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Ristretti
Orizzonti (anno
14, numero 3 Maggio - Giugno 2012) Editoriale La
tragedia di Vincenzo, il dramma di una madre di
Elton Kalica Parliamone Il
carcere raccontato attraverso lo sguardo dei famigliari incontro
con Francesca Melandri Che
cosa significa l’assenza di rapporti sessuali per i detenuti di
Mauro Palma Diritto
all’amore delle proprie famiglie proposte
per “salvare”le famiglie dei detenuti Un
figlio in carcere, una disperazione mortale testimonianza
della madre di Igor La
prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere testimonianza
di Giovanna, sorella di Antonio Non
ricordo la presenza di mio padre in casa testimonianza
di Suela, figlia di Dritan Sprigionare
gli affetti Una
scelta difficile di
Clirim Bitri Non
vedo i miei figli da parecchio tempo di
Alain Canzian Un
“calendario carcerario” delle telefonate che mi allontanano… dai miei di
Federico Torchia Non
bisogna spezzare il filo sottile che tiene “attacato” il detenuto ai propri
cari di Qamar Abbas Territorialità
della pena di
Antonio Floris I
miei genitori lo vogliono più di tutti, il mio cambiamento di
Fatjon Cana La
tristezza degli affetti violati di
Bruno Turci Quei
figli che quando arrivano sono esausti dalla lunga attesa per entrare di
Luigi Guida Ti
senti spiato anche in quella tenerezza di tenersi le mani di
Ulderico Galassini Sarebbe
molto bello se ci fosse anche in Italia la libertà di affetto di
Miguel Arrieta Alla
fine del colloquio il mio stato emotivo è pieno di rabbia ed amarezza di
Igor Monteanu Attenti
al libro Quelle
continue estenuanti bugie dette ai figli dai padri detenuti recensione
di Luigi Guida Prospettiva.
Lavoro Taralli:
una specialità pugliese ancora più “speciale” intervista
a cura di Paola Marchetti Radiocarcere Terremoto
in carcere di Antonio Floris Famiglie
e tossicodipendenza La
droga ha “stravolto” non solo me, ma anche tutti i legami affettivi di
Filippo Filippi Ero
incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava di
Marco Cavallini Donne-Dentro La
galera raccontata attraverso un letto Elogio
di una lettera da galera di Luminita I
figli sono sempre i giudici più inesorabili di Cristina Buiatti C’è un che di vergognoso ad avere una persona in carcere di Giulia F. La
tragedia di Vincenzo, il dramma di una madre di
Elton Kalica E’
morto Vincenzo. Aveva quarantaquattro anni, e di fronte a una simile tragedia,
in galera si usa dire “povera sua madre”. È un detto antico, che però
esprime in modo perfetto il pensiero di chi ha sperimentato l’amore
incondizionato di una madre verso il proprio figlio, e la capacità di resistere
ai peggiori drammi della vita: e la madre di Vincenzo oggi dovrà resistere a
una tragedia, una nuova sfida, nuovo dolore. Ho
conosciuto Vincenzo circa quattro anni fa, quando entrò nella redazione di
Ristretti. Non parlava tanto di sé, ma mi raccontò un po’ dei suoi
trascorsi: figlio di immigrati siciliani, era cresciuto nella periferia di
Milano guardando la ricchezza degli altri, finché non aveva deciso di
prendersene un po’ anche lui, illegalmente. Poi le condanne, lunghe per la
recidiva, e così il destino alla fine aveva portato lui, vagante da una galera
all’altra per il sovraffollamento, in carcere a Padova. La
madre di Vincenzo vive a Milano, ma conosce a memoria i treni, gli autobus e le
strade che la portavano a vedere per un’ora il suo unico figlio a colloquio.
Forse, durante gli ultimi colloqui si era accorta che Vincenzo dimagriva, forse
si era preoccupata in silenzio – si sa come si annoiano i figli delle
preoccupazioni delle madri – e non aveva avuto il coraggio di pensare alla
malattia, perché in quell’ora di colloquio si finisce sempre per parlare di
un futuro migliore, sognando il giorno in cui ci si potrà abbracciare fuori, in
libertà. Vincenzo
però si era accorto del suo anomalo e progressivo dimagrire. Ci eravamo accorti
anche noi che qualcosa non andava. “Ma come sei magro”, gli dicevano anche i
volontari in redazione. “Mi curano per una infezione allo stomaco”,
raccontava Vincenzo, “sto prendendo dei gastroprotettori”. Solo che i mesi
passavano e Vincenzo aveva continuamente febbre e alla fine molte ghiandole si
erano gonfiate come delle noci. Altre visite mediche in carcere, altri farmaci,
mentre Vincenzo peggiorava: aveva ormai un colorito di un pallore anormale e gli
occhi sempre più scavati. Alla
fine la diagnosi è arrivata. Scortato in ospedale, è bastata una visita per
scoprire che quei grappoli di linfonodi gonfi erano l’effetto dall’attività
micidiale di una forma tumorale che si chiama linfoma non Hodgkin. A
quel punto lo hanno ricoverato d’urgenza. La madre l’ha raggiunto
immediatamente. Dopo alcuni giorni il magistrato ha ordinato la sospensione
della pena, così Vincenzo è tornato ad essere un uomo libero e poteva ricevere
visite. Sua madre non si separava più da lui, l’accarezzava, nonostante
l’insofferenza del figlio a tanta tenerezza, lo baciava, lo guardava dormire,
e dormiva anche lei, ai suoi piedi. Però
Vincenzo stava male. I dottori dicevano che era arrivato in ospedale troppo
tardi, ma nessuno voleva crederci. Quando qualcuno gli chiedeva come stava,
diceva “adesso sto meglio” e i suoi occhi cercavano sempre di trasmettere
tranquillità al visitatore. Tuttavia, riusciva difficile a chiunque essere
tranquilli, e immancabilmente ci si domandava come mai non gli avevano fatto
fare degli esami prima, molto prima. Dopo
qualche giorno ha iniziato la chemioterapia, che pareva dare dei risultati
buoni. Vincenzo ogni tanto si alzava lentamente e guardava allo specchio i
rilievi scolpiti sul proprio corpo ossuto, ma la fiducia che sarebbe riuscito a
sconfiggere la malattia aveva la meglio sulla paura della morte. Aspettava
anche la madre di vedere il figlio rinascere. C’erano anche alcuni volontari
della redazione a turno a tenergli compagnia. Ma pochi giorni fa Vincenzo ha
iniziato a sentirsi male di nuovo, e la morte l’ha colto di sorpresa, senza
dargli nemmeno il tempo di arrabbiarsi, come si arrabbierebbe qualsiasi persona
ancora forte se rischiasse una morte prematura. Ha colto di sorpresa anche la
madre che ha chiesto di andargli di nuovo vicino per vederlo, per toccarlo e
salutarlo, un’ultima volta. Di
fronte alla morte di una persona ancora giovane, il pensiero va alla madre che
gli è sopravvissuta. Ma come si fa a capire il dolore che porta nel cuore la
madre di Vincenzo? Impossibile calcolare le fatiche di una madre che viaggia per
centinaia di chilometri per abbracciare il proprio figlio in una sala colloqui;
inimmaginabile la rabbia verso un destino così crudele che dal carcere ha
offerto quel figlio alla morte traghettandolo lungo i dolori della malattia;
forse lei andrà avanti cercando forza nella fede, oppure sarà lo stoicismo di
una vita di battaglie a farle superare anche questa prova, ma noi continuiamo a
chiederci come mai è arrivato in ospedale così tardi. Se si cercano notizie su
questo linfoma, si legge ovunque che “negli ultimi anni il trattamento dei
linfomi non Hodgkin ha fatto registrare enormi progressi, anche nei casi in cui
il tumore si è diffuso dal sito primitivo, ed è in costante aumento il numero
di malati che oggi possono guarire”. Può darsi che quello che ha aggredito
Vincenzo sia stato un tumore più cattivo di altri, ma i tempi del carcere sono
davvero incompatibili con i tempi della cura. Vincenzo ha avuto il destino di
tanti detenuti malati: è stato “consegnato” agli specialisti quando ormai
era troppo tardi. La
vera battaglia in carcere è quella per costringere tutti a fare più in fretta
nella corsa contro la malattia, perché la malattia non si ferma ad aspettare i
tempi della galera. Un
incontro in redazione con la scrittrice Francesca Melandri Il
carcere raccontato attraverso lo sguardo dei
famigliari Un padre e una moglie, in visita ai loro
cari detenuti: un punto di vista diverso dai soliti, quello che Francesca
Melandri ha scelto per il suo romanzo “Più alto del mare” a cura della Redazione
Francesca
Melandri è sceneggiatrice e scrittrice, il suo secondo romanzo, “Più alto
del mare”, è un libro particolare che ha a che fare con il carcere, cioè è
in parte ambientato in carcere. O meglio, arriva alle soglie del carcere, perché
protagonisti sono due famigliari, Paolo, padre di un giovane terrorista, e
Luisa, moglie di un uomo condannato per omicidio, che vanno a colloquio dai loro
cari detenuti, in un’isola che assomiglia a Pianosa e all’Asinara, negli
anni cupi del sequestro Moro. Ne abbiamo parlato con Francesca in redazione. Francesca
Melandri: Io per tanti anni ho scritto sceneggiature sia televisive che
per film, e questo è il mio secondo romanzo. Quindi ho sempre fatto cose che
non sono documenti, io non sono una giornalista né una cronista, nel senso che
io la realtà, o quello che posso capire della realtà, non è che la prendo così
pari pari e la descrivo per quello che è, ma mescolo delle storie inventate.
Questo per me è importante perché comunque mi dà una libertà ovviamente
diversa da quella di un giornalista, che si spera riporti i fatti così come
sono. Mi
fa però molto piacere se a voi che il mondo del carcere lo conoscete
infinitamente meglio di me, non sembra che io abbia scritto troppe stupidaggini,
perché comunque sia i miei romanzi non sono dei romanzi di fantasia, non
parlano di un mondo del tutto immaginario. Io faccio sempre molte ricerche prima
di scrivere qualsiasi cosa. Quando
mi chiedono se i personaggi del mio libro sono inventati, io rispondo che nei
miei romanzi sono sempre persone inventate e che però io non avrei mai neanche
potuto pensare chi fossero, se non avessi comunque cercato di capire
innanzitutto che cos’è un carcere. Anche
se, chi l’ha letto lo sa, nel mio racconto io dentro il carcere ci entro
pochissimo, io resto fuori ed è la scelta che ho fatto perché i protagonisti
della mia storia non sono i detenuti, ma sono due visitatori, sono due parenti
di questi detenuti. L’ambientazione
è il 1979, quindi pieno momento buio dei cosiddetti anni di piombo, un anno
dopo il rapimento e l’assassinio di Moro e un anno prima della strage di
Bologna, quindi proprio un anno terribile perché in quegli anni non si vedeva
la fine di tutta quella violenza insensata. La mia storia è ambientata in
quegli anni lì anche perché poi nell’ottobre del 1979 ci fu la rivolta
dell’Asinara, questo è lo sfondo storico. Poi
però mi sono presa tante libertà, i miei protagonisti sono appunto due
visitatori, il primo è un padre che è forse il vero protagonista della mia
storia e si chiama Paolo, poi c’è suo figlio che è ancora un ragazzo ed è
dentro per degli omicidi almeno uno dei quali proprio a sangue freddo, quindi
dei delitti veramente terribili. L’altra
protagonista è invece Luisa, la moglie di un detenuto comune anche lui
pluriomicida, ha ucciso prima una persona in una rissa, poi è stato arrestato e
in carcere ha ucciso un’altra persona, quindi anche lui è un
pluriergastolano. Il
tema di cui soprattutto volevo parlare è che cosa vuole dire l’universo del
carcere per tutti quelli che non sono detenuti e quindi innanzitutto i parenti
dei detenuti. E poi c’è un terzo personaggio che apparentemente è un po’
secondario, ma che per me è molto importante, è Nitti Pier Francesco, un
poliziotto, un agente penitenziario si direbbe oggi, che anche lui come tutti
alla sera finito il suo turno se ne torna a casa. Io
non sono mai stata in carcere e non sono mai stata detenuta, e nella mia
famiglia non ci sono detenuti e non ho mai dovuto andare a trovare qualche
famigliare o conoscente in una sala colloqui, e mi rendo conto che sono
fortunata in questo. Sento però che sono comunque una cittadina di un Paese, di
uno stato in cui il carcere esiste e siccome è un mondo che non interessa, è
un’esperienza che non interessa, ho pensato che l’unica possibilità che
avevo io per la mia esperienza di vita, per la mia personalità di entrare in
contatto con questo mondo era di trovare dei personaggi che avrebbero potuto
essere me, cioè qualcuno che sta fuori e vive fuori ma va lì e fa questa
esperienza. Questa
era la prima motivazione per scegliere questi personaggi così apparentemente
“periferici” rispetto all’esperienza carcere, che rimane come dire il buco
attorno al quale si sviluppa il mio romanzo. Questi
due personaggi vanno li perché devono fare questo colloquio, questa visita si
svolge nella prima parte del libro e mentre io la racconto, cioè li accompagno
fino alla perquisizione che devono subire per entrare, io li lascio li, finisce
il capitolo e il capitolo dopo inizia che sono usciti. Quindi
è molto chiaro per me e spero che lo sia per il lettore che non è del dentro
che mi occupo, ma del “rapporto con…”, Quello
che credo di aver capito io è che l’universo, la vita, l’esperienza del
carcere è separata dal resto della società, perché c’è questa idea molto
forte che quello che succede dentro il carcere non riguarda il resto della
società. Questa è un’idea che mi indigna, non mi piace e soprattutto non la
credo vera. Quindi
ho cercato questi personaggi che aiutassero soprattutto me mentre scrivevo e poi
anche possibilmente il lettore ad entrare, come fossero dei traghettatori,
dentro questo universo che è percepito come alieno, distante e che non
c’entra niente con noi che siamo fuori, mentre invece appunto secondo me è
proprio una finzione, non è così. Questo perché tutti voi che siete in
carcere avete parenti, avete rapporti fuori, esiste un mondo dal quale siete
venuti e al quale tornerete, per questo motivo mi interessava moltissimo anche
la figura dell’agente carcerario, che appunto più di chiunque altro è il
mediatore tra i due universi. Quello che sta veramente dentro per svolgere il
suo lavoro e poi sta anche veramente fuori perché ha fuori una famiglia, dei
figli. A
questo punto non avendo io esperienza diretta, io non ho mai fatto volontariato
in carcere e la mia conoscenza di tutte queste realtà era solo e assolutamente
teorica, ovviamente mi sono chiesta come fare a cominciare a capirne di più. E
mi sono proprio fatta una riflessione sul senso che poteva avere andare in un
carcere a farmi un giretto… ma quanto avrebbe potuto durare questo giretto,
forse un pomeriggio, una giornata o forse anche due o tre giorni? Non
mi sembrava una cosa adeguata, nel senso che sarei entrata nel carcere, avrei
incontrato dei detenuti con i quali avrei sicuramente parlato, però io ho
pensato che il carcere, così come l’ho capito io, molto più che un posto, un
edificio, un luogo è soprattutto un tempo, a voi hanno dato degli anni, dei
mesi, una pena che si misura in tempo, e per gli agenti che lavorano qui è il
luogo dove stanno tante ore tutti i giorni. E di questo tempo io, se mi venivo a
fare il “giretto” di un pomeriggio o due, non avrei capito assolutamente
niente. Allora ho deciso invece di andare a cercare persone che questa
esperienza l’hanno fatta anche per tanto tempo, ho parlato per esempio con ex
brigatisti che di galera se ne sono fatta anche tanta, insomma qualcuno che è
stato proprio all’Asinara o a Pianosa, ho parlato con ex agenti in pensione,
comunque persone per le quali questa è stata la loro vita. Ho pensato cioè che
l’unica maniera per avere io un’idea di che cosa è questo mondo era farmi
raccontare delle storie, farmi raccontare delle vicende personali. Nessuna
di queste vicende personali io poi l’ho presa e l’ho messa pari pari dentro
il mio libro, perché io sono pur sempre una inventrice di storie e mi piace
mescolare e anche ogni tanto inventare le cose. Però sicuramente tutte queste
persone con grande generosità mi hanno raccontato le loro storie, anche storie
molto complicate, che hanno lasciato segni molto duri in vite difficili. Bruno
Turci:
Noi talvolta con i nostri famigliari ci impieghiamo del tempo a maturare la
consapevolezza della devastazione a cui li abbiamo sottoposti per averli portati
in carcere, ecco perché io mi sono abbastanza riconosciuto nel suo libro. Direi
che manca soltanto la fuga… in quegli anni era imperante quel pensiero li ed
era una costante, d’altronde non esistevano praticamente benefici di legge e
quindi l’unica via d’uscita era la fuga. Io ricordo che sono entrato nel
carcere speciale della Pianosa nel 1978, l’Asinara e la Pianosa sono due realtà
diverse, due realtà toccate dal mare che poi diventa un mare odiato, io facevo
i colloqui e bene o male quello che c’è scritto in questo libro è la storia
di chi ha vissuto nelle isole la carcerazione. Ricordo
che alla Pianosa arrivava l’aliscafo e però non poteva attraccare perché
c’era maltempo, gli ormeggi erano abbastanza fatiscenti e quindi quando il
mare era grosso i nostri famigliari dovevano ritornarsene indietro. Loro poi non
erano trattati molto bene, c’era sicuramente una tendenza a scoraggiare chi
andava a trovare le persone detenute, esisteva proprio questa volontà da parte
delle istituzioni. Io
l’ho maturato molto tardi il danno che ho prodotto ai miei famigliari, nel
libro emerge ed è chiaro, c’è tutta una serie di sentimenti che sono reali.
Tu perciò in questo libro hai sicuramente aiutato la società ad avvicinarsi al
carcere attraverso il dolore di persone che non hanno nessuna colpa, io spero
che questo serva a coinvolgere magari chi lo legge, le persone che vivono fuori
dal carcere che sono lontane da questa realtà, e che magari le faccia un po’
ragionare. Francesca
Melandri:
Ai parenti dei detenuti viene richiesto, ancora di più in quell’epoca ma
anche adesso, di fare molti sacrifici per andare a trovare i propri cari, e però
essendo loro persone “normali”, come tutte le persone normali mica è detto
che abbiano solo sentimenti d’amore, vicinanza e affetto verso le persone che
sono dentro. Sono
arrabbiate a volte, anche se non abbandonano i propri cari. Hanno molta rabbia
perché i loro famigliari a volte hanno combinato dei grandi disastri, e quindi
si chiede a queste persone di essere veramente sovrumanamente generose, perché
devono fare qualcosa che si fa per amore, per curare una relazione, e lo devono
fare nonostante la rabbia che possono provare. Quindi
da profana, da persona che di questo mondo sa poco e che ha appena cominciato a
capirne qualcosa, mi sono proprio detta che non deve essere semplice fare i
pacchi, affrontare il viaggio fino alla Pianosa con il mare alto e poi può
succedere che ti rimandano indietro. Poi magari la volta dopo lo mandi a quel
paese tuo figlio che sta li, eppure non lo abbandoni, quindi questa complessità
mi interessava moltissimo, perché non credo che riguardi solo il mondo delle
prigioni e dei detenuti, riguarda il mondo degli esseri umani e delle relazioni,
poi alla fine è di quello che parliamo. Antonio
Floris:
Io a Pianosa ci ho passato tre anni, ricordo che arrivavano i famigliari e
dovevano imbarcarsi da Piombino, poi Porto Azzurro, Pianosa. Tante volte
dovevano essere alle 7 a Piombino, se il mare era mosso non si imbarcavano, ci
sono state delle famiglie che sono arrivate li e ci sono rimaste da lunedì fino
a sabato senza poter imbarcarsi e finendo per tornare indietro. Se
invece partivano perché il mare era abbastanza calmo e poi diventava mosso
mentre si faceva il colloquio, si doveva interrompere perché altrimenti
rimanevano sull’isola. La
mia famiglia che arrivava dalla Sardegna doveva fare la traversata da Olbia a
Civitavecchia, poi andare a Piombino il giorno prima perché bisognava essere
alle 7 al porto e poi sperare che il mare fosse buono per andare a Pianosa,
d’inverno diventava quasi impossibile arrivarci.
Francesca
Melandri: Capite
quindi il perché del mio interesse su questa figura dei parenti, perché è
quella che porta noi cittadini del fuori dentro, e però anche quella che porta
voi, cittadini del dentro, fuori, la vostra relazione con i vostri parenti è
quella che vi porta fuori. Sandro
Calderoni:
Io il libro l’ho letto con lo sguardo del detenuto, e mi è sembrato molto
interessante il fatto di trovarvi il punto di vista del famigliare del detenuto,
è bello il passaggio quando c’è il professore che arriva all’isola per
incontrare il figlio e l’isola non la vede come isola, la vede solo come un
carcere. Io mi sono molto immedesimato in questo, ho visto il padre che andava
in un posto di sofferenza, non in un posto di bellezza. Ornella
Favero:
Per me la scelta di raccontare il carcere facendolo fare a persone che ne sono
coinvolte, però non sono protagoniste “dentro”, mi è sembrata una scelta
interessante, perché le voci di queste persone intanto sono un tramite tra il
dentro e il fuori, e poi ti fanno capire che questa idea del “pianeta
carcere” come di un mondo “altro” non esiste, o meglio è un altro mondo
perché rinchiude ed esclude, ma non perché i protagonisti siano dei mostri, o
esseri strani, diversi. Quindi questa scelta narrativa mi sembra una scelta
interessante “di avvicinamento”, di fare avvicinare questi due mondi, cioè
di far capire che non esiste, non esistono “gli assolutamente cattivi e i
totalmente buoni”. Perché ognuno di noi non si immedesima facilmente nel
“delinquente”, però non può alla fine non capire che essere padre, moglie,
figlio di un detenuto invece può capitare a chiunque. Il padre protagonista di
questo romanzo è un professore di storia, e proprio nel padre che si ritrova il
figlio terrorista si vede la conflittualità del rapporto delle famiglie con le
persone che sono dentro. Perché la famiglia a volte subisce tantissimo questa
situazione, la subisce anche nella difficoltà di accettare che un proprio
figlio abbia commesso qualcosa del genere. E però le famiglie non abbandonano
quasi mai i loro cari, anche se ancora oggi sono trattate da colpevoli,
l’umiliazione dei colloqui non è cambiata quasi per niente. Sandro
Calderoni:
A volte c‘è proprio da parte di alcuni agenti quell’idea di dire: “Ma
perché li vengono a trovare?”, un po’ come affermare che noi siamo vuoti a
perdere. Dritan
Iberisha:
Per quanto riguarda i colloqui non è cambiato quasi niente, ma niente
proprio, non è che perché uno ti fa entrare una confezione di formaggio in più
è cambiato qualcosa, non è quello il colloquio con i famigliari, non è un
paio di pantaloni, un pacco di biscotti, un paio di scarpe in più. Mia figlia
da piccola, quando l’hanno perquisita, mi ha chiesto perché le hanno tolto le
scarpe, le ho risposto con una battuta: perché ti hanno preso il numero,
vogliono comprartene un paio. E la bambina era tutta contenta. La settimana
successiva l’agente l’e ha di nuovo fatto togliere le scarpe, e lei gli ha
detto: “Guarda che il numero me l’hai già preso la scorsa settimana”.
Queste cose sembrano piccole, ma non lo sono affatto. Non stiamo dicendo che
vogliamo il paradiso, ma chi comanda dovrebbe dare una piccola possibilità, una
speranza per tutti per noi, per le nostre famiglie. Ornella
Favero:
A me piacerebbe capire anche un’altra cosa: tu hai detto che hai parlato con
tante persone, detenuti, ex detenuti, agenti, e però poi nel libro ti sei, come
dire?, immedesimata in questo padre, in questa moglie. Hai parlato anche con dei
famigliari di detenuti oppure gli ex detenuti che hai conosciuto ti hanno
raccontato come le loro famiglie hanno vissuto la loro detenzione? Francesca
Melandri:
Curiosamente, nonostante siano appunto i miei protagonisti, con i parenti dei
detenuti non ho parlato. In realtà non li ho neanche cercati, avevo, a torto o
a ragione, quasi più pudore, però gli ex detenuti mi hanno raccontato
tantissime cose di quello che è successo ai loro famigliari. Il fatto è che io
non ho difficoltà a rivolgermi a persone con esperienze estremamente pesanti,
detenuti che sono stati tanti anni in galera, e però sentivo di non avere il
diritto di disturbare nessun parente di detenuto, quindi tutta la loro
esperienza me la sono poi immaginata, in base sia ai racconti dei detenuti, sia
al fatto che un po’ mi sono immedesimata io, perché poi comunque non sono
categorie di esseri umani “diverse”. Quando
cercavo di pensare cosa ci può essere dentro la testa del padre del ragazzo che
ha ucciso, vi sembrerà puerile, però io ho due figli, il più grande ha 19
anni e la piccola 15, e ho attinto anche alla mia, di esperienza di genitore. I
miei figli non hanno ucciso nessuno, però io ho cercato di chiedermi: se mio
figlio facesse qualcosa di terribile? Si può cercare anche di capire cosi, di
entrare cosi nell’animo di un altro essere umano che ha un’esperienza
diversa dalla tua, ma che non è “diverso” come si vorrebbe credere fuori. E
allora ho cercato di pormi la domanda: ma io cosa farei al posto di quel
genitore? La risposta è che non lo so e forse quella è la vera risposta, la
vera risposta è che noi degli altri dobbiamo accettare che non possiamo mai
capire veramente tutto fino in fondo, e questo è molto importante sempre
ricordarselo. Però poi se vuoi scrivere un libro, cominci ad attivare un
processo più ancora che di immaginazione direi proprio di immedesimazione, che
vuol dire di empatia, per cui cerchi di sentire quello che sentirebbe quella
persona, che è sempre poi l’unica maniera per capire effettivamente l’altro
almeno un po’, almeno provarci. Stefano
Frignani:
Io penso che per capire quello che provano i parenti bisognerebbe mettersi alla
mattina fuori del carcere in attesa dei colloqui e provare a sentire, vedere le
condizioni delle persone. Forse allora uno capisce meglio cosa vuol dire magari
partire alle 5 del mattino ed essere sbattuti da una parte all’altra prima di
riuscire a incontrare il proprio figlio, o marito, o fratello. Francesca
Melandri:
Vi sorprenderà ma tante delle storie come quella della bambina a cui tolgono le
scarpe durante una perquisizione, questo senso proprio di vessazione
sull’innocente che davvero non ha fatto niente di male, ecco tante di queste
storie qui me le hanno raccontate gli agenti carcerari, loro stessi mi hanno
detto che certe volte arrivavano queste famiglie, magari con il mare grosso, e
dovevano affrontare situazioni davvero penose. Luigi
Guida:
Io l’ho vissuta come parente, ero piccolissimo avevo 4 anni, ricordo vagamente
la diversità tra
le varie carceri, Pianosa e l’Asinara, mi ricordo il traghetto, il mare, non
ho ben chiari tutti i passaggi, però mi ricordo che spesso il mangiare non te
lo facevano portare, dipende da come si svegliavano e tante volte lo riportavi
indietro. Venivano effettuate le perquisizioni anche ai bambini, e cosa comporta
questo? questo comporta poi col crescere, aldilà della scelta di vita che io ho
fatto che mi ha portato ad entrare in carcere, che uno vorrebbe riservare alle
istituzioni lo stesso tipo di trattamento che loro hanno dato a quel mio
famigliare, che stava scontando la sua pena. Io penso che scontare la pena è
una cosa, ma toccare la dignità è una punizione supplementare che non è
scritta da nessuna parte, è la regola che si inventano loro, ecco perché con
quel tipo di carcere e un po’ tutta l’istituzione carceraria io ho avuto
sempre un rapporto di conflitto, non ho dei bei ricordi. Non c’era scritto da
nessuna parte che loro avevano carta bianca dal Ministero per compiere quegli
abusi che facevano per piegare le persone, toccando i loro famigliari, la loro
dignità. Il detenuto magari era bravo a subire le mortificazioni e a volte
anche i maltrattamenti, però davanti a un famigliare che viene toccato uno è
impotente, preferirebbe morire. A me se mi toccassero un famigliare davvero
preferirei che mi ammazzassero, quello che viene fatto a me sono pronto a
pagarlo tutto, qualsiasi situazione mi si presenti, però maltrattare i
famigliari che non hanno scelto per quello che io ho fatto, in particolare i
figli, penso che sia il male più grande che possono provocare a quella persona
dall’altra parte del muro. Finisce poi per essere normale che i figli crescano
con un odio verso le istituzioni, sempre sulle difensive, sempre arrabbiati. Francesca
Melandri:
Esattamente questo è il motivo per cui io ho provato a raccontare questa
umiliazione, questa violenza, perché non c’è cosa più ingiusta, sono
persone che non se lo meritano e ho l’impressione che non si sia raccontato
tantissimo di queste storie. Una
cosa molto bella che mi sta succedendo da quando è uscito il libro è che mi
hanno scritto vari parenti di detenuti e mi hanno detto: grazie che hai
raccontato di noi. Sandro
Calderoni:
È vero che la difficoltà più grande per le famiglie è il senso di vergogna,
io mi metto nei panni di mia madre e mio padre, persone normalissime. Abitando
in un paese sai tutto di tutti, e l’idea dominante è che se un figlio combina
qualcosa, anche la famiglia c’entra in qualche modo. Il senso di vergogna è
tale che magari i nostri famigliari sentono di dover pagare anche loro, e tante
volte avrebbero bisogno proprio di potersi sfogare. Ecco perché tante persone
hanno incominciato a scriverti che hanno trovato qualcuno a cui poter esporre le
loro sofferenze. Francesco
Melandri:
Tutti infatti parlano della vergogna, tutti, tutti. Ornella
Favero:
Io credo che Francesca non poteva andare più di tanto in cerca dei famigliari,
perché mentre un detenuto o un ex detenuto è in grado di raccontarti la sua
storia proprio perché ha delle responsabilità, e quindi il racconto può
viverlo proprio come una assunzione di responsabilità, i famigliari sono spesso
bloccati da una parte dalla vergogna, dall’altra dal pudore. E andare a
documentarsi chiedendo a un famigliare cosa ha provato quando hanno arrestato un
suo caro può solo riaprire una ferita, qui invece io credo che un romanziere,
uno scrittore deve immaginare, immedesimarsi, tirare fuori le sue risorse di
narratore. Penso che sia invece più facile dopo che un famigliare, leggendo il
libro, si ritrovi in questa situazione e provi un sollievo nel sentire
rappresentata la sua sofferenza. Stefano
Frignani:
Non dobbiamo scordarci che ancora oggi, nel 2012, ci sono carceri dove i
famigliari aspettano all’aperto e se piove sono lì che si bagnano come
pulcini, e ci sono gli agenti umani che magari gli portano qualche cosa da
mettersi sulla testa, come ci sono quelli che non gliene frega niente. Vedi
persone di 70-80 anni che si sono fatte anche qualche chilometro a piedi con le
borse in mano per andare dalla stazione al carcere. Ci sono stati sindaci che
hanno detto che linee dalla stazione al carcere non le volevano fare, non
spendevano i soldi per il carcere. Succedono anche queste cose nel 2012, quindi
non parliamo solo degli anni settanta e ottanta, non è che è migliorata più
di tanto la situazione. Ornella
Favero:
Quando aspetto fuori dal carcere per entrare vedo madri che probabilmente mai
avrebbero immaginato di finire a colloquio in galera. Non perché ci siano dei
genitori peggiori di altri, ma ci sono ambienti in cui uno bene o male è
preparato a un‘idea del genere, altri in cui davvero ti piomba addosso in modo
del tutto inatteso il fatto che una persona cara è finita dentro. Il padre che
racconti nel tuo libro ha tante sfaccettature interessanti proprio perché vive
la contraddizione più grande: un figlio terrorista significa mettere in
discussione te stesso, quello che gli hai insegnato, il rapporto che hai avuto
con lui, credo che sia quasi inevitabile provare dei sensi di colpa o farsi
delle domande di cosa può essere successo, e nel romanzo ci sono tutti questi
aspetti. Francesca
Melandri:
Questa è un’altra scelta che ho fatto: il mio soggetto non erano i colpevoli
ma non erano neanche le vittime, erano questa terza categoria che sono i
parenti. Però le vittime le volevo tenere presenti e l’ho fatto con questo
pensiero del padre per la bambina figlia di una persona uccisa da suo figlio,
perché comunque sia se si parla di universo carcerario non si può dimenticare
che c’è qualcuno che è stato vittima direttamente o indirettamente. Ornella
Favero:
Noi abbiamo fatto un incontro in una scuola in cui c’erano studenti e
genitori, e sono intervenuti un detenuto, che ha scontato una lunga pena per un
grave reato legato alla tossicodipendenza, e suo padre. È successo che
soprattutto i genitori più ancora dei ragazzi volevano a tutti i costi, per
sentirsi più tranquilli loro, trovare in questo padre delle responsabilità.
Questi genitori volevano sentirsi rassicurati e allora gli chiedevano come aveva
fatto a non capire che il figlio era tossicodipendente. È interessante che a
volte la società vorrebbe trovare delle colpe nelle famiglie dei detenuti per
poter dire “la mia è una famiglia normale, regolare, a me non succederà mai
niente di simile”. Quindi è doppiamente difficile la vita per un famigliare
di un detenuto, che spesso rischia di essere inchiodato a una responsabilità
inesistente perché la gente fuori ha bisogno di sentirsi rassicurata e non
vuole capire che sono tante le variabili nella vita, il carattere, l’ambiente,
gli amici, per cui non puoi sempre inchiodare un genitore a una responsabilità
rispetto a un figlio “deviante”. Francesca
Melandri:
Io credo che ci sia spesso questa ansia di trovare la ricetta. Se in una
famiglia le cose sono andate cosi storte è perché è successo questo, questo e
questo, questa ricetta ha prodotto il disastro, se io non seguo questa ricetta
sono al sicuro. Ovviamente è una straordinaria illusione perché la vita è
molto più complessa di cosi. Ma
è un po’ lo stesso meccanismo che producono i media che raccontano
l’universo del carcere, l’universo dei reati, l’universo delle pene. È
come se dicessero “tu lettore sappi che sei buono e tutto questo a te non
succederà”. Invece i famigliari dei detenuti sono proprio quelli che in
qualche modo restituiscono un po’ di umanità anche ai “cattivi”, perché
attraverso di loro tu capisci che a finire in carcere sono comunque sempre delle
persone. Diritto
agli affetti e alla sessualità per i detenuti Il
ricorso del tribunale di sorveglianza di Firenze alla corte costituzionale Il
Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il 19 maggio scorso, ha sollevato
un’eccezione di incostituzionalità - appoggiata dalla procura del capoluogo
toscano - sul secondo comma dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario,
che impone la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da
parte della Polizia Penitenziaria. La
motivazione del ricorso del presidente del Tribunale di Sorveglianza, Antonietta
Fiorillo, si divide in due parti: c’è un’inibizione del diritto al rapporto
affettivo, ad avere un rapporto integrale e completo con il/la coniuge o il/la
convivente, rapporto al quale il detenuto deve appoggiarsi per realizzare un
percorso penitenziario completo. E questa inibizione del diritto al rapporto
affettivo prefigura diverse violazioni della Costituzione: diritti inviolabili
della persona, diritto allo sviluppo della personalità, diritto alla salute,
alla famiglia. E c’è la motivazione dell’insostenibilità del divieto, che
è sostenuta invece con il riferimento alla violazione dell’art.27 della
Costituzione sotto due aspetti. L’articolo dice che non devono essere attuati
trattamenti contrari al senso di umanità e che la pena deve tendere alla
rieducazione del detenuto, ma il divieto dell’incontro intimo con i familiari
e il partner fa sì che con il passare del tempo i rapporti si deteriorino
mentre il loro mantenimento è fondamentale per la conclusione del percorso
educativo dei detenuti. Il
ricorso è nato dalla richiesta di un detenuto del carcere di Sollicciano di non
essere sottoposto a sorveglianza visiva durante gli incontri con i famigliari. Che
cosa significa l’assenza della
possibilità di rapporti sessuali per i detenuti? È
un’assenza che ha due aspetti rilevanti, il primo è il rischio di degenerare
in pena menomante, il secondo di attaccare il principio in sé di potenziale
genitorialità di Mauro Palma,
ex presidente del Comitato europeo per la Prevenzione
della tortura, attualmente vicepresidente del Consiglio Per
la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa Nei
47 Paesi del Consiglio d’Europa, se noi escludiamo quelli veramente piccoli
come San Marino, Liechtenstein, Monaco, noi abbiamo che sono 12 i Paesi in cui
non sono possibili le visite ai detenuti senza supervisione, quindi sono 12 i
Paesi che negano la possibilità di visite in cui i rapporti sessuali e i
rapporti affettivi siano realizzabili senza controlli. E?
abbastanza preoccupante però, che, contrariamente ad altere problematiche, in
cui si registra spesso che i paesi dell’Unione Europea hanno na posizione più
avanzata rispetto a quella degli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa, su
questo tema specifico, ben 11 dei citati 12 paesi sono membri dell’Unione
Europea. C’è
anche una certa ipocrisia linguistica nel parlare di “affettività” evitando
il riferimento più diretto all’espressione della sessualità del detenuto.
Questa che io chiamo ipocrisia linguistica é
segnata dalla volontà di ancorare la possibilità dell’espressione sessuale
al diritto alla vita famigliare e al suo normale svolgimento, senza aprire il
tema delle possibilità soggettive e dei bisogni individuali. Parlo comunque di possibilità
dell’espressione sessuale e non di diritto all’espressione sessuale,
perché mi sembra che il tema debba essere inserito in un quadro di riferimento
di interessi legittimi e fondamentali, ma non di diritti in senso stretto. La
questione si pone diversamente se la si ancora a un elemento, che definirei
metagiuridico, che riguarda tutte le punizioni, e consiste nell’assoluto
divieto delle punizioni corporali. Sono proibite queste ultime – al di là
della corporeità intrinseca che ha una pena privativa della libertà – così
come sono proibite quelle forme di esecuzione della pena detentiva che possano
produrre una menomazione delle capacità dell’individuo. È, per esempio,
proibita la detenzione di una persona in un luogo e in forme tali da mantenere
costantemente per anni la sua possibilità di vedere al di sotto di una certa
lunghezza, perché ciò determina una riduzione delle sue capacità visive, così
determinando una connotazione anche corporale alla pena che il soggetto sta
espiando. Se
ancoriamo la questione della privazione della sessualità a questo secondo
aspetto, di diritto a non subire pene che abbiano una dimensione di corporeità,
allora – a mio parere – ne rafforziamo il significato e l’urgenza di dare
a essa una soluzione. Parlare
di affettività ci limita al contesto dell’ordinata vita familiare, parlare di
sessualità ci porta a una riflessione più profonda sul limite della potestà
punitiva. Tuttavia,
una premessa è necessaria. In alcuni dei Paesi che riconoscono tale necessità
e che a volte offrono la possibilità di colloqui intimi anche in funzione del
mantenimento di un maggiore ordine all’interno degli Istituti penitenziari, le
condizioni in cui tali incontri avvengono sono inaccettabili. Lo sono sia per la
tipologia dei luoghi, sia per le regole adottate: nell’ambito delle visite
ispettive di propria competenza, il Comitato europeo per la prevenzione della
tortura ha a volte definito degradanti tali condizioni. Cito semplicemente il
caso di un Paese dove la possibilità di visite senza supervisione è riservata
solo ai detenuti e non alle detenute: l’uomo detenuto può ricevere la visita
dalla propria partner, ma la donna detenuta non può. L’elemento
discriminatorio dietro a tale impostazione è evidente; così come è evidente
che lo spazio riservato a tali colloqui deve avere una strutturazione e una
organizzazione tale da rispettare la dignità di tutti gli “attori”
coinvolti, il detenuto, il familiare, il personale del carcere. Accanto
a queste esperienze negative, però, l’Europa è ricca di esempi positivi ove
l’equilibrio tra i vari fattori è stato risolto in modo adeguato e si offre
al detenuto la possibilità di trascorrere un weekend con la persona a lui
affettivamente legata in modo discreto, personalizzato, con anche la possibilità
di accogliere in modo armonico i figli. Chiarita,
quindi, la necessità di porre attenzione alle condizioni in cui avvengono
questi colloqui senza controlli visivi, vorrei muovermi su alcuni aspetti che
riguardano questo tema, a partire dalla meritoria iniziativa di adire la Corte
Costituzionale, messa in atto dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Parlo
di meritoria iniziativa, perché c’è un gran parlare di carcere tra di noi,
addetti ai lavori, ma se non rompiamo questo cerchio e non chiamiamo anche altre
istituzioni ad assumersi la propria responsabilità, rischiamo di continuare a
girare abbastanza a vuoto. Vanno quindi chiamati a responsabilità altri organi;
vanno “stanate”, passatemi il termine, altre responsabilità. Le
condizioni di detenzione non devono portare pregiudizio alla dignità umana Parto
dalla cogenza delle regole e delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e
dell’Unione europea, tenendo ferma la distinzione tra tre tipi di
raccomandazioni: le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa, che hanno un effettivo valore di indirizzo per i governi, poiché
stabilite da un organismo in cui sono presenti i governi stessi che, quindi,
nell’approvare una raccomandazione, implicitamente assumono l’impegno a
riproporre all’interno dei propri rispettivi ordinamenti ciò che hanno
assunto come decisione comune. Le Regole penitenziarie europee, che sono appunto
raccomandazioni del Comitato dei ministri, hanno, quindi, una loro efficacia;
non sono direttamente agibili come le norme di una Convenzione, però
costituiscono un corpus che effettivamente investe la responsabilità dei
governi. Diverse
sono le Raccomandazioni dell’Assemblea, per esempio la Raccomandazione
dell’Assemblea, la 1340 del 1997, richiamata anche nel ricorso alla Corte
Costituzionale. Le raccomandazioni dell’Assemblea non hanno nessun valore
giuridico, essendo soltanto atti di riferimento al Comitato dei ministri affinché
questo si attivi per approvare qualcosa riguardo il tema individuato: hanno
essenzialmente un valore di indirizzo culturale. Analoga è la situazione di
tutte le Raccomandazioni che il Parlamento europeo assume, che non hanno alcun
valore vincolante e non possono essere in qualche modo agite come elemento di
eventuale infrazione da parte degli Stati. Ci
sono infine principi consolidati che anche se non esplicitati sono alla base di
tutti gli ordinamenti europei: uno di questi è quello, già citato,
dell’inaccettabilità di pene che abbiano valore di menomazione e inibiscano
future possibilità dell’espressione umana del soggetto. Per esempio, il
Comitato per la prevenzione della tortura ha definito “inumana e degradante”
la possibilità esistente nella Repubblica Ceca al trattamento dei sex offenders
attraverso la castrazione chirurgica, anche se questa era formalmente eseguita
dietro consenso dell’interessato. Il Comitato ha stabilito che tale
trattamento aggrediva irreversibilmente la potenziale genitorialità del
soggetto e, quindi, ne menomava una funzione strettamente inerente alla sua
umanità: per questo ha chiesto – e ottenuto – l’immediata sospensione
della pratica. Anche
l’assenza totale della possibilità di rapporti sessuali può essere letta con
la lente del divieto di pene menomanti e sotto quello del privare il soggetto
del diritto alla potenziale genitorialità. Quali
sono gli articoli che sotto questo profilo entrano in gioco? Sono, io credo,
l’articolo 3, l’articolo 8 e l’articolo 12 della Convenzione europea per i
diritti umani: qui è punto di mio dissenso con il ricorso avanzato dal
Tribunale di Sorveglianza di Firenze che non ha messo in gioco proprio
l’articolo 12. L’articolo
3 stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura e trattamenti inumani
e degradanti; l’articolo 8 riguarda il diritto al rispetto della vita privata
e familiare; il 12, su cui mi vorrei soffermare, parla di diritto al
matrimonio e così recita: “A partire dall’età minima per il contratto per
il matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una
famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale
diritto”. Contiene
non solo il diritto di sposarsi, ma anche il diritto di fondare la famiglia.
Pone allora un problema nel momento in cui viene tolta la possibilità di avere
naturalmente dei figli, dal punto di vista non solo del detenuto, ma soprattutto
del diritto del coniuge di fondare una famiglia. Il diritto di chi ha sposato un
detenuto viene compresso sulla base dei limiti posti al detenuto stesso. Ora
voi sapete che c’è il principio, che la Corte ha più volte affermato, che
sono possibili le restrizioni dei diritti enunciati nella Convenzione, quando
però la restrizione non diventi tale da far perdere quella che è la ratio
del diritto stesso. Sorge così il problema se la restrizione imposta con
l’assenza di rapporti sessuali, al diritto del coniuge di fondare una
famiglia, avendo sposato un detenuto, non sia tale da far venir meno il senso
del diritto in quanto tale. Osservo
che in una nota sentenza della Corte di Strasburgo – la sentenza Kalashnikov
v. Russia del 2003 – la Corte dà un’apertura al tema, affermando: “Occorre
considerare la possibilità di permettere ai detenuti di incontrarsi con i loro
partner sessuali, senza supervisione durante la visita”. È
stata questa la prima volta che la Corte ha aperto alla considerazione di questo
aspetto, riprendendo poi la stessa impostazione in un altro paio di sentenze,
dove ha enunciato il principio che quando alle persone sposate non è permesso
avere visite coniugali, ciò che mette sotto questione tale decisione non è
soltanto il diritto del detenuto quanto piuttosto il diritto del partner, e
invita a considerare entrambi gli elementi. Ho
citato precedentemente le Regole penitenziarie europee. Queste costituiscono dei
principi-guida da tenere presenti e su cui occorre interrogare i vari
ordinamenti nazionali. Nella loro premessa, oltre ad affermare che occorre tener
conto della Convenzione europea per i diritti umani e della Convenzione contro
la tortura, affermano che le condizioni di detenzione non devono portare
pregiudizio alla dignità umana nel presente né tali da poter evolvere in
situazioni contrarie alla dignità umana. Successivamente, prima di elencare le
Regole, enunciano nove principi fondamentali e qui richiamano un principio che
la dottoressa Fiorillo ha richiamato fin dall’inizio, sollevando alcune
eccezioni di incostituzionalità alle norme e alla prassi che oggi inibiscono ai
detenuti e alle loro famiglie di avere rapporti affettivi e sessuali. Si tratta
del principio secondo cui le restrizioni imposte alle persone private della
libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere
proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte. È
proporzionale all’obiettivo legittimo per il quale è stata imposta una pena
che determina, oltre alla privazione della libertà, un elemento che può
evolvere in menomazione fisica del soggetto e contemporaneamente anche può
inibire l’espressione di un qualcosa che è intrinseco alla sua connotazione
di essere umano? Il principio di proporzionalità è in questi casi pienamente
rispettato? Il
secondo principio fondamentale enunciato è che “la vita in carcere deve
essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società
libera”. Sono
due termini, “proporzionalità” e “il più vicino possibile” che
lasciano margini, come dire, di apprezzamento, di valutazione. Però sono anche
principi fondamentali che inducono a domandarsi se le Regole interne dei diversi
Paesi siano o meno coerenti con essi. E, infatti, in questa linea, la regola 24
delle Regole penitenziarie europee – quella che riguarda le visite dei
familiari – nel suo primo capoverso stabilisce che “ai detenuti deve essere
permesso di conservare e sviluppare le relazioni familiari in un modo che sia il
più normale possibile”. Vorrei
portare un esempio positivo. È quello dell’esperienza di un Paese europeo, la
Finlandia, che prevede due tipi di visite – la Finlandia è un territorio
vasto, con grandi problemi di trasporti all’interno e non è facile muoversi
per raggiungere luoghi di detenzione lontani – così suddivise: visite che
durano da uno a tre giorni, per un totale di ventuno giorni l’anno; visite
brevi, da quattro e sei ore due volte al mese. Spetta alla famiglia scegliere un
modello o l’altro. In
molte situazioni poi la questione della gestione degli spazi per i colloqui è
lasciata all’organizzazione, che io mi ostino a chiamare
“responsabilizzante”, della vita interna da parte dei detenuti, che
all’interno delle unità carcerarie organizzano i turni, la gestione di queste
piccole unità abitative, dove è possibile stare fino a tre giorni e che sono
munite anche della stanza per i bambini. Quello
che ho riscontrato e continua sempre a colpirmi è il fatto che in tutte queste
situazioni non ho mai visto elementi di contrasto con il personale della
sicurezza; al contrario ho sempre visto un forte appoggio proprio da parte del
personale, forse anche dovuto a un improprio uso della possibilità delle visite
come elemento di disciplina all’interno del carcere. Un elemento,
quest’ultimo, che non mi trova concorde e ricordo che il Comitato ha più
volte chiarito che le sanzioni disciplinari non possono confliggere con i
diritti soggettivi incomprimibili, quale quello del mantenimento degli affetti
familiari; quindi non è possibile diminuire le visite previste
dall’ordinamento di un dato Paese, sulla base di un provvedimento
disciplinare. Tuttavia,
al di là di questo aspetto, resta il fatto che tutti gli operatori
penitenziari, inclusi quelli addetti alla sicurezza, dei Paesi dove i colloqui
intimi sono possibili, si sono sempre dichiarati favorevoli al sistema. Al
contrario, in Italia, quando verso la fine degli anni Novanta, il tema venne
sollevato, ci fu una forte opposizione dei sindacati della Polizia penitenziaria
che ritenevano che la loro funzione professionale venisse così degradata. Questo
è un elemento molto grave dal punto di vista delle culture che esprime. Concludo,
dicendo che dobbiamo sempre tener presente che se attribuiamo, giustamente, ad
alcuni elementi che disegnano la detenzione, una rilevanza che attiene alla
costituzione della persona in sé e, quindi, li riconosciamo come costitutivi
del suo essere persona, non possiamo poi vincolarli alla tipologia del reato
commesso. Dobbiamo garantirli. Non
possiamo, per esempio, affrontando un tema diverso anche se connesso a questo,
avere una legislazione che vuole fondarsi sulla prevalenza dei diritti
dell’infanzia rispetto a ogni altra considerazione, anche alle stesse esigenze
di giustizia, e poi discriminare il godimento dei diritti dei figli dei detenuti
e delle detenute sulla base del reato da questi commesso. Perché c’è un
contrasto logico tra questi due elementi. Che questi colloqui possano avvenire
in condizioni di maggiore sicurezza è un’altra questione, ma non possiamo
porre in modo confliggente diritti che riconosciamo come fondamentali: quello
alla tutela delle connotazioni fondanti della persona e quello alla doverosa
garanzia di sicurezza della collettività. Dobbiamo trovare un modo perché
entrambi agiscano in armonia. (Intervento
alla Tavola rotonda “Degli affetti e delle pene” - Firenze 25/05/2012.
Un’iniziativa della Regione Toscana - Consiglio regionale e del Garante
regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà
personale). Piccole
proposte per “salvare” le famiglie delle persone detenute Quello
che si può fare subito nelle carceri, a dispetto del sovraffollamento, è
promuovere finalmente alcune misure per “salvare” le famiglie:
Chiediamo
inoltre che sia predisposto in tutte le carceri il sistema della scheda
telefonica come già in atto nella Casa circondariale di Rebibbia, nella Casa di
reclusione di Padova e in altre carceri, sistema che permette un grande
risparmio di lavoro, eliminando l’inutile burocrazia delle domandine per
telefonare, e che consentirebbe di passare con più facilità a una
“liberalizzazione” delle telefonate, come avviene appunto nella maggior
parte dei Paesi europei. Mantenere contatti
più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia,
così come quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire
anche una forma di prevenzione dei suicidi.
Un
figlio in carcere, una disperazione mortale Nel
cuore rimane sempre l’angoscia di
non aver dato abbastanza amore, di
non essere stata più vicina nei momenti della sua vita in cui mio figlio aveva
più bisogno di me
testimonianza
della madre
di Igor Sono
la madre di un ragazzo di 26 anni che ha perso la sua libertà da sei
lunghissimi anni. Proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno. Quando poteva
essere più felice, uno dei più bei giorni della sua vita, è successa una
tragedia. Eravamo una famiglia unita, bella, stavamo realizzando i nostri
sogni... una casa, un bel lavoro ed essere tutti insieme. Però la felicità è
durata poco… la tragedia di quel maledetto giorno ci ha distrutto totalmente
la vita. In un solo giorno abbiamo perso tutto, le amicizie, la gioia, la
serenità, la fiducia delle persone, la fede, la casa tutto. Non
si poteva più vivere, più respirare. La disperazione era mortale... un figlio
in carcere!!! Lacrime, grida: un figlio che fino a quel momento era un esempio,
un superbuono, intelligente, un lavoratore, in un attimo era diventato un
OMICIDA, un “MOSTRO”... Tutto
questo non ci stava nella mia mente… Non era possibile, era spaventoso, non
era da lui, era incredibile... eppure è successo!! Mi
volevo vedere morta, l’unico pensiero era di prendermela con Dio. Dove era
Dio, perché aveva permesso a mio figlio di fare una cosa del genere? perché ci
aveva abbandonato? Domande, domande, domande e nessuna risposta. Giorni
terribili di paura e di angoscia. Televisione, radio, giornali, la gente, tutti
contro di te, ti parlano alle spalle, ti perseguitano, ti minacciano, ti
spaccano le finestre… di tutto e di più.
E LE FAMIGLIE RIMANGONO SOLE, abbandonate, non c’è nessun tribunale,
nessun potere che faccia qualcosa per il dramma di una famiglia, è un dolore
così grande... È in questi momenti che una madre deve essere più forte che
mai. Dobbiamo superare ogni ostacolo e guardare in faccia la realtà, ho
sofferto tanto, ho visto l’ingiustizia, l’abbandono dei parenti più stretti
e degli amici, la solitudine, la malattia, la tristezza, la morte della mia
mamma, che ha sofferto molto per me e per la disgrazia di mio figlio (il suo
nipote preferito). Le cose accadono, anche se non devono mai accadere, accadono
nelle famiglie ricche e in quelle povere, nelle famiglie educate e meno educate,
drogate e meno drogate… ACCADONO. E NOI, LE MAMME, non troviamo pace tutta la
vita, perché nel cuore rimane sempre l’angoscia di non aver dato abbastanza
amore, di non essere stata più vicina nei momenti della sua vita in cui mio
figlio aveva più bisogno di me, e ci rimane un vuoto nello stomaco. Per questo
ci si aggrappa a qualsiasi cosa per poter andare avanti. E per poter superare la
solitudine a volte ci si avvicina di più a Dio, si fa più carità, si diventa
più buoni, e si capisce di più come è fatta la vita.
È
impossibile non fare colloqui in carcere, là dove trovi l’amore di tuo figlio
disperso nel buio e speri con tutta l’anima di non averlo ancora perso del
tutto, e ti illumini quando è là che non vede l’ora di abbracciarti,
accarezzarti, e mentre abbassa gli occhi lo senti, che lui ti chiede perdono.
Cosi ti si accende la vita e provi ad andare avanti con tutte le forze, bisogna
andare avanti, la vita continua, anche perché ci sono persone che ti
sostengono, come la chiesa, i volontari, il vostro giornale “Ristretti
Orizzonti”, che io sfoglio ogni giorno. GRAZIE, per il vostro sostegno e il
vostro contributo nella vita dei nostri figli, vittime della indifferenza, o
dell’ingiustizia o del proprio destino o della pazzia… GRAZIE
Avrei
da scrivere un libro sulla tragedia accaduta nella nostra famiglia, sul passato
nero di questi sei lunghissimi anni, ma il tempo per fortuna guarisce davvero le
ferite, il vento porta via i pensieri brutti, e pian pianino la vita riprende il
suo percorso Io
dal profondo del cuore auguro a tutte le mamme che hanno figli in carcere di non
abbandonarli mai, di essere forti per poter stare loro vicino, perché da noi
dipende il loro futuro e la tranquillità della nostra società. E sono
assolutamente sicura che uniti insieme nella famiglia possiamo aiutare i nostri
figli a rifarsi una vita da uomini liberi. E a voi, i nostri figli, auguro di
essere in pace con voi stessi e con tutti, di non tornare mai più in carcere. La
testimonianza della sorella di un detenuto La
prima volta che ho varcato i
cancelli di un carcere La
voce di un agente ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto.
Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggi, è
terminato di Giovanna Floris La
prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere, mio fratello aveva 29 anni. Una
vita normale da studente universitario, il sogno di diventare veterinario, lo
sport sua grande ragione di vita, la montagna, la pesca, gli amici di chiassose
serate a ridere di se stessi. Una famiglia semplice come tante. Poi ad un certo
punto la strada sbagliata, dalla quale è impossibile tornare indietro e nella
quale quell’intelligenza mostrata fin da bambino, diventa il peggior nemico. Ricordo
sempre la frase che un poliziotto disse un giorno, o forse era notte, non so,
durante una delle infinite perquisizioni domiciliari: “La sua intelligenza ci
fa paura, è contro di lui “ La
nostra prima esperienza col carcere è avvenuta a Badu e Carros a Nuoro. L’agente
di custodia aveva un’aria imponente: come se volesse dirci che era lui il
tutore della legge e noi i fuorilegge. Aprendo e chiudendo quei cancelli, il
grosso mazzo di chiavi che ostentava come un trofeo, faceva un gran baccano. Odio
le chiavi e pure i cancelli. Le
settimane passavano lente e tutti in famiglia si faceva a turno per andare ai
colloqui. Nostro
padre aveva pure comprato un’auto nuova. Dopo
Nuoro, fu la volta di Oristano e poi di Cagliari. Stagione
dopo stagione passano gli anni e pure gli eventi; tutto diventa più difficile,
le condanne cominciano a sommarsi e nessuno ci può far nulla neanche i numerosi
“azzeccagarbugli “ che si sono susseguiti nel tempo. Tutto
è inutile e la matassa si fa sempre più complicata. Gli
amici e i parenti si arrendono e poi, in silenzio, scompaiono. Ma
il peggio deve ancora avvenire: il trasferimento al continente (così noi sardi
chiamiamo il resto d’Italia) fu la disperazione per tutti noi. Era già
difficile alzarsi all’alba per raggiungere le località della terraferma,
figuriamoci varcare il mare! Il
nostro paese si trova all’interno e per raggiungere qualsiasi porto si devono
fare 200 Km circa, il che significa tre ore di viaggio. E si è solo al porto di
partenza. Tutta la notte su una nave di linea e poi l’intera mattina su un
treno che puzza di fumo e sudore, alla fine la corsa in taxi fino al parcheggio
del carcere di turno. Una
lunghissima attesa, forse più lunga anche del viaggio stesso, prima che da un
posto di guardia leggano il nostro cognome, tutto ciò che sanno di noi. Dimentichi
di aver fame e sete, freddo d’inverno e caldo d’estate, ma conta solo essere
arrivati in tempo per il colloquio. Mentre
i cancelli si chiudono dietro di noi, tutto diventa reale: le perquisizioni con
i metal detector e i guanti usa e getta, le stupide discussioni per quel pane
tipico che nessuno conosce, il formaggio che puzza di capra e poi c’è qualche
etto in più che non si sa proprio da dove si deve togliere. Finalmente quei
viveri che hanno varcato mari e monti vengono accettati con un nostro grande
sospiro di sollievo. L’ultimo
cancello che ci separa dal resto del mondo si apre, e come in un film appaiono i
primi detenuti, pallidi ed in fila indiana, e tra essi noti finalmente il viso
caro che ti sorride. Il
muro che ci separa è alto un metro circa, e non ci permette di scambiarci un
vero abbraccio. Sembra
quasi normale trovarsi a parlare del più e del meno, a portare i saluti degli
amici che sono rimasti, notizie sulla salute dei genitori che invecchiano e dei
bambini che crescono. “E
gai passad sa vida trista e lanza”, (così trascorre la vita, triste e vuota)
recita un’antica poesia dialettale. La
voce stridula di un agente, ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è
scaduto. Quel
tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggio, è
terminato. Quante
volte avrei voluto piangere e urlare che non costava niente stare lì a
chiacchierare ancora; ma quel tempo non era più nostro. Bisognava alzarsi e
andare via senza voltarsi indietro per nascondere la sofferenza. Il
viaggio di ritorno è il più doloroso. Le
valigie vuote, leggere; il cuore pesante, troppo pesante anche per ammirare i
luoghi bellissimi che di volta in volta attraversi: Firenze, Pisa, Napoli,
Avellino,Treviso, Padova. E
così viaggio dopo viaggio il tempo passa e alle volte mi ritrovo a pensare se
quella vita l’ho vissuta realmente o me l’hanno solo raccontata. E
tra cielo e mare attraversi montagne e pianure e ti ritrovi ancora una volta
davanti a cancelli arrugginiti tutti uguali, così come le guardie. Poi
finalmente una mattina di primavera, una telefonata, e quella voce allegra che
avevi dimenticato “Sono fuori… ci hanno portato in gita scolastica…”. La
speranza mai perduta torna a galla. Ora
potrebbero esserci i primi permessi premio, le prime uscite dal carcere. Prego
Dio che qualche persona di buona volontà si interessi a quella vita
dimenticata. Quella
persona esiste… .è caparbia e convincente, tanto da permettere la
realizzazione di un diritto, che a me però, piace chiamare “sogno”. La
prima volta che ho abbracciato Antonio all’aria aperta, è stato all’OASI
dei Padri Mercedari di Padova, un posto splendido, accogliente e pulito proprio
come le persone straordinarie che lo gestiscono. Percorrendo
il viale alberato, per la prima volta dopo tanto tempo, mi sono sentita una
sorella normale come tutte le sorelle del mondo, sarà forse per il fatto che lì
dentro le persone vengono chiamate per nome e nessuno giudica nessuno. Il
miracolo del tempo mai passato mi rendeva serena. Le
cose semplici, alle quali nella vita quotidiana non dai valore, diventano
speciali: rivedere Antonio fare il fuoco, cucinare, preparare tutto per gli
amici che vengono a pranzo, mi ha emozionato. Antonio
ha sette anni più di me. Per
tutti questi anni però io sono stata più vecchia di lui per il solo fatto che
la mia vita ha continuato a scorrere e la sua ha rallentato la corsa. Sarà
stupido, lo so, ma per me lui ha sempre 29 anni. Mi
piace pensare che non sia mai invecchiato. Sarà
perché spero si possa tornare a vivere anche a 58 anni. Sono
pronta a dimenticare tutto il dolore, tutto il tempo inutile passato aspettando
una svolta e ora che questo tempo è dietro la porta, lo voglio vivere tutto. La
vita ha un immenso debito, verso Antonio. E
forse anche verso di noi, “familiari a piede libero” ma legati
inesorabilmente alla stessa pena. Ed
è solo quel sottilissimo filo che tiene uniti due mondi paralleli e
lontanissimi: il carcere e il mondo reale. Non
ricordo la presenza di mio padre in casa Tutti
si chiedono come facciamo ad assomigliarci cosi tanto senza nemmeno aver passato
tanto tempo insieme di Suela, figlia di Dritan Avere
un genitore in carcere da cosi tanti anni comporta diverse conseguenze, come
sentirne la mancanza in casa, i sacrifici che si devono sostenere, e per chi ha
dei figli poi, naturalmente per le mogli che rimangono sole non è facile
riuscire a crescerli, educarli e fargli seguire la strada giusta. lo
personalmente mi sento fortunata, perché mia madre è una donna seria, con dei
sani principi, ed è grazie a lei che la nostra famiglia è ancora unita, perché
ha fatto di tutto per non far andare ogni cosa per il verso sbagliato. Purtroppo
molto spesso sento dire che ci sono detenuti abbandonati dalle proprie famiglie,
è una cosa molto brutta e difficile per entrambe le parti, ma non spetta a me
giudicarli, perché per fortuna nella mia famiglia non è successo, anzi, grazie
a lui che si sta comportando bene, e grazie alle persone che lo hanno aiutato e
lo stanno aiutando, si avvicina sempre di più alla libertà assoluta, ma come
ho già detto anche a lui, io non ho mai perso le speranze, perché non sono un
paio di muri a farmi pensare che sarebbe finito tutto cosi. È
da quando ero molto piccola, tanto da non ricordare la presenza di mio padre in
casa, che vivo in questa situazione e non è stato facile, anzi, ma ho la prova
concreta che ciò che non ti uccide ti rende più forte. Quando qualcuno viene a
sapere che uno dei tuoi genitori è in carcere, ti guarda in modo diverso,
creandosi delle strane idee, o magari pensando che i figli faranno la stessa
fine, ed è per questo motivo, e anche perché sono molto riservata, che neanche
la mia migliore amica sa che mio padre è in carcere, non perché me ne
vergogno, ma perché sono rare le persone a cui dispiace veramente, altre invece
vogliono solo passare la giornata parlandone con altre persone e tirando fuori
tutte le loro opinioni “inutili”. Quando
la gente dice che in carcere si sta meglio che fuori, mi arrabbio, dato che il
carcere per me vuol dire non essere libero, e la libertà è il bene immateriale
più prezioso, per il quale gli uomini hanno sempre combattuto rimettendoci la
vita, e ora si fanno certe affermazioni prive di un senso logico. lo
e mio padre abbiamo un legame particolare, abbiamo atteggiamenti, pensieri, e un
carattere molto simile. Tutti si pongono la stessa domanda: come facciamo ad
assomigliarci cosi tanto senza nemmeno aver passato tanto tempo insieme? Eppure
me lo chiedo anch’io, e l’unica risposta che mi sono data è che lui è mio
padre ed è normale che ci assomigliamo, io sono il sangue del suo stesso
sangue. Io lo adoro, lui è sempre paziente, giustifica ogni mia reazione, mi
dimostra sempre il suo affetto e quando lo guardo i suoi occhi sembra che mi
chiedano di perdonarlo, io non lo devo perdonare perché non è colpa sua se non
mi è stato vicino, ma del destino e un po’ della sua poca diligenza. Il
detenuto 8556 Una
scelta difficile Ho
chiesto a chi veniva a trovarmi a colloquio
di non venire più, a chi mi scriveva di non scrivermi più
e a chi mi aspettava di non aspettarmi più di Clirim Bitri Sono
il detenuto 8556. Oggi ho partecipato a una riunione del Gruppo di Discussione
della redazione di Ristretti orizzonti, dove si discuteva della situazione degli
affetti nelle carceri italiane. Mi
trovo in carcere da oltre tre anni, e in questo tempo ho visto tante situazioni
che mi hanno spinto a fare una scelta difficile: Ho chiesto a chi veniva a
trovarmi a colloquio di non venire più, a chi mi scriveva di non scrivermi più
e a chi mi aspettava di non aspettarmi più. Perché?
Perché ho visto detenuti piangere quando hanno ricevuto una lettera dalla
moglie e dietro le righe hanno visto che si stava allontanando. Perché ho visto
detenuti essere umiliati da un agente di fronte alla moglie al colloquio perché
l’hanno voluta accarezzare. Perché conoscevo detenuti che dopo che hanno
ricevuto una lettera di poche righe con la quale la moglie li lasciava, si sono
tolti la vita. Ho fatto quella scelta per risparmiarmi queste situazioni. Le
mie cattive abitudini mi hanno portato a fare sei mesi di reclusione in Belgio,
dove i detenuti potevano telefonare ogni due giorni quando erano in custodia
cautelare, e una volta definitivi quando volevano. Avevano quattro ore di
colloquio “privato” al mese. Dove la liberazione anticipata ti era
anticipata, e se infrangevi le regole ti veniva revocata (risparmiando un sacco
di lavoro all’istituzione corrispondente al magistrato di Sorveglianza. In
Italia è “fortunato” colui che
ha una pena piccola e può sperare di ritrovare fuori quella situazione che ha
lasciato. Come
si possono mantenere i legami famigliari con quattro telefonate al mese? Se
succede come a me, che in una stessa settimana hanno il compleanno i due figli,
uno deve scegliere a chi dei due fare gli auguri. Come si possono mantenere i
legami famigliari in una situazione dove non c’è intimità neanche per
piangere? È
giusto che io stia in carcere perché sono colpevole, il colpevole che ha leso i
diritti di qualcuno. Sono stato condannato a scontare la pena per gli errori che
ho fatto, ma non riesco a spiegare a mio figlio perché ho preferito fare gli
auguri a suo fratello e non a lui, perché non è colpa mia. Non riesco a
spiegare a mia moglie che la amo ancora, ma quando viene al colloquio, non posso
baciarla perché c’è la possibilità che mi facciano un rapporto disciplinare
e non mi concedano la liberazione anticipata. Io ho sbagliato, ma loro no. Non
riesco a trovare il colpevole che ha messo la mia famiglia in condizioni di
abbandonarmi. Non riesco a trovare il colpevole che mi ha lascato solo
privandomi degli affetti famigliari, perché un uomo solo e che non ha niente da
perdere può commettere reati più facilmente. La
soluzione è facile, basta che le istituzioni dimostrino un po’ di più
coraggio dicendo che chi commette reati finisce in galera, ma la pena la deve
scontare solo lui. Permettendo a sua madre di abbracciare suo figlio e piangere
da sola con lui. Permettendo a sua moglie di baciare senza vergogna suo marito,
togliendo il dubbio al figlio che suo padre non gli voglia bene. In
Italia sono quasi 70.000 i detenuti che scontano una pena per i loro reati
(ammettendo che tutti siano colpevoli perché sono compresi anche quelli che
sono in custodia cautelare), ma sono quasi 70.000 famiglie che scontano una pena
per qualcosa che non hanno fatto. Se a queste famiglie fosse data la possibilità
di tenere vivi i rapporti affettivi in condizioni normali con i loro parenti che
hanno commesso anche dei gravissimi reati, in un prossimo futuro vedremmo meno
ex detenuti nelle carceri italiane. Non
vedo i miei figli da parecchio tempo Ma
ho recuperato la gioia di sentirli, quando mi è possibile, al telefono, anche
se non chiedo più “Quando venite a trovarmi?” di Alan Canzian Parlare
di affetti in carcere significa sempre toccare un tasto amaro, anche perché io
non vedo i miei figli da parecchio tempo. Sono in carcere ormai da quattro anni
e proprio in questo posto ho potuto coltivare, un po’ alla volta, l’amore
verso i miei figli, purtroppo solo con lettere o telefonate, e tutto questo mi
fa stare molto male, perché non posso riabbracciare la mia famiglia con un
po’ di serenità. Noi
della redazione di “Ristretti” affrontiamo spesso questo tema, e ogni volta
è un colpo al cuore, tempo fa proprio davanti ai ragazzi delle scuole, che
spesso vengono a incontrarci grazie al progetto scuola/carcere, davanti a una
domanda di una ragazza dell’istituto Scalcerle, che chiedeva se quando siamo
entrati in carcere i nostri familiari ci hanno abbandonato, non ho potuto non
rispondere. Purtroppo non lo faccio quasi mai, o per timidezza o per paura, o
perché tutto questo mi provoca un’ansia tremenda, ma quel giorno come per
magia, o perché proprio in quel periodo iniziavo a riprendere, con non poca
fatica, il dialogo con mio figlio Steven, il più piccolo, ho risposto con poche
parole alla sua domanda. Ricordo che non è stato per niente facile, ma con il
cuore in gola ho raccontato che avevo ricevuto una lettera da mio figlio (era la
prima volta) e che lui non mi avrebbe del tutto abbandonato, anche se mi
rimproverava di non esserci stato quando lui ne aveva bisogno e invece ha dovuto
crescere senza avere un padre vicino. Quello
è stato un giorno molto importante per me, oltre ad essere il mio compleanno:
avevo ricevuto quella lettera così inattesa e ne avevo parlato, cercando di
capire i miei sbagli fatti proprio a danno della mia famiglia, loro non hanno
colpa non hanno chiesto di venire al mondo, ma purtroppo ci sono e devono pagare
anche loro per la mia lontananza e per i miei errori. Di tempo ne è passato da
quel giorno ed io non sono stato più in grado di parlare con i ragazzi delle
scuole, ma in compenso ho recuperato la gioia di sentire i miei figli, quando mi
è possibile, al telefono, anche se non chiedo più “Quando venite a
trovarmi?”, so che per mille motivi questo non sarà facile, ma quel che conta
è che loro esistono e non mi hanno dimenticato. Il
più grande mi ha fatto un bel regalo: sono diventato nonno di una bella
nipotina e con piacere ho ricevuto una loro foto. Il più piccolo invece
purtroppo ha perso l’anno scolastico. Io
sono ancora molto impacciato quando li sento, le parole non escono e non so mai
cosa dire, sento che anche dall’altra parte del telefono non è facile, anche
a loro mancano le parole, tutto questo ti fa stare male e sai che sentirli non
ti basta più, vorresti stringerli forte a te e vivi con la speranza che in un
giorno vicino li potrai ancora incontrare, anche se molta strada ci sarà da
fare e saranno proprio loro che mi daranno la forza per continuare. Volevo
anche dedicare un pensiero alla mia ex compagna, madre dei miei figli, purtroppo
la nostra storia è finita molto tempo fa, ma ancora adesso devo ringraziarla
per tutto quello che ha fatto sia per me che per i nostri figli. Oltre che
crescerli nel migliore dei modi, lei non ha mai cercato di metterli contro di
me, anzi ha cercato di far capire perché il loro papà è in galera, spiegando
che quel padre non è proprio una brutta persona, ma purtroppo, trovandosi con
dei problemi più grandi di lui, non è stato capace di chiedere aiuto in quei
momenti di grande bisogno, ed è arrivato ad usare la droga credendo che quella
fosse l’unica possibilità per risolvere i propri problemi. Ora
posso solo rimediare e cercherò di farlo anche mettendomi a disposizione di
quei ragazzi delle scuole, che incominciano una fase difficile della loro vita,
con tutti quei problemi che l’adolescenza comporta, sperando che possano,
dalla mia brutta storia, trarne un’utilità, e io con loro pur trovandomi in
carcere dovrò continuare a lottare, sperando di avere un bel futuro assieme
alla mia famiglia. Due
figli che vivono lontani e non hanno un
telefono fisso, un padre detenuto che deve scegliere di chiamare solo uno dei
due di
Federico Torchia Era
giovedì sette maggio. Pensieroso e con lo sguardo perso nel vuoto, camminavo
verso la mia cella. La faccia rifletteva il mio stato d’animo. Incredulità -
ecco cosa sentivo. Non capivo come e perché in un Paese come l’Italia siamo
ancora tanto arretrati. Mi
chiamo Federico e le vicissitudini della vita mi hanno portato lontano dalla mia
Italia, a vivere con la mia famiglia in Spagna. Ho
tre figli, due piccoli, Attilio di 13 anni e Luigi di 7 anni. E dal primo giorno
che sono recluso ho avuto grandi problemi di comunicazione con loro. Questo
perché Attilio vive in Italia con sua madre e Luigi vive in Spagna con sua
madre. Premetto che tutti e due erano abituati a comunicare con me giornalmente
e l’estate la passiamo tutti assieme. Però
da quando sono stato carcerato sono praticamente scomparso. Non sono più in
grado di mantenere una forma di contatto con i miei figli. Che vivono questa
mancanza di comunicazione come un abbandono e si colpevolizzano loro stessi. Ed
è per questo motivo che pensano che il padre non gli vuol più bene e non li
chiama più. Tante
volte ho chiesto di telefonare, e mi son trovato a combattere contro i mulini a
vento. Oggi
è successa una cosa che ha dell’incredibile. Volevo attivare due numeri di
cellulare per chiamare Attilio e Luigi. Invece mi è stato detto che dovevo
scegliere chi chiamare perché non potevo essere autorizzato a chiamarli tutti e
due. Ma
come posso decidere, io che amo i miei figli in modo uguale? Come faccio a
prendere una decisione? Vedevo
i volti dei miei piccoli e sentivo i loro abbracci. Alla
fine ho deciso, ma non vi dirò chi ho scelto. Perché mi vergogno di aver
scelto. E
non pensate che sia finito tutto qui. PERCHÈ posso chiamare solo una volta ogni
15 giorni. E
se per caso mia madre mi viene a visitare allora non posso più chiamare per
altri 15 giorni che partono dal giorno del colloquio. Così
se sono passati 14 giorni dalla telefonata e un parente o un amico mi viene a
visitare per darmi un po’ di conforto, devo aspettare 29 giorni per parlare
con mio figlio, che intanto si chiede perché suo padre l’ha dimenticato. Questo
calendario carcerario mi allontana sempre più dalla mia famiglia e da chi mi
vuole bene. Cosa
penseranno i miei figli di quel padre che non chiamava quando erano piccoli e
avevano tanto bisogno di sentire una parola di conforto e d’incoraggiamento
nelle difficoltà che può trovare un bambino crescendo senza la presenza di un
padre? Purtroppo
siamo in tanti a soffrire e ci basterebbe un piccolo gesto di comprensione da
parte della Direzione per farci sorridere e sentirci più vicini alle nostre
famiglie. Non
bisogna spezzare il filo sottile che tiene “attaccato” il detenuto ai propri
cari Ma la società ritiene che la colpa sia
anche dei familiari e non vuole rendersi conto
che anche loro sono “reclusi” nel mondo esterno di Qamar Abbas Per
tutti noi che siamo in carcere parlare degli affetti qui dentro è sempre un
problema, specialmente per le persone straniere che non hanno la possibilità di
vedere i propri cari perché sono lontani, ed il carcere non aiuta a
semplificare il contatto con i familiari garantendo un minimo di intimità, hai
sempre la sorveglianza degli agenti incaricati dei controlli che ti costringe a
trattenerti dal dare o ricevere una carezza. Ore
ed ore di attesa per solo sei ore di colloqui al mese, costretti a tutte le
intemperie, con nessun riparo, nessun luogo di ristoro, e mancano spesso anche i
servizi igienici esterni, e loro però non mollano, ma sino a quando? Questo è
ciò che i miei familiari, come tutti gli altri, devono subire per stare accanto
a me. L’unica loro colpa è quella di avere un proprio caro in carcere e mai
avrebbero pensato di trovarsi in una situazione da cui non si può tornare
indietro. Stanno subendo offese e provando vergogna con quelle stesse persone
che li avevano accolti tanti anni fa al loro arrivo dal Pakistan. Io ho rotto
quelle regole che i miei genitori hanno faticato ad imparare e ad insegnare pure
a me, quegli stessi genitori che, messi al corrente dell’omicidio che avevo
commesso durante una rissa, mi hanno dato l’esempio di come ci si deve
comportare: costituirsi e pagare il debito con la società. Sono
persone che soffrono e difficilmente sono capiti nel loro dolore da chi,
conosciuto il reato che abbiamo commesso, magari solo dagli articoli dei media,
desidera mantenere “le distanze” ritenendo colpevoli anche i familiari.
Quanto sarà difficile per loro incrociare gli sguardi dei paesani, non riesco
neanche a immaginarlo, eppure loro devono uscire per gestire la loro vita, ma è
difficile anche solo entrare in un negozio come quello che avevo io, lì la
gente ti addita subito come figlio, fratello, parente di un detenuto. I
soli momenti nei quali possono sentirsi fuori da questo “giudizio” è ai
colloqui perché si mischiano ad altre persone che vivono la medesima
situazione. Loro, sempre loro e solo loro dovranno e, spero, sapranno
riaccogliermi a casa tra tanti anni. Ecco che sarebbe necessario, per non
allontanare da noi le nostre famiglie, ampliare gli spazi e i tempi dei
colloqui, permetterci un po’ di intimità e lasciarci utilizzare di più quel
semplice mezzo di comunicazione che è il telefono, che qui sembra un oggetto
prezioso, da toccare solo per 10 minuti alla settimana. Ma perché questa poca
attenzione da parte della giustizia italiana per le famiglie? Sembra impossibile
che chi gestisce il potere non possa pensare per un solo millesimo di secondo di
immedesimarsi nei sentimenti di una persona che ha commesso un reato. Sembrava
che, da quando fa parte dell’Unione europea, l’Italia dovesse adeguarsi alle
regole europee in tutti i comparti, ma per quel che riguarda le famiglie dei
detenuti c’è ancora tanta strada da fare per mettersi al passo con gli altri
Paesi, dove il detenuto può stare con la moglie o con i figli in un modo molto
più naturale, umano e intimo. E questa è una garanzia di mantenimento di un
rapporto con il proprio nucleo famigliare, che è lo stesso che ci aprirà la
porta di casa a fine pena. E potrebbe essere un buon motivo per sopportare una
pena in modo molto più equilibrato, diminuendo le tensioni create dal dover
sopravvivere in un luogo di detenzione sovraffollato. Ma
i politici, pur consci dell’emergenza carceri, non stanno attuando le giuste
misure per dare almeno dignità al detenuto e aiutarlo a non compromettere i
legami con i familiari. Quegli stessi che per me hanno cercato di preparare un
futuro “sano”, che poi io, coinvolto in una situazione che mai avrei pensato
di dover affrontare, ho completamente distrutto, Se con la detenzione vogliono
recuperarci, rieducarci, reinserirci nella società, credo sia giusto che ci
aiutino a costruire un rapporto solido con le persone care che abbiamo lasciato
fuori, persone che difficilmente ci abbandonano. Tante
volte mi domando perché la società ritiene che la colpa sia anche dei
familiari e non vuole rendersi conto che anche loro sono “reclusi” nel mondo
esterno e sono per tutti “i parenti di un detenuto”. Una situazione di
difficoltà che per gli stranieri è amplificata, e che può portare anche alla
rottura dei contatti con chi è “dentro”, ben chiuso a chiave. Molte
sono le sofferenze in un carcere sovraffollato, ma noi vogliamo mettere in primo
piano il problema degli affetti, perché proprio da lì il detenuto trae la
forza e l’impegno per cominciare a ricostruire il suo cammino, e una volta che
avrà pagato la sua pena e sarà un uomo libero, l’unico riparo lo troverà
probabilmente nella sua famiglia. Da lì potrà riprendere il percorso
“fuori”, da dove lo ha lasciato, ma solo se gli sarà consentito di non
spezzare quel filo sottile che lo tiene “attaccato” ai propri cari. Che
significa: se sono detenuto, devo poter stare comunque vicino alla mia famiglia,
che di colpe proprio non ne ha di Antonio Floris Uno
degli elementi basilari della rieducazione in carcere, come ben ha voluto
evidenziare il legislatore, è l’agevolazione dei rapporti con la famiglia. I
contatti tra detenuti e familiari si fanno attraverso i colloqui visivi in sale
affollate, dove mediamente ci stanno 12 – 15 detenuti e i loro familiari
(numero massimo permesso è di tre familiari per volta). Il tutto si svolge
sotto lo sguardo degli agenti il cui compito è quello di vigilare che
l’incontro avvenga in tranquillità e senza turbamenti. I colloqui
generalmente hanno la durata di un’ora, ma in via straordinaria (se il
detenuto non ha effettuato colloqui nella settimana precedente e i familiari
arrivano da posti lontani) la durata potrebbe essere anche di due ore. Il numero
delle ore complessive mensili è di sei per i detenuti imputati o condannati per
reati comuni e di solo quattro per i condannati o solo imputati di reati
cosiddetti ostativi. Questo è quanto dice la legge, che testualmente recita:
“Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari”. Ma
anche se la norma dice così, non sempre ci sono le circostanze favorevoli
affinché i detenuti riescano ad incontrare le loro famiglie sei o anche solo
quattro ore al mese. In pratica tutti i colloqui previsti riescono a farli solo
quei detenuti che sono ristretti in carceri vicini al luogo dove abita la loro
famiglia, mentre quelli che hanno le famiglie residenti in posti lontani
centinaia di chilometri non li possono certo fare. Mettiamo
il caso di quelli (e sono migliaia) che sono ristretti in carceri del Nord e le
loro famiglie abitano al Sud, o al contrario, senza parlare poi degli stranieri,
la buona parte dei quali hanno le famiglie nei Paesi d’origine: per i
familiari venire a fare colloqui in carcere è sempre un sacrificio e non da
poco, anche per quelli che abitano vicini. Bisogna alzarsi la mattina
prestissimo per cucinare qualcosa da portare dentro, poi mettersi in viaggio per
arrivare al carcere e una volta arrivati all’ingresso non è che subito subito
ti fanno entrare. No, bisogna aspettare il turno di entrata perché nelle sale
dei colloqui si fanno turni di un’ora e quindi bisogna che si liberino le
sale. Se le persone in attesa sono poche si entra non appena le sale si
svuotano, ma se sono più di quante le sale ne possano contenere, allora si
entra in ordine di arrivo e quelli che non possono entrare in quel turno entrano
nel successivo o nei successivi. Succede
in tanti posti che i familiari si presentino davanti al carcere alle quattro del
mattino e riescano a entrare nella sala del colloquio alle due o alle tre del
pomeriggio. Al carcere di Napoli Poggioreale ad esempio questa è ordinaria
amministrazione, perché tutti per fare in fretta arrivano pressappoco alla
stessa ora, ma solo una minima parte può entrare ai primi turni, mentre gli
altri devono aspettare fino a quando non vengono chiamati. Il che può succedere
appunto anche nel tardo pomeriggio. Se
i problemi per quelli che abitano vicini sono questi, per quelli che abitano
lontano ce ne sono anche altri. Io ho la mia famiglia in Sardegna e ho fatto
fino a oggi 22 anni e più di carcere, la buona parte dei quali in istituti
fuori della Sardegna, principalmente in Toscana, Campania e adesso qui in
Veneto. Per venire a colloquio i miei familiari, che vengono sempre in aereo,
devono fare 150 chilometri di strada per arrivare dal paese all’aeroporto,
prendere l’aereo e sbarcare nell’aeroporto più vicino al carcere. Poi
prendere il treno che porta alla città dove c’è il carcere. Arrivati li
bisogna cercare un albergo dove passare la notte e poi il giorno dopo prendere
un taxi che li porta al carcere e una volta lì affrontare tutti i problemi di
attese snervanti sopra descritti. Infine dopo fatta un’ora o due di colloquio
rifare tutta la strada del ritorno. Ogni volta è un sacrificio enorme che porta
via almeno due giornate di tempo, senza contare le corse affannose da una parte
all’altra e le spese. Essendo la cosa così faticosa, non è neanche
immaginabile che si possa ripetere sei volte al mese, tante quante sono le ore
di colloquio concesse. È già troppo se un simile viaggio si affronta una volta
al mese o ogni due mesi. In
questa situazione si trovano non solo le famiglie dei detenuti sardi rinchiusi
nelle carceri del continente, ma anche le famiglie dei detenuti continentali
rinchiusi nelle carceri della Sardegna. La stessa cosa si può dire delle
famiglie di tutti i siciliani, calabresi, pugliesi, campani rinchiusi nelle
carceri del nord e di quelle che abitano al Nord ed hanno i loro cari
imprigionati al Sud. L’art.
42 dell’Ordinamento Penitenziario dice che nel disporre i trasferimenti deve
essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla
residenza della famiglia, in base al principio della “territorialità della
pena”, il che vuol dire che i condannati dovrebbero espiare la pena nella loro
regione, o se questo non è possibile, nella regione più vicina e comunque a
non oltre 300 chilometri di distanza dalla residenza della famiglia. Ma in realtà
per un grandissimo numero di detenuti questo criterio non viene rispettato. E
chi ne fa le spese non siamo solo noi detenuti che qualche colpa sicuramente ce
l’abbiamo, ma sono i nostri familiari, che colpe non ne hanno, a pagare il
prezzo più alto.
I
miei genitori lo
vogliono più di tutti, il
mio cambiamento Loro
sono anche consapevoli che devo pagare per
i miei errori, ma non capiscono come possono
farmi diventare una persona migliore chiuso
in queste condizioni, isolato anche da loro di Fatjon Cana
I
primi tempi del mio arresto, avvenuto in Macedonia, con mandato di cattura
internazionale da parte dell’Interpol di Roma, mi hanno portato nel carcere
giudiziario nella citta di Ocrida. Questo carcere è stato definito dagli
organismi europei come carcere disumano e che tortura, in quanto in esso non
esisteva nessuna condizione che poteva garantire una vita dignitosa al detenuto.
Niente televisione, radio, giornali, libri, ma anche per la penna e la carta da
scrivere era vietato l’uso. Addirittura
per i fumatori era permessa solo una sigaretta dopo ogni pasto, oppure durante
l’ora d’aria che durava 30 minuti, per ogni singola cella, che ospitava in
media tre detenuti. La doccia una volta ogni settimana, quando c’era l’acqua
calda, ma di solito d’inverno era fredda. Per
quanto riguarda il contatto con il mondo esterno, famigliari, amicizie, o
conoscenze nel mondo dello studio e del lavoro, anche se ero in un carcere così
rigido, mi era permesso fare colloqui visivi con qualsiasi persona che aveva
voglia di venire a trovarmi, bastava presentarsi con un documento di
riconoscimento all’entrata, dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00,
si poteva fare più di un colloquio al giorno, bastava che ci fosse posto. Ogni
colloquio si svolgeva in stanze separate autonome, lontano dagli occhi degli
agenti penitenziari, arredate con poltrone, tavolo e sedie, con bagno
all’interno della stanza, in modo da dare quell’accoglienza e intimità, tra
famigliari, amici e conoscenti, con i quali il rapporto si era interrotto dopo
l’arresto. Certo
avere colloqui telefonici nelle carceri giudiziarie della Macedonia non era
permesso, ma si poteva chiamare il responsabile, cioè gli agenti in servizio,
gli si dava il numero della famiglia o dell’avvocato, e lui riferiva tutto ciò
che il detenuto aveva scritto su una apposita richiesta. Altrimenti ti spediva
un fax gratis, all’indirizzo che tu indicavi, nell’arco di due o tre ore. Ma
anche se era un famigliare a chiamare il carcere, ti veniva immediatamente
riferito. Inoltre
i famigliari, o chiunque venisse all’ingresso del carcere, anche se non
avevano il tempo di entrare, potevano lasciare all’entrata in qualsiasi orario
vestiti, soldi e prodotti alimentari di qualsiasi genere, bastava che il tutto
fosse in confezioni sotto vuoto, in sacchetti trasparenti, per i dovuti
controlli. Certo
anche in queste condizioni, non era mica facile la vita all’interno
dell’istituto, ma il constante contatto con la mia famiglia e tutti gli amici
che potevano venire a trovarmi era molto rassicurante per me e creava un clima
di serenità, che rendeva più decenti le mie giornate. Questo
è durato fino a quando le procedure dell’estradizione si sono completate e
sono stato estradato in Italia, al carcere di Rebibbia di Roma, in una sezione
di Alta Sicurezza per affrontare il processo a mio carico. Al
mio arrivo in Italia, per avvisare la mia famiglia del mio trasferimento e
mantenere i contatti con loro, è stata una vera odissea, perché non in tutti
gli istituti penitenziari d’Italia le cose funzionano allo stesso modo. Prima
del mio trasferimento a Roma, avevo completato tutti i documenti necessari per
poter telefonare alla mia famiglia (la bolletta telefonica, il certificato del
nucleo famigliare). Tradotti e legalizzati da tutti gli istituti competenti di
entrambi i Paesi. Ma dato che dovevo essere giudicato, dipendevo dal tribunale
di competenza del processo e c’è voluto molto tempo per decidere se potevo
chiamare o no la mia famiglia, cosicché dopo otto mesi mi è arrivato il
permesso per telefonare. Dopo
tre mesi che ero in Italia sono venuti a colloquio i miei famigliari.
Naturalmente con tutte le difficoltà incontrate per il viaggio, visto che i
miei genitori non sono pratici negli spostamenti, aeri, treni, metro, inoltre
per la non conoscenza della lingua il viaggio è stato per loro una vera sfida.
Per non parlare dei problemi psicologici che avevano nell’incontrarmi. Il
mio primo colloquio in carcere in Italia è stato veramente un disastro Il
mio primo colloquio in Italia è stato veramente un disastro, sia per me che per
i miei famigliari. Per entrare in istituto sono stati costretti a dare le
impronte digitali, come una sorta di schedatura, e lasciati in attesa per ore
prima di poter entrare dentro la sala colloqui. Le
sorprese non sono finite qui, perché la sala colloqui era divisa in mezzo da un
muro alto un metro ed un pezzo di vetro che non ti permetteva di fare un
colloquio normale tra persone care, che hanno tante cose da dirsi, e problemi da
raccontarsi. Restando impietriti l’uno davanti all’altro, sia loro che io
cercavamo di camuffare al meglio il disagio, loro dicendomi che fuori andava
tutto bene, e che erano felici, ed io che in questo carcere stavo molto bene e
che tutte le faccende giudiziarie stavano andando per il verso giusto. Ripetendo
le stesse cose per tutto il tempo del colloquio. Ma nei loro occhi si vedeva una
tristezza e una disperazione tali, che secondo me sono usciti più preoccupati
di quando erano entrati a trovarmi. Al
carcere di Rebibbia è in funzione anche l’area verde, che consiste nella
possibilità di incontrare i propri cari all’aperto in uno spazio migliore
delle sale colloqui, e ogni detenuto ha il diritto di usufruire una volta al
mese di tale spazio, dove puoi fare anche fino a quattro ore di colloquio
continuato e ordinare da mangiare alla mensa dell’istituto o prepararlo in
cella e portarlo direttamente al colloquio. Ci sono inoltre in questo spazio
delle macchinette dove puoi acquistare l’acqua, il caffé, gelati e merendine,
insomma un ambiente molto accogliente, dove si può passare una intera mattinata
e pranzare con i propri cari con un po’ di intimità, lontano dagli occhi
degli agenti penitenziari, e dove esiste la possibilità che le persone si
mettano a loro agio e discutano seriamente dei problemi veri che hanno. Un
giorno trascorso in queste condizioni con i miei famigliari ha fatto sì che
loro si sentissero più tranquilli e ci ha permesso di rivivere, anche se per
poco, momenti belli come in famiglia. Per l’ultima volta li ho visti andare
via con un leggero sorriso sulla faccia, ma per nostra sfortuna i problemi non
sono finiti, perché io ho dovuto cambiare carcere, e ogni volta un altro
indirizzo da dare, altre pratiche da fare per poterli chiamare, altro tempo da
aspettare, ma lo stesso è rimasto il vizio di mentire loro, che non è una vera
menzogna, ma solo un modo per evitare di caricarli di preoccupazioni in più, e
con il “tutto va bene” ci si convince che le preoccupazioni non esistono.
Niente di più sbagliato, perché chi ti vuol bene non si rassicura facilmente
sapendo qual è il luogo in cui stai vivendo. Mi
viene sempre in mente una lettera ricevuta dalla mia famiglia dopo il colloquio
fatto con me in Italia. Loro mi scrivevano che di sicuro qualche cosa mi era
successa nell’ultimo periodo di vita prima dell’arresto, che loro non erano
riusciti a notare per potermi aiutare a cambiare strada, e così si sentivano
falliti nel ruolo di genitori, e delusi dalle mie scelte. Erano anche
consapevoli che devo pagare per i miei errori, ma non capivano come possono
farmi diventare una persona migliore chiudendomi in quelle condizioni e
isolandomi anche da loro. I
miei genitori vorrebbero tanto spiegare a qualcuno che se avessero la possibilità
di starmi vicino in qualsiasi maniera, farebbero di tutto per contribuire a
cambiarmi in meglio. Perché alla fine loro lo vogliono più di tutti, il mio
cambiamento. La
tristezza degli affetti violati Un
certo modo di criminalizzare i rapporti tra la famiglia e il congiunto detenuto
ha prodotto una sfiducia nei confronti di un sistema che la famiglia la
penalizza con feroci, ma soprattutto inutili, umiliazioni Di Bruno Turci Sono
detenuto da molti anni e ho vissuto tante volte direttamente
le umiliazioni che i parenti dei detenuti sono costretti a subire quando
visitano i loro cari nelle carceri italiane. Le
autorità che stabiliscono i regolamenti penitenziari in materia di rispetto per
la dignità e il diritto di famiglia sono riusciti, in nome della sicurezza, a
emanare norme, nettamente contrarie al dettato costituzionale. Come ha sostenuto
di recente la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Antonietta
Fiorillo, che ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità rispetto al
secondo comma dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, quella norma
che impone che i colloqui con i famigliari in carcere si svolgano “in appositi
locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”,
sono palesi le violazioni dei diritti garantiti dagli articoli 2, 3, 27, 29, 31,
32 della Costituzione, violazioni che sono lesive del principio di uguaglianza,
contrarie all’umanità della pena, al diritto alla famiglia e ostacolo al
mantenimento delle relazioni affettive Faccio
una breve storia di queste violazioni operate negli ultimi 35 anni. Ricordo che
nelle carceri speciali istituite nella seconda metà degli anni 70 le sale
colloqui erano dotate di vetri divisori blindati e di citofono per comunicare.
In queste carceri di massima sicurezza ci stavano il terrorista, il rapinatore,
l’ubriacone, i matti e tutti coloro i quali creavano problemi nelle sezioni
comuni. Ci finì davvero anche un bel po’ di gente estranea alla criminalità
e al terrorismo, nel calderone delle carceri speciali create ad hoc per arginare
le evasioni e per mettere sotto pressione i terroristi e indurli alla
dissociazione. Tra
la fine degli anni 70 e la fine degli 80 ho scontato parecchi anni alla
diramazione Agrippa (la sezione speciale) sull’isola di Pianosa. È un’isola
dell’arcipelago toscano che in quel tempo era collegata alla terraferma da un
aliscafo per il trasporto dei civili, che partiva da Piombino quattro giorni
alla settimana e su cui s’imbarcavano le nostre famiglie per raggiungere
l’isola e farci visita. Era
la peggiore tortura che subivano per amore dei loro cari detenuti, se c’era il
mare grosso l’aliscafo non partiva, talvolta, invece, capitava che non
riusciva ad attraccare al molo e così erano costretti a tornare indietro, senza
esito, dopo aver affrontato un viaggio infernale. Un’avventura terribile per
uomini, donne e bambini. Solo nei mesi estivi il mare li risparmiava. Quando
riuscivano a sbarcare sull’isola gli toccava la perquisizione in una sala
improvvisata di una costruzione bassa, che serviva anche come sala d’aspetto e
offriva un riparo quando pioveva per chi aspettava d’imbarcarsi. Le finestre
erano prive d’infissi, la sala era gelata d’inverno e caldissima d’estate.
Li si udivano i bambini vocianti che erano perquisiti insieme alle madri. Subito
dopo iniziava il viaggio sul pulmino attraverso l’isola per giungere alla
diramazione Agrippa. Si entrava, così, nelle sale colloqui, sporche, i vetri
divisori blindati e il citofono per parlare. I bambini ammutoliti da una
tensione che si percepiva, anche se dissimulata dai sorrisi, sui volti tesi
degli adulti. Un’immagine che fa tornare alla mente i film sulle prigioni dei
Paesi con grado di civiltà sottozero. Con
i miei familiari non ricordo di aver mai parlato del dolore che gli avevo dato
commettendo dei reati. I nostri cari allora sentivano che anche noi eravamo
vittime, insieme con loro. Un sistema come questo non può certo favorire un
dialogo critico e risocializzante con la famiglia. Quel modo di criminalizzare i
rapporti tra la famiglia e il congiunto detenuto ha prodotto una sfiducia nei
confronti di un sistema che la famiglia la penalizza con feroci, ma soprattutto
inutili, umiliazioni. Questo
accadeva in tutte le carceri speciali del territorio nazionale, con la
differenza che nelle carceri del continente non si sommavano i disagi e il
degrado che comportava un’isola penitenziaria. Ricordo che molti familiari
raccontavano episodi davvero sconcertanti, come quando alcuni agenti di custodia
(così si chiamavano in quel tempo) li scoraggiavano a tornare a trovarci perché
noi eravamo criminali e meritavamo di essere abbandonati al nostro destino. Oggi
c’è più professionalità da parte degli agenti, ma i regolamenti sono sempre
gli stessi. Sono questi a orientare la mentalità. Spesso
si inducono i figli dei carcerati a odiare le istituzioni Le
sale colloqui, infatti, non sono studiate per accogliere decentemente le
famiglie, non è consentito riprodurre in carcere un po’ dell’intimità di
casa, ci sono le telecamere, oltre agli occhi umani, che ci osservano al di là
del vetro, dove stanno gli agenti preposti alla vigilanza. I
regolamenti penalizzano pure oggi pesantemente i nostri famigliari, tutto è
difficile, anche le piccole cose, quei cibi che in un carcere è consentito
portare al proprio famigliare in un altro sono invece proibiti, molti
cambiamenti delle regole e nuovi divieti avvengono senza preavviso. Insomma, è
un sistema che si avvita su se stesso, generato da una cultura che pensa più a
una vendetta sociale che alle famiglie in difficoltà dei detenuti. Gli
incontri sono rigidi e tendono a creare un vuoto nel dialogo tra il detenuto e
la famiglia. Così, se la famiglia si sente anch’essa vittima di questo
sistema, perde il ruolo di cui è maggiormente titolare, quello di contribuire
alla risocializzazione del proprio caro condannato. E tenderà ad escludere un
rapporto critico, tenderà a difendere il famigliare detenuto, perché lo riterrà
soggetto debole di fronte a un sistema che si disinteressa del ruolo
fondamentale delle famiglie e anzi le penalizza. Le
sale colloqui poi, che sono il luogo dell’incontro, non funzionano affatto per
salvaguardare la famiglia, anzi la penalizzano, la criminalizzano con le
perquisizioni ai bambini, alle mogli, ai genitori anziani. Come si può credere
che in una sala sovraffollata, piena di voci sovrapposte, sorvegliata a vista,
con le telecamere fisse sui tavoli dei colloqui che inquadrano freddamente
l’incontro e lo rendono disumanizzante, l’intimità della famiglia non sia
violata, invasa, violentata? Così se ne impedisce la crescita, così si
favorisce la complicità, si inducono i figli dei carcerati a odiare le
istituzioni. Si
limita poi ad una telefonata di dieci minuti alla settimana la possibilità di
relazionarsi con la famiglia al telefono, anche per chi non effettua colloqui.
Il direttore del carcere ha la facoltà di concedere due telefonate
straordinarie, ma quanti sono questi direttori illuminati? Per chi poi non ha
un’utenza fissa, che oggigiorno con le tecnologie disponibili è diventata
pressoché inutile, le chiamate ai cellulari hanno limiti incredibili. Per
chiamare un cellulare è necessario attendere 15 giorni dall’ultimo contatto
con un familiare qualsiasi. Ad esempio se uno riceve la visita di un fratello,
per poter telefonare alla madre, o alla moglie, o ai figli, se loro non
dispongono di un’utenza fissa, devono passare quindici giorni dalla visita per
poter telefonare. Io
credo che l’utenza telefonica fissa la mantengano oggi soltanto i familiari
dei carcerati, perciò occhio se capitate in casa di una persona che possiede un
telefono fisso, state certi che al 90% ha un parente detenuto nelle patrie
galere
Quei
figli che quando arrivano a colloquio sono
esausti dalla lunga attesa per poter entrare E
poi, nelle carceri dove il volontariato non ha organizzato una ludoteca, si
ritrovano per tutto il tempo del colloquio a non avere nemmeno un gioco con cui
giocare con il proprio papà, con la conseguenza che dopo un po’, se pure a
malincuore, non vedono l’ora di tornarsene a casa di Luigi Guida Molto
spesso si sente parlare degli affetti in carcere e di quanto sia importante
“coltivarli”, anche per un futuro progetto di reinserimento. Ma poi con il
susseguirsi del tempo ti accorgi come le cose scritte sull’Ordinamento
penitenziario in merito all’importanza degli affetti sono in netta
contraddizione con le modalità che gli istituti di pena adottano per
permetterti di mantenere vivi i rapporti con i tuoi cari. Attualmente negli
istituti italiani “migliori” il massimo che puoi ottenere per non
distruggere il rapporto con la tua compagna e con i tuoi figli si racchiude in
una telefonata di dieci minuti la settimana e sei ore di colloquio mensili. Il
dramma però non sta semplicemente nel poco tempo che hai per stare con loro, ma
nella qualità di quel tempo. Come si può riuscire a comunicare in modo sincero
ed intimo quando si è in una saletta con altre dieci famiglie, se si è
fortunati, e il mescolarsi delle voci fa assomigliare quel posto più ad un
mercato che a un luogo di comunicazione? Senza dimenticarci delle svariate
telecamere che continuamente ti seguono con la loro “discrezione”, ma solo
apparente, perché a toglierti ogni idea di sfuggire a un controllo pressante ci
pensano cinque agenti che dietro ad un vetro trasparente non ti tolgono gli
occhi di dosso nemmeno per un istante, con la conseguenza che quando vuoi dire
una parola di tenerezza alla tua compagna, lo fai mettendo le mani davanti per
paura che dal labiale possa essere letta la tua frase e quindi violata la tua
intimità. Per
quanto riguarda i figli, soprattutto quelli in tenera età, ti accorgi che
quando arrivano sono esausti dalla lunga attesa che hanno dovuto fare
all’ingresso per poter entrare, per poi ritrovarsi per tutto il tempo del
colloquio senza poter avere nemmeno un gioco con cui giocare con il proprio papà,
con la conseguenza che dopo un po’, se pure a malincuore, non vedono l’ora
di tornarsene a casa. Allora
mi chiedo come si può mantenere un rapporto da marito e da genitore in questo
clima, come si fa a trovare lo stato d’animo giusto magari per riuscire a dire
la verità, ai propri figli, sugli errori che ci hanno portato in carcere, e
quindi iniziare a prendersi le proprie responsabilità? Semplicemente
non lo si fa, si rimanda ad un futuro prossimo, con la conseguenza che con gli
anni che passano quando uscirai ti troverai a fare rientro in casa e a non
conoscere nulla né dei tuoi figli né della tua compagna. Questo per i più
fortunati, perché molto spesso dopo aver vissuto questo tipo di rapporto con il
tempo una famiglia non la trovi più, o magari decidi di dividerti da lei,
proprio per evitarle questa sofferenza e queste umiliazioni, che purtroppo si
subiscono quando si è familiari di un detenuto e si decide di seguirlo in
questi posti. Io
penso che si dovrebbe fare una lunga riflessione e capire che quando i detenuti
avanzano la proposta di vivere un colloquio intimo, come avviene nella maggior
parte dei Paesi europei, non significa che vogliono avere colloqui “a luci
rosse” come più volte in modo distorto viene raccontato da tanti giornalisti,
ma è solo un modo per riuscire a vivere un minimo di umanità e dolcezza con i
propri familiari, senza che la conseguenza più pesante del dover scontare una
pena la paghino loro, che hanno come unica responsabilità quella di essere
parenti di un detenuto. Questo
succede nelle sale colloqui del carcere, ed è ancora più pesante da sopportare
quando sei un padre che deve ricostruire un difficile rapporto con un figlio
Di Ulderico Galassini Da
più di due anni sono coinvolto nella redazione di Ristretti Orizzonti e
soprattutto, grazie al Progetto Scuola/Carcere, ho avuto modo di incontrare
migliaia di studenti. Ho trovato la forza ed il coraggio di mettermi in gioco e
di raccontare loro che a 54 anni, dopo un percorso di vita come tanti, con le
sue difficoltà e tanti momenti belli, ad un certo punto c’è stato da parte
mia un inaspettato gesto che ha comportato la distruzione della mia famiglia e
di tutto ciò che erano i valori che la sostenevano. Non racconto mai i
particolari del mostruoso reato che ha determinato la morte di mia moglie, il
ferimento di mio figlio e i danni fisici causati anche a me stesso. Grazie a
questi incontri e alle riflessioni che devo fare per raccontare la verità,
ricostruisco il passato e quelli che sono stati i limiti che ho superato, o
quanto meno quello che ha in qualche modo scardinato la mia umanità e spinto a
porre in atto azioni mostruose. Spesso
la prima domanda dei ragazzi è: come sono oggi i rapporti con suo figlio? È
una domanda che, dopo che ho raccontato e ripercorso i fotogrammi di quel giorno
terribile, mi porta a rispondere con altrettanta franchezza e con un sorriso che
mi fa rinascere. Con emozione e con una tensione che mi prende ogni volta,
racconto loro che Andrea ha avuto la forza ed il coraggio di incontrare di nuovo
suo padre e che certamente ha capito che in quel tragico momento non era davvero
suo padre ad agire: certo io posso ritenermi fortunato nell’averlo nuovamente
vicino. Ai
ragazzi spiego anche quanto sono limitate le possibilità di aver cura dei
propri affetti in carcere, con poche ore di colloqui e, da quasi due anni, con
una sola telefonata di dieci minuti al mese. Questo perché il Ministero della
Giustizia consente di effettuare chiamate telefoniche, registrate, unicamente
verso telefoni fissi e con grande difficoltà si può chiamare invece ai
cellulari, io solo grazie ad una autorizzazione concessa dal Direttore della
Casa di reclusione posso ascoltare la voce di mio figlio dieci minuti al mese.
Certo non è più lo stargli vicino come facevo sino al 26 maggio 2007, vivere
la sua crescita, essere stati una famiglia unita. Quando so che viene a
colloquio, e magari assieme alla sua ragazza, che mi ha presentato in carcere,
oppure quando devo telefonargli cresce in me, ma penso anche che succeda lo
stesso a tutti gli altri detenuti quando incontrano i loro cari, l’ansia, la
paura di ricevere brutte notizie; ma poi come li vedo tutti e due assieme, il
cuore si allarga e gli occhi si riempiono di gioia. Questa voglia di Andrea di
incontrarmi, che ha manifestato dopo soli 44 giorni dal reato, mi fa sentire
ancora padre, e quando lui ha la necessità di chiedermi qualche consiglio sono
più che felice di rispondergli. La sua situazione non è senz’altro facile, e
l’essere seguito da parenti non è stato come essere con i suoi genitori,
anche perché un nucleo familiare nuovo ha schemi e comportamenti che non sono
simili a quelli che lui ha vissuto per 15 anni con sua madre e suo padre. Ecco
che sarebbe più giusto che anche lo Stato italiano avesse più attenzione per
gli affetti di chi è rinchiuso in un carcere, aumentando i momenti di incontro
e creando spazi più ampi in ambienti adeguati e non sotto l’occhio vigile
degli agenti. L’ammassare tante famiglie all’interno di uno stanzone non
facilita certo i rapporti tra le persone. Chi entra in queste sale colloqui vive
una situazione di disagio, gli occhi cercano tra tanti il volto della persona
cara, ma rimane appiccicata addosso una sensazione di fastidio e servono alcuni
minuti per provare ad isolarti dagli altri che sono seduti intorno ad altri 12
tavoli, ma non c’è quella tranquillità, ti senti osservato, spiato anche in
quella che è solo la tenerezza di tenersi le mani, per risentire il calore di
quegli affetti che non puoi più vivere con la quotidianità di prima. Perché
dobbiamo far pagare la pena anche ai nostri familiari? Altri
Paesi europei, che magari definiamo meno avanzati, già hanno luoghi
“intimi” predisposti dall’istituzione carceraria, e le telefonate sono
addirittura libere e in alcuni casi con un cellulare a disposizione del
detenuto. Ancora più triste è invece nel nostro Paese il colloquio telefonico;
quei dieci minuti a settimana (se i tuoi famigliari hanno ancora un telefono
fisso) sono veramente pochi e quando senti il preavviso di “tempo scaduto” e
magari tuo figlio ti sta dicendo qualcosa di molto importante od urgente,
proprio li si chiude la comunicazione. Si sta male entrambi, non sai più cosa
fare e come fare per affrontare il problema che tuo figlio ha sollevato. Non hai
altri mezzi se non quello di sperare che non sia qualcosa di grave ed attendere
la settimana successiva per richiamare a casa, con tutta la tensione che hai
accumulato nei giorni precedenti. Perché
dobbiamo far pagare la pena anche ai nostri familiari? E se poi l’unico
familiare che hai è anche vittima di quel “gesto” di cui tu sei
responsabile, quale forza, quale aiuto ha per proseguire quel cammino di
riconciliazione che anche lui vuole? E tu come puoi assicurare maggiore
tranquillità a quel figlio che è si maggiorenne, ma non preparato a vivere da
solo e imparare a farsi carico di tutte quelle incombenze che prima vedeva fare
dal proprio padre? Nella
Costituzione è scritto in modo chiaro che il carcere serve per il reinserimento
nella società, ma se si usa il contagocce con la famiglia, quale sarà il
futuro delle persone quando usciranno a fine pena, tenuto conto anche di tutte
le altre cose che non vengono attuate negli istituti penitenziari, vuoi per il
sovraffollamento, vuoi per la mancanza di personale, le pochissime ore assegnate
agli psicologi, le scarse possibilità di lavorare e di fare altre attività? Se
vogliamo essere un Paese civile, forse dobbiamo rendere civile anche il
reinserimento delle persone detenute, proprio a cominciare da una maggiore
vicinanza con la propria famiglia. Nel
mio Paese, il Perù, i famigliari che hanno un parente rinchiuso possono passare
molto tempo con lui di Miguel Arrieta Mi
torna in mente il mio passato ogni volta che vedo mia figlia che viene a
trovarmi in carcere da quando aveva due anni, e adesso ne ha sette come ne avevo
anche io quando andavo a trovare mio padre in carcere in Perù. Solo che nel mio
Paese c’è più liberta per i famigliari che hanno un parente rinchiuso, cioè
ci può andare chiunque a trovarlo e anche per più tempo e in qualsiasi giorno.
Io
non vedevo l’ora di tornare in carcere da mio papà per passare più tempo con
lui, mi sentivo più al sicuro perché lui mi riempiva il cuore di affetto e di
quell’amore che mi mancava quando non era accanto a me. Ormai
sono passati diciotto anni e ora sono padre di due bambine, delle quali una è
lontana e non ha la possibilità di venire a trovarmi, ma la più piccola vive
qui con la sua mamma e ogni mese percorrono con il treno circa quattrocento
chilometri per venire a trovarmi, con tutte le difficoltà che devono affrontare
per un viaggio così pesante. E non basta solo il viaggio, perché devono anche
attendere davanti al carcere parecchio tempo prima che le facciano entrare a
colloquio, anche se c’è un temporale o la neve. E una volta entrate devono
subire delle umiliazioni, perché vengono spogliate e perquisite dagli agenti, e
ogni volta mia figlia mi chiede: “Papà, perché ci spogliano ogni volta che
veniamo a trovarti?”. Fino a due tre mesi fa ho sempre trovato una scusa, cioè
le ho mentito, ma poi mi sono accorto che mia figlia ha capito che mi trovo in
carcere e ora non so come devo affrontare questa situazione in modo più
positivo, cioè riuscire a trasmetterle quello di cui ha più bisogno. Anche
se il sistema penitenziario italiano non ci permette di coltivare gli affetti
famigliari in modo più libero, ogni volta che vedo mia figlia rivivo i momenti
che ho passato io da bambino, solo che io ho avuto più tempo per stare con mio
padre e potevo farlo quando volevo, invece qui in Italia non c’è questa
possibilità perché tutto è limitato e sei sempre sotto sorveglianza da parte
di qualcuno, che non ti permette di trasmettere quell’affetto che da genitore
senti nel profondo del cuore. Ecco
perché non voglio mai incoraggiare i miei cari ad affrontare le tante difficoltà
e a venire spesso a trovarmi Di Igor Munteanu Sono
un detenuto moldavo, sto scontando la mia pena da oltre cinque anni nelle
carceri italiane. In questi anni ho sentito tante belle parole riguardo ai
familiari dei detenuti e su quanto sia importante coltivare quando si è in
carcere il rapporto con loro. Ma con il tempo mi sono accorto che la realtà è
tutt’altra, perché va in netta contraddizione con le parole splendide che
sentiamo dalle istituzioni carcerarie. In
questi lunghi cinque anni è stato davvero difficile mantenere saldi i legami
con la mia famiglia, perché delle misere sei ore mensili di colloquio previste
dall’Ordinamento penitenziario, una persona straniera deve fare i conti con la
lunga distanza e quindi non ha nemmeno la garanzia di poterle effettuare tutti i
mesi. D’altronde la mia famiglia farebbe anche dei sacrifici per venirmi a
fare visita molto spesso, ma sono io che non voglio, conoscendo le modalità con
cui si possono effettuare i colloqui. Infatti si possono incontrare i propri
cari in una piccola saletta con tantissime altre famiglie, dove il continuo
accavallarsi di voci non ti permette di capire nulla e non ti dà neppure modo
di potergli esprimere i tuoi reali stati d’animo del momento. Ecco il motivo
per cui io cerco sempre di farli venire il meno possibile, perché alla fine del
colloquio il mio stato emotivo è pieno di rabbia ed amarezza. Alla
luce di questo ho chiesto di poter scontare la pena nel mio paese di origine,
nonostante sia consapevole che la vita carceraria lì è molto più dura di
quella italiana, ma in cambio ho la garanzia che i famigliari dei detenuti
vengono trattati in modo migliore di quello che succede in Italia. In Moldavia
infatti ti permettono di vivere i colloqui con loro in una saletta da soli,
senza telecamere e poliziotti che stiano lì ogni istante a guardarti ed
impedirti di dare una carezza o un abbraccio in più, per trasmettergli il
proprio amore. Quindi
preferisco subire io la rigidità delle regole carcerarie del mio Paese e
riservare alla mia famiglia un trattamento più umano e dignitoso di quello che
subiscono nelle carceri italiane, avendo come unica colpa quella di amare il
proprio congiunto e seguirlo in carcere. Quelle
continue, estenuanti bugie dette
ai figli dai padri detenuti Sono
bugie dette con l’illusione di proteggerli da quella che è la realtà che
viviamo in quel momento in carcere, ma con il tempo dovremo anche noi fare i
conti con la vera realtà, quella della vita fuori dalla galera Recensione di Luigi Guida “Genitori
Comunque. I padri detenuti e i diritti dei bambini” è un libro, che
prende spunto da alcune testimonianze di padri in carcere per raccontare come
sia difficile mantenere il proprio ruolo all’interno della famiglia quando si
è detenuti, visto il pochissimo tempo che è possibile trascorrere con i figli,
che si riassume in dieci minuti settimanali di telefonata e sei ore mensili di
visita, molto spesso in spazi angusti e pieni di altre famiglie, che più che un
posto per poter comunicare somigliano ad un mercato, visto il sovrapporsi di
voci di tutte le persone al loro interno, dove già è difficile affrontare
alcuni discorsi, come quello di spiegare ai propri cari quali siano state le
motivazioni che ci hanno spinto a varcare la soglia del carcere e quindi a dover
vivere lontano da loro. In questo clima non si troverà mai l’opportunità di
affrontare argomenti così spinosi, e di conseguenza si rimanda ad un futuro più
o meno prossimo la possibilità di prendersi magari per la prima volta le
proprie responsabilità sull’accaduto. Essendo
anch’io un detenuto e soprattutto un padre di tre figlie, e vivendo la
genitorialità nello stesso modo di chi ha messo a disposizione la sua
testimonianza in questo libro, non posso che rispecchiarmi in molti dei racconti
letti. È
interessante la capacità di volontari e operatori di coinvolgere i detenuti in
questo progetto e soprattutto di stimolarli a raccontare alcuni aspetti della
vita detentiva come quello del loro modo di essere genitori, che per un “padre
detenuto” non è facile, anzi lui è sempre molto restio a farlo a causa di un
continuo rimorso che si porta dentro, in quanto non può non essere consapevole
che alla base di tutto ciò ci siano stati proprio quegli stili di vita
disordinati, che l’hanno portato a compromettere anche i suoi affetti. Nel
continuare a leggere ti accorgi che, se pure le storie sono diverse, hanno un
punto in comune, che quando si è in carcere si viene spogliati di tutte le
responsabilità, soprattutto quella di genitore, e questo è contro ogni logica
umana e civile. Le
diverse testimonianze approfondiscono molto bene il fatto che moltissime
persone, che vivono questo tipo di rapporto malato con i propri famigliari, in
particolar modo con i figli, a causa delle continue, estenuanti bugie dette con
l’illusione di proteggerli da quella che è la realtà che si vive in quel
momento in carcere, con il tempo dovranno fare i conti con la vera realtà,
quella della vita fuori dalla galera, e avendo vissuto un rapporto con loro
basato sulle bugie non avranno imparato a responsabilizzarsi nel comunicare con
loro e molto spesso i danni per questo saranno irreversibili e li pagheranno
proprio i figli. Io
penso che molti detenuti siano consapevoli di questo, ma non hanno gli strumenti
per poter fare diversamente, per molti aspetti questo libro servirebbe che lo
leggessero educatori, assistenti sociali, psicologi, e che prendessero spunto
per riflettere su quanto sia importante l’aspetto psicologico dell’essere
genitori, oltre che detenuti, all’interno di un carcere, e quanto questo
aspetto della vita detentiva vada curato, se si vuole davvero riprogettare il
proprio futuro. Taralli:
una specialità pugliese ancora più
“speciale” A
Trani si sfruttano i tempi morti della cucina del carcere per produrre taralli
che si contraddistinguono per la loro qualità e la genuinità dei prodotti
inseriti nell’impasto Intervista a cura di Paola Marchetti Salvatore
Loglisci è il presidente della cooperativa “Campo dei Miracoli” di Gravina
di Puglia, creata nel 1999 con l’intento di inserire al lavoro soggetti
svantaggiati. La cooperativa si occupa prevalentemente della gestione di mense
pubbliche e private, di produzione e confezionamento di prodotti da forno, di
organizzazione di eventi, servizio catering, manutenzione del verde,
sanificazione e disinfestazione di ambienti pubblici e privati, produzione e
vendita di artigianato artistico. Nel 2003 firma una convenzione con il DAP per
la gestione del servizio di confezionamento pasti all’interno della Casa
Circondariale di Trani, dove, da dicembre 2007, vengono implementate la
produzione, il confezionamento e la commercializzazione di prodotti da forno. La
vostra Cooperativa è partita con i disabili, ma anche con l’idea
dell’inserimento dei detenuti? Noi
siamo nati nel ’99, per volontà di una cooperativa che gestisce diverse
case-alloggio e strutture per soggetti psichiatrici. I responsabili della
cooperativa di tipo “A” hanno pensato che, al termine del percorso
riabilitativo, ci dovesse essere l’inserimento lavorativo, quindi è sorta Campo
dei Miracoli, nella quale sono convenuti diversi soggetti guidati da questa
cooperativa di tipo “A”, quindi soggetti psichiatrici. La Campo dei
Miracoli, nei diversi anni ha svolto diverse mansioni con l’ausilio della
mano d’opera di soggetti psichiatrici, quali la gestione e manutenzione di uno
spazio verde, il servizio mensa e trasporto per gli utenti di un centro diurno,
poi ha svolto, in associazione temporanea d’impresa con un ristorante, il
servizio mensa per gli asili comunali. Il fatto di avere esperienza gestendo già
una mensa e aver acquisito l’ulteriore esperienza in quest’appalto per gli
asili comunali di Gravina, ci ha consentito di entrare anche all’interno del
carcere di Trani. Questo perché noi facciamo parte del consorzio Meridia di
Bari che a sua volta fa parte del consorzio nazionale CGM. Avendo siglato, il
consorzio CGM, un protocollo d’intesa con il Ministero della Giustizia (nel
2003), si dava la possibilità, per la prima volta, a livello sperimentale e ad
alcune cooperative, di entrare nei vari istituti penitenziari, di assumere i
detenuti e di portare avanti la preparazione dei pasti per gli stessi detenuti. Come
vi è venuto in mente di fare una produzione anche di altri prodotti? Nella
convenzione che noi avevamo siglato ci impegnammo ad assumere i detenuti nel
numero proporzionale in base al numero di pasti; di contro, c’era anche la
possibilità, da parte delle varie cooperative, di utilizzare gli strumenti
presenti nella cucina, non solo nella produzione dei pasti ma anche per altro,
in modo che si potesse creare un mercato esterno e quindi aumentare il numero
dei detenuti assunti dalla cooperativa. Inoltre, nelle cucine, vi erano presenti
diversi macchinari inutilizzati per gran parte della giornata e quindi abbiamo
pensato di aumentare la produttività della cucina avendo come obiettivo
fondamentale l’ aumentare le persone al lavoro. La
produzione dei pasti è cominciata nel 2003, mentre la produzione dei taralli è
cominciata nel 2007. Questo distacco di tempo è dovuto un po’ alla necessità
di fissare bene la squadra ma anche all’inizio della ristrutturazione del
carcere circondariale. Noi eravamo partiti con un gruppo di lavoro appartenente
ai detenuti dell’Alta Sicurezza, e ci siamo trovati da un momento all’altro
ad affrontare la produzione dei pasti con un gruppo di lavoro formato dai
detenuti comuni. Con i detenuti comuni è più difficile lavorare perché non si
può fare un progetto a lungo termine. Spesso non appena una persona viene
formata ad avere quel minimo di manualità per riuscire a fare qualcosa,
disgraziatamente per noi e fortunatamente per lei, viene scarcerata, e bisogna
iniziare daccapo! Prima
di tutto abbiamo dovuto fare una serie di esperimenti: all’inizio avevamo
pensato a delle basi per pizza, poi a delle focacce, poi ai cornetti. Ma ci
siamo orientati su qualche prodotto che avesse una conservazione più lunga
perché, trattandosi di una Casa circondariale dove tutto deve essere
controllato, le focacce e i cornetti uscivano freddi e quindi non mangiabili,
per cui abbiamo pensato di valorizzare un prodotto che contraddistingue il
nostro territorio, quello pugliese, visto che il tarallo è uno dei prodotti più
caratteristici della zona dove sorge il carcere di Trani. Avendo
assunto un cuoco esterno che aveva “La ricetta della nonna”, abbiamo dato la
possibilità al cuoco di testare una serie di prodotti e abbiamo poi deciso di
fare la produzione dei taralli. C’è una politica di fondo nella produzione
del tarallo: dato che non potevamo competere con la produzione di vari panifici,
abbiamo dovuto scegliere un manufatto che si contraddistinguesse per la sua
qualità e la genuinità dei prodotti inseriti nell’impasto. Questo fa sì che
il prodotto non sia estremamente concorrenziale però può stare tranquillamente
sul mercato se uno ne apprezza il gusto. Infatti noi prendiamo materie prime
provenienti dal territorio, come l’olio di Andria. All’inizio avevamo
pensato anche di produrre biscotti, ma successivamente, grazie
all’interessamento della direzione, c’è stato un incontro con la direttrice
della Coop di Barletta, che ha approvato il nostro progetto, ha mandato una
commissione della Coop a verificare sia i prodotti sia il posto di produzione.
Hanno scartato l’idea dei biscotti visto che era più facile trovarli sul
mercato e non si contraddistinguevano tanto rispetto agli altri, mentre hanno
accolto volentieri la produzione dei taralli. La
rete di distribuzione quindi è quella delle Coop? Si,
questo in un successivo momento. All’inizio avevamo pensato di venderli alle
botteghe artigianali. I primi ad assaggiare i nostri prodotti sono stati la
polizia penitenziaria e il personale amministrativo della Casa circondariale e
quindi le prime confezioni sono andate nello spaccio interno del carcere, anche
scalfendo un’ipotesi iniziale, e cioè quella che la polizia penitenziaria non
avrebbe mai mangiato prodotti realizzati dai detenuti. In realtà poi, grazie
anche al passaparola partito dagli agenti presenti in cucina, che sottolineavano
come venivano realizzati i prodotti e come venivano acquistate le materie prime,
sono stati proprio loro i primi a mangiare i nostri taralli e fare da veicolo
pubblicitario del nostro prodotto. Visto
che è impossibile all’interno di un carcere produrre quantità industriali,
è giusto puntare sulla qualità, anche se il prezzo è un po’ più alto? Noi
mettiamo solo olio extravergine, non usiamo strutto, non usiamo altre sostanze.
Il nostro cuoco all’inizio diceva che, se volevamo, potevamo fare delle
miscele e abbassare il prezzo, ma noi ci siamo imposti sulla ricetta che prevede
solo extravergine. Senta,
e se volessimo comprare i vostri taralli? Attualmente
siamo in una fase di passaggio. La Coop Estense ha capito i problemi della
nostra produttività iniziale, quindi abbiamo scelto di fare assieme a loro una
cosa graduale. Prima abbiamo consegnato i nostri prodotti alle Coop estensi più
vicine al carcere di Trani, quindi quelle di Andria, di Barletta e Bari,
dopodiché, quando abbiamo cominciato a produrre di più, siamo passati alla
piattaforma, nel senso che non andiamo più nel singolo ipermercato a consegnare
ma andiamo a Rutigliano, da dove la Coop estense distribuisce in tutti gli
ipermercati della Puglia e della Basilicata: si parte da Foggia e si arriva fino
a Lecce. Ci sono alcuni Gas (Gruppi di acquisto solidale) che li richiedono,
alcuni negozi di Roma - uno si trova all’interno di Città del Vaticano - che,
in occasione delle festività natalizie, preparano dei cestini e questo è il
terzo anno che ci richiedono i taralli. Cerchiamo dunque di aumentare la rete di
vendita e l’obiettivo finale è sempre quello di aumentare le persone a cui
insegnare un mestiere. Certo,
quello è lo scopo. Tenere la gente in carcere e poi, a fine pena, buttarla in
mezzo a una strada senza nessuna competenza è insensato. Le
posso dire che, nella mia esperienza, c’è una parte dei detenuti che vive ciò
come una parentesi, un mezzo per occupare la giornata, però ci sono anche
persone che hanno acquisito la consapevolezza di aver sbagliato e che, una volta
fuori, vogliono cambiare vita e s’impegnano quindi particolarmente
nell’apprendere come debbano essere fatti questi prodotti da forno. Nel
corso di questi anni sa di qualche detenuto che è uscito e che, attraverso la
formazione che ha avuto in carcere, sia riuscito ad inserirsi nel mondo del
lavoro? Con
certezza no. Noi abbiamo contatti fino a quando stanno all’interno, per cui
mandiamo gli ultimi documenti come il t.f.r.. In alcuni casi, utilizzando il
nostro attestato di lavoro, si sono recati nei vari ristoranti o panifici ed
hanno utilizzato questa esperienza in maniera positiva. All’inizio c’è
stato qualcuno che ha affermato che nell’uscire con un attestato rilasciato
dal carcere di Trani sarebbe stato difficile trovare lavoro, però poi forse
hanno preso coscienza che comunque valeva la pena utilizzare questo nostro
attestato. Non
avete mai pensato di allargare la vostra attività all’esterno, magari con
persone in misura alternativa o qualcosa del genere? L’abbiamo
pensato ma non ci sono ora le condizioni, né economiche né organizzative per
poterlo fare. Recentemente abbiamo preso contatti con un’altra rete di
distribuzione a livello nazionale, che ci ha chiesto di triplicare la
produzione, e quindi adesso ci siamo concentrati su questo nuovo potenziale
produttivo. Quanti
detenuti impiegate attualmente ad ogni turno, più o meno? In
totale sono 7, poi si alternano in base ai turni. Ci sono due squadre di lavoro,
anche se non sono molto rigide. Sono intercambiabili, sono 5 che si occupano
della preparazione dei pasti e 2 dei taralli, però i 2 vengono coadiuvati da un
cuoco esterno. C’è anche un aiuto cuoco e proprio perché c’è una
rotazione continua abbiamo bisogno di punti di riferimento e quindi di persone
che facciano da trait d’union tra le varie squadre. Questo cuoco c’è stato
sin dall’inizio e abbiamo ritenuto opportuno assumere quest’altro aiuto
cuoco sempre dall’esterno. Dipende poi dalla richiesta del mercato, un
soggetto è adibito alla preparazione pasti o alla produzione dei taralli, non
è costante la richiesta del mercato per quanto riguarda i taralli. Essendo
prodotti artigianali e non adoperando conservanti, non abbiamo un grosso
magazzino, quindi, in base alle richieste, andiamo a produrre. I vari taralli
sono all’extravergine, al finocchio, alla cipolla, alla pizza, al peperoncino
e al pepe, quindi sono sei tipi. I
detenuti dipendenti lavorano part-time o a tempo pieno? I
detenuti hanno un contratto di 4 ore al giorno, e questo sin dall’inizio del
rapporto di lavoro. Noi non usiamo contratti di formazione e li assumiamo con
contratti part-time a tempo determinato, legandoli alla convenzione e applicando
il contratto delle cooperative sociali. Naturalmente sono parificati ai nostri
soci-lavoratori esterni. Quindi
voi non fate una formazione prima, la formazione si fa sul campo, giusto? Si
fa sul campo! A differenza dei nostri soci esterni, ai quali, sulla busta paga
c’è una trattenuta del 3%, come scelto da assemblea dei soci, ai detenuti non
viene attribuita nessuna trattenuta e abbiamo ritenuto opportuno non farli
diventare soci. Sono solo dipendenti, anche perché altrimenti, essendo
parecchi, ci saremmo trovati, a distanza di pochi anni, ad avere una cooperativa
enorme. In
generale quali sono le difficoltà che incontrate nel lavorare in carcere? Devo
dire che non ci sono stati particolari problemi. Forse qualcuno all’inizio,
perché era un mondo totalmente diverso e sconosciuto, sia per tipologia di
persone che dovevamo assumere sia per il posto nel quale dovevamo entrare, poi,
la buona volontà, sia da parte nostra che dell’amministrazione penitenziaria
e dell’area pedagogica, ha portato ad avere una serie d’incontri che hanno
permesso di risolvere tanti problemi. Attualmente l’unico intralcio è dovuto
alla ristretta capacità produttiva dello spazio-cucina, che è davvero piccolo
- c/a 80 mq - e stiamo chiedendo alla direzione un altro spazio per produrre il
triplo dei taralli che attualmente produciamo. Dopo aver trovato queste linee di
richiesta di vendita, quest’aspetto ci mette un po’ con le spalle al muro:
il paradosso è che adesso abbiamo il mercato ma non la possibilità di
produrre. Vorrei
aggiungere che noi siamo stati ospiti per ben due anni dell’Assessorato delle
Risorse Agroalimentari, all’annuale Fiera del Levante di Bari, nel padiglione
Agrimed. Inoltre siamo stati al Salone del Gusto di Torino nel 2008, dove
rappresentavamo la Puglia e in particolar modo Trani. Siamo stati a Matera
sempre nel 2008, a “Orizzonti Lucani”, la “vetrina” dei prodotti lucani
all’interno della quale era presente il padiglione della Puglia, che ospitava
anche i nostri prodotti. Queste vetrine ci hanno fatto capire come rispondeva la
gente ai nostri prodotti. Io spiegavo la storia del nostro tarallo e la sua
provenienza. Dopo il primo stupore, accompagnato da un po’ di pregiudizio sui
detenuti, le persone comprendevano che il detenuto poteva fare qualcosa
di buono, contribuendo
così a
scardinare anche il pregiudizio nei
suoi confronti. Terremoto
in carcere Se
c’è un terremoto non riescono in tanti casi a mettersi in salvo neanche le
persone che vivono fuori libere e
non devono chiedere l’autorizzazione a nessuno per farsi aprire le porte,
figuriamoci i carcerati di Antonio Floris
Nella
notte tra sabato e domenica 20 maggio, alle 4 del mattino circa, anche noi
detenuti del carcere Due Palazzi siamo stati svegliati da uno scuotimento
violento. Io, che a quell’ora dormivo, in un primo momento ho pensato che
fosse il mio compagno di stanza che mi muoveva la branda perché magari russavo
troppo forte. In carcere se uno ha un compagno di cella che russa non è che può
cambiare stanza, e allora si usa che, quando qualcuno sta russando, qualcun
altro gli scuote la branda nella speranza che quello si svegli e cambi
posizione. Alle volte l’ho fatto io nei confronti di altri e alle volte
l’hanno fatto altri nei miei confronti. Quella
notte però nel giro di pochi secondi mi sono reso subito conto che la causa
dello scuotimento era ben altra, perché il compagno stava nel suo letto
distante da me e le scosse continuavano, la stanza ondeggiava che sembrava di
essere dentro una barca in mare mosso. Alle scosse ci siamo svegliati tutti e
nel giro di pochi secondi si sentiva un frastuono di grida e lo sbattere di
oggetti metallici sulle sbarre per richiamare l’attenzione degli agenti,
affinché aprissero le porte per poterci mettere in salvo. Vivere
l’esperienza di un terremoto in carcere è cosa ben diversa da come può
essere vissuta fuori da liberi. Le persone libere hanno almeno la possibilità
di aprire le porte delle case e scappare e si sa che più veloci si scappa più
alte sono le probabilità di salvezza. In carcere invece questo non si può
fare, i detenuti non possono aprire loro le porte ma devono solo aspettare che
vengano gli agenti a farlo, sempre se vengono e se vengono in tempo. Quella
notte infatti nonostante tutto lo strepito e il frastuono nessuno venne ad
aprire, perché la cosa è più complicata di quanto si pensi. In tutte le
carceri d’Italia verso le otto di sera si fa la conta delle persone e si
chiudono i cancelli e le porte blindate delle celle. Una volta che le porte e i
cancelli sono chiusi, le chiavi vengono portate via e messe in un altro ufficio
che qui a Padova è chiamato Ufficio della Sorveglianza. Semmai durante la notte
dovesse succedere ad esempio che qualcuno si sente male e deve uscire dalla
cella per andare dal medico o altro, l’agente che è di servizio nel piano
deve telefonare all’Ufficio della Sorveglianza, spiegare loro quale è il
problema e solo allora qualcuno che sta in quell’ufficio sale ai piani con le
chiavi. Esiste anche un piano di evacuazione da mettere in atto in caso di
incendi o di terremoti, che consiste nel far uscire tutti i detenuti dalle celle
e farli andare in spazi aperti tipo i passeggi o il campo sportivo. Ma quanto
tempo richiede questa operazione? I terremoti quando arrivano di solito non si
fanno annunciare e se si considera il tempo che ci vuole tra chiedere
l’autorizzazione ad aprire le celle, aspettare l’arrivo delle chiavi e
iniziare e portare a termine l’opera di sfollamento, la frittata è fatta. Di
solito le scosse iniziano e finiscono nell’arco di mezzo minuto circa e in
quell’arco di tempo ben poco si riesce a fare. Non riescono in tanti casi a
mettersi in salvo neanche le persone che vivono fuori libere e non devono
chiedere l’autorizzazione a nessuno per farsi aprire le porte, figuriamoci i
carcerati. I
carcerati nella malaugurata ipotesi che succeda questa disgrazia devono solo
sperare che gli edifici reggano all’urto, ed è una prova questa che
potrebbero superare quegli edifici di costruzione abbastanza recente, che sono
stati fatti con accorgimenti antisismici. Gli altri, tra i quali ce ne sono
tanti vecchi di secoli, non si sa se riusciranno a superarla. Quei detenuti che
hanno la sfortuna di vivere in uno di questi ultimi devono solo pregare che le
scosse non siano troppo forti da far cadere il tetto sulla loro testa. Ma
non preoccupiamoci però più del dovuto, perché fino a ora non ho mai sentito
di nessuno che sia morto dentro un carcere a causa di un terremoto. In carcere
si muore per altre cause (suicidi, malasanità e altro), ma non, almeno fino a
ora, di terremoto. Alcune
curiosità: dai commenti fatti il 20 mattina si è venuto a sapere che tutti
quelli che al momento della scossa dormivano hanno pensato che fossero i
compagni di stanza che stavano scuotendo loro le brande. Si è venuto ancora a
sapere che in tanti si sono infilati sotto le brande per cercare un improbabile
riparo, mentre tanti altri si sono messi a pregare. I cristiani forse un po’
meno, mentre i musulmani tutti in quei momenti hanno ricordato e recitato quel
versetto del Corano che ogni buon credente deve recitare al momento del trapasso
e che loro imparano fin da bambini. La
droga ha “stravolto” non solo
me, ma anche tutti i miei legami
affettivi Ma più vuoto affettivo troverà chi esce
dal carcere, peggio sarà… per tutti di Filippo Filippi Scrivere
per me di questo argomento molto importante, gli affetti nelle carceri
sovraffollate, e farlo all’interno di una situazione estremamente segregante
è molto difficile e debbo per forza partire da molto lontano, ma prima cercherò
di spiegare brevemente la mia situazione personale in questa carcerazione. Io
sono in carcere da quasi 4 anni e mezzo (non è la mia prima carcerazione, ma la
più lunga in un’unica soluzione questo si), per problemi indissolubilmente
legati all’uso di droga. Credo che la stessa abbia contribuito decisamente ed
in modo sostanziale a “stravolgere” non solo me, ma anche tutti i legami
affettivi in genere e quelli delle persone che mi sono state più o meno vicine.
Questo anche se nei primi anni da adolescente apparentemente, sotto l’effetto
di sostanze stupefacenti, divenivo più disinibito, affettuoso e disponibile
alle relazioni, ma poi passato l’effetto (breve), inebriante e rabbonente
dell’eroina, tornavo con tutti i miei grossi problemi esistenziali. Va da sé
che subito riandavo alla ricerca di ciò che era riuscito finalmente a “farmi
star bene”, almeno per un breve lasso di tempo, inizialmente non conoscevo il
prezzo che avrei dovuto pagare per questo senso illusorio di benessere, in
generale ma soprattutto in termini di affetti. Tornando
al periodo dell’ultimo mio arresto, stavo faticosamente cercando di
ricostruirmi “uno straccio di vita”, quando ho avuto una prepotente ricaduta
con le droghe. Così alla data del mio arresto le uniche persone con le quali
posso dire di aver avuto un legame affettivo erano una cara amica ed un amico,
per il quale ho lavorato onestamente per circa due anni (un ex “compagno di
merende” dei primissimi anni di droga, ora sta bene da parecchio tempo). Il
secondo è inevitabilmente sparito, mentre la prima, nonostante fosse sposata e
con due piccoli bimbi da accudire ed un lavoro part-time, mi ha continuato a
scrivere ed ha anche cercato di districarsi con le prassi burocratiche (sembrano
quasi complicate a bell’apposta), per venire a trovarmi in carcere, a fare un
colloquio. Dopo una serie di richieste, siamo riusciti a inserirla come “terza
persona”. Ma alla fine ha desistito, mi ha lasciato solo un pacco con un po’
di vestiario perché i tempi di attesa per i colloqui (ogni carcere è un feudo
a sé con le sue regole anche non scritte e prassi consolidate) soprattutto per
coloro che non conoscono il mondo carcerario sono molto lunghi e talvolta
succede anche che, dopo qualche ora di attesa in fila, magari ti dicono
“ripassi un altro giorno perché il tempo degli orari per i colloqui è
scaduto”. Comunque
lei, anche dopo che sono stato trasferito qui a Padova, ha continuato a tenere
contatti epistolari con me (cosa che non sempre avviene), ed a mandarmi quando
poteva un pacco. Purtroppo oramai sono passati quasi cinque anni e giustamente
questo rapporto si sta affievolendo sempre più, complice anch’io che “non
ne ho forse più voglia”, diciamo che sono sempre più scorato quanto a
motivazioni nel cercare di mantenere contatti con un “fuori” che via via
sento sempre più sfumato. Infatti la sensazione che io provo (a parte una punta
di leggera invidia per chi ha ancora questa possibilità di progettare un
“fuori”), personalmente è che questa sia una sorta di pena suppletiva che
io mi merito, ma che però mi allontana sempre più da quello che è il mondo
reale, concreto e pratico. Io
comunque ho avuto modo di “visitare” l’area e le stanze adibite ai
colloqui grazie ad un volontario di una associazione che è venuto due volte a
trovarmi “come terza persona”, ed è proprio una sensazione “strana”,
anche se ci conosciamo da molti anni e mi spedisce cartoline da varie parti del
mondo, per via del suo lavoro. Tanto
per essere chiari, la mia situazione è questa perché è il risultato di una
mia precisa responsabilità soprattutto di omissione, nel senso che ho lasciato
che tutta questa sfera di vitale importanza venisse dopo, molto dopo la droga, e
piano, piano un pezzo qua ed un altro là, sfumasse. Vedo
i miei compagni che fanno colloquio più sereni, meno aggressivi Ora
posso solo dire che, osservando i miei compagni di detenzione che hanno la
fortuna di fare colloqui o telefonate, vedo proprio la “trasformazione”,
solo semplicemente guardandoli, anche proprio dello stato d’animo concreto:
sono spesso più sereni, meno aggressivi, per un brevissimo lasso di tempo
sembra quasi siano usciti di galera, questo dopo che hanno fatto il colloquio
con il rispettivo compagno o con famigliari e/o anche con amici. Purtroppo anche
chi ha questa fortuna, ce l’ha centellinata, nel senso che qui in Italia
sembra che i colloqui famigliari siano più una rottura di scatole, per chi li
deve gestire ed organizzare; per non parlare poi degli inesistenti “colloqui
intimi”, con la propria compagna o compagno.
Ma
qualche volta posso notare il rasserenamento anche solo per un detenuto che è
riuscito a telefonare ai propri parenti, magari in un Paese lontano, dopo anni
che non li sente e dopo che in quel Paese sono avvenuti cambiamenti
sostanziali. Tornando
a me, quest’ultima carcerazione è così, ma in passato non è andata sempre
in questo modo, mi sono perso i “pezzi per strada”. Mia madre per decenni e
quasi sempre, mi è venuta a trovare in carcere, mi ha supportato ed aiutato,
molto spesso per farmi andare in una comunità terapeutica, mettendomi in
contatto con questa o quell’altra persona, poi nel 2002 è morta in un
incidente automobilistico, proprio il giorno dopo che, come tutte le settimane,
aveva accompagnato la mia compagna a trovarmi in una comunità dove vivevo. Lei
raramente mi ha fatto mancare l’affetto e la presenza anche epistolare, che
probabilmente io non ho corrisposto adeguatamente, e solo dopo la sua scomparsa
mi sono accorto del “valore” che lei aveva per me (ma questo vale un po’
per tutte le persone che mi son fatto scivolare via!). Mio
padre (anche se i miei si erano divisi e poi divorziati da molti anni), è
venuto solo un paio di volte in carcere, in una di queste con mia sorella. È
strano come ci si accorga delle persone alle quali si tiene, solo quando non ci
sono più, per un motivo o per l’altro. Per esempio mi è capitato di
attendere impaziente e con il batticuore dietro le sbarre della cella,
l’agente che consegna la posta in carcere, aspettando le lettere di una
persona alla quale ho voluto molto bene ed il fatto che “l’agente postino”
avesse per me una sua lettera mi cambiava in positivo la giornata, se non
addirittura la settimana. Vi
posso assicurare che non vi è “contenimento chimico”, “forzato”, o
repressione che tenga, rispetto a quello che possono fare il mantenimento dei
legami affettivi in carcere, e perfino anche gli scarni e riduttivi settimanali
colloqui attualmente vigenti. Ma
se “potenziati”, chissà quanto lavoro in meno ci sarebbe per i nostri
custodi, lavoro di gestione, e a volte di repressione, delle aggressività! Io
talvolta ho pensato che non ho mai voluto fare il cosiddetto “salto di qualità”
nel crimine, forse perché non ne sono tagliato, ma nei primi decenni quello che
molto spesso mi ha frenato sono stati proprio i legami affettivo - famigliari
(nonostante tutto il loro disgregarsi), e a impedirmi di commettere reati ben più
gravi un decennio fa è stata la compagna con la quale allora non c’era solo
un legame affettivo, vivevamo assieme, ed il nostro “volerci bene” mi ha
letteralmente fermato sulla strada del commettere appunto reati ben più gravi. Posso
provare ad immaginare cosa possano pensare le persone libere che,
fortunatamente, non sono mai state in carcere riguardo al mantenere ed
intensificare i legami affettivi e sentimentali da parte di persone detenute
condannate a scontare la loro pena… Ma
è sempre il solito discorso, parecchi di noi prima o poi usciranno e più vuoto
affettivo troveranno, peggio sarà… per tutti. Mia madre mi diceva che ero senza cuore,
irrecuperabile, che non volevo cambiare, e il peggio è che non provavo pena per
lei di Marco Cavallini Nel
raccontare i miei lunghi trascorsi di tossicodipendenza, cerco sempre di mettere
nuovi tasselli per ricostruire in modo più efficace la mia storia, che inizia
mentre frequentavo le scuole medie con delle piccole trasgressioni, per esempio
fumare uno spinello il fine settimana, o rubare l’automobile al padre di un
amico per andare a divertirci, cose a cui non davamo molta importanza. Poco a
poco, senza rendercene conto, entrammo in una spirale di “trasgressioni” più
grandi che purtroppo hanno portato me dove sono e la maggior parte dei miei
compagni alla morte. Il
consumo di hashish diventò sistematico e per permettercelo cominciammo a
venderlo, e così non solo fumavamo tutto il giorno, ma ci aggiungemmo altre
sostanze tipo LSD e anfetamine, e in un veloce scivolamento arrivammo anche
all’eroina. Insomma, eravamo dei ragazzini di famiglie normalissime ed alcune
anche benestanti, che gestivamo un vero e proprio mercatino delle droghe. Devo
dire che all’inizio l’eroina ci spaventava, vedevamo quello che erano
costretti a fare i consumatori per le dosi giornaliere, rubare in continuazione,
prostituirsi, però ben presto perdemmo sia la paura che il rispetto, e cominciò
a subentrare in noi il morbo della curiosità. Cosa sarà mai questa polvere,
che sensazioni darà? E chi dice che una volta provata non se ne può più fare
a meno? Insomma, un po’ per l’età, e per la troppa sicurezza, o la
presunzione di essere più furbi ed intelligenti o di aver più carattere di
quelli che ci erano caduti… e la provai e la riprovai. Uno
dopo l’altro, la provammo tutti, nel giro di poco tempo spendemmo tutti i
guadagni dello spaccio per consumare l’eroina, i fornitori si stancarono e ci
tagliarono “i fondi”, non c’era più la maniera di rimediare i soldi. Non
eravamo ancora fisicamente intossicati, ma psicologicamente sì, così ci unimmo
ai consumatori (vecchi clienti) che ci portarono a rubare, piccoli furti,
motorini, autoradio, tutto quello che c’era sulle automobili, poi ognuno si
mise in proprio e formammo quelle che in gergo chiamiamo “batterie” e ognuna
si specializzò: scippi, furti d’appartamento. In
un paio d’anni, da ragazzini un po’ ribelli, teste calde e senza principi,
ci eravamo convertiti in ladri. Appena compiuti i 18 anni mi arrestarono, lì
conobbi il carcere e l’astinenza. Fu uno shock, ma il peggio fu quello che
successe nella mia famiglia, mio padre per la vergogna cadde in una depressione
che in un paio d’anni lo portò alla morte in un incidente inspiegabile. Nel
frattempo ero entrato ed uscito due o tre volte dal carcere. Vedevo la
disperazione di mia madre, e mia sorella, che aveva solo 12 anni e fu costretta
a maturare molto in fretta, vedendo la mia apparente indifferenza per la loro
sofferenza penso mi abbia odiato per anni. Ormai
l’eroina si era impadronita di me, non riuscivo più a reagire, in quel
momento tutti i parenti mi offrirono il loro aiuto, mi fecero ricoverare in
ospedali, cliniche ma sempre senza esito, mancava la volontà personale; il
massimo del tempo in clinica fu una settimana, me ne scappai ben presto e dopo
dieci minuti ero al pronto soccorso per un’overdose. I
parenti delusi si arresero e mia madre pure, mi disse che ero cattivo, senza
cuore, irrecuperabile, che non volevo cambiare, e il peggio è che non provavo
pena per lei. Sapendo quello che soffriva per la morte di mio padre e una
bambina da crescere da sola, anche un animale avrebbe fatto il possibile per
cambiare ed io niente, apparentemente indifferente. La realtà era ben diversa,
soffrivo, eccome se soffrivo, ma ero incapace di ribellarmi, l’eroina mi
comandava e cominciavo a rendermi conto che il problema era più che serio, ma
speravo sempre, magari con un miracolo, che prima o poi avrei smesso. Mi
arrestarono di nuovo ed ebbi “l’opportunità” di fare la conoscenza con un
“pezzo grosso” (ormai mi ero fatto conoscere nell’ambiente carcerario e
anche se tossico ero stimato e si fidavano) e mi propose di vendere per lui. Ci
scarcerarono a breve distanza l’uno dall’altro, mi venne a cercare, si parlò
un po’ e a fine incontro ebbi la prima fornitura e poi cominciai a spacciare,
seguirono gli arresti e ogni volta conoscevo sempre più gente e di livello
superiore, ero un buon cliente perché riunivo tutti i requisiti richiesti, ero
omertoso, pagavo puntualmente e sempre, cosa rara tra i consumatori. Il
carcere come “trampolino di lancio” Il
carcere a me personalmente non solo non mi è servito e non mi ha fatto capire
niente, ma al contrario mi è servito come trampolino di lancio, da semplice
ladruncolo per necessità, in qualche anno mi ero convertito in un delinquente
ed ero in contatto con i peggiori criminali e trafficanti di quel tempo. Era
passato un decennio e lo spaccio era diventato il mio modo di vita, avevo quello
che mi serviva senza fatica e per giunta non lavoravo, non avevo orari, insomma
sembrava una ”bella vita” tranne qualche incidente di percorso: spesso mi
portavano in Questura per interrogarmi e quello significava botte e ore di
astinenza e spesso finivo in carcere, però a parte questo mi piaceva il mio
modo di vita. Quando
rimanevo da solo tornavo da mia madre che, a malincuore e con il parere
contrario di mia sorella, mi accettava pur sapendo che cosa significasse vivere
con me: visite notturne, perquisizioni, e spesso il rischio di trovarmi
collassato. Però pensava che se dovevo morire era meglio a casa che per strada
su una panchina. Dopo
circa 15 anni cominciarono i problemi seri, rimasi completamente senza vene e
assumere le dosi di cui necessitavo era diventato un martirio, iniziai a
iniettarmi per via intramuscolare ma durò poco, prima che mi si atrofizzassero
tutti i muscoli fui costretto ad espatriare in un posto, dove non conoscendo
nessuno avrei smesso per forza, e in parte ci riuscii. Però
dopo due mesi di permanenza seppi che non potevo rientrare in Italia perché ero
ricercato dalle forze dell’ordine, in quanto il mio ultimo fornitore aveva
cominciato a collaborare con la giustizia. Sono
rimasto all’estero per 15 lunghi anni illudendomi di poter sfuggire alle mie
responsabilità per tutta la vita, anche se spesso avevo delle enormi
depressioni: volevo rivedere mia madre che non era più tanto giovane, mia
sorella, curarmi, cosa che la situazione di clandestinità non mi permetteva. A
un certo punto non ho più sopportato lo stress e la paura di essere arrestato
in ogni momento, e ho dovuto trovare il coraggio di affrontare la realtà e
tornare. Arrivato
in Italia, rimasi nascosto qualche giorno e poi mi consegnai. Mia
madre al primo colloquio in carcere rimase sbalordita, non credeva ai suoi
occhi, mi vedeva cambiato e sperava che lo fossi davvero. Ora
sono in carcere da quasi tre anni e anche se me ne mancano più o meno cinque,
ogni notte penso le stesse cose: cosa farò quando uscirò? Mi meriterò tanto
amore e fiducia? Per l’ennesima volta, e se dovessi ricadere? Il solo pensiero
mi fa rabbrivvidire, spero tanto di avere la forza e la voglia di affrontare una
vita normale lavorando e senza usare nessun tipo di droga, perché altrimenti
significherebbe dare il colpo di grazia all’unico familiare che mi è rimasto
al mondo, e questa volta non me lo potrei perdonare nemmeno io stesso. La
galera raccontata attraverso un letto Cambiare
cella, lasciare le proprie compagne di sofferenza e di solitudine, doversi
reinventare uno spazio in cui rifugiarsi, dover forzatamente conoscere persone
nuove, con le quali condividere pochi metri quadrati in celle sovraffollate: il
carcere è anche questo, e probabilmente se non si è vissuta davvero una
esperienza del genere non si può capire quanta sofferenza ci possa essere in un
trasferimento, in un cambio di cella, in uno spostamento da una sezione
all’altra. La testimonianza di Luminita ce lo racconta a partire proprio dalla
sua branda, e ci ricorda che forse, in tempi così difficili come quelli che si
stanno vivendo oggi nelle carceri,, una maggior attenzione anche ai piccoli
momenti della vita quotidiana delle persone detenute servirebbe a rendere meno
pesante la carcerazione. Elogio
di un letto da galera Il
mio letto sa quanto ho pianto nelle lunghe notti,
è testimone di quando stavo male e quando stavo bene Stai
sognando? PAGHI! L’anno
scorso mi sono costruita un sogno. Quest’anno per realizzarlo ho dovuto
pagare un caro prezzo. Però
se questo è il costo, lo pago volentieri: la rinuncia all’articolo 21, quello
che ti permette di lavorare all’esterno del carcere, in cambio di un letto. Che
cosa può sognare una donna che già ha superato i quattro anni di galera? Tante
cose…. Sono
arrivata alla Giudecca nel settembre del 2009. Sono arrivata con due borsoni e
con la sensazione di essere scivolata nel burrone della depressione. Giorni,
notti, mesi in cui provavo ad aggrapparmi a qualcosa per uscirne fuori. Sapevo
che ce l’avrei fatta. Ma per quel poco che mi rialzavo, subito cadevo di
nuovo. Dopo un paio di mesi ho cominciato ad amare una cosa strana: il mio
letto! Un
letto? Una branda? Sì,
amavo il mio letto, che tuttora amo, e gli sono grata. Per
fortuna è stato messo in un angolo, in un posto da cui del muro che circondava
me e il mio letto, col passare del tempo, ho studiato ogni centimetro quadrato.
A sinistra, a portata della mia mano, c’è una colonna: come un filo
conduttore che lega la terra e il cielo. Ecco,
ogni particella della mia energia si è impressa in questi centimetri di cemento
e ora, io, il mio letto, non lo abbandono perché mi parrebbe di abbandonare me
stessa. Lui mi è stato sempre vicino, non mi ha mai abbandonato, come gli
amici, come gli affetti. No, il mio letto è stato sempre con me. Il mio letto
è testimone della lettura delle lettere della mia mamma e di mio figlio. Il mio
letto sa quanto ho pianto nelle lunghe notti, è testimone della mia volontà di
smettere le terapie farmacologiche anche a costo di stare sveglia tutta la
notte, è testimone di quando stavo male e quando stavo bene, il mio letto era
sempre attento quando scrivevo tante poesie e le rileggevo. Non
si è mai arrabbiato con me quando giorno e notte era pieno di carta crespa,
barattoli di vinavil, fogli colorati, con i quali confezionavo i miei fiori di
carta. Ha accettato tutto di me, nel bene e nel male, così come sono. È molto
comprensivo e tace quando scrivo le lunghe lettere, quando prego. E
anche adesso che scrivo queste cose sta zitto, però è molto contento perché
dopo tutti questi anni lo sto difendendo pubblicamente. Da un anno lo avevo un
po’ trascurato durante il giorno, perché impegnata per le prove dello
spettacolo teatrale “Le Troiane”, che dopo mesi di lavoro abbiamo messo in
scena tre volte. Di notte però ero con lui, il mio letto. Avevo tutto il
materiale per disegnare buttato su di lui, a portata di mano: matite,
pennarelli, gomme e tanta carta. Ho seguito due volte il corso di fumetto e ci
ho preso così tanto gusto e passione che così è nato il mio sogno. Ho provato
a inventare un paio di fumetti, come un gioco per bambini, ma volevo qualcosa
che fosse il mio fumetto. Quello
che facevo di giorno a teatro lo riportavo la sera in fumetto. Non potevo
saltare una prova, come non potevo non riportare tutto in schizzi! Era un
vortice che mi aveva risucchiato tra teatro e fumetto, e non me ne potevo
staccare. E giravo, giravo, giorno e notte. Stop!
Basta! Stop! Un
giorno ho avuto il beneficio di usufruire dell’articolo 21 esterno, per
lavorare fuori. Bella cosa, ci voleva dopo tutti questi anni. Solo che in cambio
dovevo lasciare il mio letto, il mio spazio, per radunarmi con tutti gli
articoli 21, le detenute che lavorano all’esterno: celle diverse, separate
dalle “comuni”. Da
quel giorno nessuno ha capito più chi sono. Da quel giorno, per il resto del
mondo, tutto ciò che ho costruito in uno o due anni è crollato. Però per me
no. Per me è tutto intero. Anzi, il mio sogno l’ho realizzato: 130 pagine di
fumetti, lavorati giorno e notte, in fretta prima che l’entusiasmo
dell’ultima rappresentazione dello spettacolo svanisse. La
realizzazione del mio sogno però mi è costata l’articolo 21. Ho rinunciato
alla possibilità di mettere un piede fuori dalla soglia del carcere, verso la
libertà. E ho rinunciato per non restare imprigionata nella delusione che mi
avrebbe creato il non realizzare il mio sogno. Mi si può chiedere perché, in
fondo tutti i letti del carcere sono uguali! No. Dipende cosa lasci dietro di te
in quel letto. Io ho lasciato tante cose create, tanti pensieri, tanti disegni,
tanti dipinti, tante lacrime e tanti sorrisi. Posso
dire che non tutte le cose sono quello che sembrano. Il mio letto non è un
semplice letto come una penna non è una semplice penna. Mentre la mia penna
disegnava, qualche altra firmava la revoca del mio articolo 21. Perché? Perché
non ho obbedito. Perché sono le regole. Sono regole che richiedono
l’obbedienza di tutti. La stessa penna che di notte disegnava, di giorno ha
scritto la rinuncia a tutto ciò che avevo ottenuto per merito di quello che
sono stata sempre. Però io sarò sempre, di giorno e di notte, Luminita. E so
pagare con la testa alta qualsiasi prezzo per realizzare il mio sogno. Sono in
carcere però sono onesta e mi piace sognare. E più di tutto è importante che
la mia mamma e mio figlio siano fieri di me.
Di giorno e di notte. Anche
se con loro si riesce a salvare il rapporto, soprattutto se è stato costruito
positivamente e in forma matura, ci si sente in ogni caso colpevoli di questa
assenza, di non esserci mai state quando avrebbero avuto bisogno di noi di Cristina Baiutti Non
è semplice descrivere la sensazione di trovarsi, dalla parte di detenuta, di
fronte ai ragazzi delle scuole. Guardo i loro volti, le acconciature “di
tendenza”, il loro modo di vestire, i visi così teneramente giovani, e per
fortuna distanti da questa realtà. Nei loro sguardi vedo mio figlio, quando
faceva il liceo scientifico, e curava molto il suo aspetto, i capelli con un
ciuffo che doveva stare sempre ben ordinato, tra phon e gel. Ricordo che era
l’unico che aveva portato il phon anche durante una gita scolastica.
L’ultimo anno del liceo, lo sentivo ogni settimana al telefono, mi confidava
ogni piccola cosa che gli accadeva: le normali trasgressioni di una bevuta con i
suoi amici “fissi”, le scappatelle dalle lezioni perché un insegnante non
gli era “congeniale”, la corte di ragazze che mi chiedeva come scoraggiare.
Talvolta iniziava il discorso con tono serio, anticipandomi: “Mamma, sai che
anche se non sei d’accordo, ho deciso così”. A me si stringeva il cuore, ma
dovevo accettare le sue scelte, pur esprimendo il mio dissenso, che lui comunque
rispettava. Era giusto fosse libero, così come lo ero io alla sua età. Alla
fine, questo rispetto ha sempre permesso di aprire un dialogo sincero, su ogni
argomento, tra noi. Oggi, mio figlio è iscritto a Lettere, lavora presso un
negozio sportivo, dove ha conosciuto l’attuale compagna con cui vuole trovare
casa e andare a convivere. È il suo obiettivo, sta risparmiando, oltre a
versare le rate dell’auto nuova che ha acquistato. Non
ho mai voluto che varcasse le porte di un carcere per incontrarmi, perché il
mio cuore conosce il suo dolore di sapermi in carcere, pur se abbiamo ampiamente
parlato delle ragioni che mi hanno portato qui. La mia vita “spericolata” mi
ha imposto di rinunciare ad altre gravidanze, perché ritengo ingiusto far
soffrire bambini innocenti a causa di situazioni innaturali nella loro crescita,
dovuti al fatto che la madre finisce in prigione! Conoscendo poi mio figlio, per
il suo carattere un po’ lunatico, so che le perquisizioni di rito, prima dei
colloqui, anche l’imposizione semplice di togliere l’orologio ad esempio, lo
farebbero alterare. In effetti, lui non ha commesso reati, anzi, è un figlio
“d’oro”; non fuma, non beve, se non raramente e poco, è molto legato a me
e rispettoso della famiglia. Insomma,
per me, guardare gli studenti che ci pongono varie domande su come trascorriamo
le giornate, cosa accade all’interno di un carcere, o sui reati per cui siamo
detenute, mi riporta ai discorsi che già ho impostato con mio figlio. Per la
mia esperienza di vita in generale e anche come madre, il primo desiderio è di
dare ai ragazzi degli spunti, affinché mai si trovino in situazioni
“ambigue”, e scivolino dentro giri viziosi, che li potrebbero portare anche
a commettere reati. Penso che sia un dovere portare la nostra testimonianza,
espressa in prima persona da noi donne, ragazze, e madri, come deterrente a
qualsiasi forma di azione illecita. Durante
gli incontri, spesso ascolto i ragazzi e osservo i loro sguardi, timorosamente
curiosi. Come madre, forse, non è edificante spiegare talune scelte del
passato, la “facilità” con cui sono rientrata in carcere (non essendo per
me, questa, la prima volta), le pene a volte esagerate che mi sono presa.
Raccontare quanto sia labile il confine tra condurre una serena esistenza in
libertà, e il trovarsi invischiati in storie, o situazioni ambigue, che
diventano assolutamente pericolose per donne come me, già conosciute alle Forze
dell’ordine, alle squadre dell’antidroga, perché così succede quando si
hanno precedenti di vendita o traffico. Basta davvero un attimo, un contatto, un
favore, magari “in buona fede”, e la libertà finisce, ci si trova ancora
lontano da chi si ama. Questa lontananza, che si traduce per mio figlio nella
mancanza di una costante presenza, di un aiuto morale e pratico, pesa più della
detenzione. I
figli sono sempre i giudici più inesorabili, e anche se con loro si riesce a
salvare il rapporto, soprattutto se è costruito positivamente e in forma
matura, ci si sente in ogni caso colpevoli di questa assenza. Credo, però, che
in molte famiglie, dove magari la presenza dei genitori è costante, vi siano
comunque dei rapporti fittizi, poco sinceri, e scarsamente capaci di un
amorevole ascolto, anche a causa di una quotidianità caotica, e della lotta per
inseguire guadagni, nell’illusione che le cose materiali siano prioritarie
nella nostra esistenza, con tutti i conflitti che ne conseguono. Guardare
i volti dei ragazzi che incontriamo in carcere è sempre motivo di riflessione,
desiderio di trasmettere il valore di una vita con quelle scelte pulite e
coraggiose, che noi non siamo state capaci di preservare. È bello, comunque,
far comprendere loro che, nonostante gli errori per cui ci troviamo a scontare
una condanna, siamo persone “normali” , piene di ricchezze interiori, e con
una gran voglia di tornare a casa, perché davvero il carcere deve essere un
transito, non un luogo che faccia perdere la speranza. Ed
è giusto anche, io credo, trasmettere loro il messaggio della possibilità di
scontare la condanna non necessariamente in carcere, in certi casi si deve
poterlo fare presso la propria abitazione (o altre strutture per straniere senza
dimora), anche se non posso negare che in carcere molte di noi hanno migliorato
se stesse e il proprio sapere, magari studiando, o imparando alcune attività
lavorative. Con la innegabile “forza delle donne”. Mogli,
figlie, sorelle, compagne, madri di detenuti vivono spesso in condizioni di
solitudine e isolamento di Giulia F. Le
vedo sempre il giovedì, talvolta il lunedì oppure al sabato. hanno tutte lo
stesso sguardo, lo stesso sorriso un po’ spento, le cose che dicono sono più
o meno le stesse sempre. Si confidano, si sfogano, hanno un enorme bisogno di
essere ascoltate, comprese, considerate per la fatica che fanno: fatica mentale,
fisica, psicologica. Queste donne, mogli, figlie e sorelle, compagne, madri che
incontro quando vado in carcere per lo stesso motivo loro, fare visita al mio
compagno, queste donne trasmettono nella loro fragilità una forza particolare
che forse forse non tutte hanno nel DNA, ma quella forza hanno dovuto trovarla
perché glielo ha imposto la vita. Osservo
molto come si comportano, ma più di tutto ascolto le loro parole: ogni volta
c’è qualcuna che ha voglia di esprimere la sua tristezza o la sua gioia di
essere lì in attesa di incontrare una persona cara. Una forza ancor più
speciale la si respira quando hanno con loro i figli e li tranquillizzano, li
tengono buoni nell’attesa di quel “Fra poco vediamo papà”. Le madri con
appresso i figli devono avere davvero una doppia forza, quello che più mi
colpisce però è la loro enorme solitudine, a volte la loro disperazione,
disperazione spesso data dal fatto che sono sole, che anche materialmente sono
sole, e fanno fatica economicamente, perché l’avere una persona in carcere
crea smarrimento, frustrazione, ma soprattutto perché queste donne non parlano
con nessuno di questa loro realtà, così difficile da condividere con chi vive
in contesti ‘normali’. C’è
un che di vergognoso ad avere una persona in carcere. Quando parlo con loro, a
volte te lo dicono: “Eh… dove lavoro per venire qui dico che devo andare dal
medico, che devo andare dai figli a scuola, prendo ferie, permesso, mi faccio
cambiare turno”, e poi si ammazzano per giungere in orario, perché dopo il
colloquio devono tornare nella realtà in cui vivono e tra persone alle quali
non possono raccontare l’altra loro realtà. In
genere il loro caro, a parte casi in cui l’arresto è stato eclatante e non si
può nascondere, “è via, lavora fuori”, qualche volta per giustificarne
l’assenza raccontano anche che si sono lasciati. Sono sole queste donne, sole
perché non si possono identificare con qualcuno ed è per questo che se sei
disponibile ad ascoltarle si lanciano a ruota libera nel raccontarsi, nello
sfogarsi. Io sono come loro, posso capire, vivo la loro stessa realtà, dunque
possono sentirsi libere di scaricare qualche peso su di me. A volte quando le
ascolto provo tanta tristezza, per la loro solitudine, dettata anche dal non
potersi esprimere liberamente, e mi chiedo perché esistano sbarre, seppur
invisibili, così forti, da non permettere a nessuno di sentirsi libero di
vivere la propria realtà, qualunque essa sia, senza vergogna. Arrieta
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