protagonista di questo romanzo è un professore di storia, e proprio nel padre che si ritrova il figlio terrorista si vede la conflittualità del rapporto delle famiglie con le persone che sono dentro. Perché la famiglia a volte subisce tantissimo questa situazione, la subisce anche nella difficoltà di accettare che un proprio figlio abbia commesso qualcosa del genere. E però le famiglie non abbandonano quasi mai i loro cari, anche se ancora oggi sono trattate da colpevoli, l’umiliazione dei colloqui non è cambiata quasi per niente.

 

Sandro Calderoni: A volte c‘è proprio da parte di alcuni agenti quell’idea di dire: “Ma perché li vengono a trovare?”, un po’ come affermare che noi siamo vuoti a perdere.

 

Dritan Iberisha: Per quanto riguarda i colloqui non è cambiato quasi niente, ma niente proprio, non è che perché uno ti fa entrare una confezione di formaggio in più è cambiato qualcosa, non è quello il colloquio con i famigliari, non è un paio di pantaloni, un pacco di biscotti, un paio di scarpe in più. Mia figlia da piccola, quando l’hanno perquisita, mi ha chiesto perché le hanno tolto le scarpe, le ho risposto con una battuta: perché ti hanno preso il numero, vogliono comprartene un paio. E la bambina era tutta contenta. La settimana successiva l’agente l’e ha di nuovo fatto togliere le scarpe, e lei gli ha detto: “Guarda che il numero me l’hai già preso la scorsa settimana”. Queste cose sembrano piccole, ma non lo sono affatto. Non stiamo dicendo che vogliamo il paradiso, ma chi comanda dovrebbe dare una piccola possibilità, una speranza per tutti per noi, per le nostre famiglie.

 

Ornella Favero: A me piacerebbe capire anche un’altra cosa: tu hai detto che hai parlato con tante persone, detenuti, ex detenuti, agenti, e però poi nel libro ti sei, come dire?, immedesimata in questo padre, in questa moglie. Hai parlato anche con dei famigliari di detenuti oppure gli ex detenuti che hai conosciuto ti hanno raccontato come le loro famiglie hanno vissuto la loro detenzione?

 

Francesca Melandri: Curiosamente, nonostante siano appunto i miei protagonisti, con i parenti dei detenuti non ho parlato. In realtà non li ho neanche cercati, avevo, a torto o a ragione, quasi più pudore, però gli ex detenuti mi hanno raccontato tantissime cose di quello che è successo ai loro famigliari. Il fatto è che io non ho difficoltà a rivolgermi a persone con esperienze estremamente pesanti, detenuti che sono stati tanti anni in galera, e però sentivo di non avere il diritto di disturbare nessun parente di detenuto, quindi tutta la loro esperienza me la sono poi immaginata, in base sia ai racconti dei detenuti, sia al fatto che un po’ mi sono immedesimata io, perché poi comunque non sono categorie di esseri umani “diverse”.

Quando cercavo di pensare cosa ci può essere dentro la testa del padre del ragazzo che ha ucciso, vi sembrerà puerile, però io ho due figli, il più grande ha 19 anni e la piccola 15, e ho attinto anche alla mia, di esperienza di genitore. I miei figli non hanno ucciso nessuno, però io ho cercato di chiedermi: se mio figlio facesse qualcosa di terribile? Si può cercare anche di capire cosi, di entrare cosi nell’animo di un altro essere umano che ha un’esperienza diversa dalla tua, ma che non è “diverso” come si vorrebbe credere fuori. E allora ho cercato di pormi la domanda: ma io cosa farei al posto di quel genitore? La risposta è che non lo so e forse quella è la vera risposta, la vera risposta è che noi degli altri dobbiamo accettare che non possiamo mai capire veramente tutto fino in fondo, e questo è molto importante sempre ricordarselo. Però poi se vuoi scrivere un libro, cominci ad attivare un processo più ancora che di immaginazione direi proprio di immedesimazione, che vuol dire di empatia, per cui cerchi di sentire quello che sentirebbe quella persona, che è sempre poi l’unica maniera per capire effettivamente l’altro almeno un po’, almeno provarci.

 

Stefano Frignani: Io penso che per capire quello che provano i parenti bisognerebbe mettersi alla mattina fuori del carcere in attesa dei colloqui e provare a sentire, vedere le condizioni delle persone. Forse allora uno capisce meglio cosa vuol dire magari partire alle 5 del mattino ed essere sbattuti da una parte all’altra prima di riuscire a incontrare il proprio figlio, o marito, o fratello.

 

Francesca Melandri: Vi sorprenderà ma tante delle storie come quella della bambina a cui tolgono le scarpe durante una perquisizione, questo senso proprio di vessazione sull’innocente che davvero non ha fatto niente di male, ecco tante di queste storie qui me le hanno raccontate gli agenti carcerari, loro stessi mi hanno detto che certe volte arrivavano queste famiglie, magari con il mare grosso, e dovevano affrontare situazioni davvero penose.

 

Luigi Guida: Io l’ho vissuta come parente, ero piccolissimo avevo 4 anni, ricordo vagamente la diversità tra le varie carceri, Pianosa e l’Asinara, mi ricordo il traghetto, il mare, non ho ben chiari tutti i passaggi, però mi ricordo che spesso il mangiare non te lo facevano portare, dipende da come si svegliavano e tante volte lo riportavi indietro. Venivano effettuate le perquisizioni anche ai bambini, e cosa comporta questo? questo comporta poi col crescere, aldilà della scelta di vita che io ho fatto che mi ha portato ad entrare in carcere, che uno vorrebbe riservare alle istituzioni lo stesso tipo di trattamento che loro hanno dato a quel mio famigliare, che stava scontando la sua pena. Io penso che scontare la pena è una cosa, ma toccare la dignità è una punizione supplementare che non è scritta da nessuna parte, è la regola che si inventano loro, ecco perché con quel tipo di carcere e un po’ tutta l’istituzione carceraria io ho avuto sempre un rapporto di conflitto, non ho dei bei ricordi. Non c’era scritto da nessuna parte che loro avevano carta bianca dal Ministero per compiere quegli abusi che facevano per piegare le persone, toccando i loro famigliari, la loro dignità. Il detenuto magari era bravo a subire le mortificazioni e a volte anche i maltrattamenti, però davanti a un famigliare che viene toccato uno è impotente, preferirebbe morire. A me se mi toccassero un famigliare davvero preferirei che mi ammazzassero, quello che viene fatto a me sono pronto a pagarlo tutto, qualsiasi situazione mi si presenti, però maltrattare i famigliari che non hanno scelto per quello che io ho fatto, in particolare i figli, penso che sia il male più grande che possono provocare a quella persona dall’altra parte del muro. Finisce poi per essere normale che i figli crescano con un odio verso le istituzioni, sempre sulle difensive, sempre arrabbiati.

 

Francesca Melandri: Esattamente questo è il motivo per cui io ho provato a raccontare questa umiliazione, questa violenza, perché non c’è cosa più ingiusta, sono persone che non se lo meritano e ho l’impressione che non si sia raccontato tantissimo di queste storie.

Una cosa molto bella che mi sta succedendo da quando è uscito il libro è che mi hanno scritto vari parenti di detenuti e mi hanno detto: grazie che hai raccontato di noi.

 

Sandro Calderoni: È vero che la difficoltà più grande per le famiglie è il senso di vergogna, io mi metto nei panni di mia madre e mio padre, persone normalissime. Abitando in un paese sai tutto di tutti, e l’idea dominante è che se un figlio combina qualcosa, anche la famiglia c’entra in qualche modo. Il senso di vergogna è tale che magari i nostri famigliari sentono di dover pagare anche loro, e tante volte avrebbero bisogno proprio di potersi sfogare. Ecco perché tante persone hanno incominciato a scriverti che hanno trovato qualcuno a cui poter esporre le loro sofferenze.

 

Francesco Melandri: Tutti infatti parlano della vergogna, tutti, tutti.

 

Ornella Favero: Io credo che Francesca non poteva andare più di tanto in cerca dei famigliari, perché mentre un detenuto o un ex detenuto è in grado di raccontarti la sua storia proprio perché ha delle responsabilità, e quindi il racconto può viverlo proprio come una assunzione di responsabilità, i famigliari sono spesso bloccati da una parte dalla vergogna, dall’altra dal pudore. E andare a documentarsi chiedendo a un famigliare cosa ha provato quando hanno arrestato un suo caro può solo riaprire una ferita, qui invece io credo che un romanziere, uno scrittore deve immaginare, immedesimarsi, tirare fuori le sue risorse di narratore. Penso che sia invece più facile dopo che un famigliare, leggendo il libro, si ritrovi in questa situazione e provi un sollievo nel sentire rappresentata la sua sofferenza.

 

Stefano Frignani: Non dobbiamo scordarci che ancora oggi, nel 2012, ci sono carceri dove i famigliari aspettano all’aperto e se piove sono lì che si bagnano come pulcini, e ci sono gli agenti umani che magari gli portano qualche cosa da mettersi sulla testa, come ci sono quelli che non gliene frega niente. Vedi persone di 70-80 anni che si sono fatte anche qualche chilometro a piedi con le borse in mano per andare dalla stazione al carcere. Ci sono stati sindaci che hanno detto che linee dalla stazione al carcere non le volevano fare, non spendevano i soldi per il carcere. Succedono anche queste cose nel 2012, quindi non parliamo solo degli anni settanta e ottanta, non è che è migliorata più di tanto la situazione.

 

Ornella Favero: Quando aspetto fuori dal carcere per entrare vedo madri che probabilmente mai avrebbero immaginato di finire a colloquio in galera. Non perché ci siano dei genitori peggiori di altri, ma ci sono ambienti in cui uno bene o male è preparato a un‘idea del genere, altri in cui davvero ti piomba addosso in modo del tutto inatteso il fatto che una persona cara è finita dentro. Il padre che racconti nel tuo libro ha tante sfaccettature interessanti proprio perché vive la contraddizione più grande: un figlio terrorista significa mettere in discussione te stesso, quello che gli hai insegnato, il rapporto che hai avuto con lui, credo che sia quasi inevitabile provare dei sensi di colpa o farsi delle domande di cosa può essere successo, e nel romanzo ci sono tutti questi aspetti.

 

Francesca Melandri: Questa è un’altra scelta che ho fatto: il mio soggetto non erano i colpevoli ma non erano neanche le vittime, erano questa terza categoria che sono i parenti. Però le vittime le volevo tenere presenti e l’ho fatto con questo pensiero del padre per la bambina figlia di una persona uccisa da suo figlio, perché comunque sia se si parla di universo carcerario non si può dimenticare che c’è qualcuno che è stato vittima direttamente o indirettamente.

 

Ornella Favero: Noi abbiamo fatto un incontro in una scuola in cui c’erano studenti e genitori, e sono intervenuti un detenuto, che ha scontato una lunga pena per un grave reato legato alla tossicodipendenza, e suo padre. È successo che soprattutto i genitori più ancora dei ragazzi volevano a tutti i costi, per sentirsi più tranquilli loro, trovare in questo padre delle responsabilità. Questi genitori volevano sentirsi rassicurati e allora gli chiedevano come aveva fatto a non capire che il figlio era tossicodipendente. È interessante che a volte la società vorrebbe trovare delle colpe nelle famiglie dei detenuti per poter dire “la mia è una famiglia normale, regolare, a me non succederà mai niente di simile”. Quindi è doppiamente difficile la vita per un famigliare di un detenuto, che spesso rischia di essere inchiodato a una responsabilità inesistente perché la gente fuori ha bisogno di sentirsi rassicurata e non vuole capire che sono tante le variabili nella vita, il carattere, l’ambiente, gli amici, per cui non puoi sempre inchiodare un genitore a una responsabilità rispetto a un figlio “deviante”.

 

Francesca Melandri: Io credo che ci sia spesso questa ansia di trovare la ricetta. Se in una famiglia le cose sono andate cosi storte è perché è successo questo, questo e questo, questa ricetta ha prodotto il disastro, se io non seguo questa ricetta sono al sicuro. Ovviamente è una straordinaria illusione perché la vita è molto più complessa di cosi.

Ma è un po’ lo stesso meccanismo che producono i media che raccontano l’universo del carcere, l’universo dei reati, l’universo delle pene. È come se dicessero “tu lettore sappi che sei buono e tutto questo a te non succederà”. Invece i famigliari dei detenuti sono proprio quelli che in qualche modo restituiscono un po’ di umanità anche ai “cattivi”, perché attraverso di loro tu capisci che a finire in carcere sono comunque sempre delle persone.

 

Diritto agli affetti e alla sessualità per i detenuti

Il ricorso del tribunale di sorveglianza di Firenze alla corte costituzionale

 

Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il 19 maggio scorso, ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità - appoggiata dalla procura del capoluogo toscano - sul secondo comma dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che impone la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da parte della Polizia Penitenziaria.

La motivazione del ricorso del presidente del Tribunale di Sorveglianza, Antonietta Fiorillo, si divide in due parti: c’è un’inibizione del diritto al rapporto affettivo, ad avere un rapporto integrale e completo con il/la coniuge o il/la convivente, rapporto al quale il detenuto deve appoggiarsi per realizzare un percorso penitenziario completo. E questa inibizione del diritto al rapporto affettivo prefigura diverse violazioni della Costituzione: diritti inviolabili della persona, diritto allo sviluppo della personalità, diritto alla salute, alla famiglia. E c’è la motivazione dell’insostenibilità del divieto, che è sostenuta invece con il riferimento alla violazione dell’art.27 della Costituzione sotto due aspetti. L’articolo dice che non devono essere attuati trattamenti contrari al senso di umanità e che la pena deve tendere alla rieducazione del detenuto, ma il divieto dell’incontro intimo con i familiari e il partner fa sì che con il passare del tempo i rapporti si deteriorino mentre il loro mantenimento è fondamentale per la conclusione del percorso educativo dei detenuti.

Il ricorso è nato dalla richiesta di un detenuto del carcere di Sollicciano di non essere sottoposto a sorveglianza visiva durante gli incontri con i famigliari.

 

Che cosa significa l’assenza  della possibilità di rapporti sessuali per i detenuti?

È un’assenza che ha due aspetti rilevanti, il primo è il rischio di degenerare in pena menomante, il secondo di attaccare il principio in sé di potenziale genitorialità

 

di Mauro Palma, ex presidente del Comitato europeo per la

Prevenzione della tortura, attualmente vicepresidente del Consiglio

Per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa

 

Nei 47 Paesi del Consiglio d’Europa, se noi escludiamo quelli veramente piccoli come San Marino, Liechtenstein, Monaco, noi abbiamo che sono 12 i Paesi in cui non sono possibili le visite ai detenuti senza supervisione, quindi sono 12 i Paesi che negano la possibilità di visite in cui i rapporti sessuali e i rapporti affettivi siano realizzabili senza controlli.

E? abbastanza preoccupante però, che, contrariamente ad altere problematiche, in cui si registra spesso che i paesi dell’Unione Europea hanno na posizione più avanzata rispetto a quella degli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa, su questo tema specifico, ben 11 dei citati 12 paesi sono membri dell’Unione Europea. 

C’è anche una certa ipocrisia linguistica nel parlare di “affettività” evitando il riferimento più diretto all’espressione della sessualità del detenuto. Questa che io chiamo ipocrisia linguistica é segnata dalla volontà di ancorare la possibilità dell’espressione sessuale al diritto alla vita famigliare e al suo normale svolgimento, senza aprire il tema delle possibilità soggettive e dei bisogni individuali. Parlo comunque di possibilità dell’espressione sessuale e non di diritto all’espressione sessuale, perché mi sembra che il tema debba essere inserito in un quadro di riferimento di interessi legittimi e fondamentali, ma non di diritti in senso stretto.

La questione si pone diversamente se la si ancora a un elemento, che definirei metagiuridico, che riguarda tutte le punizioni, e consiste nell’assoluto divieto delle punizioni corporali. Sono proibite queste ultime – al di là della corporeità intrinseca che ha una pena privativa della libertà – così come sono proibite quelle forme di esecuzione della pena detentiva che possano produrre una menomazione delle capacità dell’individuo. È, per esempio, proibita la detenzione di una persona in un luogo e in forme tali da mantenere costantemente per anni la sua possibilità di vedere al di sotto di una certa lunghezza, perché ciò determina una riduzione delle sue capacità visive, così determinando una connotazione anche corporale alla pena che il soggetto sta espiando.

Se ancoriamo la questione della privazione della sessualità a questo secondo aspetto, di diritto a non subire pene che abbiano una dimensione di corporeità, allora – a mio parere – ne rafforziamo il significato e l’urgenza di dare a essa una soluzione. Parlare di affettività ci limita al contesto dell’ordinata vita familiare, parlare di sessualità ci porta a una riflessione più profonda sul limite della potestà punitiva.

Tuttavia, una premessa è necessaria. In alcuni dei Paesi che riconoscono tale necessità e che a volte offrono la possibilità di colloqui intimi anche in funzione del mantenimento di un maggiore ordine all’interno degli Istituti penitenziari, le condizioni in cui tali incontri avvengono sono inaccettabili. Lo sono sia per la tipologia dei luoghi, sia per le regole adottate: nell’ambito delle visite ispettive di propria competenza, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha a volte definito degradanti tali condizioni. Cito semplicemente il caso di un Paese dove la possibilità di visite senza supervisione è riservata solo ai detenuti e non alle detenute: l’uomo detenuto può ricevere la visita dalla propria partner, ma la donna detenuta non può. L’elemento discriminatorio dietro a tale impostazione è evidente; così come è evidente che lo spazio riservato a tali colloqui deve avere una strutturazione e una organizzazione tale da rispettare la dignità di tutti gli “attori” coinvolti, il detenuto, il familiare, il personale del carcere.

Accanto a queste esperienze negative, però, l’Europa è ricca di esempi positivi ove l’equilibrio tra i vari fattori è stato risolto in modo adeguato e si offre al detenuto la possibilità di trascorrere un weekend con la persona a lui affettivamente legata in modo discreto, personalizzato, con anche la possibilità di accogliere in modo armonico i figli.

Chiarita, quindi, la necessità di porre attenzione alle condizioni in cui avvengono questi colloqui senza controlli visivi, vorrei muovermi su alcuni aspetti che riguardano questo tema, a partire dalla meritoria iniziativa di adire la Corte Costituzionale, messa in atto dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

Parlo di meritoria iniziativa, perché c’è un gran parlare di carcere tra di noi, addetti ai lavori, ma se non rompiamo questo cerchio e non chiamiamo anche altre istituzioni ad assumersi la propria responsabilità, rischiamo di continuare a girare abbastanza a vuoto. Vanno quindi chiamati a responsabilità altri organi; vanno “stanate”, passatemi il termine, altre responsabilità.

 

Le condizioni di detenzione non devono portare pregiudizio alla dignità umana

 

Parto dalla cogenza delle regole e delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea, tenendo ferma la distinzione tra tre tipi di raccomandazioni: le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che hanno un effettivo valore di indirizzo per i governi, poiché stabilite da un organismo in cui sono presenti i governi stessi che, quindi, nell’approvare una raccomandazione, implicitamente assumono l’impegno a riproporre all’interno dei propri rispettivi ordinamenti ciò che hanno assunto come decisione comune. Le Regole penitenziarie europee, che sono appunto raccomandazioni del Comitato dei ministri, hanno, quindi, una loro efficacia; non sono direttamente agibili come le norme di una Convenzione, però costituiscono un corpus che effettivamente investe la responsabilità dei governi.

Diverse sono le Raccomandazioni dell’Assemblea, per esempio la Raccomandazione dell’Assemblea, la 1340 del 1997, richiamata anche nel ricorso alla Corte Costituzionale. Le raccomandazioni dell’Assemblea non hanno nessun valore giuridico, essendo soltanto atti di riferimento al Comitato dei ministri affinché questo si attivi per approvare qualcosa riguardo il tema individuato: hanno essenzialmente un valore di indirizzo culturale. Analoga è la situazione di tutte le Raccomandazioni che il Parlamento europeo assume, che non hanno alcun valore vincolante e non possono essere in qualche modo agite come elemento di eventuale infrazione da parte degli Stati.

Ci sono infine principi consolidati che anche se non esplicitati sono alla base di tutti gli ordinamenti europei: uno di questi è quello, già citato, dell’inaccettabilità di pene che abbiano valore di menomazione e inibiscano future possibilità dell’espressione umana del soggetto. Per esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura ha definito “inumana e degradante” la possibilità esistente nella Repubblica Ceca al trattamento dei sex offenders attraverso la castrazione chirurgica, anche se questa era formalmente eseguita dietro consenso dell’interessato. Il Comitato ha stabilito che tale trattamento aggrediva irreversibilmente la potenziale genitorialità del soggetto e, quindi, ne menomava una funzione strettamente inerente alla sua umanità: per questo ha chiesto – e ottenuto – l’immediata sospensione della pratica.

Anche l’assenza totale della possibilità di rapporti sessuali può essere letta con la lente del divieto di pene menomanti e sotto quello del privare il soggetto del diritto alla potenziale genitorialità.

Quali sono gli articoli che sotto questo profilo entrano in gioco? Sono, io credo, l’articolo 3, l’articolo 8 e l’articolo 12 della Convenzione europea per i diritti umani: qui è punto di mio dissenso con il ricorso avanzato dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che non ha messo in gioco proprio l’articolo 12.

L’articolo 3 stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura e trattamenti inumani e degradanti; l’articolo 8 riguarda il diritto al rispetto della vita privata e familiare; il 12, su cui mi vorrei soffermare, parla di diritto al matrimonio e così recita: “A partire dall’età minima per il contratto per il matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”.

Contiene non solo il diritto di sposarsi, ma anche il diritto di fondare la famiglia. Pone allora un problema nel momento in cui viene tolta la possibilità di avere naturalmente dei figli, dal punto di vista non solo del detenuto, ma soprattutto del diritto del coniuge di fondare una famiglia. Il diritto di chi ha sposato un detenuto viene compresso sulla base dei limiti posti al detenuto stesso.

Ora voi sapete che c’è il principio, che la Corte ha più volte affermato, che sono possibili le restrizioni dei diritti enunciati nella Convenzione, quando però la restrizione non diventi tale da far perdere quella che è la ratio del diritto stesso. Sorge così il problema se la restrizione imposta con l’assenza di rapporti sessuali, al diritto del coniuge di fondare una famiglia, avendo sposato un detenuto, non sia tale da far venir meno il senso del diritto in quanto tale.

Osservo che in una nota sentenza della Corte di Strasburgo – la sentenza Kalashnikov v. Russia del 2003 – la Corte dà un’apertura al tema, affermando: “Occorre considerare la possibilità di permettere ai detenuti di incontrarsi con i loro partner sessuali, senza supervisione durante la visita”.

È stata questa la prima volta che la Corte ha aperto alla considerazione di questo aspetto, riprendendo poi la stessa impostazione in un altro paio di sentenze, dove ha enunciato il principio che quando alle persone sposate non è permesso avere visite coniugali, ciò che mette sotto questione tale decisione non è soltanto il diritto del detenuto quanto piuttosto il diritto del partner, e invita a considerare entrambi gli elementi.

Ho citato precedentemente le Regole penitenziarie europee. Queste costituiscono dei principi-guida da tenere presenti e su cui occorre interrogare i vari ordinamenti nazionali. Nella loro premessa, oltre ad affermare che occorre tener conto della Convenzione europea per i diritti umani e della Convenzione contro la tortura, affermano che le condizioni di detenzione non devono portare pregiudizio alla dignità umana nel presente né tali da poter evolvere in situazioni contrarie alla dignità umana. Successivamente, prima di elencare le Regole, enunciano nove principi fondamentali e qui richiamano un principio che la dottoressa Fiorillo ha richiamato fin dall’inizio, sollevando alcune eccezioni di incostituzionalità alle norme e alla prassi che oggi inibiscono ai detenuti e alle loro famiglie di avere rapporti affettivi e sessuali. Si tratta del principio secondo cui le restrizioni imposte alle persone private della libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte.

È proporzionale all’obiettivo legittimo per il quale è stata imposta una pena che determina, oltre alla privazione della libertà, un elemento che può evolvere in menomazione fisica del soggetto e contemporaneamente anche può inibire l’espressione di un qualcosa che è intrinseco alla sua connotazione di essere umano? Il principio di proporzionalità è in questi casi pienamente rispettato?

Il secondo principio fondamentale enunciato è che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”.

Sono due termini, “proporzionalità” e “il più vicino possibile” che lasciano margini, come dire, di apprezzamento, di valutazione. Però sono anche principi fondamentali che inducono a domandarsi se le Regole interne dei diversi Paesi siano o meno coerenti con essi. E, infatti, in questa linea, la regola 24 delle Regole penitenziarie europee – quella che riguarda le visite dei familiari – nel suo primo capoverso stabilisce che “ai detenuti deve essere permesso di conservare e sviluppare le relazioni familiari in un modo che sia il più normale possibile”.

Vorrei portare un esempio positivo. È quello dell’esperienza di un Paese europeo, la Finlandia, che prevede due tipi di visite – la Finlandia è un territorio vasto, con grandi problemi di trasporti all’interno e non è facile muoversi per raggiungere luoghi di detenzione lontani – così suddivise: visite che durano da uno a tre giorni, per un totale di ventuno giorni l’anno; visite brevi, da quattro e sei ore due volte al mese. Spetta alla famiglia scegliere un modello o l’altro.

In molte situazioni poi la questione della gestione degli spazi per i colloqui è lasciata all’organizzazione, che io mi ostino a chiamare “responsabilizzante”, della vita interna da parte dei detenuti, che all’interno delle unità carcerarie organizzano i turni, la gestione di queste piccole unità abitative, dove è possibile stare fino a tre giorni e che sono munite anche della stanza per i bambini.

Quello che ho riscontrato e continua sempre a colpirmi è il fatto che in tutte queste situazioni non ho mai visto elementi di contrasto con il personale della sicurezza; al contrario ho sempre visto un forte appoggio proprio da parte del personale, forse anche dovuto a un improprio uso della possibilità delle visite come elemento di disciplina all’interno del carcere. Un elemento, quest’ultimo, che non mi trova concorde e ricordo che il Comitato ha più volte chiarito che le sanzioni disciplinari non possono confliggere con i diritti soggettivi incomprimibili, quale quello del mantenimento degli affetti familiari; quindi non è possibile diminuire le visite previste dall’ordinamento di un dato Paese, sulla base di un provvedimento disciplinare.

Tuttavia, al di là di questo aspetto, resta il fatto che tutti gli operatori penitenziari, inclusi quelli addetti alla sicurezza, dei Paesi dove i colloqui intimi sono possibili, si sono sempre dichiarati favorevoli al sistema. Al contrario, in Italia, quando verso la fine degli anni Novanta, il tema venne sollevato, ci fu una forte opposizione dei sindacati della Polizia penitenziaria che ritenevano che la loro funzione professionale venisse così degradata.

Questo è un elemento molto grave dal punto di vista delle culture che esprime.

Concludo, dicendo che dobbiamo sempre tener presente che se attribuiamo, giustamente, ad alcuni elementi che disegnano la detenzione, una rilevanza che attiene alla costituzione della persona in sé e, quindi, li riconosciamo come costitutivi del suo essere persona, non possiamo poi vincolarli alla tipologia del reato commesso. Dobbiamo garantirli.

Non possiamo, per esempio, affrontando un tema diverso anche se connesso a questo, avere una legislazione che vuole fondarsi sulla prevalenza dei diritti dell’infanzia rispetto a ogni altra considerazione, anche alle stesse esigenze di giustizia, e poi discriminare il godimento dei diritti dei figli dei detenuti e delle detenute sulla base del reato da questi commesso. Perché c’è un contrasto logico tra questi due elementi. Che questi colloqui possano avvenire in condizioni di maggiore sicurezza è un’altra questione, ma non possiamo porre in modo confliggente diritti che riconosciamo come fondamentali: quello alla tutela delle connotazioni fondanti della persona e quello alla doverosa garanzia di sicurezza della collettività. Dobbiamo trovare un modo perché entrambi agiscano in armonia.

 

(Intervento alla Tavola rotonda “Degli affetti e delle pene” - Firenze 25/05/2012. Un’iniziativa della Regione Toscana - Consiglio regionale e del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale).

 

 Diritto all’amore della propria famiglia

Piccole proposte per “salvare” le famiglie delle persone detenute

 

Quello che si può fare subito nelle carceri, a dispetto del sovraffollamento, è promuovere finalmente alcune misure per “salvare” le famiglie:

 portare almeno a otto le ore mensili previste per i colloqui;

migliorare i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani e i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); attivare le aree verdi per i colloqui, dove esistono spazi esterni utilizzabili;

autorizzare tutti i colloqui con le “terze persone”;

autorizzare colloqui via Internet per i detenuti che non possono fare regolarmente i colloqui visivi, utilizzando anche sperimentalmente Skype;

“liberalizzare” le telefonate, come avviene in molti Paesi, sia per quel che riguarda la durata che i numeri da chiamare; togliere le limitazioni alle chiamate ai cellulari;

rendere più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, raddoppiare il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute.

Chiediamo inoltre che sia predisposto in tutte le carceri il sistema della scheda telefonica come già in atto nella Casa circondariale di Rebibbia, nella Casa di reclusione di Padova e in altre carceri, sistema che permette un grande risparmio di lavoro, eliminando l’inutile burocrazia delle domandine per telefonare, e che consentirebbe di passare con più facilità a una “liberalizzazione” delle telefonate, come avviene appunto nella maggior parte dei Paesi europei. Mantenere  contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, così come quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire anche una forma di prevenzione dei suicidi.

 

Le nostre proposte per “proteggere” gli affetti che il direttore di Padova, in un incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti,  ha deciso di accogliere

 

“eccezionale” in cui versano le carceri per il sovraffollamento, ogni detenuto potrà usufruire di due telefonate aggiuntive al mese automaticamente;

si potranno organizzare più occasioni di incontro delle persone detenute con le loro famiglie (non solo con figli minori) su modello della Festa del papà, dove i detenuti potranno pranzare con i loro cari. Queste ore saranno in aggiunta alle sei ore mensili consuete;

verranno installate nei locali adibiti ai colloqui macchinette per bevande e cibi, per consentire ai parenti di incontrare i propri cari in condizioni un po’ più decenti;

verranno autorizzati tutti i colloqui con le “terze persone”, purché non abbiano gravi precedenti penali;

verrà appoggiata la richiesta, fatta da Ristretti Orizzonti al DAP, per equiparare le telefonate ai cellulari a quelle ai telefoni fissi;

verranno riviste le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile.

Un figlio in carcere, una disperazione mortale

Nel cuore rimane sempre l’angoscia  di non aver dato abbastanza amore, di non essere stata più vicina nei momenti della sua vita in cui mio figlio aveva più bisogno di me

 

                          testimonianza della madre di Igor

 

Sono la madre di un ragazzo di 26 anni che ha perso la sua libertà da sei lunghissimi anni. Proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno. Quando poteva essere più felice, uno dei più bei giorni della sua vita, è successa una tragedia. Eravamo una famiglia unita, bella, stavamo realizzando i nostri sogni... una casa, un bel lavoro ed essere tutti insieme. Però la felicità è durata poco… la tragedia di quel maledetto giorno ci ha distrutto totalmente la vita. In un solo giorno abbiamo perso tutto, le amicizie, la gioia, la serenità, la fiducia delle persone, la fede, la casa tutto.

Non si poteva più vivere, più respirare. La disperazione era mortale... un figlio in carcere!!! Lacrime, grida: un figlio che fino a quel momento era un esempio, un superbuono, intelligente, un lavoratore, in un attimo era diventato un OMICIDA, un “MOSTRO”...

Tutto questo non ci stava nella mia mente… Non era possibile, era spaventoso, non era da lui, era incredibile... eppure è successo!!

Mi volevo vedere morta, l’unico pensiero era di prendermela con Dio. Dove era Dio, perché aveva permesso a mio figlio di fare una cosa del genere? perché ci aveva abbandonato? Domande, domande, domande e nessuna risposta. Giorni terribili di paura e di angoscia. Televisione, radio, giornali, la gente, tutti contro di te, ti parlano alle spalle, ti perseguitano, ti minacciano, ti spaccano le finestre… di tutto e di più.  E LE FAMIGLIE RIMANGONO SOLE, abbandonate, non c’è nessun tribunale, nessun potere che faccia qualcosa per il dramma di una famiglia, è un dolore così grande... È in questi momenti che una madre deve essere più forte che mai. Dobbiamo superare ogni ostacolo e guardare in faccia la realtà, ho sofferto tanto, ho visto l’ingiustizia, l’abbandono dei parenti più stretti e degli amici, la solitudine, la malattia, la tristezza, la morte della mia mamma, che ha sofferto molto per me e per la disgrazia di mio figlio (il suo nipote preferito). Le cose accadono, anche se non devono mai accadere, accadono nelle famiglie ricche e in quelle povere, nelle famiglie educate e meno educate, drogate e meno drogate… ACCADONO. E NOI, LE MAMME, non troviamo pace tutta la vita, perché nel cuore rimane sempre l’angoscia di non aver dato abbastanza amore, di non essere stata più vicina nei momenti della sua vita in cui mio figlio aveva più bisogno di me, e ci rimane un vuoto nello stomaco. Per questo ci si aggrappa a qualsiasi cosa per poter andare avanti. E per poter superare la solitudine a volte ci si avvicina di più a Dio, si fa più carità, si diventa più buoni, e si capisce di più come è fatta la vita.   

È impossibile non fare colloqui in carcere, là dove trovi l’amore di tuo figlio disperso nel buio e speri con tutta l’anima di non averlo ancora perso del tutto, e ti illumini quando è là che non vede l’ora di abbracciarti, accarezzarti, e mentre abbassa gli occhi lo senti, che lui ti chiede perdono. Cosi ti si accende la vita e provi ad andare avanti con tutte le forze, bisogna andare avanti, la vita continua, anche perché ci sono persone che ti sostengono, come la chiesa, i volontari, il vostro giornale “Ristretti Orizzonti”, che io sfoglio ogni giorno. GRAZIE, per il vostro sostegno e il vostro contributo nella vita dei nostri figli, vittime della indifferenza, o dell’ingiustizia o del proprio destino o della pazzia… GRAZIE            

Avrei da scrivere un libro sulla tragedia accaduta nella nostra famiglia, sul passato nero di questi sei lunghissimi anni, ma il tempo per fortuna guarisce davvero le ferite, il vento porta via i pensieri brutti, e pian pianino la vita riprende il suo percorso

Io dal profondo del cuore auguro a tutte le mamme che hanno figli in carcere di non abbandonarli mai, di essere forti per poter stare loro vicino, perché da noi dipende il loro futuro e la tranquillità della nostra società. E sono assolutamente sicura che uniti insieme nella famiglia possiamo aiutare i nostri figli a rifarsi una vita da uomini liberi. E a voi, i nostri figli, auguro di essere in pace con voi stessi e con tutti, di non tornare mai più in carcere.

 

 

La testimonianza della sorella di un detenuto

La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere

La voce di un agente ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto. Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggi, è terminato

 

di Giovanna Floris

 

La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere, mio fratello aveva 29 anni.

Una vita normale da studente universitario, il sogno di diventare veterinario, lo sport sua grande ragione di vita, la montagna, la pesca, gli amici di chiassose serate a ridere di se stessi. Una famiglia semplice come tante. Poi ad un certo punto la strada sbagliata, dalla quale è impossibile tornare indietro e nella quale quell’intelligenza mostrata fin da bambino, diventa il peggior nemico.

Ricordo sempre la frase che un poliziotto disse un giorno, o forse era notte, non so, durante una delle infinite perquisizioni domiciliari: “La sua intelligenza ci fa paura, è contro di lui “

La nostra prima esperienza col carcere è avvenuta a Badu e Carros a Nuoro.

L’agente di custodia aveva un’aria imponente: come se volesse dirci che era lui il tutore della legge e noi i fuorilegge. Aprendo e chiudendo quei cancelli, il grosso mazzo di chiavi che ostentava come un trofeo, faceva un gran baccano.

Odio le chiavi e pure i cancelli.

Le settimane passavano lente e tutti in famiglia si faceva a turno per andare ai colloqui.

Nostro padre aveva pure comprato un’auto nuova.

Dopo Nuoro, fu la volta di Oristano e poi di Cagliari.

Stagione dopo stagione passano gli anni e pure gli eventi; tutto diventa più difficile, le condanne cominciano a sommarsi e nessuno ci può far nulla neanche i numerosi “azzeccagarbugli “ che si sono susseguiti nel tempo.

Tutto è inutile e la matassa si fa sempre più complicata.

Gli amici e i parenti si arrendono e poi, in silenzio, scompaiono.

Ma il peggio deve ancora avvenire: il trasferimento al continente (così noi sardi chiamiamo il resto d’Italia) fu la disperazione per tutti noi. Era già difficile alzarsi all’alba per raggiungere le località della terraferma, figuriamoci varcare il mare!

Il nostro paese si trova all’interno e per raggiungere qualsiasi porto si devono fare 200 Km circa, il che significa tre ore di viaggio. E si è solo al porto di partenza. Tutta la notte su una nave di linea e poi l’intera mattina su un treno che puzza di fumo e sudore, alla fine la corsa in taxi fino al parcheggio del carcere di turno.

Una lunghissima attesa, forse più lunga anche del viaggio stesso, prima che da un posto di guardia leggano il nostro cognome, tutto ciò che sanno di noi.

Dimentichi di aver fame e sete, freddo d’inverno e caldo d’estate, ma conta solo essere arrivati in tempo per il colloquio.

Mentre i cancelli si chiudono dietro di noi, tutto diventa reale: le perquisizioni con i metal detector e i guanti usa e getta, le stupide discussioni per quel pane tipico che nessuno conosce, il formaggio che puzza di capra e poi c’è qualche etto in più che non si sa proprio da dove si deve togliere. Finalmente quei viveri che hanno varcato mari e monti vengono accettati con un nostro grande sospiro di sollievo.

L’ultimo cancello che ci separa dal resto del mondo si apre, e come in un film appaiono i primi detenuti, pallidi ed in fila indiana, e tra essi noti finalmente il viso caro che ti sorride.

Il muro che ci separa è alto un metro circa, e non ci permette di scambiarci un vero abbraccio.

Sembra quasi normale trovarsi a parlare del più e del meno, a portare i saluti degli amici che sono rimasti, notizie sulla salute dei genitori che invecchiano e dei bambini che crescono.

“E gai passad sa vida trista e lanza”, (così trascorre la vita, triste e vuota) recita un’antica poesia dialettale.

La voce stridula di un agente, ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto.

Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggio, è terminato.

Quante volte avrei voluto piangere e urlare che non costava niente stare lì a chiacchierare ancora; ma quel tempo non era più nostro. Bisognava alzarsi e andare via senza voltarsi indietro per nascondere la sofferenza.

Il viaggio di ritorno è il più doloroso.

Le valigie vuote, leggere; il cuore pesante, troppo pesante anche per ammirare i luoghi bellissimi che di volta in volta attraversi: Firenze, Pisa, Napoli, Avellino,Treviso, Padova.

E così viaggio dopo viaggio il tempo passa e alle volte mi ritrovo a pensare se quella vita l’ho vissuta realmente o me l’hanno solo raccontata.

E tra cielo e mare attraversi montagne e pianure e ti ritrovi ancora una volta davanti a cancelli arrugginiti tutti uguali, così come le guardie.

Poi finalmente una mattina di primavera, una telefonata, e quella voce allegra che avevi dimenticato “Sono fuori… ci hanno portato in gita scolastica…”. La speranza mai perduta torna a galla.

Ora potrebbero esserci i primi permessi premio, le prime uscite dal carcere.

Prego Dio che qualche persona di buona volontà si interessi a quella vita dimenticata.

Quella persona esiste… .è caparbia e convincente, tanto da permettere la realizzazione di un diritto, che a me però, piace chiamare “sogno”.

La prima volta che ho abbracciato Antonio all’aria aperta, è stato all’OASI dei Padri Mercedari di Padova, un posto splendido, accogliente e pulito proprio come le persone straordinarie che lo gestiscono.

Percorrendo il viale alberato, per la prima volta dopo tanto tempo, mi sono sentita una sorella normale come tutte le sorelle del mondo, sarà forse per il fatto che lì dentro le persone vengono chiamate per nome e nessuno giudica nessuno.

Il miracolo del tempo mai passato mi rendeva serena.

Le cose semplici, alle quali nella vita quotidiana non dai valore, diventano speciali: rivedere Antonio fare il fuoco, cucinare, preparare tutto per gli amici che vengono a pranzo, mi ha emozionato.

Antonio ha sette anni più di me.

Per tutti questi anni però io sono stata più vecchia di lui per il solo fatto che la mia vita ha continuato a scorrere e la sua ha rallentato la corsa.

Sarà stupido, lo so, ma per me lui ha sempre 29 anni.

Mi piace pensare che non sia mai invecchiato.

Sarà perché spero si possa tornare a vivere anche a 58 anni.

Sono pronta a dimenticare tutto il dolore, tutto il tempo inutile passato aspettando una svolta e ora che questo tempo è dietro la porta, lo voglio vivere tutto.

La vita ha un immenso debito, verso Antonio.

E forse anche verso di noi, “familiari a piede libero” ma legati inesorabilmente alla stessa pena.

Ed è solo quel sottilissimo filo che tiene uniti due mondi paralleli e lontanissimi: il carcere e il mondo reale.

   

Non ricordo la presenza di mio padre in casa

Tutti si chiedono come facciamo ad assomigliarci cosi tanto senza nemmeno aver passato tanto tempo insieme

 

di Suela, figlia di Dritan

Avere un genitore in carcere da cosi tanti anni comporta diverse conseguenze, come sentirne la mancanza in casa, i sacrifici che si devono sostenere, e per chi ha dei figli poi, naturalmente per le mogli che rimangono sole non è facile riuscire a crescerli, educarli e fargli seguire la strada giusta.

lo personalmente mi sento fortunata, perché mia madre è una donna seria, con dei sani principi, ed è grazie a lei che la nostra famiglia è ancora unita, perché ha fatto di tutto per non far andare ogni cosa per il verso sbagliato. Purtroppo molto spesso sento dire che ci sono detenuti abbandonati dalle proprie famiglie, è una cosa molto brutta e difficile per entrambe le parti, ma non spetta a me giudicarli, perché per fortuna nella mia famiglia non è successo, anzi, grazie a lui che si sta comportando bene, e grazie alle persone che lo hanno aiutato e lo stanno aiutando, si avvicina sempre di più alla libertà assoluta, ma come ho già detto anche a lui, io non ho mai perso le speranze, perché non sono un paio di muri a farmi pensare che sarebbe finito tutto cosi.

È da quando ero molto piccola, tanto da non ricordare la presenza di mio padre in casa, che vivo in questa situazione e non è stato facile, anzi, ma ho la prova concreta che ciò che non ti uccide ti rende più forte. Quando qualcuno viene a sapere che uno dei tuoi genitori è in carcere, ti guarda in modo diverso, creandosi delle strane idee, o magari pensando che i figli faranno la stessa fine, ed è per questo motivo, e anche perché sono molto riservata, che neanche la mia migliore amica sa che mio padre è in carcere, non perché me ne vergogno, ma perché sono rare le persone a cui dispiace veramente, altre invece vogliono solo passare la giornata parlandone con altre persone e tirando fuori tutte le loro opinioni “inutili”.

Quando la gente dice che in carcere si sta meglio che fuori, mi arrabbio, dato che il carcere per me vuol dire non essere libero, e la libertà è il bene immateriale più prezioso, per il quale gli uomini hanno sempre combattuto rimettendoci la vita, e ora si fanno certe affermazioni prive di un senso logico.

lo e mio padre abbiamo un legame particolare, abbiamo atteggiamenti, pensieri, e un carattere molto simile. Tutti si pongono la stessa domanda: come facciamo ad assomigliarci cosi tanto senza nemmeno aver passato tanto tempo insieme? Eppure me lo chiedo anch’io, e l’unica risposta che mi sono data è che lui è mio padre ed è normale che ci assomigliamo, io sono il sangue del suo stesso sangue. Io lo adoro, lui è sempre paziente, giustifica ogni mia reazione, mi dimostra sempre il suo affetto e quando lo guardo i suoi occhi sembra che mi chiedano di perdonarlo, io non lo devo perdonare perché non è colpa sua se non mi è stato vicino, ma del destino e un po’ della sua poca diligenza.

 

Sprigionare gli affetti

 

Il detenuto 8556

Una scelta difficile

Ho chiesto a chi veniva a trovarmi a colloquio  di non venire più, a chi mi scriveva di non scrivermi più  e a chi mi aspettava di non aspettarmi più

 

di Clirim Bitri

 

 

Sono il detenuto 8556. Oggi ho partecipato a una riunione del Gruppo di Discussione della redazione di Ristretti orizzonti, dove si discuteva della situazione degli affetti nelle carceri italiane.

Mi trovo in carcere da oltre tre anni, e in questo tempo ho visto tante situazioni che mi hanno spinto a fare una scelta difficile: Ho chiesto a chi veniva a trovarmi a colloquio di non venire più, a chi mi scriveva di non scrivermi più e a chi mi aspettava di non aspettarmi più.

Perché? Perché ho visto detenuti piangere quando hanno ricevuto una lettera dalla moglie e dietro le righe hanno visto che si stava allontanando. Perché ho visto detenuti essere umiliati da un agente di fronte alla moglie al colloquio perché l’hanno voluta accarezzare. Perché conoscevo detenuti che dopo che hanno ricevuto una lettera di poche righe con la quale la moglie li lasciava, si sono tolti la vita. Ho fatto quella scelta per risparmiarmi queste situazioni.

Le mie cattive abitudini mi hanno portato a fare sei mesi di reclusione in Belgio, dove i detenuti potevano telefonare ogni due giorni quando erano in custodia cautelare, e una volta definitivi quando volevano. Avevano quattro ore di colloquio “privato” al mese. Dove la liberazione anticipata ti era anticipata, e se infrangevi le regole ti veniva revocata (risparmiando un sacco di lavoro all’istituzione corrispondente al magistrato di Sorveglianza.

In Italia è “fortunato”  colui che ha una pena piccola e può sperare di ritrovare fuori quella situazione che ha lasciato.

Come si possono mantenere i legami famigliari con quattro telefonate al mese? Se succede come a me, che in una stessa settimana hanno il compleanno i due figli, uno deve scegliere a chi dei due fare gli auguri. Come si possono mantenere i legami famigliari in una situazione dove non c’è intimità neanche per piangere?

È giusto che io stia in carcere perché sono colpevole, il colpevole che ha leso i diritti di qualcuno. Sono stato condannato a scontare la pena per gli errori che ho fatto, ma non riesco a spiegare a mio figlio perché ho preferito fare gli auguri a suo fratello e non a lui, perché non è colpa mia. Non riesco a spiegare a mia moglie che la amo ancora, ma quando viene al colloquio, non posso baciarla perché c’è la possibilità che mi facciano un rapporto disciplinare e non mi concedano la liberazione anticipata. Io ho sbagliato, ma loro no. Non riesco a trovare il colpevole che ha messo la mia famiglia in condizioni di abbandonarmi. Non riesco a trovare il colpevole che mi ha lascato solo privandomi degli affetti famigliari, perché un uomo solo e che non ha niente da perdere può commettere reati più facilmente.

La soluzione è facile, basta che le istituzioni dimostrino un po’ di più coraggio dicendo che chi commette reati finisce in galera, ma la pena la deve scontare solo lui. Permettendo a sua madre di abbracciare suo figlio e piangere da sola con lui. Permettendo a sua moglie di baciare senza vergogna suo marito, togliendo il dubbio al figlio che suo padre non gli voglia bene.

In Italia sono quasi 70.000 i detenuti che scontano una pena per i loro reati (ammettendo che tutti siano colpevoli perché sono compresi anche quelli che sono in custodia cautelare), ma sono quasi 70.000 famiglie che scontano una pena per qualcosa che non hanno fatto. Se a queste famiglie fosse data la possibilità di tenere vivi i rapporti affettivi in condizioni normali con i loro parenti che hanno commesso anche dei gravissimi reati, in un prossimo futuro vedremmo meno ex detenuti nelle carceri italiane.

 

Non vedo i miei figli da parecchio tempo

Ma ho recuperato la gioia di sentirli, quando mi è possibile, al telefono, anche se non chiedo più “Quando venite a trovarmi?”

 

di Alan Canzian

 

Parlare di affetti in carcere significa sempre toccare un tasto amaro, anche perché io non vedo i miei figli da parecchio tempo. Sono in carcere ormai da quattro anni e proprio in questo posto ho potuto coltivare, un po’ alla volta, l’amore verso i miei figli, purtroppo solo con lettere o telefonate, e tutto questo mi fa stare molto male, perché non posso riabbracciare la mia famiglia con un po’ di serenità.

Noi della redazione di “Ristretti” affrontiamo spesso questo tema, e ogni volta è un colpo al cuore, tempo fa proprio davanti ai ragazzi delle scuole, che spesso vengono a incontrarci grazie al progetto scuola/carcere, davanti a una domanda di una ragazza dell’istituto Scalcerle, che chiedeva se quando siamo entrati in carcere i nostri familiari ci hanno abbandonato, non ho potuto non rispondere. Purtroppo non lo faccio quasi mai, o per timidezza o per paura, o perché tutto questo mi provoca un’ansia tremenda, ma quel giorno come per magia, o perché proprio in quel periodo iniziavo a riprendere, con non poca fatica, il dialogo con mio figlio Steven, il più piccolo, ho risposto con poche parole alla sua domanda. Ricordo che non è stato per niente facile, ma con il cuore in gola ho raccontato che avevo ricevuto una lettera da mio figlio (era la prima volta) e che lui non mi avrebbe del tutto abbandonato, anche se mi rimproverava di non esserci stato quando lui ne aveva bisogno e invece ha dovuto crescere senza avere un padre vicino.

Quello è stato un giorno molto importante per me, oltre ad essere il mio compleanno: avevo ricevuto quella lettera così inattesa e ne avevo parlato, cercando di capire i miei sbagli fatti proprio a danno della mia famiglia, loro non hanno colpa non hanno chiesto di venire al mondo, ma purtroppo ci sono e devono pagare anche loro per la mia lontananza e per i miei errori. Di tempo ne è passato da quel giorno ed io non sono stato più in grado di parlare con i ragazzi delle scuole, ma in compenso ho recuperato la gioia di sentire i miei figli, quando mi è possibile, al telefono, anche se non chiedo più “Quando venite a trovarmi?”, so che per mille motivi questo non sarà facile, ma quel che conta è che loro esistono e non mi hanno dimenticato.

Il più grande mi ha fatto un bel regalo: sono diventato nonno di una bella nipotina e con piacere ho ricevuto una loro foto. Il più piccolo invece purtroppo ha perso l’anno scolastico.

Io sono ancora molto impacciato quando li sento, le parole non escono e non so mai cosa dire, sento che anche dall’altra parte del telefono non è facile, anche a loro mancano le parole, tutto questo ti fa stare male e sai che sentirli non ti basta più, vorresti stringerli forte a te e vivi con la speranza che in un giorno vicino li potrai ancora incontrare, anche se molta strada ci sarà da fare e saranno proprio loro che mi daranno la forza per continuare.

Volevo anche dedicare un pensiero alla mia ex compagna, madre dei miei figli, purtroppo la nostra storia è finita molto tempo fa, ma ancora adesso devo ringraziarla per tutto quello che ha fatto sia per me che per i nostri figli. Oltre che crescerli nel migliore dei modi, lei non ha mai cercato di metterli contro di me, anzi ha cercato di far capire perché il loro papà è in galera, spiegando che quel padre non è proprio una brutta persona, ma purtroppo, trovandosi con dei problemi più grandi di lui, non è stato capace di chiedere aiuto in quei momenti di grande bisogno, ed è arrivato ad usare la droga credendo che quella fosse l’unica possibilità per risolvere i propri problemi.

Ora posso solo rimediare e cercherò di farlo anche mettendomi a disposizione di quei ragazzi delle scuole, che incominciano una fase difficile della loro vita, con tutti quei problemi che l’adolescenza comporta, sperando che possano, dalla mia brutta storia, trarne un’utilità, e io con loro pur trovandomi in carcere dovrò continuare a lottare, sperando di avere un bel futuro assieme alla mia famiglia.

 

Un “calendario carcerario”  delle telefonate che mi allontana sempre più dai miei figli

Due figli che vivono lontani e non hanno  un telefono fisso, un padre detenuto che deve scegliere di chiamare solo uno dei due

 

di Federico Torchia

 

Era giovedì sette maggio. Pensieroso e con lo sguardo perso nel vuoto, camminavo verso la mia cella. La faccia rifletteva il mio stato d’animo. Incredulità - ecco cosa sentivo. Non capivo come e perché in un Paese come l’Italia siamo ancora tanto arretrati.

Mi chiamo Federico e le vicissitudini della vita mi hanno portato lontano dalla mia Italia, a vivere con la mia famiglia in Spagna.

Ho tre figli, due piccoli, Attilio di 13 anni e Luigi di 7 anni. E dal primo giorno che sono recluso ho avuto grandi problemi di comunicazione con loro.

Questo perché Attilio vive in Italia con sua madre e Luigi vive in Spagna con sua madre. Premetto che tutti e due erano abituati a comunicare con me giornalmente e l’estate la passiamo tutti assieme.

Però da quando sono stato carcerato sono praticamente scomparso. Non sono più in grado di mantenere una forma di contatto con i miei figli. Che vivono questa mancanza di comunicazione come un abbandono e si colpevolizzano loro stessi. Ed è per questo motivo che pensano che il padre non gli vuol più bene e non li chiama più.

Tante volte ho chiesto di telefonare, e mi son trovato a combattere contro i mulini a vento.

Oggi è successa una cosa che ha dell’incredibile. Volevo attivare due numeri di cellulare per chiamare Attilio e Luigi. Invece mi è stato detto che dovevo scegliere chi chiamare perché non potevo essere autorizzato a chiamarli tutti e due.

Ma come posso decidere, io che amo i miei figli in modo uguale? Come faccio a prendere una decisione?

Vedevo i volti dei miei piccoli e sentivo i loro abbracci.

Alla fine ho deciso, ma non vi dirò chi ho scelto. Perché mi vergogno di aver scelto.

E non pensate che sia finito tutto qui. PERCHÈ posso chiamare solo una volta ogni 15 giorni.

E se per caso mia madre mi viene a visitare allora non posso più chiamare per altri 15 giorni che partono dal giorno del colloquio.

Così se sono passati 14 giorni dalla telefonata e un parente o un amico mi viene a visitare per darmi un po’ di conforto, devo aspettare 29 giorni per parlare con mio figlio, che intanto si chiede perché suo padre l’ha dimenticato.

Questo calendario carcerario mi allontana sempre più dalla mia famiglia e da chi mi vuole bene.

Cosa penseranno i miei figli di quel padre che non chiamava quando erano piccoli e avevano tanto bisogno di sentire una parola di conforto e d’incoraggiamento nelle difficoltà che può trovare un bambino crescendo senza la presenza di un padre?

Purtroppo siamo in tanti a soffrire e ci basterebbe un piccolo gesto di comprensione da parte della Direzione per farci sorridere e sentirci più vicini alle nostre famiglie.

 

Non bisogna spezzare il filo sottile che tiene “attaccato” il detenuto ai propri cari

Ma la società ritiene che la colpa sia  anche dei familiari e non vuole rendersi conto  che anche loro sono “reclusi” nel mondo esterno

 

di Qamar Abbas

 

Per tutti noi che siamo in carcere parlare degli affetti qui dentro è sempre un problema, specialmente per le persone straniere che non hanno la possibilità di vedere i propri cari perché sono lontani, ed il carcere non aiuta a semplificare il contatto con i familiari garantendo un minimo di intimità, hai sempre la sorveglianza degli agenti incaricati dei controlli che ti costringe a trattenerti dal dare o ricevere una carezza.

Ore ed ore di attesa per solo sei ore di colloqui al mese, costretti a tutte le intemperie, con nessun riparo, nessun luogo di ristoro, e mancano spesso anche i servizi igienici esterni, e loro però non mollano, ma sino a quando? Questo è ciò che i miei familiari, come tutti gli altri, devono subire per stare accanto a me. L’unica loro colpa è quella di avere un proprio caro in carcere e mai avrebbero pensato di trovarsi in una situazione da cui non si può tornare indietro. Stanno subendo offese e provando vergogna con quelle stesse persone che li avevano accolti tanti anni fa al loro arrivo dal Pakistan. Io ho rotto quelle regole che i miei genitori hanno faticato ad imparare e ad insegnare pure a me, quegli stessi genitori che, messi al corrente dell’omicidio che avevo commesso durante una rissa, mi hanno dato l’esempio di come ci si deve comportare: costituirsi e pagare il debito con la società.

Sono persone che soffrono e difficilmente sono capiti nel loro dolore da chi, conosciuto il reato che abbiamo commesso, magari solo dagli articoli dei media, desidera mantenere “le distanze” ritenendo colpevoli anche i familiari. Quanto sarà difficile per loro incrociare gli sguardi dei paesani, non riesco neanche a immaginarlo, eppure loro devono uscire per gestire la loro vita, ma è difficile anche solo entrare in un negozio come quello che avevo io, lì la gente ti addita subito come figlio, fratello, parente di un detenuto.

I soli momenti nei quali possono sentirsi fuori da questo “giudizio” è ai colloqui perché si mischiano ad altre persone che vivono la medesima situazione. Loro, sempre loro e solo loro dovranno e, spero, sapranno riaccogliermi a casa tra tanti anni. Ecco che sarebbe necessario, per non allontanare da noi le nostre famiglie, ampliare gli spazi e i tempi dei colloqui, permetterci un po’ di intimità e lasciarci utilizzare di più quel semplice mezzo di comunicazione che è il telefono, che qui sembra un oggetto prezioso, da toccare solo per 10 minuti alla settimana. Ma perché questa poca attenzione da parte della giustizia italiana per le famiglie? Sembra impossibile che chi gestisce il potere non possa pensare per un solo millesimo di secondo di immedesimarsi nei sentimenti di una persona che ha commesso un reato.

Sembrava che, da quando fa parte dell’Unione europea, l’Italia dovesse adeguarsi alle regole europee in tutti i comparti, ma per quel che riguarda le famiglie dei detenuti c’è ancora tanta strada da fare per mettersi al passo con gli altri Paesi, dove il detenuto può stare con la moglie o con i figli in un modo molto più naturale, umano e intimo. E questa è una garanzia di mantenimento di un rapporto con il proprio nucleo famigliare, che è lo stesso che ci aprirà la porta di casa a fine pena. E potrebbe essere un buon motivo per sopportare una pena in modo molto più equilibrato, diminuendo le tensioni create dal dover sopravvivere in un luogo di detenzione sovraffollato.

Ma i politici, pur consci dell’emergenza carceri, non stanno attuando le giuste misure per dare almeno dignità al detenuto e aiutarlo a non compromettere i legami con i familiari. Quegli stessi che per me hanno cercato di preparare un futuro “sano”, che poi io, coinvolto in una situazione che mai avrei pensato di dover affrontare, ho completamente distrutto, Se con la detenzione vogliono recuperarci, rieducarci, reinserirci nella società, credo sia giusto che ci aiutino a costruire un rapporto solido con le persone care che abbiamo lasciato fuori, persone che difficilmente ci abbandonano.

Tante volte mi domando perché la società ritiene che la colpa sia anche dei familiari e non vuole rendersi conto che anche loro sono “reclusi” nel mondo esterno e sono per tutti “i parenti di un detenuto”. Una situazione di difficoltà che per gli stranieri è amplificata, e che può portare anche alla rottura dei contatti con chi è “dentro”, ben chiuso a chiave.

Molte sono le sofferenze in un carcere sovraffollato, ma noi vogliamo mettere in primo piano il problema degli affetti, perché proprio da lì il detenuto trae la forza e l’impegno per cominciare a ricostruire il suo cammino, e una volta che avrà pagato la sua pena e sarà un uomo libero, l’unico riparo lo troverà probabilmente nella sua famiglia. Da lì potrà riprendere il percorso “fuori”, da dove lo ha lasciato, ma solo se gli sarà consentito di non spezzare quel filo sottile che lo tiene “attaccato” ai propri cari.

Territorialità della pena

Che significa: se sono detenuto, devo poter stare comunque vicino alla mia famiglia,  che di colpe proprio non ne ha

 

di Antonio Floris

 

Uno degli elementi basilari della rieducazione in carcere, come ben ha voluto evidenziare il legislatore, è l’agevolazione dei rapporti con la famiglia.

I contatti tra detenuti e familiari si fanno attraverso i colloqui visivi in sale affollate, dove mediamente ci stanno 12 – 15 detenuti e i loro familiari (numero massimo permesso è di tre familiari per volta). Il tutto si svolge sotto lo sguardo degli agenti il cui compito è quello di vigilare che l’incontro avvenga in tranquillità e senza turbamenti. I colloqui generalmente hanno la durata di un’ora, ma in via straordinaria (se il detenuto non ha effettuato colloqui nella settimana precedente e i familiari arrivano da posti lontani) la durata potrebbe essere anche di due ore. Il numero delle ore complessive mensili è di sei per i detenuti imputati o condannati per reati comuni e di solo quattro per i condannati o solo imputati di reati cosiddetti ostativi. Questo è quanto dice la legge, che testualmente recita: “Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari”.

Ma anche se la norma dice così, non sempre ci sono le circostanze favorevoli affinché i detenuti riescano ad incontrare le loro famiglie sei o anche solo quattro ore al mese. In pratica tutti i colloqui previsti riescono a farli solo quei detenuti che sono ristretti in carceri vicini al luogo dove abita la loro famiglia, mentre quelli che hanno le famiglie residenti in posti lontani centinaia di chilometri non li possono certo fare.

Mettiamo il caso di quelli (e sono migliaia) che sono ristretti in carceri del Nord e le loro famiglie abitano al Sud, o al contrario, senza parlare poi degli stranieri, la buona parte dei quali hanno le famiglie nei Paesi d’origine: per i familiari venire a fare colloqui in carcere è sempre un sacrificio e non da poco, anche per quelli che abitano vicini. Bisogna alzarsi la mattina prestissimo per cucinare qualcosa da portare dentro, poi mettersi in viaggio per arrivare al carcere e una volta arrivati all’ingresso non è che subito subito ti fanno entrare. No, bisogna aspettare il turno di entrata perché nelle sale dei colloqui si fanno turni di un’ora e quindi bisogna che si liberino le sale. Se le persone in attesa sono poche si entra non appena le sale si svuotano, ma se sono più di quante le sale ne possano contenere, allora si entra in ordine di arrivo e quelli che non possono entrare in quel turno entrano nel successivo o nei successivi.

Succede in tanti posti che i familiari si presentino davanti al carcere alle quattro del mattino e riescano a entrare nella sala del colloquio alle due o alle tre del pomeriggio. Al carcere di Napoli Poggioreale ad esempio questa è ordinaria amministrazione, perché tutti per fare in fretta arrivano pressappoco alla stessa ora, ma solo una minima parte può entrare ai primi turni, mentre gli altri devono aspettare fino a quando non vengono chiamati. Il che può succedere appunto anche nel tardo pomeriggio.

Se i problemi per quelli che abitano vicini sono questi, per quelli che abitano lontano ce ne sono anche altri. Io ho la mia famiglia in Sardegna e ho fatto fino a oggi 22 anni e più di carcere, la buona parte dei quali in istituti fuori della Sardegna, principalmente in Toscana, Campania e adesso qui in Veneto. Per venire a colloquio i miei familiari, che vengono sempre in aereo, devono fare 150 chilometri di strada per arrivare dal paese all’aeroporto, prendere l’ae­reo e sbarcare nell’aeroporto più vicino al carcere. Poi prendere il treno che porta alla città dove c’è il carcere. Arrivati li bisogna cercare un albergo dove passare la notte e poi il giorno dopo prendere un taxi che li porta al carcere e una volta lì affrontare tutti i problemi di attese snervanti sopra descritti. Infine dopo fatta un’ora o due di colloquio rifare tutta la strada del ritorno. Ogni volta è un sacrificio enorme che porta via almeno due giornate di tempo, senza contare le corse affannose da una parte all’altra e le spese. Essendo la cosa così faticosa, non è neanche immaginabile che si possa ripetere sei volte al mese, tante quante sono le ore di colloquio concesse. È già troppo se un simile viaggio si affronta una volta al mese o ogni due mesi.

In questa situazione si trovano non solo le famiglie dei detenuti sardi rinchiusi nelle carceri del continente, ma anche le famiglie dei detenuti continentali rinchiusi nelle carceri della Sardegna. La stessa cosa si può dire delle famiglie di tutti i siciliani, calabresi, pugliesi, campani rinchiusi nelle carceri del nord e di quelle che abitano al Nord ed hanno i loro cari imprigionati al Sud.

L’art. 42 dell’Ordinamento Penitenziario dice che nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia, in base al principio della “territorialità della pena”, il che vuol dire che i condannati dovrebbero espiare la pena nella loro regione, o se questo non è possibile, nella regione più vicina e comunque a non oltre 300 chilometri di distanza dalla residenza della famiglia. Ma in realtà per un grandissimo numero di detenuti questo criterio non viene rispettato. E chi ne fa le spese non siamo solo noi detenuti che qualche colpa sicuramente ce l’abbiamo, ma sono i nostri familiari, che colpe non ne hanno, a pagare il prezzo più alto.

 

I miei genitori  lo vogliono più di tutti,  il mio cambiamento

Loro sono anche consapevoli che devo pagare  per i miei errori, ma non capiscono come  possono farmi diventare una persona migliore  chiuso in queste condizioni, isolato anche da loro

 

di Fatjon Cana

           

I primi tempi del mio arresto, avvenuto in Macedonia, con mandato di cattura internazionale da parte dell’Interpol di Roma, mi hanno portato nel carcere giudiziario nella citta di Ocrida. Questo carcere è stato definito dagli organismi europei come carcere disumano e che tortura, in quanto in esso non esisteva nessuna condizione che poteva garantire una vita dignitosa al detenuto. Niente televisione, radio, giornali, libri, ma anche per la penna e la carta da scrivere era vietato l’uso.

Addirittura per i fumatori era permessa solo una sigaretta dopo ogni pasto, oppure durante l’ora d’aria che durava 30 minuti, per ogni singola cella, che ospitava in media tre detenuti. La doccia una volta ogni settimana, quando c’era l’acqua calda, ma di solito d’inverno era fredda.

Per quanto riguarda il contatto con il mondo esterno, famigliari, amicizie, o conoscenze nel mondo dello studio e del lavoro, anche se ero in un carcere così rigido, mi era permesso fare colloqui visivi con qualsiasi persona che aveva voglia di venire a trovarmi, bastava presentarsi con un documento di riconoscimento all’entrata, dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00, si poteva fare più di un colloquio al giorno, bastava che ci fosse posto. Ogni colloquio si svolgeva in stanze separate autonome, lontano dagli occhi degli agenti penitenziari, arredate con poltrone, tavolo e sedie, con bagno all’interno della stanza, in modo da dare quell’accoglienza e intimità, tra famigliari, amici e conoscenti, con i quali il rapporto si era interrotto dopo l’arresto.

Certo avere colloqui telefonici nelle carceri giudiziarie della Macedonia non era permesso, ma si poteva chiamare il responsabile, cioè gli agenti in servizio, gli si dava il numero della famiglia o dell’avvocato, e lui riferiva tutto ciò che il detenuto aveva scritto su una apposita richiesta. Altrimenti ti spediva un fax gratis, all’indirizzo che tu indicavi, nell’arco di due o tre ore. Ma anche se era un famigliare a chiamare il carcere, ti veniva immediatamente riferito.

Inoltre i famigliari, o chiunque venisse all’ingresso del carcere, anche se non avevano il tempo di entrare, potevano lasciare all’entrata in qualsiasi orario vestiti, soldi e prodotti alimentari di qualsiasi genere, bastava che il tutto fosse in confezioni sotto vuoto, in sacchetti trasparenti, per i dovuti controlli.

Certo anche in queste condizioni, non era mica facile la vita all’interno dell’istituto, ma il constante contatto con la mia famiglia e tutti gli amici che potevano venire a trovarmi era molto rassicurante per me e creava un clima di serenità, che rendeva più decenti le mie giornate.

Questo è durato fino a quando le procedure dell’estradizione si sono completate e sono stato estradato in Italia, al carcere di Rebibbia di Roma, in una sezione di Alta Sicurezza per affrontare il processo a mio carico.

Al mio arrivo in Italia, per avvisare la mia famiglia del mio trasferimento e mantenere i contatti con loro, è stata una vera odissea, perché non in tutti gli istituti penitenziari d’Italia le cose funzionano allo stesso modo.

Prima del mio trasferimento a Roma, avevo completato tutti i documenti necessari per poter telefonare alla mia famiglia (la bolletta telefonica, il certificato del nucleo famigliare). Tradotti e legalizzati da tutti gli istituti competenti di entrambi i Paesi. Ma dato che dovevo essere giudicato, dipendevo dal tribunale di competenza del processo e c’è voluto molto tempo per decidere se potevo chiamare o no la mia famiglia, cosicché dopo otto mesi mi è arrivato il permesso per telefonare.

Dopo tre mesi che ero in Italia sono venuti a colloquio i miei famigliari. Naturalmente con tutte le difficoltà incontrate per il viaggio, visto che i miei genitori non sono pratici negli spostamenti, aeri, treni, metro, inoltre per la non conoscenza della lingua il viaggio è stato per loro una vera sfida. Per non parlare dei problemi psicologici che avevano nell’incontrarmi.

 

Il mio primo colloquio in carcere in Italia è stato veramente un disastro

 

Il mio primo colloquio in Italia è stato veramente un disastro, sia per me che per i miei famigliari. Per entrare in istituto sono stati costretti a dare le impronte digitali, come una sorta di schedatura, e lasciati in attesa per ore prima di poter entrare dentro la sala colloqui.

Le sorprese non sono finite qui, perché la sala colloqui era divisa in mezzo da un muro alto un metro ed un pezzo di vetro che non ti permetteva di fare un colloquio normale tra persone care, che hanno tante cose da dirsi, e problemi da raccontarsi. Restando impietriti l’uno davanti all’altro, sia loro che io cercavamo di camuffare al meglio il disagio, loro dicendomi che fuori andava tutto bene, e che erano felici, ed io che in questo carcere stavo molto bene e che tutte le faccende giudiziarie stavano andando per il verso giusto. Ripetendo le stesse cose per tutto il tempo del colloquio. Ma nei loro occhi si vedeva una tristezza e una disperazione tali, che secondo me sono usciti più preoccupati di quando erano entrati a trovarmi.

Al carcere di Rebibbia è in funzione anche l’area verde, che consiste nella possibilità di incontrare i propri cari all’aperto in uno spazio migliore delle sale colloqui, e ogni detenuto ha il diritto di usufruire una volta al mese di tale spazio, dove puoi fare anche fino a quattro ore di colloquio continuato e ordinare da mangiare alla mensa dell’istituto o prepararlo in cella e portarlo direttamente al colloquio. Ci sono inoltre in questo spazio delle macchinette dove puoi acquistare l’acqua, il caffé, gelati e merendine, insomma un ambiente molto accogliente, dove si può passare una intera mattinata e pranzare con i propri cari con un po’ di intimità, lontano dagli occhi degli agenti penitenziari, e dove esiste la possibilità che le persone si mettano a loro agio e discutano seriamente dei problemi veri che hanno.

Un giorno trascorso in queste condizioni con i miei famigliari ha fatto sì che loro si sentissero più tranquilli e ci ha permesso di rivivere, anche se per poco, momenti belli come in famiglia. Per l’ultima volta li ho visti andare via con un leggero sorriso sulla faccia, ma per nostra sfortuna i problemi non sono finiti, perché io ho dovuto cambiare carcere, e ogni volta un altro indirizzo da dare, altre pratiche da fare per poterli chiamare, altro tempo da aspettare, ma lo stesso è rimasto il vizio di mentire loro, che non è una vera menzogna, ma solo un modo per evitare di caricarli di preoccupazioni in più, e con il “tutto va bene” ci si convince che le preoccupazioni non esistono. Niente di più sbagliato, perché chi ti vuol bene non si rassicura facilmente sapendo qual è il luogo in cui stai vivendo.

Mi viene sempre in mente una lettera ricevuta dalla mia famiglia dopo il colloquio fatto con me in Italia. Loro mi scrivevano che di sicuro qualche cosa mi era successa nell’ultimo periodo di vita prima dell’arresto, che loro non erano riu­sciti a notare per potermi aiutare a cambiare strada, e così si sentivano falliti nel ruolo di genitori, e delusi dalle mie scelte. Erano anche consapevoli che devo pagare per i miei errori, ma non capivano come possono farmi diventare una persona migliore chiudendomi in quelle condizioni e isolandomi anche da loro.

I miei genitori vorrebbero tanto spiegare a qualcuno che se avessero la possibilità di starmi vicino in qualsiasi maniera, farebbero di tutto per contribuire a cambiarmi in meglio. Perché alla fine loro lo vogliono più di tutti, il mio cambiamento.

La tristezza degli affetti violati

Un certo modo di criminalizzare i rapporti tra la famiglia e il congiunto detenuto ha prodotto una sfiducia nei confronti di un sistema che la famiglia la penalizza con feroci, ma soprattutto inutili, umiliazioni

 

Di Bruno Turci

 

Sono detenuto da molti anni e ho vissuto tante volte direttamente le umiliazioni che i parenti dei detenuti sono costretti a subire quando visitano i loro cari nelle carceri italiane.

Le autorità che stabiliscono i regolamenti penitenziari in materia di rispetto per la dignità e il diritto di famiglia sono riusciti, in nome della sicurezza, a emanare norme, nettamente contrarie al dettato costituzionale. Come ha sostenuto di recente la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Antonietta Fiorillo, che ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità rispetto al secondo comma dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, quella norma che impone che i colloqui con i famigliari in carcere si svolgano “in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”, sono palesi le violazioni dei diritti garantiti dagli articoli 2, 3, 27, 29, 31, 32 della Costituzione, violazioni che sono lesive del principio di uguaglianza, contrarie all’umanità della pena, al diritto alla famiglia e ostacolo al mantenimento delle relazioni affettive

Faccio una breve storia di queste violazioni operate negli ultimi 35 anni. Ricordo che nelle carceri speciali istituite nella seconda metà degli anni 70 le sale colloqui erano dotate di vetri divisori blindati e di citofono per comunicare. In queste carceri di massima sicurezza ci stavano il terrorista, il rapinatore, l’ubriacone, i matti e tutti coloro i quali creavano problemi nelle sezioni comuni. Ci finì davvero anche un bel po’ di gente estranea alla criminalità e al terrorismo, nel calderone delle carceri speciali create ad hoc per arginare le evasioni e per mettere sotto pressione i terroristi e indurli alla dissociazione.

Tra la fine degli anni 70 e la fine degli 80 ho scontato parecchi anni alla diramazione Agrippa (la sezione speciale) sull’isola di Pianosa. È un’isola dell’arcipelago toscano che in quel tempo era collegata alla terraferma da un aliscafo per il trasporto dei civili, che partiva da Piombino quattro giorni alla settimana e su cui s’imbarcavano le nostre famiglie per raggiungere l’isola e farci visita.

Era la peggiore tortura che subivano per amore dei loro cari detenuti, se c’era il mare grosso l’aliscafo non partiva, talvolta, invece, capitava che non riusciva ad attraccare al molo e così erano costretti a tornare indietro, senza esito, dopo aver affrontato un viaggio infernale. Un’avventura terribile per uomini, donne e bambini. Solo nei mesi estivi il mare li risparmiava.

Quando riuscivano a sbarcare sull’isola gli toccava la perquisizione in una sala improvvisata di una costruzione bassa, che serviva anche come sala d’aspetto e offriva un riparo quando pioveva per chi aspettava d’imbarcarsi. Le finestre erano prive d’infissi, la sala era gelata d’inverno e caldissima d’estate. Li si udivano i bambini vocianti che erano perquisiti insieme alle madri. Subito dopo iniziava il viaggio sul pulmino attraverso l’isola per giungere alla diramazione Agrippa. Si entrava, così, nelle sale colloqui, sporche, i vetri divisori blindati e il citofono per parlare. I bambini ammutoliti da una tensione che si percepiva, anche se dissimulata dai sorrisi, sui volti tesi degli adulti. Un’immagine che fa tornare alla mente i film sulle prigioni dei Paesi con grado di civiltà sottozero.

Con i miei familiari non ricordo di aver mai parlato del dolore che gli avevo dato commettendo dei reati. I nostri cari allora sentivano che anche noi eravamo vittime, insieme con loro. Un sistema come questo non può certo favorire un dialogo critico e risocializzante con la famiglia. Quel modo di criminalizzare i rapporti tra la famiglia e il congiunto detenuto ha prodotto una sfiducia nei confronti di un sistema che la famiglia la penalizza con feroci, ma soprattutto inutili, umiliazioni.

Questo accadeva in tutte le carceri speciali del territorio nazionale, con la differenza che nelle carceri del continente non si sommavano i disagi e il degrado che comportava un’isola penitenziaria. Ricordo che molti familiari raccontavano episodi davvero sconcertanti, come quando alcuni agenti di custodia (così si chiamavano in quel tempo) li scoraggiavano a tornare a trovarci perché noi eravamo criminali e meritavamo di essere abbandonati al nostro destino. Oggi c’è più professionalità da parte degli agenti, ma i regolamenti sono sempre gli stessi. Sono questi a orientare la mentalità.

 

Spesso si inducono i figli dei carcerati a odiare le istituzioni

 

Le sale colloqui, infatti, non sono studiate per accogliere decentemente le famiglie, non è consentito riprodurre in carcere un po’ dell’intimità di casa, ci sono le telecamere, oltre agli occhi umani, che ci osservano al di là del vetro, dove stanno gli agenti preposti alla vigilanza.

I regolamenti penalizzano pure oggi pesantemente i nostri famigliari, tutto è difficile, anche le piccole cose, quei cibi che in un carcere è consentito portare al proprio famigliare in un altro sono invece proibiti, molti cambiamenti delle regole e nuovi divieti avvengono senza preavviso. Insomma, è un sistema che si avvita su se stesso, generato da una cultura che pensa più a una vendetta sociale che alle famiglie in difficoltà dei detenuti.

Gli incontri sono rigidi e tendono a creare un vuoto nel dialogo tra il detenuto e la famiglia. Così, se la famiglia si sente anch’essa vittima di questo sistema, perde il ruolo di cui è maggiormente titolare, quello di contribuire alla risocializzazione del proprio caro condannato. E tenderà ad escludere un rapporto critico, tenderà a difendere il famigliare detenuto, perché lo riterrà soggetto debole di fronte a un sistema che si disinteressa del ruolo fondamentale delle famiglie e anzi le penalizza.

Le sale colloqui poi, che sono il luogo dell’incontro, non funzionano affatto per salvaguardare la famiglia, anzi la penalizzano, la criminalizzano con le perquisizioni ai bambini, alle mogli, ai genitori anziani. Come si può credere che in una sala sovraffollata, piena di voci sovrapposte, sorvegliata a vista, con le telecamere fisse sui tavoli dei colloqui che inquadrano freddamente l’incontro e lo rendono disumanizzante, l’intimità della famiglia non sia violata, invasa, violentata? Così se ne impedisce la crescita, così si favorisce la complicità, si inducono i figli dei carcerati a odiare le istituzioni.

Si limita poi ad una telefonata di dieci minuti alla settimana la possibilità di relazionarsi con la famiglia al telefono, anche per chi non effettua colloqui. Il direttore del carcere ha la facoltà di concedere due telefonate straordinarie, ma quanti sono questi direttori illuminati? Per chi poi non ha un’utenza fissa, che oggigiorno con le tecnologie disponibili è diventata pressoché inutile, le chiamate ai cellulari hanno limiti incredibili. Per chiamare un cellulare è necessario attendere 15 giorni dall’ultimo contatto con un familiare qualsiasi. Ad esempio se uno riceve la visita di un fratello, per poter telefonare alla madre, o alla moglie, o ai figli, se loro non dispongono di un’utenza fissa, devono passare quindici giorni dalla visita per poter telefonare.

Io credo che l’utenza telefonica fissa la mantengano oggi soltanto i familiari dei carcerati, perciò occhio se capitate in casa di una persona che possiede un telefono fisso, state certi che al 90% ha un parente detenuto nelle patrie galere

Quei figli che quando arrivano a colloquio sono esausti dalla lunga attesa per poter entrare

E poi, nelle carceri dove il volontariato non ha organizzato una ludoteca, si ritrovano per tutto il tempo del colloquio a non avere nemmeno un gioco con cui giocare con il proprio papà, con la conseguenza che dopo un po’, se pure a malincuore, non vedono l’ora di tornarsene a casa

 

di Luigi Guida

 

Molto spesso si sente parlare degli affetti in carcere e di quanto sia importante “coltivarli”, anche per un futuro progetto di reinserimento. Ma poi con il susseguirsi del tempo ti accorgi come le cose scritte sull’Ordinamento penitenziario in merito all’importanza degli affetti sono in netta contraddizione con le modalità che gli istituti di pena adottano per permetterti di mantenere vivi i rapporti con i tuoi cari. Attualmente negli istituti italiani “migliori” il massimo che puoi ottenere per non distruggere il rapporto con la tua compagna e con i tuoi figli si racchiude in una telefonata di dieci minuti la settimana e sei ore di colloquio mensili.

Il dramma però non sta semplicemente nel poco tempo che hai per stare con loro, ma nella qualità di quel tempo. Come si può riuscire a comunicare in modo sincero ed intimo quando si è in una saletta con altre dieci famiglie, se si è fortunati, e il mescolarsi delle voci fa assomigliare quel posto più ad un mercato che a un luogo di comunicazione? Senza dimenticarci delle svariate telecamere che continuamente ti seguono con la loro “discrezione”, ma solo apparente, perché a toglierti ogni idea di sfuggire a un controllo pressante ci pensano cinque agenti che dietro ad un vetro trasparente non ti tolgono gli occhi di dosso nemmeno per un istante, con la conseguenza che quando vuoi dire una parola di tenerezza alla tua compagna, lo fai mettendo le mani davanti per paura che dal labiale possa essere letta la tua frase e quindi violata la tua intimità.

Per quanto riguarda i figli, soprattutto quelli in tenera età, ti accorgi che quando arrivano sono esausti dalla lunga attesa che hanno dovuto fare all’ingresso per poter entrare, per poi ritrovarsi per tutto il tempo del colloquio senza poter avere nemmeno un gioco con cui giocare con il proprio papà, con la conseguenza che dopo un po’, se pure a malincuore, non vedono l’ora di tornarsene a casa.

Allora mi chiedo come si può mantenere un rapporto da marito e da genitore in questo clima, come si fa a trovare lo stato d’animo giusto magari per riuscire a dire la verità, ai propri figli, sugli errori che ci hanno portato in carcere, e quindi iniziare a prendersi le proprie responsabilità?

Semplicemente non lo si fa, si rimanda ad un futuro prossimo, con la conseguenza che con gli anni che passano quando uscirai ti troverai a fare rientro in casa e a non conoscere nulla né dei tuoi figli né della tua compagna. Questo per i più fortunati, perché molto spesso dopo aver vissuto questo tipo di rapporto con il tempo una famiglia non la trovi più, o magari decidi di dividerti da lei, proprio per evitarle questa sofferenza e queste umiliazioni, che purtroppo si subiscono quando si è familiari di un detenuto e si decide di seguirlo in questi posti.

Io penso che si dovrebbe fare una lunga riflessione e capire che quando i detenuti avanzano la proposta di vivere un colloquio intimo, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei, non significa che vogliono avere colloqui “a luci rosse” come più volte in modo distorto viene raccontato da tanti giornalisti, ma è solo un modo per riuscire a vivere un minimo di umanità e dolcezza con i propri familiari, senza che la conseguenza più pesante del dover scontare una pena la paghino loro, che hanno come unica responsabilità quella di essere parenti di un detenuto.

 

Ti senti spiato anche in quella che è solo la tenerezza di tenersi le mani

Questo succede nelle sale colloqui del carcere, ed è ancora più pesante da sopportare quando sei un padre che deve ricostruire un difficile rapporto con un figlio

                                                                  

Di Ulderico Galassini

 

Da più di due anni sono coinvolto nella redazione di Ristretti Orizzonti e soprattutto, grazie al Progetto Scuola/Carcere, ho avuto modo di incontrare migliaia di studenti. Ho trovato la forza ed il coraggio di mettermi in gioco e di raccontare loro che a 54 anni, dopo un percorso di vita come tanti, con le sue difficoltà e tanti momenti belli, ad un certo punto c’è stato da parte mia un inaspettato gesto che ha comportato la distruzione della mia famiglia e di tutto ciò che erano i valori che la sostenevano. Non racconto mai i particolari del mostruoso reato che ha determinato la morte di mia moglie, il ferimento di mio figlio e i danni fisici causati anche a me stesso. Grazie a questi incontri e alle riflessioni che devo fare per raccontare la verità, ricostruisco il passato e quelli che sono stati i limiti che ho superato, o quanto meno quello che ha in qualche modo scardinato la mia umanità e spinto a porre in atto azioni mostruose.

Spesso la prima domanda dei ragazzi è: come sono oggi i rapporti con suo figlio?

È una domanda che, dopo che ho raccontato e ripercorso i fotogrammi di quel giorno terribile, mi porta a rispondere con altrettanta franchezza e con un sorriso che mi fa rinascere. Con emozione e con una tensione che mi prende ogni volta, racconto loro che Andrea ha avuto la forza ed il coraggio di incontrare di nuovo suo padre e che certamente ha capito che in quel tragico momento non era davvero suo padre ad agire: certo io posso ritenermi fortunato nell’averlo nuovamente vicino.

Ai ragazzi spiego anche quanto sono limitate le possibilità di aver cura dei propri affetti in carcere, con poche ore di colloqui e, da quasi due anni, con una sola telefonata di dieci minuti al mese. Questo perché il Ministero della Giustizia consente di effettuare chiamate telefoniche, registrate, unicamente verso telefoni fissi e con grande difficoltà si può chiamare invece ai cellulari, io solo grazie ad una autorizzazione concessa dal Direttore della Casa di reclusione posso ascoltare la voce di mio figlio dieci minuti al mese. Certo non è più lo stargli vicino come facevo sino al 26 maggio 2007, vivere la sua crescita, essere stati una famiglia unita. Quando so che viene a colloquio, e magari assieme alla sua ragazza, che mi ha presentato in carcere, oppure quando devo telefonargli cresce in me, ma penso anche che succeda lo stesso a tutti gli altri detenuti quando incontrano i loro cari, l’ansia, la paura di ricevere brutte notizie; ma poi come li vedo tutti e due assieme, il cuore si allarga e gli occhi si riempiono di gioia. Questa voglia di Andrea di incontrarmi, che ha manifestato dopo soli 44 giorni dal reato, mi fa sentire ancora padre, e quando lui ha la necessità di chiedermi qualche consiglio sono più che felice di rispondergli. La sua situazione non è senz’altro facile, e l’essere seguito da parenti non è stato come essere con i suoi genitori, anche perché un nucleo familiare nuovo ha schemi e comportamenti che non sono simili a quelli che lui ha vissuto per 15 anni con sua madre e suo padre.

Ecco che sarebbe più giusto che anche lo Stato italiano avesse più attenzione per gli affetti di chi è rinchiuso in un carcere, aumentando i momenti di incontro e creando spazi più ampi in ambienti adeguati e non sotto l’occhio vigile degli agenti. L’ammassare tante famiglie all’interno di uno stanzone non facilita certo i rapporti tra le persone. Chi entra in queste sale colloqui vive una situazione di disagio, gli occhi cercano tra tanti il volto della persona cara, ma rimane appiccicata addosso una sensazione di fastidio e servono alcuni minuti per provare ad isolarti dagli altri che sono seduti intorno ad altri 12 tavoli, ma non c’è quella tranquillità, ti senti osservato, spiato anche in quella che è solo la tenerezza di tenersi le mani, per risentire il calore di quegli affetti che non puoi più vivere con la quotidianità di prima.

 

Perché dobbiamo far pagare la pena anche ai nostri familiari?

 

Altri Paesi europei, che magari definiamo meno avanzati, già hanno luoghi “intimi” predisposti dall’istituzione carceraria, e le telefonate sono addirittura libere e in alcuni casi con un cellulare a disposizione del detenuto. Ancora più triste è invece nel nostro Paese il colloquio telefonico; quei dieci minuti a settimana (se i tuoi famigliari hanno ancora un telefono fisso) sono veramente pochi e quando senti il preavviso di “tempo scaduto” e magari tuo figlio ti sta dicendo qualcosa di molto importante od urgente, proprio li si chiude la comunicazione. Si sta male entrambi, non sai più cosa fare e come fare per affrontare il problema che tuo figlio ha sollevato. Non hai altri mezzi se non quello di sperare che non sia qualcosa di grave ed attendere la settimana successiva per richiamare a casa, con tutta la tensione che hai accumulato nei giorni precedenti.

Perché dobbiamo far pagare la pena anche ai nostri familiari? E se poi l’unico familiare che hai è anche vittima di quel “gesto” di cui tu sei responsabile, quale forza, quale aiuto ha per proseguire quel cammino di riconciliazione che anche lui vuole? E tu come puoi assicurare maggiore tranquillità a quel figlio che è si maggiorenne, ma non preparato a vivere da solo e imparare a farsi carico di tutte quelle incombenze che prima vedeva fare dal proprio padre?

Nella Costituzione è scritto in modo chiaro che il carcere serve per il reinserimento nella società, ma se si usa il contagocce con la famiglia, quale sarà il futuro delle persone quando usciranno a fine pena, tenuto conto anche di tutte le altre cose che non vengono attuate negli istituti penitenziari, vuoi per il sovraffollamento, vuoi per la mancanza di personale, le pochissime ore assegnate agli psicologi, le scarse possibilità di lavorare e di fare altre attività?

Se vogliamo essere un Paese civile, forse dobbiamo rendere civile anche il reinserimento delle persone detenute, proprio a cominciare da una maggiore vicinanza con la propria famiglia.

 

Sarebbe molto bello se ci fosse anche in Italia la liberta dì affetto!

Nel mio Paese, il Perù, i famigliari che hanno un parente rinchiuso possono passare molto tempo con lui

 

di Miguel Arrieta

 

Mi torna in mente il mio passato ogni volta che vedo mia figlia che viene a trovarmi in carcere da quando aveva due anni, e adesso ne ha sette come ne avevo anche io quando andavo a trovare mio padre in carcere in Perù. Solo che nel mio Paese c’è più liberta per i famigliari che hanno un parente rinchiuso, cioè ci può andare chiunque a trovarlo e anche per più tempo e in qualsiasi giorno.

Io non vedevo l’ora di tornare in carcere da mio papà per passare più tempo con lui, mi sentivo più al sicuro perché lui mi riempiva il cuore di affetto e di quell’amore che mi mancava quando non era accanto a me.

Ormai sono passati diciotto anni e ora sono padre di due bambine, delle quali una è lontana e non ha la possibilità di venire a trovarmi, ma la più piccola vive qui con la sua mamma e ogni mese percorrono con il treno circa quattrocento chilometri per venire a trovarmi, con tutte le difficoltà che devono affrontare per un viaggio così pesante. E non basta solo il viaggio, perché devono anche attendere davanti al carcere parecchio tempo prima che le facciano entrare a colloquio, anche se c’è un temporale o la neve. E una volta entrate devono subire delle umiliazioni, perché vengono spogliate e perquisite dagli agenti, e ogni volta mia figlia mi chiede: “Papà, perché ci spogliano ogni volta che veniamo a trovarti?”. Fino a due tre mesi fa ho sempre trovato una scusa, cioè le ho mentito, ma poi mi sono accorto che mia figlia ha capito che mi trovo in carcere e ora non so come devo affrontare questa situazione in modo più positivo, cioè riuscire a trasmetterle quello di cui ha più bisogno.

Anche se il sistema penitenziario italiano non ci permette di coltivare gli affetti famigliari in modo più libero, ogni volta che vedo mia figlia rivivo i momenti che ho passato io da bambino, solo che io ho avuto più tempo per stare con mio padre e potevo farlo quando volevo, invece qui in Italia non c’è questa possibilità perché tutto è limitato e sei sempre sotto sorveglianza da parte di qualcuno, che non ti permette di trasmettere quell’affetto che da genitore senti nel profondo del cuore.

 

Alla fine del colloquio  il mio stato emotivo  è pieno di rabbia ed amarezza

Ecco perché non voglio mai incoraggiare i miei cari ad affrontare le tante difficoltà e a venire spesso a trovarmi

 

Di Igor Munteanu

 

Sono un detenuto moldavo, sto scontando la mia pena da oltre cinque anni nelle carceri italiane. In questi anni ho sentito tante belle parole riguardo ai familiari dei detenuti e su quanto sia importante coltivare quando si è in carcere il rapporto con loro. Ma con il tempo mi sono accorto che la realtà è tutt’altra, perché va in netta contraddizione con le parole splendide che sentiamo dalle istituzioni carcerarie.

In questi lunghi cinque anni è stato davvero difficile mantenere saldi i legami con la mia famiglia, perché delle misere sei ore mensili di colloquio previste dall’Ordinamento penitenziario, una persona straniera deve fare i conti con la lunga distanza e quindi non ha nemmeno la garanzia di poterle effettuare tutti i mesi. D’altronde la mia famiglia farebbe anche dei sacrifici per venirmi a fare visita molto spesso, ma sono io che non voglio, conoscendo le modalità con cui si possono effettuare i colloqui. Infatti si possono incontrare i propri cari in una piccola saletta con tantissime altre famiglie, dove il continuo accavallarsi di voci non ti permette di capire nulla e non ti dà neppure modo di potergli esprimere i tuoi reali stati d’animo del momento. Ecco il motivo per cui io cerco sempre di farli venire il meno possibile, perché alla fine del colloquio il mio stato emotivo è pieno di rabbia ed amarezza.

Alla luce di questo ho chiesto di poter scontare la pena nel mio pae­se di origine, nonostante sia consapevole che la vita carceraria lì è molto più dura di quella italiana, ma in cambio ho la garanzia che i famigliari dei detenuti vengono trattati in modo migliore di quello che succede in Italia. In Moldavia infatti ti permettono di vivere i colloqui con loro in una saletta da soli, senza telecamere e poliziotti che stiano lì ogni istante a guardarti ed impedirti di dare una carezza o un abbraccio in più, per trasmettergli il proprio amore.

Quindi preferisco subire io la rigidità delle regole carcerarie del mio Paese e riservare alla mia famiglia un trattamento più umano e dignitoso di quello che subiscono nelle carceri italiane, avendo come unica colpa quella di amare il proprio congiunto e seguirlo in carcere.

 

Attenti ai libri

 

Quelle continue, estenuanti bugie dette ai figli  dai padri detenuti

Sono bugie dette con l’illusione di proteggerli da quella che è la realtà che viviamo in quel momento in carcere, ma con il tempo dovremo anche noi fare i conti con la vera realtà, quella della vita fuori dalla galera

 

Recensione di Luigi Guida

 

“Genitori Comunque. I padri detenuti e i diritti dei bambini” è un libro, che prende spunto da alcune testimonianze di padri in carcere per raccontare come sia difficile mantenere il proprio ruolo all’interno della famiglia quando si è detenuti, visto il pochissimo tempo che è possibile trascorrere con i figli, che si riassume in dieci minuti settimanali di telefonata e sei ore mensili di visita, molto spesso in spazi angusti e pieni di altre famiglie, che più che un posto per poter comunicare somigliano ad un mercato, visto il sovrapporsi di voci di tutte le persone al loro interno, dove già è difficile affrontare alcuni discorsi, come quello di spiegare ai propri cari quali siano state le motivazioni che ci hanno spinto a varcare la soglia del carcere e quindi a dover vivere lontano da loro. In questo clima non si troverà mai l’opportunità di affrontare argomenti così spinosi, e di conseguenza si rimanda ad un futuro più o meno prossimo la possibilità di prendersi magari per la prima volta le proprie responsabilità sull’accaduto.

Essendo anch’io un detenuto e soprattutto un padre di tre figlie, e vivendo la genitorialità nello stesso modo di chi ha messo a disposizione la sua testimonianza in questo libro, non posso che rispecchiarmi in molti dei racconti letti.

È interessante la capacità di volontari e operatori di coinvolgere i detenuti in questo progetto e soprattutto di stimolarli a raccontare alcuni aspetti della vita detentiva come quello del loro modo di essere genitori, che per un “padre detenuto” non è facile, anzi lui è sempre molto restio a farlo a causa di un continuo rimorso che si porta dentro, in quanto non può non essere consapevole che alla base di tutto ciò ci siano stati proprio quegli stili di vita disordinati, che l’hanno portato a compromettere anche i suoi affetti.

Nel continuare a leggere ti accorgi che, se pure le storie sono diverse, hanno un punto in comune, che quando si è in carcere si viene spogliati di tutte le responsabilità, soprattutto quella di genitore, e questo è contro ogni logica umana e civile.

Le diverse testimonianze approfondiscono molto bene il fatto che moltissime persone, che vivono questo tipo di rapporto malato con i propri famigliari, in particolar modo con i figli, a causa delle continue, estenuanti bugie dette con l’illusione di proteggerli da quella che è la realtà che si vive in quel momento in carcere, con il tempo dovranno fare i conti con la vera realtà, quella della vita fuori dalla galera, e avendo vissuto un rapporto con loro basato sulle bugie non avranno imparato a responsabilizzarsi nel comunicare con loro e molto spesso i danni per questo saranno irreversibili e li pagheranno proprio i figli.

Io penso che molti detenuti siano consapevoli di questo, ma non hanno gli strumenti per poter fare diversamente, per molti aspetti questo libro servirebbe che lo leggessero educatori, assistenti sociali, psicologi, e che prendessero spunto per riflettere su quanto sia importante l’aspetto psicologico dell’essere genitori, oltre che detenuti, all’interno di un carcere, e quanto questo aspetto della vita detentiva vada curato, se si vuole davvero riprogettare il proprio futuro.

 

Prospettiva: Lavoro

Taralli: una specialità pugliese  ancora più “speciale”

A Trani si sfruttano i tempi morti della cucina del carcere per produrre taralli che si contraddistinguono per la loro qualità e la genuinità dei prodotti inseriti nell’impasto

 

Intervista a cura di Paola Marchetti

 

Salvatore Loglisci è il presidente della cooperativa “Campo dei Miracoli” di Gravina di Puglia, creata nel 1999 con l’intento di inserire al lavoro soggetti svantaggiati. La cooperativa si occupa prevalentemente della gestione di mense pubbliche e private, di produzione e confezionamento di prodotti da forno, di organizzazione di eventi, servizio catering, manutenzione del verde, sanificazione e disinfestazione di ambienti pubblici e privati, produzione e vendita di artigianato artistico. Nel 2003 firma una convenzione con il DAP per la gestione del servizio di confezionamento pasti all’interno della Casa Circondariale di Trani, dove, da dicembre 2007, vengono implementate la produzione, il confezionamento e la commercializzazione di prodotti da forno.

 

La vostra Cooperativa è partita con i disabili, ma anche con l’idea dell’inserimento dei detenuti?

Noi siamo nati nel ’99, per volontà di una cooperativa che gestisce diverse case-alloggio e strutture per soggetti psichiatrici. I responsabili della cooperativa di tipo “A” hanno pensato che, al termine del percorso riabilitativo, ci dovesse essere l’inserimento lavorativo, quindi è sorta Campo dei Miracoli, nella quale sono convenuti diversi soggetti guidati da questa cooperativa di tipo “A”, quindi soggetti psichiatrici. La Campo dei Miracoli, nei diversi anni ha svolto diverse mansioni con l’ausilio della mano d’opera di soggetti psichiatrici, quali la gestione e manutenzione di uno spazio verde, il servizio mensa e trasporto per gli utenti di un centro diurno, poi ha svolto, in associazione temporanea d’impresa con un ristorante, il servizio mensa per gli asili comunali. Il fatto di avere esperienza gestendo già una mensa e aver acquisito l’ulteriore esperienza in quest’appalto per gli asili comunali di Gravina, ci ha consentito di entrare anche all’interno del carcere di Trani. Questo perché noi facciamo parte del consorzio Meridia di Bari che a sua volta fa parte del consorzio nazionale CGM. Avendo siglato, il consorzio CGM, un protocollo d’intesa con il Ministero della Giustizia (nel 2003), si dava la possibilità, per la prima volta, a livello sperimentale e ad alcune cooperative, di entrare nei vari istituti penitenziari, di assumere i detenuti e di portare avanti la preparazione dei pasti per gli stessi detenuti.

 

Come vi è venuto in mente di fare una produzione anche di altri prodotti?

Nella convenzione che noi avevamo siglato ci impegnammo ad assumere i detenuti nel numero proporzionale in base al numero di pasti; di contro, c’era anche la possibilità, da parte delle varie cooperative, di utilizzare gli strumenti presenti nella cucina, non solo nella produzione dei pasti ma anche per altro, in modo che si potesse creare un mercato esterno e quindi aumentare il numero dei detenuti assunti dalla cooperativa. Inoltre, nelle cucine, vi erano presenti diversi macchinari inutilizzati per gran parte della giornata e quindi abbiamo pensato di aumentare la produttività della cucina avendo come obiettivo fondamentale l’ aumentare le persone al lavoro.

La produzione dei pasti è cominciata nel 2003, mentre la produzione dei taralli è cominciata nel 2007. Questo distacco di tempo è dovuto un po’ alla necessità di fissare bene la squadra ma anche all’inizio della ristrutturazione del carcere circondariale. Noi eravamo partiti con un gruppo di lavoro appartenente ai detenuti dell’Alta Sicurezza, e ci siamo trovati da un momento all’altro ad affrontare la produzione dei pasti con un gruppo di lavoro formato dai detenuti comuni. Con i detenuti comuni è più difficile lavorare perché non si può fare un progetto a lungo termine. Spesso non appena una persona viene formata ad avere quel minimo di manualità per riu­scire a fare qualcosa, disgraziatamente per noi e fortunatamente per lei, viene scarcerata, e bisogna iniziare daccapo!

Prima di tutto abbiamo dovuto fare una serie di esperimenti: all’inizio avevamo pensato a delle basi per pizza, poi a delle focacce, poi ai cornetti. Ma ci siamo orientati su qualche prodotto che avesse una conservazione più lunga perché, trattandosi di una Casa circondariale dove tutto deve essere controllato, le focacce e i cornetti uscivano freddi e quindi non mangiabili, per cui abbiamo pensato di valorizzare un prodotto che contraddistingue il nostro territorio, quello pugliese, visto che il tarallo è uno dei prodotti più caratteristici della zona dove sorge il carcere di Trani.

Avendo assunto un cuoco esterno che aveva “La ricetta della nonna”, abbiamo dato la possibilità al cuoco di testare una serie di prodotti e abbiamo poi deciso di fare la produzione dei taralli. C’è una politica di fondo nella produzione del tarallo: dato che non potevamo competere con la produzione di vari panifici, abbiamo dovuto scegliere un manufatto che si contraddistinguesse per la sua qualità e la genuinità dei prodotti inseriti nell’impasto. Questo fa sì che il prodotto non sia estremamente concorrenziale però può stare tranquillamente sul mercato se uno ne apprezza il gusto. Infatti noi prendiamo materie prime provenienti dal territorio, come l’olio di Andria. All’inizio avevamo pensato anche di produrre biscotti, ma successivamente, grazie all’interessamento della direzione, c’è stato un incontro con la direttrice della Coop di Barletta, che ha approvato il nostro progetto, ha mandato una commissione della Coop a verificare sia i prodotti sia il posto di produzione. Hanno scartato l’idea dei biscotti visto che era più facile trovarli sul mercato e non si contraddistinguevano tanto rispetto agli altri, mentre hanno accolto volentieri la produzione dei taralli.

 

La rete di distribuzione quindi è quella delle Coop?

Si, questo in un successivo momento. All’inizio avevamo pensato di venderli alle botteghe artigianali. I primi ad assaggiare i nostri prodotti sono stati la polizia penitenziaria e il personale amministrativo della Casa circondariale e quindi le prime confezioni sono andate nello spaccio interno del carcere, anche scalfendo un’ipotesi iniziale, e cioè quella che la polizia penitenziaria non avrebbe mai mangiato prodotti realizzati dai detenuti. In realtà poi, grazie anche al passaparola partito dagli agenti presenti in cucina, che sottolineavano come venivano realizzati i prodotti e come venivano acquistate le materie prime, sono stati proprio loro i primi a mangiare i nostri taralli e fare da veicolo pubblicitario del nostro prodotto.

 

Visto che è impossibile all’interno di un carcere produrre quantità industriali, è giusto puntare sulla qualità, anche se il prezzo è un po’ più alto?

Noi mettiamo solo olio extravergine, non usiamo strutto, non usiamo altre sostanze. Il nostro cuoco all’inizio diceva che, se volevamo, potevamo fare delle miscele e abbassare il prezzo, ma noi ci siamo imposti sulla ricetta che prevede solo extravergine.

 

Senta, e se volessimo comprare i vostri taralli?

Attualmente siamo in una fase di passaggio. La Coop Estense ha capito i problemi della nostra produttività iniziale, quindi abbiamo scelto di fare assieme a loro una cosa graduale. Prima abbiamo consegnato i nostri prodotti alle Coop estensi più vicine al carcere di Trani, quindi quelle di Andria, di Barletta e Bari, dopodiché, quando abbiamo cominciato a produrre di più, siamo passati alla piattaforma, nel senso che non andiamo più nel singolo ipermercato a consegnare ma andiamo a Rutigliano, da dove la Coop estense distribuisce in tutti gli ipermercati della Puglia e della Basilicata: si parte da Foggia e si arriva fino a Lecce. Ci sono alcuni Gas (Gruppi di acquisto solidale) che li richiedono, alcuni negozi di Roma - uno si trova all’interno di Città del Vaticano - che, in occasione delle festività natalizie, preparano dei cestini e questo è il terzo anno che ci richiedono i taralli. Cerchiamo dunque di aumentare la rete di vendita e l’obiettivo finale è sempre quello di aumentare le persone a cui insegnare un mestiere.

 

Certo, quello è lo scopo. Tenere la gente in carcere e poi, a fine pena, buttarla in mezzo a una strada senza nessuna competenza è insensato.

Le posso dire che, nella mia esperienza, c’è una parte dei detenuti che vive ciò come una parentesi, un mezzo per occupare la giornata, però ci sono anche persone che hanno acquisito la consapevolezza di aver sbagliato e che, una volta fuori, vogliono cambiare vita e s’impegnano quindi particolarmente nell’apprendere come debbano essere fatti questi prodotti da forno.

Nel corso di questi anni sa di qualche detenuto che è uscito e che, attraverso la formazione che ha avuto in carcere, sia riuscito ad inserirsi nel mondo del lavoro?

Con certezza no. Noi abbiamo contatti fino a quando stanno all’interno, per cui mandiamo gli ultimi documenti come il t.f.r.. In alcuni casi, utilizzando il nostro attestato di lavoro, si sono recati nei vari ristoranti o panifici ed hanno utilizzato questa esperienza in maniera positiva. All’inizio c’è stato qualcuno che ha affermato che nell’uscire con un attestato rilasciato dal carcere di Trani sarebbe stato difficile trovare lavoro, però poi forse hanno preso coscienza che comunque valeva la pena utilizzare questo nostro attestato.

 

Non avete mai pensato di allargare la vostra attività all’esterno, magari con persone in misura alternativa o qualcosa del genere?

L’abbiamo pensato ma non ci sono ora le condizioni, né economiche né organizzative per poterlo fare. Recentemente abbiamo preso contatti con un’altra rete di distribuzione a livello nazionale, che ci ha chiesto di triplicare la produzione, e quindi adesso ci siamo concentrati su questo nuovo potenziale produttivo.

 

Quanti detenuti impiegate attualmente ad ogni turno, più o meno?

In totale sono 7, poi si alternano in base ai turni. Ci sono due squadre di lavoro, anche se non sono molto rigide. Sono intercambiabili, sono 5 che si occupano della preparazione dei pasti e 2 dei taralli, però i 2 vengono coadiuvati da un cuoco esterno. C’è anche un aiuto cuoco e proprio perché c’è una rotazione continua abbiamo bisogno di punti di riferimento e quindi di persone che facciano da trait d’union tra le varie squadre. Questo cuoco c’è stato sin dall’inizio e abbiamo ritenuto opportuno assumere quest’altro aiuto cuoco sempre dall’esterno. Dipende poi dalla richiesta del mercato, un soggetto è adibito alla preparazione pasti o alla produzione dei taralli, non è costante la richiesta del mercato per quanto riguarda i taralli. Essendo prodotti artigianali e non adoperando conservanti, non abbiamo un grosso magazzino, quindi, in base alle richieste, andiamo a produrre. I vari taralli sono all’extravergine, al finocchio, alla cipolla, alla pizza, al peperoncino e al pepe, quindi sono sei tipi.

 

I detenuti dipendenti lavorano part-time o a tempo pieno?

I detenuti hanno un contratto di 4 ore al giorno, e questo sin dall’inizio del rapporto di lavoro. Noi non usiamo contratti di formazione e li assumiamo con contratti part-time a tempo determinato, legandoli alla convenzione e applicando il contratto delle cooperative sociali. Naturalmente sono parificati ai nostri soci-lavoratori esterni.

Quindi voi non fate una formazione prima, la formazione si fa sul campo, giusto?

Si fa sul campo! A differenza dei nostri soci esterni, ai quali, sulla busta paga c’è una trattenuta del 3%, come scelto da assemblea dei soci, ai detenuti non viene attribuita nessuna trattenuta e abbiamo ritenuto opportuno non farli diventare soci. Sono solo dipendenti, anche perché altrimenti, essendo parecchi, ci saremmo trovati, a distanza di pochi anni, ad avere una cooperativa enorme.

 

In generale quali sono le difficoltà che incontrate nel lavorare in carcere?

Devo dire che non ci sono stati particolari problemi. Forse qualcuno all’inizio, perché era un mondo totalmente diverso e sconosciuto, sia per tipologia di persone che dovevamo assumere sia per il posto nel quale dovevamo entrare, poi, la buona volontà, sia da parte nostra che dell’amministrazione penitenziaria e dell’area pedagogica, ha portato ad avere una serie d’incontri che hanno permesso di risolvere tanti problemi. Attualmente l’unico intralcio è dovuto alla ristretta capacità produttiva dello spazio-cucina, che è davvero piccolo - c/a 80 mq - e stiamo chiedendo alla direzione un altro spazio per produrre il triplo dei taralli che attualmente produciamo. Dopo aver trovato queste linee di richiesta di vendita, quest’aspetto ci mette un po’ con le spalle al muro: il paradosso è che adesso abbiamo il mercato ma non la possibilità di produrre.

Vorrei aggiungere che noi siamo stati ospiti per ben due anni dell’Assessorato delle Risorse Agroalimentari, all’annuale Fiera del Levante di Bari, nel padiglione Agrimed. Inoltre siamo stati al Salone del Gusto di Torino nel 2008, dove rappresentavamo la Puglia e in particolar modo Trani. Siamo stati a Matera sempre nel 2008, a “Orizzonti Lucani”, la “vetrina” dei prodotti lucani all’interno della quale era presente il padiglione della Puglia, che ospitava anche i nostri prodotti. Queste vetrine ci hanno fatto capire come rispondeva la gente ai nostri prodotti. Io spiegavo la storia del nostro tarallo e la sua provenienza. Dopo il primo stupore, accompagnato da un po’ di pregiudizio sui detenuti, le persone comprendevano che il detenuto poteva fare qualcosa di buono, contribuendo così a scardinare anche il pregiudizio nei suoi confronti.

 

Radiocarcere

 

Terremoto in carcere

Se c’è un terremoto non riescono in tanti casi a mettersi in salvo neanche le persone che vivono fuori libere  e non devono chiedere l’autorizzazione a nessuno per farsi aprire le porte, figuriamoci i carcerati

 

di Antonio Floris

           

Nella notte tra sabato e domenica 20 maggio, alle 4 del mattino circa, anche noi detenuti del carcere Due Palazzi siamo stati svegliati da uno scuotimento violento. Io, che a quell’ora dormivo, in un primo momento ho pensato che fosse il mio compagno di stanza che mi muoveva la branda perché magari russavo troppo forte. In carcere se uno ha un compagno di cella che russa non è che può cambiare stanza, e allora si usa che, quando qualcuno sta russando, qualcun altro gli scuote la branda nella speranza che quello si svegli e cambi posizione. Alle volte l’ho fatto io nei confronti di altri e alle volte l’hanno fatto altri nei miei confronti.

Quella notte però nel giro di pochi secondi mi sono reso subito conto che la causa dello scuotimento era ben altra, perché il compagno stava nel suo letto distante da me e le scosse continuavano, la stanza ondeggiava che sembrava di essere dentro una barca in mare mosso. Alle scosse ci siamo svegliati tutti e nel giro di pochi secondi si sentiva un frastuono di grida e lo sbattere di oggetti metallici sulle sbarre per richiamare l’attenzione degli agenti, affinché aprissero le porte per poterci mettere in salvo.

Vivere l’esperienza di un terremoto in carcere è cosa ben diversa da come può essere vissuta fuori da liberi. Le persone libere hanno almeno la possibilità di aprire le porte delle case e scappare e si sa che più veloci si scappa più alte sono le probabilità di salvezza. In carcere invece questo non si può fare, i detenuti non possono aprire loro le porte ma devono solo aspettare che vengano gli agenti a farlo, sempre se vengono e se vengono in tempo.

Quella notte infatti nonostante tutto lo strepito e il frastuono nessuno venne ad aprire, perché la cosa è più complicata di quanto si pensi. In tutte le carceri d’Italia verso le otto di sera si fa la conta delle persone e si chiudono i cancelli e le porte blindate delle celle. Una volta che le porte e i cancelli sono chiusi, le chiavi vengono portate via e messe in un altro ufficio che qui a Padova è chiamato Ufficio della Sorveglianza. Semmai durante la notte dovesse succedere ad esempio che qualcuno si sente male e deve uscire dalla cella per andare dal medico o altro, l’agente che è di servizio nel piano deve telefonare all’Ufficio della Sorveglianza, spiegare loro quale è il problema e solo allora qualcuno che sta in quell’ufficio sale ai piani con le chiavi. Esiste anche un piano di evacuazione da mettere in atto in caso di incendi o di terremoti, che consiste nel far uscire tutti i detenuti dalle celle e farli andare in spazi aperti tipo i passeggi o il campo sportivo. Ma quanto tempo richiede questa operazione? I terremoti quando arrivano di solito non si fanno annunciare e se si considera il tempo che ci vuole tra chiedere l’autorizzazione ad aprire le celle, aspettare l’arrivo delle chiavi e iniziare e portare a termine l’opera di sfollamento, la frittata è fatta. Di solito le scosse iniziano e finiscono nell’arco di mezzo minuto circa e in quell’arco di tempo ben poco si riesce a fare. Non riescono in tanti casi a mettersi in salvo neanche le persone che vivono fuori libere e non devono chiedere l’autorizzazione a nessuno per farsi aprire le porte, figuriamoci i carcerati.

I carcerati nella malaugurata ipotesi che succeda questa disgrazia devono solo sperare che gli edifici reggano all’urto, ed è una prova questa che potrebbero superare quegli edifici di costruzione abbastanza recente, che sono stati fatti con accorgimenti antisismici. Gli altri, tra i quali ce ne sono tanti vecchi di secoli, non si sa se riusciranno a superarla. Quei detenuti che hanno la sfortuna di vivere in uno di questi ultimi devono solo pregare che le scosse non siano troppo forti da far cadere il tetto sulla loro testa.

Ma non preoccupiamoci però più del dovuto, perché fino a ora non ho mai sentito di nessuno che sia morto dentro un carcere a causa di un terremoto. In carcere si muore per altre cause (suicidi, malasanità e altro), ma non, almeno fino a ora, di terremoto.

Alcune curiosità: dai commenti fatti il 20 mattina si è venuto a sapere che tutti quelli che al momento della scossa dormivano hanno pensato che fossero i compagni di stanza che stavano scuotendo loro le brande. Si è venuto ancora a sapere che in tanti si sono infilati sotto le brande per cercare un improbabile riparo, mentre tanti altri si sono messi a pregare. I cristiani forse un po’ meno, mentre i musulmani tutti in quei momenti hanno ricordato e recitato quel versetto del Corano che ogni buon credente deve recitare al momento del trapasso e che loro imparano fin da bambini.

Famiglie e tossicodipendenza

 

La droga ha “stravoltonon solo me, ma anche tutti i miei legami affettivi

Ma più vuoto affettivo troverà chi esce dal carcere, peggio sarà… per tutti

 

di Filippo Filippi

 

Scrivere per me di questo argomento molto importante, gli affetti nelle carceri sovraffollate, e farlo all’interno di una situazione estremamente segregante è molto difficile e debbo per forza partire da molto lontano, ma prima cercherò di spiegare brevemente la mia situazione personale in questa carcerazione. Io sono in carcere da quasi 4 anni e mezzo (non è la mia prima carcerazione, ma la più lunga in un’unica soluzione questo si), per problemi indissolubilmente legati all’uso di droga. Credo che la stessa abbia contribuito decisamente ed in modo sostanziale a “stravolgere” non solo me, ma anche tutti i legami affettivi in genere e quelli delle persone che mi sono state più o meno vicine. Questo anche se nei primi anni da adolescente apparentemente, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, divenivo più disinibito, affettuoso e disponibile alle relazioni, ma poi passato l’effetto (breve), inebriante e rabbonente dell’eroina, tornavo con tutti i miei grossi problemi esistenziali. Va da sé che subito riandavo alla ricerca di ciò che era riuscito finalmente a “farmi star bene”, almeno per un breve lasso di tempo, inizialmente non conoscevo il prezzo che avrei dovuto pagare per questo senso illusorio di benessere, in generale ma soprattutto in termini di affetti.

Tornando al periodo dell’ultimo mio arresto, stavo faticosamente cercando di ricostruirmi “uno straccio di vita”, quando ho avuto una prepotente ricaduta con le droghe. Così alla data del mio arresto le uniche persone con le quali posso dire di aver avuto un legame affettivo erano una cara amica ed un amico, per il quale ho lavorato onestamente per circa due anni (un ex “compagno di merende” dei primissimi anni di droga, ora sta bene da parecchio tempo).

Il secondo è inevitabilmente sparito, mentre la prima, nonostante fosse sposata e con due piccoli bimbi da accudire ed un lavoro part-time, mi ha continuato a scrivere ed ha anche cercato di districarsi con le prassi burocratiche (sembrano quasi complicate a bell’apposta), per venire a trovarmi in carcere, a fare un colloquio. Dopo una serie di richieste, siamo riusciti a inserirla come “terza persona”. Ma alla fine ha desistito, mi ha lasciato solo un pacco con un po’ di vestiario perché i tempi di attesa per i colloqui (ogni carcere è un feudo a sé con le sue regole anche non scritte e prassi consolidate) soprattutto per coloro che non conoscono il mondo carcerario sono molto lunghi e talvolta succede anche che, dopo qualche ora di attesa in fila, magari ti dicono “ripassi un altro giorno perché il tempo degli orari per i colloqui è scaduto”.

Comunque lei, anche dopo che sono stato trasferito qui a Padova, ha continuato a tenere contatti epistolari con me (cosa che non sempre avviene), ed a mandarmi quando poteva un pacco. Purtroppo oramai sono passati quasi cinque anni e giustamente questo rapporto si sta affievolendo sempre più, complice anch’io che “non ne ho forse più voglia”, diciamo che sono sempre più scorato quanto a motivazioni nel cercare di mantenere contatti con un “fuori” che via via sento sempre più sfumato. Infatti la sensazione che io provo (a parte una punta di leggera invidia per chi ha ancora questa possibilità di progettare un “fuori”), personalmente è che questa sia una sorta di pena suppletiva che io mi merito, ma che però mi allontana sempre più da quello che è il mondo reale, concreto e pratico.

Io comunque ho avuto modo di “visitare” l’area e le stanze adibite ai colloqui grazie ad un volontario di una associazione che è venuto due volte a trovarmi “come terza persona”, ed è proprio una sensazione “strana”, anche se ci conosciamo da molti anni e mi spedisce cartoline da varie parti del mondo, per via del suo lavoro.

Tanto per essere chiari, la mia situazione è questa perché è il risultato di una mia precisa responsabilità soprattutto di omissione, nel senso che ho lasciato che tutta questa sfera di vitale importanza venisse dopo, molto dopo la droga, e piano, piano un pezzo qua ed un altro là, sfumasse.

 

Vedo i miei compagni che fanno colloquio più sereni, meno aggressivi

 

Ora posso solo dire che, osservando i miei compagni di detenzione che hanno la fortuna di fare colloqui o telefonate, vedo proprio la “trasformazione”, solo semplicemente guardandoli, anche proprio dello stato d’animo concreto: sono spesso più sereni, meno aggressivi, per un brevissimo lasso di tempo sembra quasi siano usciti di galera, questo dopo che hanno fatto il colloquio con il rispettivo compagno o con famigliari e/o anche con amici. Purtroppo anche chi ha questa fortuna, ce l’ha centellinata, nel senso che qui in Italia sembra che i colloqui famigliari sia­no più una rottura di scatole, per chi li deve gestire ed organizzare; per non parlare poi degli inesistenti “colloqui intimi”, con la propria compagna o compagno. 

Ma qualche volta posso notare il rasserenamento anche solo per un detenuto che è riuscito a telefonare ai propri parenti, magari in un Paese lontano, dopo anni che non li sente e dopo che in quel Pae­se sono avvenuti cambiamenti sostanziali.

Tornando a me, quest’ultima carcerazione è così, ma in passato non è andata sempre in questo modo, mi sono perso i “pezzi per strada”. Mia madre per decenni e quasi sempre, mi è venuta a trovare in carcere, mi ha supportato ed aiutato, molto spesso per farmi andare in una comunità terapeutica, mettendomi in contatto con questa o quell’altra persona, poi nel 2002 è morta in un incidente automobilistico, proprio il giorno dopo che, come tutte le settimane, aveva accompagnato la mia compagna a trovarmi in una comunità dove vivevo.

Lei raramente mi ha fatto mancare l’affetto e la presenza anche epistolare, che probabilmente io non ho corrisposto adeguatamente, e solo dopo la sua scomparsa mi sono accorto del “valore” che lei aveva per me (ma questo vale un po’ per tutte le persone che mi son fatto scivolare via!).

Mio padre (anche se i miei si erano divisi e poi divorziati da molti anni), è venuto solo un paio di volte in carcere, in una di queste con mia sorella.

È strano come ci si accorga delle persone alle quali si tiene, solo quando non ci sono più, per un motivo o per l’altro. Per esempio mi è capitato di attendere impaziente e con il batticuore dietro le sbarre della cella, l’agente che consegna la posta in carcere, aspettando le lettere di una persona alla quale ho voluto molto bene ed il fatto che “l’agente postino” avesse per me una sua lettera mi cambiava in positivo la giornata, se non addirittura la settimana.

Vi posso assicurare che non vi è “contenimento chimico”, “forzato”, o repressione che tenga, rispetto a quello che possono fare il mantenimento dei legami affettivi in carcere, e perfino anche gli scarni e riduttivi settimanali colloqui attualmente vigenti.

Ma se “potenziati”, chissà quanto lavoro in meno ci sarebbe per i nostri custodi, lavoro di gestione, e a volte di repressione, delle aggressività!

Io talvolta ho pensato che non ho mai voluto fare il cosiddetto “salto di qualità” nel crimine, forse perché non ne sono tagliato, ma nei primi decenni quello che molto spesso mi ha frenato sono stati proprio i legami affettivo - famigliari (nonostante tutto il loro disgregarsi), e a impedirmi di commettere reati ben più gravi un decennio fa è stata la compagna con la quale allora non c’era solo un legame affettivo, vivevamo assieme, ed il nostro “volerci bene” mi ha letteralmente fermato sulla strada del commettere appunto reati ben più gravi.

Posso provare ad immaginare cosa possano pensare le persone libere che, fortunatamente, non sono mai state in carcere riguardo al mantenere ed intensificare i legami affettivi e sentimentali da parte di persone detenute condannate a scontare la loro pena…

Ma è sempre il solito discorso, parecchi di noi prima o poi usciranno e più vuoto affettivo troveranno, peggio sarà… per tutti.

 

Ero incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava

Mia madre mi diceva che ero senza cuore, irrecuperabile, che non volevo cambiare, e il peggio è che non provavo pena per lei

 

di Marco Cavallini

 

Nel raccontare i miei lunghi trascorsi di tossicodipendenza, cerco sempre di mettere nuovi tasselli per ricost­ruire in modo più efficace la mia storia, che inizia mentre frequentavo le scuole medie con delle piccole trasgressioni, per esempio fumare uno spinello il fine settimana, o rubare l’automobile al padre di un amico per andare a divertirci, cose a cui non davamo molta importanza. Poco a poco, senza rendercene conto, entrammo in una spirale di “trasgressioni” più grandi che purtroppo hanno portato me dove sono e la maggior parte dei miei compagni alla morte.

Il consumo di hashish diventò sistematico e per permettercelo cominciammo a venderlo, e così non solo fumavamo tutto il giorno, ma ci aggiungemmo altre sostanze tipo LSD e anfetamine, e in un veloce scivolamento arrivammo anche all’eroina. Insomma, eravamo dei ragazzini di famiglie normalissime ed alcune anche benestanti, che gestivamo un vero e proprio mercatino delle droghe.

Devo dire che all’inizio l’eroina ci spaventava, vedevamo quello che erano costretti a fare i consumatori per le dosi giornaliere, rubare in continuazione, prostituirsi, però ben presto perdemmo sia la paura che il rispetto, e cominciò a subentrare in noi il morbo della curiosità. Cosa sarà mai questa polvere, che sensazioni darà? E chi dice che una volta provata non se ne può più fare a meno? Insomma, un po’ per l’età, e per la troppa sicurezza, o la presunzione di essere più furbi ed intelligenti o di aver più carattere di quelli che ci erano caduti… e la provai e la riprovai.

Uno dopo l’altro, la provammo tutti, nel giro di poco tempo spendemmo tutti i guadagni dello spaccio per consumare l’eroina, i fornitori si stancarono e ci tagliarono “i fondi”, non c’era più la maniera di rimediare i soldi.

Non eravamo ancora fisicamente intossicati, ma psicologicamente sì, così ci unimmo ai consumatori (vecchi clienti) che ci portarono a rubare, piccoli furti, motorini, autoradio, tutto quello che c’era sulle automobili, poi ognuno si mise in proprio e formammo quelle che in gergo chiamiamo “batterie” e ognuna si specializzò: scippi, furti d’appartamento.

In un paio d’anni, da ragazzini un po’ ribelli, teste calde e senza principi, ci eravamo convertiti in ladri. Appena compiuti i 18 anni mi arrestarono, lì conobbi il carcere e l’astinenza. Fu uno shock, ma il peggio fu quello che successe nella mia famiglia, mio padre per la vergogna cadde in una depressione che in un paio d’anni lo portò alla morte in un incidente inspiegabile.

Nel frattempo ero entrato ed uscito due o tre volte dal carcere. Vedevo la disperazione di mia madre, e mia sorella, che aveva solo 12 anni e fu costretta a maturare molto in fretta, vedendo la mia apparente indifferenza per la loro sofferenza penso mi abbia odiato per anni.

Ormai l’eroina si era impadronita di me, non riuscivo più a reagire, in quel momento tutti i parenti mi offrirono il loro aiuto, mi fecero ricoverare in ospedali, cliniche ma sempre senza esito, mancava la volontà personale; il massimo del tempo in clinica fu una settimana, me ne scappai ben presto e dopo dieci minuti ero al pronto soccorso per un’overdose.

I parenti delusi si arresero e mia madre pure, mi disse che ero cattivo, senza cuore, irrecuperabile, che non volevo cambiare, e il peggio è che non provavo pena per lei. Sapendo quello che soffriva per la morte di mio padre e una bambina da crescere da sola, anche un animale avrebbe fatto il possibile per cambiare ed io niente, apparentemente indifferente. La realtà era ben diversa, soffrivo, eccome se soffrivo, ma ero incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava e cominciavo a rendermi conto che il problema era più che serio, ma speravo sempre, magari con un miracolo, che prima o poi avrei smesso.

Mi arrestarono di nuovo ed ebbi “l’opportunità” di fare la conoscenza con un “pezzo grosso” (ormai mi ero fatto conoscere nell’ambiente carcerario e anche se tossico ero stimato e si fidavano) e mi propose di vendere per lui.

Ci scarcerarono a breve distanza l’uno dall’altro, mi venne a cercare, si parlò un po’ e a fine incontro ebbi la prima fornitura e poi cominciai a spacciare, seguirono gli arresti e ogni volta conoscevo sempre più gente e di livello superiore, ero un buon cliente perché riunivo tutti i requisiti richiesti, ero omertoso, pagavo puntualmente e sempre, cosa rara tra i consumatori.

 

Il carcere come “trampolino di lancio”

 

Il carcere a me personalmente non solo non mi è servito e non mi ha fatto capire niente, ma al contrario mi è servito come trampolino di lancio, da semplice ladruncolo per necessità, in qualche anno mi ero convertito in un delinquente ed ero in contatto con i peggiori criminali e trafficanti di quel tempo.

Era passato un decennio e lo spaccio era diventato il mio modo di vita, avevo quello che mi serviva senza fatica e per giunta non lavoravo, non avevo orari, insomma sembrava una ”bella vita” tranne qualche incidente di percorso: spesso mi portavano in Questura per interrogarmi e quello significava botte e ore di astinenza e spesso finivo in carcere, però a parte questo mi piaceva il mio modo di vita.

Quando rimanevo da solo tornavo da mia madre che, a malincuore e con il parere contrario di mia sorella, mi accettava pur sapendo che cosa significasse vivere con me: visite notturne, perquisizioni, e spesso il rischio di trovarmi collassato. Però pensava che se dovevo morire era meglio a casa che per strada su una panchina.

Dopo circa 15 anni cominciarono i problemi seri, rimasi completamente senza vene e assumere le dosi di cui necessitavo era diventato un martirio, iniziai a iniettarmi per via intramuscolare ma durò poco, prima che mi si atrofizzassero tutti i muscoli fui costretto ad espatriare in un posto, dove non conoscendo nessuno avrei smesso per forza, e in parte ci riuscii.

Però dopo due mesi di permanenza seppi che non potevo rientrare in Italia perché ero ricercato dalle forze dell’ordine, in quanto il mio ultimo fornitore aveva cominciato a collaborare con la giustizia.

Sono rimasto all’estero per 15 lunghi anni illudendomi di poter sfuggire alle mie responsabilità per tutta la vita, anche se spesso avevo delle enormi depressioni: volevo rivedere mia madre che non era più tanto giovane, mia sorella, curarmi, cosa che la situazione di clandestinità non mi permetteva. A un certo punto non ho più sopportato lo stress e la paura di essere arrestato in ogni momento, e ho dovuto trovare il coraggio di affrontare la realtà e tornare.

Arrivato in Italia, rimasi nascosto qualche giorno e poi mi consegnai.

Mia madre al primo colloquio in carcere rimase sbalordita, non credeva ai suoi occhi, mi vedeva cambiato e sperava che lo fossi davvero.

Ora sono in carcere da quasi tre anni e anche se me ne mancano più o meno cinque, ogni notte penso le stesse cose: cosa farò quando uscirò? Mi meriterò tanto amore e fiducia? Per l’ennesima volta, e se dovessi ricadere? Il solo pensiero mi fa rabbrivvidire, spero tanto di avere la forza e la voglia di affrontare una vita normale lavorando e senza usare nessun tipo di droga, perché altrimenti significherebbe dare il colpo di grazia all’unico familiare che mi è rimasto al mondo, e questa volta non me lo potrei perdonare nemmeno io stesso.

 

Donne-Dentro

 

La galera raccontata attraverso un letto

 

Cambiare cella, lasciare le proprie compagne di sofferenza e di solitudine, doversi reinventare uno spazio in cui rifugiarsi, dover forzatamente conoscere persone nuove, con le quali condividere pochi metri quadrati in celle sovraffollate: il carcere è anche questo, e probabilmente se non si è vissuta davvero una esperienza del genere non si può capire quanta sofferenza ci possa essere in un trasferimento, in un cambio di cella, in uno spostamento da una sezione all’altra. La testimonianza di Luminita ce lo racconta a partire proprio dalla sua branda, e ci ricorda che forse, in tempi così difficili come quelli che si stanno vivendo oggi nelle carceri,, una maggior attenzione anche ai piccoli momenti della vita quotidiana delle persone detenute servirebbe a rendere meno pesante la carcerazione.

Elogio di un letto da galera

Il mio letto sa quanto ho pianto nelle lunghe notti,  è testimone di quando stavo male e quando stavo bene

di Luminita

 

Stai sognando? PAGHI!

L’anno scorso mi sono cos­truita un sogno. Quest’anno per realizzarlo ho dovuto pagare un caro prezzo.

Però se questo è il costo, lo pago volentieri: la rinuncia all’articolo 21, quello che ti permette di lavorare all’esterno del carcere, in cambio di un letto.

Che cosa può sognare una donna che già ha superato i quattro anni di galera? Tante cose….

Sono arrivata alla Giudecca nel settembre del 2009. Sono arrivata con due borsoni e con la sensazione di essere scivolata nel burrone della depressione. Giorni, notti, mesi in cui provavo ad aggrapparmi a qualcosa per uscirne fuori. Sapevo che ce l’avrei fatta. Ma per quel poco che mi rialzavo, subito cadevo di nuovo. Dopo un paio di mesi ho cominciato ad amare una cosa strana: il mio letto!

Un letto? Una branda?

Sì, amavo il mio letto, che tuttora amo, e gli sono grata.

Per fortuna è stato messo in un angolo, in un posto da cui del muro che circondava me e il mio letto, col passare del tempo, ho studiato ogni centimetro quadrato. A sinistra, a portata della mia mano, c’è una colonna: come un filo conduttore che lega la terra e il cielo.

Ecco, ogni particella della mia energia si è impressa in questi centimetri di cemento e ora, io, il mio letto, non lo abbandono perché mi parrebbe di abbandonare me stessa. Lui mi è stato sempre vicino, non mi ha mai abbandonato, come gli amici, come gli affetti. No, il mio letto è stato sempre con me. Il mio letto è testimone della lettura delle lettere della mia mamma e di mio figlio. Il mio letto sa quanto ho pianto nelle lunghe notti, è testimone della mia volontà di smettere le terapie farmacologiche anche a costo di stare sveglia tutta la notte, è testimone di quando stavo male e quando stavo bene, il mio letto era sempre attento quando scrivevo tante poesie e le rileggevo.

Non si è mai arrabbiato con me quando giorno e notte era pieno di carta crespa, barattoli di vinavil, fogli colorati, con i quali confezionavo i miei fiori di carta. Ha accettato tutto di me, nel bene e nel male, così come sono. È molto comprensivo e tace quando scrivo le lunghe lettere, quando prego.

E anche adesso che scrivo queste cose sta zitto, però è molto contento perché dopo tutti questi anni lo sto difendendo pubblicamente. Da un anno lo avevo un po’ trascurato durante il giorno, perché impegnata per le prove dello spettacolo teatrale “Le Troiane”, che dopo mesi di lavoro abbiamo messo in scena tre volte. Di notte però ero con lui, il mio letto. Avevo tutto il materiale per disegnare buttato su di lui, a portata di mano: matite, pennarelli, gomme e tanta carta. Ho seguito due volte il corso di fumetto e ci ho preso così tanto gusto e passione che così è nato il mio sogno. Ho provato a inventare un paio di fumetti, come un gioco per bambini, ma volevo qualcosa che fosse il mio fumetto.

Quello che facevo di giorno a tea­tro lo riportavo la sera in fumetto. Non potevo saltare una prova, come non potevo non riportare tutto in schizzi! Era un vortice che mi aveva risucchiato tra teatro e fumetto, e non me ne potevo staccare. E giravo, giravo, giorno e notte.

Stop! Basta! Stop!

Un giorno ho avuto il beneficio di usufruire dell’articolo 21 esterno, per lavorare fuori. Bella cosa, ci voleva dopo tutti questi anni. Solo che in cambio dovevo lasciare il mio letto, il mio spazio, per radunarmi con tutti gli articoli 21, le detenute che lavorano all’esterno: celle diverse, separate dalle “comuni”.

Da quel giorno nessuno ha capito più chi sono. Da quel giorno, per il resto del mondo, tutto ciò che ho costruito in uno o due anni è crollato. Però per me no. Per me è tutto intero. Anzi, il mio sogno l’ho realizzato: 130 pagine di fumetti, lavorati giorno e notte, in fretta prima che l’entusiasmo dell’ultima rappresentazione dello spettacolo svanisse.

La realizzazione del mio sogno però mi è costata l’articolo 21. Ho rinunciato alla possibilità di mettere un piede fuori dalla soglia del carcere, verso la libertà. E ho rinunciato per non restare imprigionata nella delusione che mi avrebbe creato il non realizzare il mio sogno. Mi si può chiedere perché, in fondo tutti i letti del carcere sono uguali! No. Dipende cosa lasci dietro di te in quel letto. Io ho lasciato tante cose create, tanti pensieri, tanti disegni, tanti dipinti, tante lacrime e tanti sorrisi.

Posso dire che non tutte le cose sono quello che sembrano. Il mio letto non è un semplice letto come una penna non è una semplice penna. Mentre la mia penna disegnava, qualche altra firmava la revoca del mio articolo 21. Perché? Perché non ho obbedito. Perché sono le regole. Sono regole che richiedono l’obbedienza di tutti. La stessa penna che di notte disegnava, di giorno ha scritto la rinuncia a tutto ciò che avevo ottenuto per merito di quello che sono stata sempre. Però io sarò sempre, di giorno e di notte, Luminita. E so pagare con la testa alta qualsiasi prezzo per realizzare il mio sogno. Sono in carcere però sono onesta e mi piace sognare. E più di tutto è importante che la mia mamma e mio figlio siano fieri di me.  Di giorno e di notte.

 

I figli sono sempre i giudici più inesorabili

Anche se con loro si riesce a salvare il rapporto, soprattutto se è stato costruito positivamente e in forma matura, ci si sente in ogni caso colpevoli di questa assenza, di non esserci mai state quando avrebbero avuto bisogno di noi

 

di Cristina Baiutti

 

Non è semplice descrivere la sensazione di trovarsi, dalla parte di detenuta, di fronte ai ragazzi delle scuole. Guardo i loro volti, le acconciature “di tendenza”, il loro modo di vestire, i visi così teneramente giovani, e per fortuna distanti da questa realtà. Nei loro sguardi vedo mio figlio, quando faceva il liceo scientifico, e curava molto il suo aspetto, i capelli con un ciuffo che doveva stare sempre ben ordinato, tra phon e gel. Ricordo che era l’unico che aveva portato il phon anche durante una gita scolastica. L’ultimo anno del liceo, lo sentivo ogni settimana al telefono, mi confidava ogni piccola cosa che gli accadeva: le normali trasgressioni di una bevuta con i suoi amici “fissi”, le scappatelle dalle lezioni perché un insegnante non gli era “congeniale”, la corte di ragazze che mi chiedeva come scoraggiare. Talvolta iniziava il discorso con tono serio, anticipandomi: “Mamma, sai che anche se non sei d’accordo, ho deciso così”. A me si stringeva il cuore, ma dovevo accettare le sue scelte, pur esprimendo il mio dissenso, che lui comunque rispettava. Era giusto fosse libero, così come lo ero io alla sua età. Alla fine, questo rispetto ha sempre permesso di aprire un dialogo sincero, su ogni argomento, tra noi. Oggi, mio figlio è iscritto a Lettere, lavora presso un negozio sportivo, dove ha conosciuto l’attuale compagna con cui vuole trovare casa e andare a convivere. È il suo obiettivo, sta risparmiando, oltre a versare le rate dell’auto nuova che ha acquistato.

Non ho mai voluto che varcasse le porte di un carcere per incontrarmi, perché il mio cuore conosce il suo dolore di sapermi in carcere, pur se abbiamo ampiamente parlato delle ragioni che mi hanno portato qui. La mia vita “spericolata” mi ha imposto di rinunciare ad altre gravidanze, perché ritengo ingiusto far soffrire bambini innocenti a causa di situazioni innaturali nella loro crescita, dovuti al fatto che la madre finisce in prigione! Conoscendo poi mio figlio, per il suo carattere un po’ lunatico, so che le perquisizioni di rito, prima dei colloqui, anche l’imposizione semplice di togliere l’orologio ad esempio, lo farebbero alterare. In effetti, lui non ha commesso reati, anzi, è un figlio “d’oro”; non fuma, non beve, se non raramente e poco, è molto legato a me e rispettoso della famiglia.

Insomma, per me, guardare gli studenti che ci pongono varie domande su come trascorriamo le giornate, cosa accade all’interno di un carcere, o sui reati per cui siamo detenute, mi riporta ai discorsi che già ho impostato con mio figlio. Per la mia esperienza di vita in generale e anche come madre, il primo desiderio è di dare ai ragazzi degli spunti, affinché mai si trovino in situazioni “ambigue”, e scivolino dentro giri viziosi, che li potrebbero portare anche a commettere reati. Penso che sia un dovere portare la nostra testimonianza, espressa in prima persona da noi donne, ragazze, e madri, come deterrente a qualsiasi forma di azione illecita.

Durante gli incontri, spesso ascolto i ragazzi e osservo i loro sguardi, timorosamente curiosi. Come madre, forse, non è edificante spiegare talune scelte del passato, la “facilità” con cui sono rientrata in carcere (non essendo per me, questa, la prima volta), le pene a volte esagerate che mi sono presa. Raccontare quanto sia labile il confine tra condurre una serena esistenza in libertà, e il trovarsi invischiati in storie, o situazioni ambigue, che diventano assolutamente pericolose per donne come me, già conosciute alle Forze dell’ordine, alle squadre dell’antidroga, perché così succede quando si hanno precedenti di vendita o traffico. Basta davvero un attimo, un contatto, un favore, magari “in buona fede”, e la libertà finisce, ci si trova ancora lontano da chi si ama. Questa lontananza, che si traduce per mio figlio nella mancanza di una costante presenza, di un aiuto morale e pratico, pesa più della detenzione.

I figli sono sempre i giudici più inesorabili, e anche se con loro si riesce a salvare il rapporto, soprattutto se è costruito positivamente e in forma matura, ci si sente in ogni caso colpevoli di questa assenza. Credo, però, che in molte famiglie, dove magari la presenza dei genitori è costante, vi siano comunque dei rapporti fittizi, poco sinceri, e scarsamente capaci di un amorevole ascolto, anche a causa di una quotidianità caotica, e della lotta per inseguire guadagni, nell’illusione che le cose materiali siano prioritarie nella nostra esistenza, con tutti i conflitti che ne conseguono.

Guardare i volti dei ragazzi che incontriamo in carcere è sempre motivo di riflessione, desiderio di trasmettere il valore di una vita con quelle scelte pulite e coraggiose, che noi non siamo state capaci di preservare. È bello, comunque, far comprendere loro che, nonostante gli errori per cui ci troviamo a scontare una condanna, siamo persone “normali” , piene di ricchezze interiori, e con una gran voglia di tornare a casa, perché davvero il carcere deve essere un transito, non un luogo che faccia perdere la speranza.

Ed è giusto anche, io credo, trasmettere loro il messaggio della possibilità di scontare la condanna non necessariamente in carcere, in certi casi si deve poterlo fare presso la propria abitazione (o altre strutture per straniere senza dimora), anche se non posso negare che in carcere molte di noi hanno migliorato se stesse e il proprio sapere, magari studiando, o imparando alcune attività lavorative. Con la innegabile “forza delle donne”.

 

C’è un che di vergognoso ad avere una persona in carcere

Mogli, figlie, sorelle, compagne, madri di detenuti vivono spesso in condizioni di solitudine e isolamento

 

di Giulia F.

 

Le vedo sempre il giovedì, talvolta il lunedì oppure al sabato. hanno tutte lo stesso sguardo, lo stesso sorriso un po’ spento, le cose che dicono sono più o meno le stesse sempre. Si confidano, si sfogano, hanno un enorme bisogno di essere ascoltate, comprese, considerate per la fatica che fanno: fatica mentale, fisica, psicologica. Queste donne, mogli, figlie e sorelle, compagne, madri che incontro quando vado in carcere per lo stesso motivo loro, fare visita al mio compagno, queste donne trasmettono nella loro fragilità una forza particolare che forse forse non tutte hanno nel DNA, ma quella forza hanno dovuto trovarla perché glielo ha imposto la vita.

Osservo molto come si comportano, ma più di tutto ascolto le loro parole: ogni volta c’è qualcuna che ha voglia di esprimere la sua tristezza o la sua gioia di essere lì in attesa di incontrare una persona cara. Una forza ancor più speciale la si respira quando hanno con loro i figli e li tranquillizzano, li tengono buoni nell’attesa di quel “Fra poco vediamo papà”. Le madri con appresso i figli devono avere davvero una doppia forza, quello che più mi colpisce però è la loro enorme solitudine, a volte la loro disperazione, disperazione spesso data dal fatto che sono sole, che anche materialmente sono sole, e fanno fatica economicamente, perché l’avere una persona in carcere crea smarrimento, frustrazione, ma soprattutto perché queste donne non parlano con nessuno di questa loro realtà, così difficile da condividere con chi vive in contesti ‘normali’.

C’è un che di vergognoso ad avere una persona in carcere. Quando parlo con loro, a volte te lo dicono: “Eh… dove lavoro per venire qui dico che devo andare dal medico, che devo andare dai figli a scuola, prendo ferie, permesso, mi faccio cambiare turno”, e poi si ammazzano per giungere in orario, perché dopo il colloquio devono tornare nella realtà in cui vivono e tra persone alle quali non possono raccontare l’altra loro realtà.

In genere il loro caro, a parte casi in cui l’arresto è stato eclatante e non si può nascondere, “è via, lavora fuori”, qualche volta per giustificarne l’assenza raccontano anche che si sono lasciati. Sono sole queste donne, sole perché non si possono identificare con qualcuno ed è per questo che se sei disponibile ad ascoltarle si lanciano a ruota libera nel raccontarsi, nello sfogarsi. Io sono come loro, posso capire, vivo la loro stessa realtà, dunque possono sentirsi libere di scaricare qualche peso su di me. A volte quando le ascolto provo tanta tristezza, per la loro solitudine, dettata anche dal non potersi esprimere liberamente, e mi chiedo perché esistano sbarre, seppur invisibili, così forti, da non permettere a nessuno di sentirsi libero di vivere la propria realtà, qualunque essa sia, senza vergogna.

 

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Pubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.

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