Ergastolo: murati vivi
[scarica il numero completo in pdf]
I numeri pubblicati sono disponibili gratuitamente nel sito ma, per poter continuare nel nostro lavoro, abbiamo bisogno di sostegno economico!!! L'abbonamento ordinario è pari a 25 euro, l'abbonamento sostenitore a 50 euro. Utilizzate il nostro negozio on-line. In alternativa, fate un versamento sul C.C. postale 15805302 intestato all’Associazione di volontariato “Il Granello di Senape”, Giudecca 194, 30123 Venezia.
Ristretti
Orizzonti
(anno
13, numero 3 Maggio - Giugno 2011)
Editoriale
Ergastolo
ostativo, una pena davvero perpetua di
Elton Kalica
Parliamone
Un
trattamento UMANO può umanizzare chiunque di
Ornella Favero
Contro
l’ergastolo di Franco Corleone
Ogni
giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è fuori di Giovanni Prinari
Condannato
all’ergastolo, ma fare il padre è un suo diritto di
Veronica Prinari
La
morte civile di Maurizio Bertani
E
se mi avessero condannato all’ergastolo? di
Ulderico Galassini
Non
ti fucilo, ma ti faccio morire lentamente di
Milan Grgiç
“Fine
pena mai”, la morte per logoramento testimonianza raccolta da
Antonio Floris
Dopo
la condanna, mi sarei tolto la vita se non fosse per la mia famiglia di
Bardhyl Ismaili
Per
uno straniero ergastolano, mettere piede fuori è un’impresa disperata di
Gentian Belegu
In
Alta Sicurezza il clima che si respirava era di una disumanità schiacciante di Elton Kalica
Morire
di carcere
Due
morti che indignano di Elton Kalica
Ristrettamente
utile
Niente
spesa, siamo tutti più poveri di Elton
Kalica
Cinema
e televisione
Le
conseguenze dell’abbandono a cura di
Antonella Barone
Donne
Dentro
Guardavamo
i ragazzi e nei loro visi vedevamo i nostri figli
Mi
auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere Alessandra
Ho
pensato a quando uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli Mimoza
I
ragazzi per noi sono la speranza Sandra
Ero
preoccupata di ritrovarmi davanti a dei ragazzi che hanno l'età di mio figlio Lella
Ergastolo
ostativo, una pena davvero perpetua
di Elton Kalica
Solitamente,
si sente parlare di ergastolo quando qualche fatto di cronaca, per la sua stessa
natura oppure per una costruzione mediatica, fa inorridire l’opinione pubblica
a tal punto, che la condanna è accolta con soddisfazione solo se cala sulla
testa del colpevole la spada del carcere a vita. E a volte, nemmeno
l’ergastolo soddisfa. Perché si ha la convinzione che in Italia ci sia una
giustizia che funziona male e in galera non ci rimanga nessuno.
Gli
ergastolani in Italia sono più di millequattrocento. Circa la meta si trova nei
circuiti differenziati, tra regime di Alta Sicurezza e 41 bis, per cui una buona
parte di loro è esclusa dalle misure alternative al carcere. Si tratta
dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario che ha la sua
manifestazione più crudele nell’ergastolo ostativo.
Nella
nostra redazione abbiamo incontrato molti famigliari di vittime e abbiamo
ragionato insieme su temi come l’odio, il rancore e la sofferenza, ma nessuna
di loro ci ha detto di aver voluto vedere gli assassini dei propri cari morire
in galera. Ultimamente abbiamo incontrato Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che
ci ha regalato un incontro straordinario, anche perché viviamo in un momento in
cui, come ci ha detto lei, “non siamo più abituati ad avere dei posti in cui
ragionare insieme di cose importanti, è diventata una cosa rara trovarsi e
confrontarsi”.
Era
da parecchio tempo che volevamo dedicare un numero di Ristretti all’ergastolo,
e l’incontro con Agnese Moro ci ha convinti a farlo. “L’ergastolo è come
dire ad una persona ‘ti vogliamo buttare via’, ma io non voglio buttare via
nessuno”: sono parole sue, queste, che ci hanno fatto conoscere un’umanità
che non siamo più abituati a vedere, soprattutto se guardiamo la realtà
attraverso la lente spesso deformante della televisione.
Quando
la Corte Suprema brasiliana ha deciso che l’estradizione di Cesare Battisti
era illegale, in pochi hanno spiegato che uno degli ostacoli che hanno impedito
l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale.
Infatti, se Battisti dovesse tornare in Italia, passerebbe il resto della sua
vita in carcere, senza la possibilità di usufruire di alcun tipo di misura
alternativa al carcere: si tratta, appunto, dell’ergastolo ostativo, che ci
spiega bene spiega Luigi Morsello nel suo libro La mia vita dentro. Le memorie
di un direttore di carceri: “È un dato di fatto: il condannato
all’ergastolo che rifiuta di collaborare con la giustizia non otterrà mai
alcun beneficio e per lui davvero la pena è perpetua”.
Allora,
parlare dell’ergastolo ostativo ci costringe a sollevare il problema di una
legge nata sull’onda emotiva delle stragi mafiose di vent’anni fa. Quella
legge forse aveva un senso in quel momento storico, ma se l’emergenza implica
la sospensione di alcuni diritti per un limitato periodo di tempo, non vi pare
che sia giunta l’ora di considerare l’emergenza conclusa e ripristinare
tutti i diritti sospesi? Questo anche in ragione del fatto che quella legge
colpisce oggi detenuti che non hanno mai avuto legami con chi ha messo in atto
le stragi mafiose. Si tratta spesso di stranieri, ma anche di giovani italiani,
che se hanno commesso reati gravi, è stato forse per via di quelle dinamiche
che si sviluppano nel mondo degli emarginati, tossicodipendenti compresi, ma che
nulla hanno a che fare con le mafie che questa legge voleva combattere. Le
sezioni di Alta Sicurezza oggi si stanno riempendo di stranieri e di
tossicodipendenti, e anche loro, se non collaborano con la giustizia facendo
arrestare qualcuno, sconteranno per intero la condanna, che per molti significa
il resto della vita “murati vivi” in carcere.
L’ergastolo
è una pena inesorabile. Sentirsi dire dal magistrato di Sorveglianza che la
propria condanna all’ergastolo è da considerarsi ostativa significa perdere
ogni speranza di iniziare un giorno a dare un po’ di dignità alla propria
vita. Una sensazione descritta bene da Dostoevskij per bocca di uno dei
personaggi del romanzo “L’Idiota”, riferita alla pena di morte, che in
fondo è assolutamente simile all’ergastolo ostativo: “Uccidere chi ha
ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio
legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima
del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e
sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si son dati casi, in cui
l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero,
supplicando, ha ottenuto grazia dai suoi assalitori. Ma con la legalità,
quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con
una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un
cannone, e accostatevi con la miccia: chi sa! penserà il disgraziato, tutto è
possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte, e lo vedrete piangere o
impazzire.”
Parliamone
Noi non vogliamo buttare via nessuno
Un incontro con Agnese Moro
“L’ergastolo
invece mi sembra sia veramente un controsenso, come se dicessimo: Ti vogliamo
recuperare, però… ti vogliamo buttare via”: è una riflessione, questa, sul
significato della pena, fatta da Agnese Moro, che dal padre ha assorbito la
capacità di parlare delle pene con umanità, e questa umanità non l’ha persa
nemmeno quando il padre glielo hanno ucciso
a cura della Redazione
Agnese
Moro la conosciamo già, perché è intervenuta al convegno “Spezzare la
catena del male”, che abbiamo organizzato nella Casa di reclusione di Padova
nel 2010, ma volevamo fare con lei un incontro più raccolto e che affrontasse
anche alcuni temi che erano stati cari a suo padre, fra i quali l’ergastolo.
Così l’abbiamo invitata in redazione.
Elton Kalica:
Innanzitutto la ringraziamo per essere venuta, perché è un appuntamento che
abbiamo atteso a lungo, dopo che lei è intervenuta al nostro convegno
dell’anno scorso. Per iniziare io sarei curioso di sapere le sensazioni che
lei ha avuto nel venire qui in carcere a raccontare la sua storia, di fronte a
tante persone, di cui molte detenute.
Agnese Moro:
Diciamo che è stata una cosa importante per me.
Io
sto facendo un percorso per riuscire a ritrovare, da parte di coloro che hanno
fatto del male a mio padre e agli uomini della sua scorta, gli esseri umani,
perché nella mia mente per tanti anni io ho avuto dei mostri, qualcosa di
informe, qualcosa che non sapevo nemmeno chi fosse…
E
l’incontro con voi lì al convegno debbo dire che è stato per me molto
incoraggiante, perché gli interventi erano belli, toccanti, erano appunto pieni
di questa umanità che io vado cercando. Quindi mi son sentita un po’ a casa
in qualche maniera, non mi sono sentita in un posto estraneo perché mi pareva
che stessimo cercando, in fondo, tutti le stesse cose, magari in maniera
diversa, ma mi sembrava che cercassimo tutti una strada, per rimuovere quegli
ostacoli che ci impediscono di essere di nuovo insieme nei nostri percorsi.
Quindi
è stato per me molto… dire interessante sarebbe una cosa fredda, per me è
stato coinvolgente, mi son sentita parte della vostra vita insomma.
Elton Kalica:
Fa piacere sentire queste parole, perché anche per noi è faticoso fare questo
percorso, iniziando dalle riflessioni sulle scelte di vita che ci hanno portato
a commettere reati.
Lei
ha fatto qualche riflessione, qualche pensiero su questa forma di mediazione che
stiamo facendo? Cioè su questi particolari tipi di incontri che non sono la
mediazione classica tra autori di reati e vittime dirette, ma è un po’ una
mediazione ”collettiva”, come è anche l’incontro oggi, come lo è stato
il convegno dell’anno scorso?
Agnese Moro:
Io penso che sia molto importante questa capacità che voi avete di coinvolgere
la società (pezzi di società, ovviamente!), che a loro volta sono dei mezzi di
trasmissione dei ragionamenti e delle riflessioni che vengono fatte. Mi sembra
anzi molto giusto, perché una delle cose su cui ci si scontra è un po’
l’isolamento, no? L’isolamento non è poi solo fisico, è un isolamento
comunicativo, di relazione, ma questa è un’esperienza che io posso in qualche
maniera, pur lontanamente, capire perché anche la vita di noi che siamo state
vittime di un reato come l’omicidio è una situazione che ci isola, perché
comunque la tua vita è diversa da quella di un altro.
Tutto
è abbastanza complicato e mi sembra che voi abbiate una grande capacità di
coinvolgere la società. Con le scuole, per esempio, fate una cosa veramente di
una grandissima importanza, perché io penso che noi abbiamo proprio bisogno di
ricreare legami, viviamo in un mondo che tende a spezzarceli tutti e farci
sentire ognuno da solo e quindi poi dobbiamo difenderci; invece tutto quello che
ci rimette insieme, che ci fa riflettere, che ci porta a contatto l’uno con
l’altro, mi sembra una cosa veramente importante, e mi pare che voi lo
facciate molto bene. C’era un sacco di gente al vostro convegno e non è che
era gente venuta così per caso perché era facile e semplice venire. Bisognava
anche arrivarci, no? Da tutti i punti di vista bisogna arrivarci: dal punto di
vista fisico, dal punto di vista d’apertura mentale, di desiderare, non solo
di accettare una situazione, ma di desiderare di viverla, quindi si vede che voi
avete seminato molto bene in questo tempo.
Elton Kalica:
Questa esperienza noi l’abbiamo iniziata un po’ casualmente. Mi sembra fosse
il 2008 quando Olga D’Antona è venuta qui e ci ha raccontato la sua storia di
sofferenza, di come si è ritrovata da sola tutto ad un tratto, quando le hanno
ucciso il marito. E questo ha fatto riflettere molti di noi. Rammento che un
ragazzo che era presente all’incontro si è messo addirittura a piangere, e
poi ha scritto anche un articolo nel quale diceva che lui in tutti questi anni
di carcere non aveva mai pensato alla mamma e ai famigliari della persona che
aveva ucciso. Sentendo invece la testimonianza di Olga D’Antona, ha pensato
automaticamente alla madre della sua vittima. Questo per far capire che vedere
lei che raccontava la sua storia densa di sofferenza, ha toccato tutti. È stata
per noi una cosa nuova, perché non avevamo mai fatto prima un’esperienza di
questo tipo.
Poi
di volta in volta siamo andati avanti con queste importanti iniziative. Ora
anche noi cerchiamo di fare la nostra parte, nel senso che raccontiamo,
attraverso le cose che scriviamo, la sofferenza che vi è anche da questa parte,
perché è un mondo di sofferenza anche questo; sono due mondi di sofferenza che
in qualche modo si raccontano, però continuando a trovare le ragioni per cui ha
un senso fare tutta questa fatica. Quindi fa anche piacere sentire il
ragionamento che ha fatto lei sull’isolamento, su questa necessità di
ricreare legami: è un po’ anche quello in cui crediamo noi, la necessità di
creare legami e conoscersi, perché la comunicazione è poi quello su cui
abbiamo fondato il nostro lavoro e tutto quello in cui crediamo.
Poi
anche sull’isolamento mi piacerebbe tornare, dal momento che lei ha parlato,
nell’incontro dell’anno scorso, dell’isolamento nel quale si è venuto a
trovare Aldo Moro, suo padre, quando è stato rapito e tenuto prigioniero, perché
poi vi è stato un abbandono da parte delle istituzioni, che invece lui
onorevolmente e umilmente rappresentava. Quindi, seguendo il suo ed il mio
ragionamento, c’è il senso del come ti ritrovi da solo tutto d’un tratto
con il vuoto attorno.
È
ovvio, sono casi e storie diverse perché noi siamo qui per avere commesso
qualcosa talvolta di molto grave, però comunque mi è parso di vedere lo stesso
tipo di isolamento di quando, nonostante tu sia diventato un’altra persona,
non hai più nessuno intorno a te e ti ritrovi solo. Ecco, ci potrebbe essere
questa similarità, proprio nel quadro di due mondi, quello delle vittime e
quello degli autori di reato, che imparano a conoscersi, e poi forse si
riconoscono dei tratti simili.
Agnese Moro:
A me aveva tanto colpito per esempio, ascoltando i vostri interventi, la
lontananza dalle famiglie, la difficoltà d’incontrarsi, il non avere un
momento in cui ci sia lo spazio per potersi dire delle cose, per poter stare
insieme serenamente, per tutta la confusione che c’è attorno a questi
difficilissimi incontri. Io quello un po’ l’ho capito perché a me sarebbe
piaciuto tantissimo in quei giorni in qualsiasi modo poter incontrare papà,
potergli anche solo parlare per esempio. Addirittura mia mamma diceva: “…ma
me lo facessero almeno tenere per mano anche se lo ammazzano, che io potessi
essere lì a dargli la mano mentre muore…”. Cioè questo desiderio di poter
vedere la persona, di poterle stare vicino. Alla fine non credo che dovrebbe
essere così complicato favorire dei colloqui con i famigliari che siano
dignitosi, quindi mi son sentita molto partecipe di questa negazione degli
affetti più naturali, più vicini. Così ho pensato a voi ed a quanto dovete
soffrire per non aver vicini i vostri famigliari, ma anche a quanto loro debbano
soffrire di non poter stare con voi il tempo che è necessario e che è utile.
Son tutte cose che poi sono rimediabili, sulle quali basterebbe la volontà di
fare qualcosa.
Elton Kalica:
Dal punto di vista tecnico sì, ma son le idee quelle che sono più difficili da
cambiare e siccome l’ottica è quella della punizione, qualsiasi altra cosa è
vista come un lusso, come un privilegio che non ci spetta, va da sé che allora
rimuovere questa visione, cambiare questo modo di pensare è molto difficile.
Bruno Turci:
Io l’ho ascoltata attentamente e volevo fare una riflessione. Ho una certa età,
quindi ricordo benissimo tutto quello che è successo negli anni settanta ed ho
avuto modo di apprezzare lei ed anche qualcun altro della sua famiglia, la
vostra capacità di non odiare, di cercare di capire, di mediare. Ricordo anche
di averla sentita parlare delle persone che hanno agito contro suo padre in
termini che hanno fatto si che io la ammirassi. Lei li chiama persone, io non so
se li abbia mai incontrati, credo che forse qualcuno della sua famiglia negli
anni passati frequentasse il carcere e che abbia avuto modo di incontrare
qualcuno di loro.
Lei
al convegno dell’anno scorso ha parlato del perdono e lo ha fatto in termini
molto schietti, in termini che mi son piaciuti; in poche parole ha detto:
“…Ma se io non li conosco, non li ho mai frequentati, non so dire di loro
nulla di più di quello che ho letto, cosa significa perdonarli? C’è bisogno
che li perdoni io perché possano avere un beneficio? Ma che glielo diano, fanno
bene a chiederlo… Il perdono viene da un percorso che poco ha a che fare con
l’espiazione della condanna materiale: ad un certo punto uno una mattina si
sveglia e decide di perdonare…”.
Io
volevo fare a lei una domanda che potrebbe sembrarle indiscreta: “Lei ha
perdonato?”.
Agnese Moro:
Intanto grazie per tutti i complimenti molto gentili. Dunque, io penso di sì.
Penso di sì perché mi sento molto serena e quindi penso che quella
decisione… (mi sveglio una mattina e decido…) sia potuta divenire qualche
cosa di mio, e su quello non vorrei tornare indietro mai, vorrei solo andare
avanti. Sull’incontrare le persone… sì qualcuno l’ho incontrato e mi
piacerebbe incontrarli tutti perché probabilmente vorrei vedere delle persone,
vorrei capire… Penso che siamo come due facce di una stessa medaglia, cioè
che le nostre vite sono comunque collegate in una maniera strana, un po’
misteriosa, forse è assurdo dirlo, però credo siano strettamente collegate.
Quindi li vorrei veramente conoscere tutti, uno per uno, con il sostegno di
persone che possano aiutare a fare comunque di questi incontri una cosa che
abbia senso, che sia possibile per me e sia possibile anche per loro, perché in
questi incontri che ho fatto ho visto che non è solo difficile per me, è
difficile anche per loro, vi è un rimorso grandissimo per quello che è stato
fatto, qualcosa che non puoi cancellare, che rimane comunque lì e che loro
sentono molto come un peso grandissimo.
Ecco,
portare insieme magari questi pesi, secondo me, è una cosa importante e penso
che mi faccia molto bene (egoisticamente parlando…), potersi conoscere, poter
capire. Poter appunto ritrovare le persone, ritrovare le persone secondo me è
fondamentale perché c’è sempre qualche cosa di diverso da come te lo saresti
aspettato. Quindi io penso sinceramente di sì, però poi vi devo dire che c’è
il passo ulteriore che è quello che mi interessa in questo momento in quanto,
essendo un po’ cristiana, nel Vangelo Gesù ci dice: “Amate i vostri
nemici”. E stranamente appena li ami non sono più tuoi nemici, però li devi
conoscere, e quindi c’è comunque un passo che va fatto, e anche loro hanno
fatto un percorso molto importante che li ha condotti a desiderare un incontro,
che però non deve portare a niente di pratico, è semplicemente il ricomporre
qualche cosa che è stato stracciato.
Elton Kalica:
Con lei vorremmo anche parlare dell’ergastolo, a partire dalle riflessioni di
suo padre su questo tema.
Agnese Moro:
Mio padre era molto contrario all’ergastolo. Mio padre è stato per moltissimi
anni professore di diritto penale, quindi tra l’altro era materia sua! Lui
sosteneva questo: che gli esseri umani, la sostanza di cui son fatti gli esseri
umani è la libertà. Se tu una persona la privi della speranza di ritornare
libera, della certezza di tornare prima o poi libera, tu quella persona è come
se l’avessi uccisa. E allora, essendo contrarissimo alla pena di morte, forse
è meglio, è meno disumano ucciderla che lasciarla lì per sempre, senza
speranza di ritornare mai libera.
Io
penso che sia una cosa molto vera, molto saggia, molto umana, cioè mio padre
guarda tutto nella prospettiva di una pena che viene data non per una vendetta,
ma perché c’è qualche cosa che è stato rotto e questo equilibrio si deve
ricomporre e si ricompone attraverso la privazione della libertà, che è una
forma di afflizione, di dolore che deve portare ad un ripensamento e a un
rientrare nella società. Ed è una afflizione che non va condita con altre
afflizioni: io ti tolgo la libertà ma questo togliere la libertà non significa
togliere gli affetti, il lavoro, tutti gli strumenti che ci possono essere per
una crescita. Quindi per lui la pena serve a ritornare nella società, non è
una punizione in senso stretto. È un atto che deve servire per ricomporre
qualche cosa.
A
me sembra un concetto, quest’idea che tutti debbano avere la possibilità di
ritornare liberi, che è fondamentale per coltivare la speranza di noi tutti.
Perché veramente è una cosa troppo triste: tu perché dovresti fare uno
sforzo, una qualsiasi forma di sforzo per rivedere la tua vita, se non hai la
prospettiva di ritornare a viverla? Allora l’ergastolo significa solo che sei
un essere pericoloso, ti chiudo dentro una scatola, faccio finta che non esisti,
non ti ammazzo perché sono superiore, però come persona non ti voglio più.
Il
suo ragionamento invece è tutto di un mondo nel quale le persone sono la cosa
più importante. Per la nostra Costituzione le persone sono la cosa che viene al
primo posto, in ogni caso c’è un’umanità anche nel gesto di fare il male,
perché comunque è un gesto di libertà. Chiaramente non è una cosa bella, ma
c’è un essere umano dietro. Mio padre contrappone questo ragionamento a tutto
un altro tipo di concezione che dice che è la società che ti porta a compiere
certi atti, quindi tu non sei niente: apparentemente è una teoria “più
buona”, perché ti toglie una responsabilità, ma togliendoti quella
responsabilità, ti toglie pure la tua umanità e la titolarità a fare delle
cose.
Mi
sembra che sia abbastanza convincente questo fatto, io considero una cosa
terribile l’ergastolo, veramente, ma poi non ha senso. Io, che pure dovrei
sentirmi molto piena di giustizia perché comunque le persone responsabili della
morte di mio padre sono state tutte condannate (qualcuno è scappato), ma il 90%
è stato in carcere tutti gli anni che doveva stare, sento che non è che mi dia
tanto di più il fatto che loro siano stati presi ed abbiano o stiano scontando
la loro sonora condanna, penso lo stesso che mio padre non abbia avuto giustizia
perché la giustizia non è fatta dal “…ti punisco”, è fatta dal “ti
riporto insieme con noi…”, questo già assomiglia di più all’idea di
giustizia. Sento molta più giustizia quando mi trovo in una situazione dove vi
sono anche quelle persone che hanno fatto cose sbagliate e che hanno dietro
tutto un cammino, e siamo insieme, ne parliamo e ne discutiamo serenamente.
Quindi mi sembra che l’ergastolo sia veramente un controsenso, ”…Ti
vogliamo recuperare, però… ti vogliamo buttare via”. Noi non vogliamo
buttare via nessuno, per me questo è fondamentale, noi siamo un Paese che non
deve/vuole buttare via nessuno, noi siamo tutti insieme…
Bruno Turci:
Io ho letto le riflessioni sull’ergastolo, espresse da suo padre
all’Assemblea Costituente, ed anche alle lezioni che lui teneva alla facoltà
di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma. Lui affermava che
è necessario stabilire dei limiti all’afflizione della pena e la stessa deve
essere inserita in un quadro di recupero della persona. Però l’ergastolo ha
tradito questo principio. Mi permetto di leggere un pezzo di un suo intervento
in una lezione “…per quanto riguarda questa richiesta di come debba essere
la pena, un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non
soltanto per la pena capitale che istantaneamente e puntualmente elimina dal
consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua.
L’ergastolo, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva,
di qualsiasi sollecitazione al pentimento, appare severo e disumano non meno di
quanto lo è la pena di morte. Proprio per il fatto che l’ergastolo impedisce
una progettualità alla persona detenuta che ha commesso un reato, impedisce di
rivedere, di ricostruire se stesso in prospettiva di un reinserimento sociale,
di un recupero”.
Quindi
l’ergastolo è contro quello che è il dettato costituzionale, che è l’art.
27. E questo Moro lo afferma in maniera molto forte. La Corte Costituzionale ha
poi riconosciuto il problema dell’ergastolo, rispetto all’art. 27 della
Costituzione, ma di fatto mi pare che si sia un po’ arresa, non si capisce
come mai. E pensare che Giorgio La Pira e Lelio Basso avevano chiesto che non ci
fosse l’ergastolo nel nostro Codice penale e fosse stabilito un limite massimo
delle pene di 15 anni, oggi siamo arrivati al punto che non siamo riusciti
neppure ad abrogare l’ergastolo.
Tra
l’altro lei sicuramente saprà che esiste un tipo di ergastolo, che è
denominato ostativo, il quale non presuppone alcuna possibilità di permessi
premio e questa è una novità che esiste dal 1992, è stato introdotto per i
reati cosiddetti di prima fascia del quattro bis: associazione mafiosa, traffico
di droga e sequestro di persona e terrorismo internazionale.
Agnese Moro:
A me sembra, anche ascoltando le persone che incontro (e vado in giro
parecchio…), che ci sia una tendenza più emotiva che razionale, che dice:
“Bisogna buttare via la chiave!”, oppure si dice che non c’è la certezza
della pena, che poi è uno slogan perché non è vero che non ci sia la certezza
della pena… La nostra è una società che si sente insicura e cerca un modo
per difendersi da cose su cui non dovrebbe arrivare il diritto penale,
dovrebbero essere risolte prima! Non so come spiegarmi bene, ma a me sembra una
società molto stressata e così cose che erano abbastanza certe fino a
vent’anni fa, adesso sembra che siano diventate più aleatorie, tant’è vero
che poi abbiamo una vita pubblica-istituzionale non proprio di specchiata onestà
o almeno di specchiato buon gusto. E allora però le persone che non sono in
grado di affrontare la complessità di questa società e la complessità dei
rimedi che andrebbero pensati, si buttano sul fatto di dire che devono essere
sicuri che le persone che fanno qualcosa di male non escano più dal carcere.
Purtroppo è un sentimento terribile, bisogna prenderne atto, ma c’è, perché
poi non siamo più abituati ad avere dei posti in cui ragionare insieme delle
cose, è diventata una cosa rara trovarsi e confrontarsi, capita molto di più
con i ragazzi nelle scuole che ci siano occasioni di riflessione.
Questa
contraddittorietà c’è anche in chi dovrebbe essere tutore della nostra
Costituzione. Quindi forse si dovrebbe riaprire una discussione su questo tema
in maniera seria, in modo che si possa anche ri-ragionare su questa emotività
così forte che c’è in giro. Io la sento molto, spesso sono io che mi dico
che sono particolarmente sensibile e recettiva, perché veramente la gente è
esasperata, ha paura di tutto e di niente. Non è che poi il nostro Paese sia un
Paese così pericoloso, così assediato, ma le persone si sentono sole e,
sentendosi sole, in pericolo, reagiscono spesso in modo irrazionale… Bisogna
invece tornare a ragionare, questo è importantissimo! Però non abbiamo, come
dire, un Ente che “ci fa ragionare”, forse bisognerebbe coinvolgere in
questa riflessione anche i non addetti ai lavori, che potrebbero farsi carico di
un ragionamento comune.
Ornella Favero:
Io credo che sia una battaglia culturale che manca prima di tutto nel nostro
Paese. Allora noi adesso stiamo parlando dell’ergastolo, però la battaglia in
realtà è proprio su quale sia la pena sufficiente per essere ritenuta
socialmente accettabile perché, anche nelle bozze di riforma del Codice penale,
tutti quanti, di destra e di sinistra, prevedevano l’abolizione
dell’ergastolo, però parlavano di pene come 33 anni di pena massima, che è
una vita lo stesso. Poi io lo vedo con gli studenti, per loro, gli anni scontati
da chi ha commesso un omicidio, di qualsiasi omicidio si tratti, anche in una
rissa, o per aver guidato ubriachi, non sono mai abbastanza.
Bisognerebbe
fermarsi un attimo a riflettere se davvero sono pochi quindici o vent’anni. Le
vittime in questo caso, anche per le persone più aperte, diventano sempre un
po’ l’alibi: una pena di quindici anni o vent’anni è troppo poco, non può
“soddisfare la vittima”. Questo è un po’ il tema che io vedo collegato
all’ergastolo: qual è la pena che può non essere “offensiva” per la
vittima.
Agnese Moro:
Il tema mi sembra sia molto giusto e credo sia uno di quelli centrali, perché
poi vi è anche chi non si accontenta mai, allora trent’anni son pochi, 40
anche. Comunque su questo sono d’accordissimo, andrebbe rivisto il criterio,
che dovrebbe andare di pari passo con una riflessione su che cosa è la
giustizia, se ottenere giustizia è giocato sul numero di anni comminati, cosa
significa ottenere giustizia dal punto di vista di una vittima. Che cos’è che
mi fa sentire alla fine che quello che è stato fatto ad una persona cara è
stato sanato? io ho una mia idea, mi verrebbe da dire: “Tutto il tempo che
serve per poter ritornare in se stessi”. Se dovessi seguire il mio personale
modo di ragionare, io darei a te che hai commesso un reato una pena che duri il
tempo che ti serve per riuscire a fare questo percorso di ritorno, a capire che
quella cosa è sbagliata.
Filippo Filippi:
…E sempre comunque qualcuno dovrebbe stabilire poi se, trascorso un certo
tempo, l’autore di reato è riuscito a ritornare in sé… Potrebbe divenire
un “fine pena mai” anche questo…
Agnese Moro:
Certamente, infatti non voglio dire che sia giusto ciò che dico io. Dico solo
che dal punto di vista di chi ha ricevuto un torto la cosa più bella è che
l’altra persona, quella che il torto l’ha fatto, capisca che ha fatto una
cosa sbagliata, secondo me è l’unica cosa che mi può in qualche maniera
confortare, consolare mi sembra eccessivo.
Elton Kalica:
È il principio che sta alla base in quei Paesi, dove vi è una forma di
esecuzione della pena per cui dopo alcuni anni la pena stessa viene sottoposta a
una verifica ad opera di un collegio di esperti. Arrivati ad un certo punto
guardano il percorso che una persona ha fatto all’interno del carcere e, se
vedono che la stessa si può considerare recuperata dopo un percorso di
rivisitazione del proprio passato criminale, allora sospendono la pena. Come
principio mi sembra che abbia molto di positivo se paragonato ad un sistema
rigido come quello italiano in cui, quando tu ti prendi la tua condanna
definitiva, gli anni che hai preso te li devi fare. Ovviamente ci sono le misure
alternative, puoi andare in semilibertà, ma comunque quella pena non viene più
messa in discussione.
Ogni
tanto poi, qualche ragazzo ci dice che preferirebbe l’ergastolo rispetto alla
pena di morte, così uno sta tutta la vita in galera e soffre di più, mentre
invece con la pena di morte uno viene ucciso e… via. Ma mentre sulla pena di
morte ci sono abbastanza argomenti per dire che dal nostro punto di vista è una
cosa sbagliata, sull’ergastolo è ancora, anche tra di noi, un continuo
discutere, un continuo confrontarsi.
Agnese Moro:
Perché, tra di voi non c’è un unico modo di sentire?
Elton Kalica:
Certo noi in linea di principio siamo abolizionisti. Però quando discutiamo sui
casi specifici, entrano in ballo considerazioni personali, e qualcuno inizia a
fare eccezioni. Gli studenti per esempio sono bravi a chiederci “E se
facessero del male a tua figlia?”, e anche i detenuti sono influenzati da una
certa informazione, che ha sempre la necessità di dare risposte all’opinione
pubblica sui fatti di cronaca, e l’ergastolo viene considerato per certi reati
una risposta completa, esemplare. Non a caso in alcuni processi, se viene
comminato l’ergastolo, il giornalista, le vittime o il pubblico, quando
sentono che la sentenza è l’ergastolo, dicono che “Giustizia è stata
fatta…”, mentre spesso quando la condanna è minore, c’è il giornalista
che va con il microfono dalla vittima, la quale dice: ”No, questa non è
giustizia, avrebbero dovuto dargli non trent’anni ma l’ergastolo”. Mi
ricordo che di questo abbiamo parlato anche con il magistrato-scrittore Gianrico
Carofiglio, pure lui diceva che è giusto mantenere l’ergastolo perché ha un
valore simbolico nei confronti dei famigliari delle vittime e dell’opinione
pubblica, e poi fa anche da deterrente. Quindi elencava una serie di motivi per
i quali, secondo lui, doveva rimanere questa condanna al “fine pena mai”;
poi questa durissima condanna veniva equilibrata dal fatto che, sempre secondo
lui, in Italia l’ergastolo effettivo non c’è, perché le persone prima o
poi escono. Invece noi qui lo sappiamo che vi sono alcune fasce, per le quali il
fine pena mai esiste eccome.
Ornella Favero:
Agnese, quando tu chiedevi se non avessimo un sentire comune, qui naturalmente
è chiaro che le persone sono contro l’ergastolo. Però noi siamo oramai
talmente abituati a cercare di spiegare le cose ai ragazzi delle scuole, che ci
esercitiamo a trovare la strada per farlo nel modo più efficace. Un conto è
avere noi la consapevolezza di quanto possano essere un’eternità 15/20 anni
di carcere, altra cosa è trovare la strada per farlo capire a delle persone
fuori, in particolare a dei giovani studenti. Quando i ragazzi ci dicono: ”Ma
se capitasse a voi....”, io rispondo che se capitasse a me, non so come
reagirei. So che mi sto allenando, che questo è un po’ un allenamento a
cercare di reagire in modo più umano, ma non sono affatto convinta che ne sarei
capace.
Silvia Giralucci:
Io non ho una risposta chiara e semplice. Come il resto della redazione,
frequentando le persone che stanno qui dentro mi sono convinta che venti,
trent’anni passati tra le sbarre sono un tempo già di per sé lunghissimo. E
allo stesso modo, però, se penso ad alcuni casi di cronaca, e viene in mente,
tanto per fare un esempio, il rapimento e la morte del piccolo Tommy, ecco per
un delitto di quel tipo una pena di 15 anni mi sembra inaccettabile, e anche una
di 30. Ci vorrebbe effettivamente una pena stabilita dal giudice, che però dopo
un certo numero di anni venga sottoposta a revisione, a seconda di come uno è
cambiato e quale percorso di presa di coscienza abbia fatto, perché ci possono
essere anche persone che dopo quindici lunghi anni non si sono mosse di un
passo. A questo proposito mi viene però anche da dire che, se su una persona 15
anni di detenzione non hanno prodotto alcun effetto, forse neppure altri 15 anni
tra le sbarre potrebbero cambiare la situazione… Non ho purtroppo una risposta
chiara perché i percorsi sono individuali.
Ornella Favero:
Ma è giusto così, io non voglio una risposta chiara, voglio una risposta
oscura e complicata. Perché quello che continuiamo a dire noi è che non si
possono semplificare queste cose, quindi togliamoci dalla testa che vi siano
risposte semplici.
Silvia Giralucci:
Quello che si può comunicare all’esterno è che la pena, intesa come il
numero di anni comminati, non può risarcire in alcun modo la vittima e bisogna
spostare il discorso dal risarcimento che la persona dà alla vittima al tempo
necessario per una rieducazione, per una rielaborazione di quel che è stato
commesso.
Lorena Orazi
(Responsabile dell’area pedagogica C.R. Padova): Io sono un educatore in
questo carcere e sento l’intensità di una discussione sull’ergastolo, ma
soprattutto sulla domanda che poneva Ornella, se vi sia una pena che possa
essere equa sotto tanti punti di vista. Dal punto di vista di chi la subisce, ma
anche dal punto di vista della vittima o dei famigliari delle vittime, o delle
vittime virtuali che per tanti reati non sono direttamente configurabili in
persone fisiche.
Sulla
definizione di quale sia una pena equa, è chiaro che chi la subisce normalmente
vorrebbe una condanna il più lieve possibile per ciò che concerne la
privazione della libertà. Certo l’Ordinamento penitenziario tende a
valorizzare il percorso individuale e quindi l’”effetto” che la privazione
della libertà può portare in termini di riflessione, in termini di opportunità
che la persona non ha potuto conoscere prima. Questo da un punto di vista
teorico, poi però c’è il terreno del quale parlava Silvia Giralucci, che
appunto gli anni per la vittima non bastano mai. Penso a loro due, Agnese e
Silvia, e alla ferita che si portano dentro… Gli autori di quei reati è
chiaro che mai potranno risarcire, nemmeno con tutta la loro vita!
È
per questo che lo Stato sta in mezzo tra la vittima e l’autore di reato, come
un’entità che non deve vendicarsi, che dovrebbe piuttosto porsi come
mediatore, mentre è spesso assente, e non riesce a mettere in campo altri
strumenti che non siano i magistrati e i processi. È come se l’attenzione
prioritaria nella gestione della devianza fosse affidata solo al processo e alle
condanne, per questo l’ergastolo o le pene alte diventato il solo modo per
gestire i reati, ignorando completamente le difficoltà delle persone che li
commettono, e che magari vivono in un determinato contesto sociale, spesso
degradato. L’ergastolo quindi diventa strumento per ”accontentare tutti”,
per rispondere a questa continua richiesta di durezza, di cattiveria nel punire.
Lucia Faggion
(volontaria): Io penso che il problema sia a monte. Perché l’unico tipo di
pena nei confronti dei comportamenti che ledono la collettività o la singola
persona è la carcerazione, e anche di recente sono aumentati i reati per cui
c’è il carcere come unica risposta, è un approccio che in un certo senso
equipara tutti i comportamenti, meno gravi e più gravi, e a tutti fa conseguire
la carcerazione, per cui alla fine si arriva a ritenere legittimo anche
l’ergastolo. Del resto siamo fermi a un Codice che è ancora quello fascista.
Agnese Moro:
Io direi che oggi è molto peggio, perché si tende proprio a vedere il carcere
come la soluzione di tutto, da usare per qualunque comportamento che non sai
gestire.
Comunque
nel nostro diritto penale io penso che le vittime non esistano proprio, le
vittime vengono fuori solo quando fanno comodo, allora si tirano in ballo le
vittime. Ma noi non abbiamo nessuna voce in capitolo reale, anche se c’è un
uso molto strumentale del dolore delle vittime.
Ornella Favero:
Quando per esempio gli studenti domandano alle persone che hanno commesso un
omicidio “Ma hai chiesto perdono alle vittime?”, è molto difficile
rispondere. E proprio perché noi siamo abituati da anni a discutere di questi
temi con le vittime, con persone come voi, solitamente la risposta dei detenuti
è “Il perdono è una cosa che la vittima può concedere, ma io non credo di
avere il diritto di chiederlo”, però questa risposta viene spesso
interpretata in modo sbagliato, come un atto di orgoglio, come una mancanza di
umiltà, per cui domando a voi qual è l’atteggiamento più giusto, più
rispettoso.
Anzitutto
bisognerebbe, da parte di tutti quelli che non sono vittime, in particolare i
giornalisti, cambiare atteggiamento e cercare almeno di capire che cosa potrebbe
davvero far star meglio le vittime. Per esempio qualcuno tra noi dice che è
diverso chiedere scusa dal chiedere di essere perdonati, perché tu, chiedendo
scusa, fai un atto di umiltà, cancelli tutto il tuo orgoglio e dici che sei
consapevole di quello che hai fatto e non puoi che chiedere scusa. Invece
chiedere perdono è qualcosa di diverso, perché assomiglia più a pretendere
qualcosa, vedete come anche rispetto alle parole non sia facile usarle ed
intendersi sul loro significato. Ma allora che cosa vorrebbero le vittime? come
vorrebbero contare di più? Che attenzione vorrebbero avere?
Silvia Giralucci:
Quello che io immagino è che con il processo inizi un’attenzione, se vogliamo
chiamarla così, nei confronti del reo che dovrebbe portare a un percorso di
rieducazione. Che poi questo avvenga o meno, è un altro discorso. Nei confronti
delle vittime, invece, tutto questo non c’è, c’è uno strappo, c’è una
persona che diventa diversa da quello che era prima e questa situazione se la
deve sbrigare completamente da sola…
Penso
a casi come i nostri, noi che solo dopo tantissimi anni abbiamo trovato questa
forma di aiuto reciproco nella frequentazione, nella condivisione, nella
possibilità di parlare delle nostre esperienze, perché, mancando dei luoghi di
confronto veri, è appunto difficile trovare un ambito in cui parlarne
normalmente. Cioè tu non puoi a una cena con degli amici ”calare l’asso”
della tua sofferenza, e lasciare tutti sbigottiti. Quindi sei costretto a
viverti questo enorme dolore in solitudine e senza la possibilità di quel
confronto, che ti aiuterebbe in qualche modo a uscirne. Mi ricordo che ne
avevamo parlato con Elena Valdini, autrice di un libro sulle persone che perdono
un congiunto per un incidente stradale. La Valdini sostiene che già nei reparti
di Pronto Soccorso dovrebbe esserci un servizio deputato all’aiuto di chi
perde un congiunto in maniera violenta. Se questo tipo di supporto nel nostro
Paese non è previsto, è naturale che chi si trova colpito rivolga la sua
rabbia contro il reo, senza capire che non è da lì che gli arriverà il
sollievo di cui ha bisogno. Potrebbe magari arrivargli da un percorso
completamente diverso, un percorso che a un certo punto potrebbe anche
coinvolgere il reo, ma che sostanzialmente è recupero di sé, accettazione di
una vita nuova, superamento della rabbia, riacquisto di una fiducia nel
prossimo, perché l’identità violata toglie proprio la fiducia.
Se
io oggi esco di casa, penso che tornerò a casa così come sono uscita. Un
giorno però ti capita una cosa devastante e tu non sei più sicuro di nulla,
non ti rendi nemmeno conto di come sia successo e di quello che pensi, sai solo
che è successo e che la tua vita è cambiata e tu sei una persona diversa.
Aiutare
a ricomporsi, a ritrovare fiducia nel prossimo, nella società è qualche cosa
per la quale ci dovrebbe essere un percorso o perlomeno un luogo in ogni città
in cui chi si trova in questa condizione di vittima di reati, anche solo di
furto, può trovare un sostegno.
Ricordo
il sentimento che ho provato quando, una ventina d’anni fa, ho subito un
furto. Ero una ragazzina, e tornando a casa da scuola ho trovato la porta
aperta: erano passati i ladri. Nelle settimane successive, ogni volta che aprivo
la porta di casa provavo una sensazione di ansia, come un tuffo sgradevole al
cuore. Già quando uscivo dalla scuola e mi avviavo alla fermata dell’autobus
cominciavo a temere il ritorno a casa, avevo paura di scoprire nuovamente la
porta aperta, immaginavo di trovare la casa sottosopra, tutte le mie cose, alle
quali ero affettivamente legata, violate di nuovo. Anche per queste situazioni,
tutto sommato piccole e comuni, sarebbe importante avere un luogo in cui ci
siano professionisti in grado di fornire un aiuto. Come per gli autori di reato
ci sono gli educatori, ci vorrebbe una figura del genere anche per le vittime!
Agnese Moro:
Sono sicuramente d’accordo, penso che molta dell’ostilità si abbasserebbe e
poi secondo me ci sono delle assurdità che ti fanno sentire proprio solo. Per
esempio mi è capitato l’altro giorno di una persona il cui padre è stato
ucciso durante la gravidanza della madre, poi lei è nata e non ha mai saputo
che avrebbe diritto ad un beneficio; dovrebbe avvenire una cosa di questo
genere, che si presenti qualcuno a casa tua, qualcuno dello Stato voglio dire, e
ti dica: ”Guarda, mi dispiace, è successo questo, comunque però ti staremo
vicini, ti veniamo incontro perché il tuo congiunto è morto anche a causa mia,
è morto per difendere qualche cosa che ci riguarda tutti”, per tante famiglie
sarebbe un toccasana ed un riconoscimento, e un sostegno effettivo.
Questo
invece non c’è assolutamente e farebbe invece, secondo me, una grandissima
differenza, tanto quei soldi arriveranno comunque, però è proprio il modo di
concepire il fatto che è diverso, tu hai pagato un prezzo che era nostro,
sarebbe dovuto essere anche nostro, e io Stato ti sto vicino.
Silvia Giralucci:
Sì, questo per le vittime del terrorismo sarebbe rivoluzionario. In Francia
addirittura agli orfani danno una medaglia che non è solo una medaglia al
valore come quelle che danno da altre parti, ma è la medaglia di orfano della
Patria, che sta un po’ a sottintendere che da ora in poi sarà la società a
occuparsi di te. Noi vittime del terrorismo rappresentiamo però solo una parte
piccola di un problema più generale. Sono convinta che anche una persona che ha
avuto un congiunto morto in un incidente stradale provocato magari da un ubriaco
nutra sentimenti dello stesso tipo.
Agnese Moro:
Sono perfettamente d’accordo, e infatti, secondo me, visto che non sono
milioni di persone, sarebbe uno sforzo molto piccolo che si potrebbe fare e
gioverebbe molto a far sì che le persone fossero meno arrabbiate e rancorose.
Silvia Giralucci:
Ma soprattutto non vadano cercando nella detenzione degli autori di reati
risposte che la detenzione non può dare…
Agnese Moro:
Per quel che riguarda il perdono, secondo me, come fai sbagli. Perché intanto
devi essere creduto quando lo chiedi, dato che purtroppo si è inserito questo
inquinatore che è il fatto che i tribunali di Sorveglianza vogliono sapere da
te vittima se quella persona l’hai perdonata, e poi arrivano queste lettere
che, diciamoci la verità, sono simili, sono copie conformi come i modelli
prestampati. A quel punto tu per che cosa mi stai chiedendo scusa, perché è un
tuo sentimento o perché devi avere un beneficio? Legittimo chiedere un
beneficio, ma il Magistrato non deve mandare a chiedere a me se lo perdono, come
se il perdono della vittima ”valesse dei punti”.
Per
me questo rende tutto meno credibile, poi tu la persona la devi conoscere, devi
capire che ha una intenzione seria, che davvero è toccata, che davvero vuole
chiederti scusa. Però purtroppo si è creato questo meccanismo che, secondo me,
rende molto difficile credere alle intenzioni serie di un ravvedimento,
chiamiamolo così.
Silvia Giralucci:
A me personalmente la richiesta di perdono darebbe solo più fastidio, però
penso che il perdono, chiamiamolo così, vada meritato nel corso di tutta la
detenzione e anche del periodo successivo, con quell’atteggiamento di cui
parlavo all’inizio del mio rapporto con la redazione di Ristretti: la
consapevolezza che anche quando finisce la pena la responsabilità rimane, e
quindi chi ha commesso un reato ogni mattina deve cercare di comportarsi in
maniera da non infliggere ulteriore dolore alla vittima. Mi torna alla mente
quella volta che siamo stati invitati come redazione di Ristretti al Quirinale
per il premio ”Testimone di Pace”. Ho pensato che sarebbe stato bello se
fosse venuto anche Andrea, che la sua pena l’ha scontata, però poi mi sono
detta: ”Se io fossi la famiglia della vittima di Andrea, forse non vorrei
vederlo premiato al Quirinale”, quindi si tratta anche di rinunciare a tante
cose perché tu ti porti quella responsabilità dietro. Quello secondo me è un
modo di chiedere perdono.
Agnese Moro:
Io però ho dei dubbi, tra l’altro ci fu proprio a casa mia una discussione,
una delle poche volte che abbiamo parlato di queste questioni, e c’erano
pareri molto, molto discordanti. Penso che se la persona ha fatto il suo
percorso, poi ha diritto di fare onestamente quello che vuole, di fare lo
scrittore per esempio, perché non dovrebbe poterlo fare? Allora tu quella pena
gliela fai proseguire. Altra cosa è che lui senta la responsabilità, senta il
peso della coscienza, quello lo sentirà sempre, secondo me non potrà
liberarsene mai. Allora: lo Stato ti ha condannato, tu hai scontato quello che
dovevi scontare, punto e basta. Altrimenti è inutile, allora diamogli la
condanna all’ergastolo, e facciamo prima, è più onesto dire: ”Non ti
permetto più di ritornare nella società”.
Già
non puoi votare, e ci sono una serie di cose che non puoi fare comunque. A meno
che tu non faccia quella cosa che si chiama riabilitazione, che però è un
percorso lunghissimo.
Silvia Giralucci:
Persona con la ”P” maiuscola, secondo me non lo torni più ad essere, dopo
che hai ammazzato.
Agnese Moro:
Ecco questo è il punto, e invece secondo me devi poter tornare ad esserlo, dopo
che hai scontato la tua condanna, è la nostra vittoria, intesa come la vittoria
della vita democratica, che tu torni ad esserlo. Ti porterai un peso che è
senz’altro grande, almeno per quello che ho potuto vedere io, grande almeno
quanto quello della persona che ha ricevuto il tuo torto, forse in un certo
senso è anche peggio, però non ti possono chiedere di non esistere più.
Silvia Giralucci:
Secondo me si possono fare tante cose senza però cercare una visibilità
mediatica, si tratta di non andare a casa della vittima, o fisicamente o in
altri modi. Anche la televisione è un modo di andare a casa della vittima.
Ornella Favero:
Tu Agnese dici che il dover rinunciare a delle cose importanti è come dire
“allora gli diamo l’ergastolo perché non è vita”, in realtà ci sono
moltissime persone che fanno tante cose importanti, in modo molto discreto, in
modo silenzioso.
Agnese Moro:
Ci sono delle contraddizioni in questo modo di pensare secondo me, innanzitutto
non è detto che i riflettori li accendi tu, magari te li accendono gli altri
perché devono occupare una pagina, devono fare uno scoop. Che poi la persona
nella sua coscienza faccia un percorso, io me lo auguro, sono contenta se lo fa,
sono contenta per lui prima che per me, perché è un modo per ritornare più
pienamente ad essere umani, rendersi conto di quello che uno ha fatto. Ma in
realtà qualsiasi cosa loro facciano, appena si viene a sapere, c’è chi dice
che è indegno e non lo dovrebbero fare, se lavorano in un servizio sociale di
un Comune non va bene, se fanno quello no, se fanno quell’altro no, cioè
guardateli con occhio sereno, loro non hanno il diritto di fare nulla salvo
qualcosa che proprio sia nascosto nella maniera più assoluta. Allora diciamo
che tutto il percorso della giustizia non serve a niente, perché non ti
riabilita, non ti fa ritornare alla vita civile mai. Io capisco che emotivamente
uno possa dire: ”Tu dovresti muoverti in punta di piedi”, ma bisognerebbe
anche andare a vedere serenamente qual è la vita di queste persone, che cosa
gli è consentito fare, fino a dove possono arrivare prima che scattino tutte
queste reazioni.
Silvia Giralucci:
I casi che finiscono sui giornali intanto sono pochi e riguardano sempre gli
stessi ex terroristi , rispetto ad un numero di ex terroristi molto più vasto,
e poi le persone che protestano tra di noi sono anche quelle sempre le stesse,
questa cosa è un gioco mediatico tra poche persone.
Sandro Calderoni:
Mi ha colpito molto una cosa che ha detto la signora Moro, il fatto che “come
ti muovi sbagli”. Perché è vero, quando parlavamo del perdono, e si diceva
che magari uno che ha commesso un reato non è il caso che lo chieda, qualcuno
interpretava come una forma di orgoglio o presunzione non chiederlo, mentre
magari l’idea è quella di dire: “Io non voglio creare altri problemi”. E
allora, quando uno esce dal carcere, come si deve muovere? Deve camminare in
punta di piedi? È vero, devi creare meno scalpore possibile, ma è vero anche
che forse non sei tu che vuoi creare scalpore, è che tu rappresenti il tuo
reato, non la persona che sei diventato, e a quel punto, qualsiasi cosa tu
faccia, sarai sempre sotto i riflettori! Penso, per fare un esempio, a Elton che
è un buon scrittore, e se scrivesse un best-seller e magari vendesse un milione
di copie…
Silvia Giralucci:
C’è Massimo Carlotto, che è stato in carcere, non credo che a Massimo
Carlotto nessuno faccia una colpa per essere un bravo scrittore perché non ha
sfruttato il suo nome e la sua storia per avere successo. Altre persone invece
utilizzano il fatto di essere stati ex terroristi per avere successo, tanti ex
terroristi utilizzano il fascino del male, di quello che hanno fatto, per
costruirsi un personaggio, per andare alla televisione.
Ornella Favero:
Tanti anni di galera non ti fanno ragionare su quello che hai fatto proprio per
niente, io credo che servano meno anni di galera, però un ragionamento serio
sulla responsabilità, sul male fatto, e vorrei anche che una persona si ponesse
il problema di dire: “Ma se io adesso con una intervista so che “entro in
casa” di questa persona a cui ho fatto del male, e riapro una ferita, non
posso farne a meno, rinunciare ad apparire?” Quindi io non sto parlando di
grandi cose, sto parlando di dare pene più miti e nello stesso tempo invitare
le persone a fare una riflessione proprio sul male fatto, una piccola
riflessione: se io voglio essere riconosciuta come persona, devo riconoscere
anche la vittima come persona, e non solo il debito che ho pagato allo Stato. Io
penso che la responsabilità sia ricordarsi reciprocamente di essere persone.
Cinzia Sattin
(funzionario della Professionalità giuridico/pedagogico): Io parlo come
vittima, mia madre è morta in un incidente d’auto insieme a mio zio per colpa
di un ragazzo tossicodipendente che entrava e usciva dal carcere. Dopo quel
pugno che io ho avvertito molto forte quando ho visto mia mamma per terra sotto
il lenzuolo, io poi però non sono entrata per nulla nella fase successiva. Dove
siamo finiti noi famigliari delle vittime? Io ho un grande bisogno invece di
richiesta di perdono, su questo mi distacco molto da Silvia. Ho un grande
bisogno di incontrare questa persona, di sapere che fine ha fatto questo
ragazzo, se la vita di due persone è valsa almeno il suo recupero.
Personalmente ho un grande bisogno di un perdono chiesto e quindi concesso. Deve
essere chiesto non solo a parole, ma questo ragazzo potrebbe dirmi:
“…Guarda, io ho ammazzato quattro persone, ma mi son rimesso in piedi, mi
sono rifatto una vita nonostante che, guidando strafatto, abbia fatto cose
gravissime”. Questo nel mio immaginario potrebbe sanare quel residuo di dolore
che mi è rimasto, la ferita ancora aperta dal 2004. Perché dico questo? Perché
la durata della pena scontata da questo ragazzo è stata di 10 mesi, poi è
stato scarcerato e, due anni dopo, ha riavuto la patente, anche se a 27 anni
aveva già ucciso quattro persone…
In
realtà succede che la persona sposta la sua responsabilità, i suoi rimorsi,
sullo Stato, in un “conto” che sta pagando allo Stato, e la vittima non
esiste più, il suo vissuto non esiste più. Questo è il paradosso di una
giustizia che non è riparativa, è una violenza inaudita che subiscono le
persone ed è anche il grande fallimento per chi ha compiuto il reato, perché
non ha pagato un bel nulla, cioè ha pagato un conto che la giustizia ha deciso,
ma la sua coscienza spesso è rimasta uguale a prima. Se non è in grado di
chiedere, di ricevere un perdono, che per me è l’unica cosa liberatoria, non
i tre anni, i dieci o i diciassette di pena, o l’ergastolo, il suo conto non
è mai davvero pareggiato.
Questo
è quello che vivo io, anche ascoltando le testimonianze in veste di funzionario
della Professionalità giuridico/pedagogica (educatore), raccogliendo le
esperienze e confidenze delle 110 persone a me affidate. Quindi quando io faccio
quella famosa domanda retorica: “Qual è il tuo ravvedimento? se tu tornassi
indietro cosa non rifaresti…?”, il detenuto mi dice: “Ma io ho pagato il
conto, basta…!”. Sì, ha pagato il conto, ma non ha chiuso niente con la sua
coscienza, perché effettivamente il danno è stato fatto alle persone, non
tanto o non solo allo Stato. Questo è terribile, e io lavorerei proprio sul
perdono, la questione del perdono per me è fondamentale.
Silvia Giralucci:
C’è una cosa della quale io mi sono resa conto solo mentre tu parlavi. Forse
per me è così, perché io queste persone le ho incontrate al processo che è
iniziato 12 anni dopo la morte di mio padre e si è concluso 17 anni dopo. Era
già trascorso un tempo così lungo, che incontrarle in quel momento non è
stato come incontrarle nell’immediatezza. Tra l’altro loro erano già stati
quasi tutti in galera, meno uno, per altri omicidi compiuti successivamente
all’omicidio di mio papà, quindi al momento del processo c’è stato
quest’incontro e già lì ho visto che non vi era proprio nulla da dirsi, anzi
ho percepito quell’incontro come qualcosa di offensivo, nel senso che io ho
visto che noi portavamo le nostre esistenze distrutte, devastate e loro
arrivavano tranquilli con la loro macchina… Uno ha detto: “Preferirei essere
condannato, perché almeno così avrei una condanna definitiva, invece con
questo processo in corso io son costretto a restare in carcere perché non posso
fare il cumulo della pena…”. Tutta una questione di calcoli giuridici che
nulla avevano a che fare con la nostra esistenza devastata. Ecco da questo,
secondo me, nasce il mio desiderio di non avere più ulteriori rapporti con
loro.
Quanto
al perdono, anche lì la classica letterina stereotipata fa solo infastidire,
riaccende il lutto mai rielaborato veramente. Questo tema riguarda i percorsi
individuali, perché è difficile dire come nasca un perdono, sono sempre due
individualità una diversa dall’altra che, in qualche modo, si devono, si
possono incontrare, però…
Cinzia Sattin:
Io ho una cosa da aggiungere, a proposito di questi colloqui sul ravvedimento.
Ho visto che quando si toccano le persone sul danaro, sui beni, ecco lì è la
“cartina di tornasole”, nel senso che chiedere perdono con la lettera
stereotipata è facilissimo, però quando si tratta di mettere a disposizione
dei beni propri (acquisiti più o meno legalmente, non importa tanto il danno è
già stato fatto…), per dare un risarcimento, lì vedi se la coscienza è
stata toccata o no. Ho visto che, se il cuore ha la ferita aperta, il reo mette
mano anche al denaro, a me è capitato, in alcuni casi a me affidati, che la
persona avrebbe dato via tutto pur di risarcire le persone alle quali ha fatto
del male.
Ornella Favero:
Io non vedo solo il risarcimento economico, mi viene da dire che quando noi per
esempio facciamo gli incontri con le scuole, ecco lì penso che un detenuto che
racconta la sua esperienza ci metta tanto di “suo”, perché in fondo è una
fatica immane mettere a disposizione degli altri il peggio della propria vita.
Delle volte lo dico a me stessa e lo dico anche alle persone detenute che non mi
interessa se le storie raccontate sono “vere” fino in fondo, o se vi è un
tentativo di giustificarsi, perché è umano, chiunque di noi si giustifica del
peggio ed anche del meno peggio della sua vita, però quando ci sono gli
studenti io i detenuti li vedo tutti quanti attenti a come parlano, a come
spiegano perché i ragazzi possano capire. Questo è già un grandissimo passo
avanti nella consapevolezza, perché ti sei reso conto che non sei tu al centro
di tutto, ma che devi finalmente pensare agli altri, mettere la tua esperienza
al loro servizio, darle un senso perché diventi utile a qualcuno.
Un
trattamento UMANO può umanizzare chiunque
Quanto
più la pena è mite, tanto più costringe ad una assunzione di responsabilità.
L’ergastolo invece è la pena che di umano non ha nulla
di Ornella Favero
Qualche
giorno fa alcuni studenti hanno chiesto ad un detenuto, che è in carcere da
quindici anni e sta per essere scarcerato, “ma non hai paura all’idea di
uscire?”. Lui ha usato un’espressione che mi ha colpito, ha detto “Certo
che ho paura, sono stato via dal mondo per quindici anni”. Voglio partire da
questa frase perché secondo me è importante per far capire, anzi, per far
proprio “sentire” cosa vuol dire il carcere, “stare via dal mondo”, una
non vita insomma.
Io
ultimamente parto spesso dall’esperienza che facciamo ogni giorno con le
scuole: quando andiamo nelle scuole con alcuni detenuti, e poi le classi vengono
in carcere, e non è una cosa limitata a un paio di classi, è una cosa enorme,
tutti noi, detenuti e volontari, in questi ultimi anni stiamo imparando molto di
più da questa esperienza che da anni di volontariato.
Intanto
vorrei partire da una riflessione: credo che per parlare di temi delicati come
l’ergastolo non si dovrebbe più dire “non è il momento, la situazione è
difficile…”. È tutto vero, però sono troppi anni che non è mai il
momento, rispetto all’ergastolo e alle pene dobbiamo riprendere invece con
coraggio una battaglia culturale, e per una battaglia culturale è sempre il
momento, e forse l’abbiamo rimandata troppo, abbiamo avuto troppa paura di
affrontarla. E ribadisco che si tratta di una battaglia culturale, perché io
non voglio più limitarmi a parlare di sovraffollamento, di carcere, di quanto
male si sta, no, io vorrei portare avanti una battaglia culturale sul senso
della pena.
Non
credo poi che si debba parlare solo dell’ergastolo, si deve parlare di qual è
la quantità di pena e la qualità di pena che noi vogliamo, perché se io devo
pensare all’abolizione dell’ergastolo per sostituirlo con un massimo di pena
di trentacinque o quarant’anni, mi pare che non cambi molto.
Allora
prima di tutto bisogna riuscire a far comprendere davvero che cosa vogliono dire
anni di carcere. Per esempio, spesso partecipa agli incontri con le scuole una
persona che ha commesso un omicidio sotto effetto della droga, per cui ha
scontato quindici anni, perché poi ci sono stati l’indulto e la liberazione
anticipata che gli hanno ridotto la pena. Parte degli studenti spesso reagisce
dicendo in pratica “Sì, abbiamo capito, lui oggi è inserito, è recuperato,
però per un omicidio ha scontato solo 15 anni…”.
Per
questo dico che la battaglia sulla “quantità” di pena è appassionante,
abbiamo cercato tanti modi per spiegare che quindici anni non sono pochi, poi a
qualcuno è venuta un’idea semplicissima, dire “ma scusate, quanti anni
avete voi? quindici, sedici… allora tutta la vostra vita fino ad oggi è così
poco? cioè tutta la vostra vita, immaginata ad esempio come se l’aveste
vissuta chiusa in una stanza, magari con la persona che più vi è antipatica,
con cui non avete voglia di condividere niente, una stanza da cui per uscire,
anche solo per andare a fare la doccia, dovete bussare e aspettare che vi
aprano, tutto questo è davvero niente?”.
Ecco
che un ragionamento così semplice, la durata di tutta la loro vita fino a quel
momento, in qualche modo scardina un po’ tutte queste certezze, che poi sono
le certezze dettate da un certo tipo di informazione, e questo lo dico da
giornalista. “Gli hanno dato solo trent’anni…”, questi sono i titoli dei
giornali e dei programmi televisivi.
Bisogna
anche sgombrare il campo da un’altra certezza che di solito ha la gente fuori:
che qualsiasi desiderio di pene pesanti sia giustificato perché significa un
risarcimento delle vittime. Noi viviamo in un mondo in cui ci sentiamo tutti
potenziali vittime, io in tutti questi anni in cui ho incontrato migliaia di
persone, ragazzi, genitori, non ho mai trovato qualcuno che pensasse di poter
commettere un reato o che potesse capitare a sua madre, a suo fratello di farlo,
nessuno. Solo con un ragionamento lungo, difficile, faticoso siamo arrivati a
far capire quanto sia illusorio che tutti ci sentiamo potenziali vittime, e
nessuno si senta potenziale padre, fratello, madre di una persona che ha
commesso un reato. E naturalmente quando la pena è lontana dalla tua vita è
molto facile rincarare la dose, è molto facile chiederne sempre di più.
Noi
abbiamo fatto un percorso con le vittime proprio per smontare queste certezze,
un percorso difficile, abbiamo incontrato nella nostra redazione in carcere
persone come Olga D’Antona, come Benedetta Tobagi, come Silvia Giralucci, e
devo dire che, prima di tutto, sono stati confronti sconvolgenti. Io per esempio
ho visto piangere dei detenuti di fronte alle lacrime dei familiari delle
vittime, perché si pensa sempre che dopo tanti anni un lutto si rielabori, bene
o male, “si accetti” in qualche modo, invece vedere delle persone che hanno
perso un familiare, morto di una morte che non ha niente di naturale, come
l’omicidio, fa capire a chi ha commesso reati di sangue che ci sono lutti che
non si rielaborano mai.
Vedere
così da vicino la sofferenza ha avuto maggiori effetti su tanti detenuti di
quello che hanno fatto anni di galera, perché in realtà la persona che entra
nel meccanismo perverso del processo prima e del carcere poi, non vede mai in
faccia il dolore, e anzi mette in moto questo meccanismo inverso, per cui inizia
a sentirsi lui stesso la vittima. La lotta per la sopravvivenza in carcere
diventa la cosa fondamentale, quindi il confronto vero con il dolore provocato
non c’è.
Io
ho visto persone capire di più in quei momenti che non in anni di galera,
allora anche lì la quantità della galera scontata è davvero poco
significativa. In questo percorso con le vittime che stiamo facendo in carcere
ho sentito parole che secondo me bisognerebbe far conoscere anche alla società
fuori, dove a me piacerebbe si allargasse questo dibattito. Agnese Moro ad
esempio, sull’ergastolo dice: “L’ergastolo è come dire ad una persona
‘ti vogliamo buttare via’, ma io non voglio buttare via nessuno”. E poi,
quando le hanno chiesto “Qual è la pena dalla quale lei in qualche modo si
sentirebbe risarcita della sofferenza di tutti questi anni?“, lei ha risposto:
“Mi verrebbe da dire, il tempo che uno rientri in se stesso, il tempo che chi
ha commesso quell’atto rientri in se stesso”. Anche questo è un bel modo di
affrontare “la quantità e la qualità della pena”: una pena che faccia
rientrare la persona in se stessa.
È
un concetto importante perché in realtà, bersagliati come siamo da un certo
tipo di informazione, non siamo più abituati alla complessità, e la creazione
dei mostri ci semplifica molto la vita, ci fa pensare appunto che quelli che
commettono reati sono diversi, che sono dei mostri; invece la pena dovrebbe
essere questo, dare modo alle persone di rientrare in se stesse, perché sono
comunque persone. Gli esseri umani sono in grado di fare cose orribili.
Ho
sentito poi, sempre all’interno di questo percorso, Benedetta Tobagi dire:
“Io sono entrata in carcere, dove incontro persone che hanno commesso reati
analoghi a quello che ho subito io, cioè autori di omicidio, perché non voglio
contribuire con la mia sofferenza, con il mio rancore, a creare altro odio e
altro rancore, voglio spezzare la catena del male”. Noi viviamo in un mondo
dove l’informazione, la politica, fanno di tutto per rafforzare questa catena,
non per spezzarla. Ecco perché il dialogo con le vittime dovrebbe essere meno
ipocrita e forse più centrato sul senso che deve avere la pena.
La
pena come sofferenza fisica diventa una specie di anestetico
L’idea
della pena che c’è oggi è sempre ed esclusivamente l’idea che la pena deve
fare soffrire, e la sofferenza deve essere prima di tutto fisica, nonostante la
Costituzione dica che la pena non può consistere in un trattamento inumano e
degradante. Quindi nessuno si pone nemmeno il problema di un altro tipo di
dolore, di una sofferenza che può arrivare dalla consapevolezza.
Paradossalmente in fondo la pena come sofferenza fisica diventa, per la persona
detenuta, una specie di anestetico: mi fanno stare talmente male che io non
penso neanche più a quello che ho fatto, sto semplicemente male. Quindi quanto
più la pena è cattiva ed è fisica, tanto più agisce come un anestetico;
quanto più invece la pena è mite da questo punto di vista, tanto più
costringe ad una assunzione di responsabilità.
Io
ho visto nella mia redazione un detenuto che ha commesso un duplice omicidio per
vendetta: avevano ucciso due persone nella sua famiglia e lui ha girato mezza
Europa finché ha trovato gli assassini e li ha uccisi ed è finito in carcere,
è stato processato, hanno chiesto per lui l’ergastolo, ha avuto una condanna
a trent’anni. Quando io l’ho conosciuto in redazione era già in carcere da
più di dieci anni e ad un certo punto ci ha raccontato la sua esperienza. Per
anni questa persona ha vissuto con l’idea di avere fatto una cosa giusta, non
buona, perché nessuno pensa che uccidere sia una cosa buona, ma giusta sì. Ad
un certo punto ha raccontato agli studenti: “Quando il padre di uno di questi
ragazzi uccisi mi ha fatto sapere che mi aveva perdonato, cioè ha chiuso la
faida, ha davvero spezzato la catena del male. Io lì mi sono sentito crollare
un mondo che mi ero costruito, io lì ho capito che c’era qualcuno che aveva
più coraggio di me, che era stato capace di mostrarsi più uomo di me… perché
spesso dietro la vendetta c’è anche una questione di orgoglio, quindi lui è
stato più uomo di me spezzando questa catena del male”.
Smettiamola
allora di dire che adesso è un momento difficile, che questo tema nella società
non è sentito: all’inizio nei nostri incontri con le scuole è pieno di
ragazzi, di genitori, di insegnanti che pensano che la pena deve essere pesante
e quantitativamente significativa; poi però alla fine, solamente perché sono
passati per un confronto culturale, duro, serio, non ne trovo tantissimi che non
abbiano in qualche modo cambiato questa prospettiva.
Quindi
nessuna battaglia è perduta, per questo dobbiamo smetterla di rimandare le
grandi battaglie ad un momento futuro dove ci sarà un clima meno avvelenato,
non succederà mai se noi questa battaglia non la iniziamo da subito.
Fedor
Dostoevskij, uno dei più grandi scrittori russi, che la vita da galera l’ha
conosciuta per dieci lunghi anni, scriveva più di centocinquant’anni fa, in
“Memorie di una casa morta”: “Ogni uomo, chiunque egli sia e per quanto
avvilito, purtuttavia, anche se istintivamente, anche se inconsapevolmente,
pretende che si rispetti la sua dignità umana. Il detenuto medesimo sa di
essere un detenuto, un reietto, e conosce il suo posto di fronte ai superiori;
ma con nessun marchio, con nessuna catena potrai fargli dimenticare che è un
uomo. E poiché egli è in realtà un uomo, di conseguenza bisogna anche
trattarlo umanamente. Dio mio! Un trattamento UMANO può umanizzare perfino
qualcuno su cui l’immagine di Dio si è da gran tempo offuscata. Appunto
questi “disgraziati” sono da trattare nel modo più umano”.-
(Relazione
al Convegno organizzato a Bologna dalle Camere penali il 12 maggio 2011,
“Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della
persona”)
Quando
i padri costituenti hanno scritto l’articolo 27 della Costituzione, scegliendo
di non rompere per sempre il rapporto fra l’individuo che ha commesso il reato
e il consorzio civile, hanno pensato proprio a chi ha compiuto delitti gravi
di Franco Corleone
Ringrazio
per questa occasione di ragionare insieme a partire da questo volumetto che ho
curato con Stefano Anastasia dell’associazione Antigone. Nel libro trovate un
intervento del professor Fortuna, che è stato allievo di Aldo Moro, sul
dibattito in Assemblea costituente sull’ergastolo e sulla pena; poi vi è un
contributo importante di Alessandro Margara sulla costituzionalità
dell’ergastolo e un esame delle diverse sentenze costituzionali su questo
tema. Poi vi sono interventi dell’avvocato Guido Calvi che ora è componente
del CSM, che sostiene la necessità di tornare alla consulta per affrontare le
difficoltà legate al superamento di questa pena. Ancora, ci sono contributi di
Patrizio Gonnella, di Maria Luisa Boccia, che è stata il punto di riferimento
per quello che qualche anno fa è stato un vero movimento nel carcere da parte
degli ergastolani, e una riproposizione della relazione al Senato di molti anni
fa di Salvatore Senese per l’abolizione dell’ergastolo. Infine, vi è un
saggio teorico di Giuseppe Mosconi dell’Università di Padova.
La
cosa che a me ha intrigato di più costruendo questo volumetto è stata
l’appendice, che è costituita dalle lezioni di Aldo Moro sulla funzione della
pena, sulla pena di morte e sulla pena dell’ergastolo e due riflessioni su
quel testo, una di Mino Martinazzoli e una di Adriano Sofri. Mi pare che non si
possa non partire dall’articolo 27 e da quello che è il senso della pena che
viene indicato dalla nostra Costituzione. La pena non solo deve consistere in un
rifiuto della tortura, ma deve anche prevedere un superamento della funzione di
risarcimento, di pagamento del reato compiuto, e tendere piuttosto al
reinserimento sociale della persona che ha compiuto un delitto.
Io
penso che quando i padri costituenti hanno scritto quell’articolo, scegliendo
di non rompere per sempre il rapporto fra l’individuo che ha commesso il reato
e il consorzio civile, pensassero proprio a chi ha compiuto delitti gravi. Non
credo cioè che un articolo così denso fosse costruito per le persone che
affollano le carceri di oggi, tossicodipendenti, immigrati, poveri e ammalati,
individui che disturbano la quiete delle persone “per bene”, che minacciano
il decoro delle città. Credo che pensare a una norma così pregnante per
persone che in carcere non dovrebbero nemmeno entrare sarebbe stato uno sforzo
eccessivo, quindi penso che questo articolo vale perché deve mettere in gioco
la capacità della società di confrontarsi con le persone che sono in carcere
per avere commesso reati particolarmente gravi.
Ecco,
io partirei da qui, dal fatto che la sfida culturale che noi dobbiamo affrontare
è proprio quella di andare sul terreno delle cose difficili, cose da cui spesso
si rifugge. Ripeto spesso che io mi occupo di carcere non perché sia
particolarmente buono o di animo sensibile, ma perché questi temi ci danno la
misura di come noi siamo di fronte a una giustizia che definirei di classe, cioè
una giustizia che funziona molto bene quando si tratta di colpire i soggetti
deboli, ed altrettanto bene quando bisogna salvaguardare i soggetti forti.
Purtroppo la politica nel nostro Paese utilizza la giustizia come un oggetto
contundente senza un progetto per cambiare le cose che non vanno. Su questi temi
si gioca il livello di civiltà di un Paese; certo i cinici ci potrebbero dire
che le condanne all’ergastolo riguardano piccoli numeri, e quindi è una cosa
trascurabile e si può guardare oltre. La verità è che i numeri delle persone
condannate all’ergastolo, delle persone internate negli OPG e anche nelle case
lavoro, in questi ultimi anni sono aumentati notevolmente. Nel silenzio, questi
contenitori stanno aumentando e il loro significato non è più solo simbolico,
ma anche quantitativo e questo deve essere una spinta a continuare nella nostra
riflessione. Dobbiamo anche fare i conti come l’ipocrisia di chi dice che
l’ergastolo nei fatti non c’è più, perché arrivati ad un certo livello di
esecuzione della pena se si ha un buon comportamento si può godere di una delle
misure premiali, e che dopo 26 anni si può pensare di ottenere la liberazione
condizionale.
Devo
dire che questo non è affatto vero, non era vero prima e ancora di più non lo
è adesso, perché siamo in presenza di una serie di inasprimenti di leggi per
cui l’ergastolo ostativo è diventato sempre più diffuso. Per cui non solo
l’ergastolo esiste, non solo sta aumentando il ricorso a questa pena, ma sta
diventando davvero un ergastolo senza fine, con un reale “fine pena mai”.
Io
penso che di fronte a questo vi è la necessità di una riforma della giustizia,
che non può essere quella di pensare di avere due CSM invece di uno, ma che
deve partire dalla riforma del Codice penale. La repubblica italiana non ha
messo all’ordine del giorno questa priorità, come invece hanno fatto molti
Paesi usciti dalle dittature. Purtroppo ci si è fermati all’elaborazione di
progetti, ricordo quello delle Commissioni Grosso, Nordio, e Pisapia, ma non si
è giunti alla conclusione positiva.
In
questi anni abbiamo assistito ad un incattivimento della società e la cosa più
grave, che deve far riflettere, è che questo incattivimento della società si
è originato da una paura che in certi casi è anche giustificata. Perché c’è
una criminalità non più professionale, un po’ allo sbando, che ha provocato
una paura determinata ad esempio dal non sapere se un furto può precipitare in
qualcosa di peggio. Quindi noi abbiamo una società impaurita e incattivita in
cui l’idea della pena è molto legata a sentimenti primordiali piuttosto che
ad una concezione che abbia un fondamento di civiltà.
Voi
mi insegnate che quando si parla di diritto la parola che l’accompagna sempre
è quella di civiltà, la civiltà del diritto. Noi invece rischiamo di
scivolare nella semplificazione e di creare strumenti che sono quelli della
legge del taglione.
La
pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati
Ora
voglio dire due parole su Aldo Moro, che ormai forse viene evocato solo nelle
celebrazioni per le date per le vittime del terrorismo. Aldo Moro è stato un
uomo potente del partito che ha governato l’Italia per tanti decenni, era la
persona sicuramente più intelligente del suo partito, quindi ha rappresentato
per molti un punto di riferimento e per tanti altri un avversario.
Però
io preparando questo libro, quando ho scoperto le lezioni agli studenti che
aveva tenuto due anni prima che fosse sequestrato, rapito, sottoposto ad un
farsesco processo popolare, senza difesa, senza avvocato e condannato a morte,
(pena infine crudelmente eseguita), sono andato a leggere appunto queste sue
lezioni dove con una chiarezza straordinaria, (altro che linguaggio moroteo!)
con parole di incisiva lingua italiana, si esprime contro la pena di morte, ma
ancora di più contro la pena dell’ergastolo.
Allora
ho pensato: ma perché quando si parla di Moro e delle vittime del terrorismo,
non si leggono queste sue pagine, che permetterebbero di capire qualcosa di più
di lui e dell’ignoranza di chi senza conoscere, ha compiuto ciò che ha
compiuto, contro una persona così sensibile su questi temi? Moro fu anche
Ministro della Giustizia, non credo per lungo tempo, però la cosa più
incredibile che viene ricordata è che si occupava di poche cose, ma molto del
carcere che visitava spesso. Anche come professore universitario, portava i suoi
studenti a visitare le carceri, affittando un pullman. Poi è finito in un
carcere anche lui, definito in maniera offensiva “del popolo”.
Devo
dire che è una parabola assai interessante quella che porta Moro a riflettere
lungo molti anni, dalla Costituente al suo assassinio, sul senso della pena
arrivando nel 1976 a queste posizioni così intransigenti per poi subire la pena
di morte nel 1978.
Quindi
voglio solo leggere due sue righe sul senso della pena: “Non deve essere però
neppure quantitativamente troppo pesante, sì da rappresentare un carico che per
la sua eccessività diventa per se stesso esso pure crudele e disumano, quindi
non dà la pena quella risposta pacata, giusta, appassionata che è propria
della pena”; infine si rivolge ai suoi studenti e afferma: “Ricordatevi che
la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati, è la risposta
calibrata dell’ordinamento giuridico e quindi ha tutta la misura propria degli
interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di
reazione e di vendetta”.
Questo
insistere sul fatto che non deve essere vendetta e non deve essere affidata ai
privati significa anche che il problema del coinvolgimento delle vittime non si
può risolvere in un peso che viene dato per caricarle ulteriormente anche
emotivamente, spingendole spesso a una richiesta di vendetta. La giustizia è
altra cosa, penso che in questi anni si è affrontato questo tema ma credo che
Moro ci dia delle indicazioni molto rigorose e le parole sull’ergastolo sono
moralmente straordinarie.
Dice
Moro: “Il nostro ordinamento conosce ancora la pena dell’ergastolo, anche se
non riconosce più la pena di morte, occorre una riforma che tenda a sostituire
questo fatto agghiacciante della pena perpetua (non finirà mai, finirà con la
tua vita questa pena) una lunga detenzione, lunghissima detenzione può essere
ammissibile ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena
perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di
libertà, questo capite quanto sia psicologicamente crudele e disumano”.
Chiudo
con quest’ultima osservazione che Aldo Moro aveva scritto nel suo primo saggio
giovanile, parlando del rapporto tra il diritto e la libera vita morale, e
diceva “che la più alta forma di libertà è per ciò appunto la liberazione
dal diritto”. Ecco dunque un’affermazione che voi potete capire, molto
azzardata se vogliamo, ma che fa comprendere la complessità di un ragionamento
ricco di suggestioni.
Io
mi fermo qui per dire che noi abbiamo una situazione del carcere che è
terribile: 67-68.000 detenuti, 80-90.000 ingressi all’anno. I dati del
Ministero dell’Interno dicono che nel 2010 sono state segnalate all’autorità
giudiziaria per violazione della legge sulla droga, 39.000 persone e di queste
sono entrate in carcere 30.000, che rappresentano un terzo degli ingressi in
galera, una realtà brutale con cui dobbiamo fare i conti.
Nel
1998 il Senato della Repubblica approvò l’abolizione dell’ergastolo. Io
credo che oggi, se si rivotasse nel Parlamento italiano questa riforma, i voti
favorevoli all’abrogazione sarebbero veramente pochi; questo vuol dire che
dobbiamo avere la consapevolezza che stiamo lavorando in un deserto, lo stiamo
attraversando tutto e dobbiamo cercare di uscire dalle sabbie mobili, o non
mobili, ma comunque molto estese.-
(Relazione
al Convegno organizzato a Bologna dalle Camere penali il 12 maggio 2011,
“Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della
persona”)
Ogni
giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è fuori
I
miei figli in tutti questi anni hanno rappresentato la mia ancora di salvezza,
la mia forza interiore per affrontare una vita che vita non è, perché
l’ergastolo ti fa morire dentro un poco ogni giorno
di Giovanni Prinari
Ergastolo
= fine pena: mai
Ergastolo
= fine pena: 31/12/9999
Ergastolo
= fine pena: morte biologica
Mi
chiamo Giovanni Prinari e sono di Lecce. Ho 48 anni e da diciotto sono detenuto.
Ho una condanna definitiva all’ergastolo perché ritenuto responsabile di
concorso in alcuni omicidi.
Tengo
a precisare che in vita mia non sono mai stato condannato per reati di natura
associativa mafiosa, né contraddistinti da tale finalità perché non ho mai
fatto parte di un’associazione. Su questo fa fede non la mia parola, ma il mio
certificato parziale del casellario giudiziale.
Eppure
da 18 anni sono ristretto ininterrottamente e, per di più, in una sezione di
Alta Sicurezza (A.S.). In realtà credo che dovrei essere in una sezione di
Media Sicurezza (Comune), secondo quanto stabilito dalla Legge penitenziaria
riguardo ai miei reati.
L’essere
in una sezione di Alta Sicurezza preclude tutta una serie di opportunità in
tema di trattamento penitenziario. Una tra le più importanti è quella di poter
essere detenuto nella propria città o regione, e quindi vicino alla propria
famiglia.
Essere
trasferiti nel circuito penitenziario non rispondente ai reati che si stanno
scontando, crea una sofferenza nella sofferenza. Perché se la privazione della
libertà trova la sua giustificazione nella sentenza di condanna definitiva, la
privazione degli affetti non è stabilita da nessuna sentenza.
In
questo numero della vostra rivista il tema è l’ergastolo e riportare quello
che viene scritto sulla posizione giuridica dii chi ha una condanna del genere
(ovviamente la terza definizione, fine pena: morte biologica, è per me sinonimo
delle prime due che sono quelle ufficiali), deve far riflettere chi si affatica
tanto a parlare di questo tema senza averne cognizione.
Spesso
si sente dire, in televisione e sui giornali, che l’ergastolo non esiste, che
l’ergastolo è virtuale, che l’ergastolo non lo sconta nessuno, che
l’ergastolo non è effettivo.
Pagare
per i propri errori è giusto e sacrosanto. Pagare un surplus non lo è più.
Quel surplus è gli affetti. Quei rapporti con la famiglia che s’interrompono,
che il tempo e la distanza sgretolano, affievoliscono, inaridiscono e non solo.
Il cuore diventa un pezzo di ghiaccio, ma il dialogo stesso si interrompe perché
ogni giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è
fuori.
Già
è difficile e dura mantenere vivo l’affetto attraverso i colloqui settimanali
quando si è detenuti nella propria città, se solo si pensa che sei ore mensili
corrispondono a un quarto di un giorno e per gli altri 29 e tre quarti del mese
non puoi avere i tuoi cari vicino. Ma puoi non vederli per mesi o anni interi,
come succede a me: il periodo più lungo senza poter fare un colloquio è stato
di diciotto mesi. Fino a quando sono stato detenuto a Lecce per motivi di
giustizia e, successivamente, grazie alla Direzione dei Detenuti e del
trattamento del DAP, per motivi di studio ho potuto veder crescere i miei due
figli cercando di fargli sentire quanto più possibile la mia presenza,
consapevole dei miei errori e del dolore che gli avevo procurato e gli stavo
procurando e che, ancora oggi, gli procura questa mia condizione.
Vederli
tutte le settimane, poterli toccare, accarezzare, stringerli forte tra le
braccia, dargli dei baci, tenergli le mani era come fare il carico di ossigeno,
sia per me sia per loro. Era un farsi forza reciprocamente, un non voler perdere
la speranza che un giorno sarebbe stato diverso, che ci sarebbe stato un futuro
un tantino migliore, che… non è facile per chi ha l’ergastolo sperare che
tutto ciò si possa realizzare.
Oggi
i miei figli sono grandi. Il maschio, Manuel, ha 24 anni. La femmina, Veronica,
ne ha 28.
Loro
in tutti questi anni hanno rappresentato la mia ancora di salvezza, la mia forza
interiore per affrontare una vita che vita non è, perché l’ergastolo ti fa
morire dentro un poco ogni giorno e non solo per il peso della condanna in sé
che si porta via il tempo, e quello che ti lascia è sempre meno, ma per quelli
che sono i rimorsi che uno si porta dentro per tutto il male che ha fatto.
Ma
un detenuto è destinato a perdere anche la famiglia e gli affetti, oltre alla
libertà?
Oggi
mi ritrovo ad essere nonno di due nipotini bellissimi, figli di mia figlia,
Marco di tre anni ed Andrea di uno. Dalla prima gravidanza non ho avuto la
possibilità di vedere mia figlia, perché per tutti e nove i mesi la sua
gravidanza è stata a rischio.
Non
ho potuto condividere con lei quella gioia né quello stato di grazia, che
solitamente ha una donna quando è in attesa di una nuova vita nel suo grembo.
Questa è stata una sofferenza durissima per tutti e due. Durante la seconda
gravidanza, malgrado anche questa fosse a rischio, lei ha deciso di venire a
farsi vedere. Era di appena 4 mesi, ma era radiosa, ed è stata un’emozione
indescrivibile poterle posare la mano sul grembo. Da cinque anni e mezzo sono
detenuto nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta perché sono stato
mandato via da Lecce a seguito di una rissa avvenuta tra detenuti dove io non
c’entravo nulla. Ma come si suol dire, posto sbagliato al momento sbagliato.
Il
fatto che non fossi responsabile di quell’episodio l’ha stabilito il
Tribunale di Sorveglianza di Napoli a seguito di un mio reclamo.
Da
quando sono a Carinola avrò fatto si e no dieci colloqui circa.
Il
mio nipotino Marco l’ho visto quattro o cinque volte. Andrea, invece, solo una
volta. Ovviamente, non avendo incontri frequenti, Marco in quelle poche volte
piangeva perché non sapeva chi ero e voleva andare via, ho fatto molte volte
istanza al DAP chiedendo un trasferimento a Lecce, oppure un avvicinamento per
colloqui. Mi sono state sempre rigettate per motivi di sicurezza e perché
appartengo alla mafia pugliese. Ovviamente per la sicurezza presumo sia dovuto
al fatto di essere in una sezione di A.S., anche se lo ero pure a Lecce, mentre
ritengo che vi è stata confusione nel dire che appartengo alla mafia pugliese,
considerato che non sono mai stato condannato per un simile reato.
Tramite
l’avvocato ho chiesto la declassificazione, ma attendo la risposta definitiva,
visto che ad aprile 2010 il DAP mi ha risposto che è in corso una verifica
sulla mia posizione giuridica.
È
chiaro che la mia speranza più grande sarebbe quella di poter tornare a Lecce e
vivermi i miei nipotini come mi sono potuto vivere i miei figli. Tuttavia ho
presentato l’istanza per venire li a Padova, dal momento che ho mia sorella
che vi risiede, così avrei un famigliare con cui fare i colloqui. Inoltre i
miei figli, i miei nipotini e mia madre, venendo con il treno, avrebbero un
posto dove stare e fare diversi colloqui.
Non
è facile per una famiglia che vive di uno stipendio esiguo e con due figli,
spendere dei soldi per venire al colloquio. Né può farlo mia madre che è
anziana, sofferente e vive di pensione minima.
Si
parla molto, tanto, del rapporto detenuto - famiglia. L’Amministrazione
Penitenziaria su questo è sempre stata molto attenta in passato, ma oggi non
riesce a dare una risposta alla domanda: se un detenuto non può mantenere quei
rapporti, è destinato a perdere anche la famiglia e gli affetti oltre alla
libertà?
Venire
a Padova mi darebbe anche la possibilità di entrare nella vostra redazione di
Ristretti, considerato che sono in contatto con voi dal 2006 e che apprezzo e
condivido tutto il lavoro che fate. Avrei anche l’opportunità di riprendere
gli studi universitari in giurisprudenza, visto che c’è il polo universitario
e inserirmi nell’ambito lavorativo per aiutare economicamente i miei figli e
sostenere me stesso. Sarebbe per me una grande opportunità.
Da
ultimo vorrei dire una cosa: ho maturato 25 anni di pena, tra i 18
effettivamente scontati e 4 di liberazione anticipata e 3 di indulto. Beh! Non
ho mai avuto un permesso premio. Se qualcuno osa ancora avere dei dubbi circa
l’effettività dell’ergastolo o della certezza della pena, credo che il
dubbio potrà toglierselo.
Grazie
per avermi concesso questo spazio e per avermi letto.
Condannato
all’ergastolo, ma fare il padre è un suo diritto
“Ho
due figli, ma non mi sono ancora sposata per aspettare che ci sia papà a
portarmi all’altare”
di Veronica Prinari
Mi
chiamo Veronica Prinari, ho 27 anni e sono di Lecce. Sono figlia di Giovanni
Prinari, detenuto dal 5 gennaio 1993. Ho due bambini piccoli, Marco di poco più
di tre anni, ed Andrea di un anno, li ho appena messi a letto e ne approfitto
per scrivere.
È
giusto che chi sbaglia deve pagare, ma non tutti i detenuti sono uguali. C’è
anche la gente come mio padre che sta scontando la sua pena in modo
ineccepibile, studiando, lavorando, non avendo in 18 anni di detenzione un
rapporto disciplinare, nulla a suo sfavore; anzi ha tutte le relazioni positive,
studia Legge ma non gli viene data la possibilità di frequentare l’Università.
A quest’ora avrebbe già preso 100 lauree. È a Carinola dal 2005 e da quando
è arrivato li è un inferno, la sua vita e anche la nostra. Facciamo colloquio
una volta all’anno, massimo due. Adesso l’ultima volta sono andata il 6
aprile 2010 per fargli conoscere il mio secondo figlio e poi basta. Non so più
se e quando potrò andare.
Ho
avuto due gravidanze a rischio e con l’avvocato abbiamo presentato varie
istanze di avvicinamento ai colloqui, ma come sempre siamo stati ignorati.
Abbiamo chiesto la declassificazione, sono passati mesi e mesi ormai, ma di
risposte neanche l’ombra.
Abbiamo
chiesto il trasferimento a Padova, se proprio a Lecce non fosse possibile, di
modo che, essendoci lì mia zia, sorella di mio padre, potrei essere ospitata da
lei ogni tanto per fare qualche colloquio consecutivo.
Ma
mi dite che rapporto c’è fra me e mio padre, che ci vediamo una volta
all’anno?
È
vero, ci scriviamo tutte le settimane e ci sentiamo al telefono, ma quei dieci
minuti lasciano dopo un sapore così amaro in bocca, a volte cade la linea e non
faccio neanche in tempo a dirgli quanto lo amo, e aspetto le telefonate
successive come l’aria che respiro, perché per me mio padre è l’aria che
respiro, nonostante mi abbia provocato tante sofferenze.
Oggi
sono madre e si dice che una donna, a questo punto, è completa. Ma io non mi
sento così perché mi è sempre mancato qualcosa, una parte di me, e nessuno
potrà mai restituirmi gli anni della mia infanzia e poi dell’adolescenza
senza mio padre.
Quando
papà era a Lecce era tutto più bello, poterlo vedere e tenergli la mano,
oppure stringerlo ed abbracciarlo per tutto il colloquio, e questo mi riempiva
di gioia. 18 anni sono lunghi, però sono passati ormai. Ma quante lacrime ho
versato e anche adesso, mentre scrivo, scendono da sole e non riesco a
controllarle.
Vorrei
tanto poter dare adesso ai miei figli l’opportunità di conoscere il nonno, ma
mi viene negato pure questo.
Poi
penso anche che non fa niente se non è possibile un avvicinamento, sarei felice
lo stesso se lui andasse a Padova dove potrebbe avere l’opportunità di
studiare, lavorare presso la rivista Ristretti Orizzonti, e al Call-center che
c’è all’interno del carcere.
Io
vorrei che mio padre avesse l’opportunità di scontare la sua pena con dignità,
essendo trattato con rispetto e non subendo continue ingiustizie. Io trovo che
sia un’ingiustizia anche il fatto che, se mio padre riceve telefonate una
volta al mese da parte di mio fratello, (che purtroppo è detenuto da pochi mesi
a Lecce), in automatico non può effettuare le sue telefonate a me figlia. E io
e la nonna stiamo ore ad aspettare questa telefonata che non arriva mai.
La
nonna ormai, la mamma di papà, sì, ha 70 anni, il dolore che ha per questo
figlio la consuma nell’anima ogni giorno di più. Poi vede anche tante
ingiustizie ed è peggio, perché già non facciamo colloqui, ci tolgono pure le
telefonate per me senza motivo.
Come
può un uomo reinserirsi in società se non ha il buon esempio da chi lo tiene
in custodia?
Mio
padre chiede solo i suoi diritti di essere umano prima di tutto e poi di
detenuto, io spesso lo sgrido, gli dico anche di subire, di lasciar perdere, di
non denunciare per evitare che tutto gli si giri contro, ma lui a volte mi dà
retta ed altre volte invece mi risponde che se lasci sempre perdere ti mettono
sotto i piedi, e ha ragione.
Parto
sempre dal presupposto che chi sbaglia deve pagare, ma i detenuti sono comunque
persone e non bestie. Dovrebbero essere trattati con dignità e rispetto,
dovrebbero fare un percorso di rieducazione e di reinserimento sociale.
Questo
è l’altro punto sul quale si predica bene e spesso si razzola male. Ma come
può un uomo rieducarsi e reinserirsi in società se non ha il buon esempio da
chi lo tiene in custodia? Se a volte sbagliano e infrangono le regole le
“divise” stesse, come e cosa si può pretendere di insegnare a queste
persone?
Ultimamente
non sto molto bene neanche in salute, il dottore mi ha detto che ho un inizio di
forte depressione, ed io ho due figli piccoli e non me lo posso permettere. Non
deve succedere! Vorrei allora che mio padre fosse avvicinato a Lecce, o mandato
a Padova o da qualsiasi altra parte purché lontano da Carinola. Vorrei la
serenità di saperlo felice, o meglio un po’ sereno, tranquillo. Non sto
chiedendo che venga liberato, non mi azzardo a chiedere neanche che gli venga
dato un permesso (per cui comunque già sarebbe nei termini a conti fatti e tra
l’altro i suoi coimputati con gli stessi reati escono in permesso già da
alcuni anni). Ma spero che prima o poi potrà iniziare ad uscire anche lui, così
potrei sposarmi, visto che non l’ho fatto per aspettare che ci sia papà a
portarmi all’altare.
Non
credo che è entrato a 29 anni e me lo faranno uscire con la bara da lì
dentro!?! Almeno lo spero!
Io,
che ho già scontato più di trent’anni di galera e so bene cosa vuol dire
stare rinchiusi senza vedere uno spiraglio per tornare a vivere, penso che la
pena dell’ergastolo vada abolita perché non permette di fare nessun progetto
di vita
di Maurizio Bertani
La
cartella personale di un detenuto che si trova in carcere condannato
all’ergastolo porta scritto “Fine pena mai”, quindi stiamo parlando di una
vera e propria morte civile, una morte che toglie alle persone condannate
all’ergastolo ogni sorta di capacità di fare progetti, ogni sorta di
desiderio di riscatto e di riappacificazione, non con se stessi, cosa che credo
non avverrà mai, ma con la società, proprio perché la parola ergastolo e la
condizione di ergastolano ti relegano ai confini di una vita che non è e non può
più essere vita.
Non
è facile parlare di ergastolo, perché dietro la richiesta di un ergastolo, da
parte di un giudice, c’è sempre comunque un delitto irreparabile come la
morte di una persona. Con la sofferenza infinita di chi quella persona amava,
madre, padre, marito, moglie, figli e tutti coloro che la conoscevano
direttamente, insomma, una perdita che crea fratture, dolori, paure e
smarrimento. Quindi è comprensibile che all’interno di questo dolore ci sia
un desiderio di vendetta, desiderio che la nostra società, che a parole ripudia
la pena di morte, accetta, accentua e condivide, mantenendo in vita una pena di
morte sociale che nulla ha da invidiare alla morte fisica e nulla a che vedere
con il senso di giustizia.
Riesco
ad accettare la rabbia e il dolore dei famigliari delle vittime, come riesco ad
accettare il loro sentimento di vendetta. Perché non so quale potrebbe essere
la mia reazione di fronte ad una così immane tragedia. Ma non riesco ad
accettare questo da parte della società, perché l’identificarsi con le
vittime è facile, tutti ci sentiamo potenziali vittime, nessuno riesce a
identificarsi come possibile carnefice, e invece può succedere a tutti di
ritrovarsi o ritrovare un proprio famigliare in carcere con una imputazione per
reati gravissimi che distrugge la propria esistenza e l’esistenza di
un’altra famiglia.
Molti
giudici ritengono che il mantenimento della pena dell’ergastolo abbia valore
come deterrente per la commissione di gravi reati, alcuni affermano che lo
spauracchio dell’ergastolo, specialmente nei reati associativi di mafia,
ndrangheta, camorra, spinga molti ad intrattenere un rapporto di
“pentimento” con le autorità giudiziarie. Ma accettando questo rapporto di
convenienza, si rischia di calpestare i diritti delle vittime per mero
opportunismo giudiziario. Così che un autore di vari omicidi si ritrova a
scontare pene miti con il beneplacito sociale, purché permetta l’arresto dei
suoi correi. Non sono molto credente quindi non credo in Dio e neppure nel suo
antagonista, ma se esistessero credo che questo sia proprio un patto con il
diavolo.
Conoscendo
la galera e le persone che ci finiscono temo che per ora nessuna società possa
fare a meno del carcere come istituzione, per coloro che rompono il patto
sociale, commettendo reati. Soprattutto reati gravi. Un luogo però in cui la
società e le istituzioni dovrebbero lottare per far sì che le persone
rinchiuse raggiungano una consapevolezza e una responsabilizzazione vera, che
poi sarebbe una forma di reale retribuzione alle vittime che hanno subito un
danno, ma anche alla società, e che vengano reinserite nel contesto sociale con
gli strumenti idonei ad assumersi la responsabilità di una convivenza civile.
Convivenza civile che non hanno saputo rispettare nel momento della commissione
del reato stesso.
Questa
credo che sia la funzione del carcere, sancita dall’Articolo 27 della nostra
Costituzione, che vale sempre la pena di ricordare: “La responsabilità penale
è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna
definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la
pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.
Allora
se si toglie il principio di umanizzazione della pena e di recupero del soggetto
detenuto condannandolo alla pena dell’ergastolo, quindi del fine pena mai, in
tanti crediamo che questo vada contro il dettato costituzionale.
Vero
è che varie sentenze della Corte costituzionale dichiarano legittima
l’applicazione dell’ergastolo in virtù del fatto che ogni ergastolano ha
diritto a richiedere la sospensione condizionale della pena dopo 26 anni di
carcere, quindi non sarebbe incompatibile l’applicazione dell’ergastolo con
l’articolo 27 della Costituzione.
Ci
si dimentica poi di dire che in Italia le richieste di concessione della
liberazione condizionale, che vengono inoltrate ai vari tribunali di
Sorveglianza, vengono accolte per il 3 per cento circa, e spesso viene messo in
gioco, nella valutazione per tale concessione, anche il parere o il perdono da
parte delle vittime. Ancora una volta riscontriamo allora che l’ergastolo è
molto più vicino alla morte civile di quanto si possa pensare.
Sono
convinto che le vittime abbiano bisogno di sentirsi attorno una società che gli
crei uno scudo di protezione e di autentico calore umano dentro le proprie
sofferenze, in modo da non sentirsi sole nel loro dolore, ma soprattutto
abbandonate a coltivare quell’odio che è quasi fisiologico. Questo credo sia
un compito civile e umano che ci si deve aspettare da parte di una società nei
confronti di un proprio componente, così come i famigliari del carnefici non
devono sentirsi additati e umiliati per colpe che non hanno. E questo credo che
renderebbe una società migliore e più umana.
Allora
io, che ho già scontato più di trent’anni di galera e so bene cosa vuol dire
stare rinchiusi senza vedere uno spiraglio per tornare a vivere, penso che la
pena dell’ergastolo vada abolita perché non lascia progettualità per il
futuro ed è una autentica morte civile. Come sono convinto che bisogna che
questa società la smetta di chiedere vendetta e di coltivare odio su odio. Ma
lotti per far si che ogni suo componente, che si perde nell’irresponsabilità
della commissione di un reato, trovi nella pena la possibilità di ricostruire
la sua responsabilità sociale. E tutti si dovrebbero attivare per controllare
che questo percorso all’interno delle nostre carceri venga veramente
effettuato.
Rinchiudere
un componente di questa società in carcere e chiedere di buttare la chiave non
ha un senso sociale, ma neppure pratico, perché le pene finiscono, a volte
anche l’ergastolo può finire, e sarebbe molto rischioso non fare nessun
tentativo per riportare chi ha scontato una pena, anche la più lunga e la più
pesante, a far parte della società a pieno titolo.
E
se mi avessero condannato all’ergastolo?
Il
“congelamento” di una persona in un magazzino “disumano” come sono oggi
le carceri è rassicurante per la società, che oggi ha sempre meno voglia di
fermarsi a riflettere
di Ulderico Galassini
Sono
ormai tre anni e mezzo che mi trovo in stato di detenzione, il “mondo
oscuro” del carcere si è aperto per me dopo un lungo passaggio in due
ospedali.
È
stato l’epilogo e la conseguenza di un atto a dir poco incredibile che ha
interessato e stravolto il mio nucleo familiare; distrutto tutto ciò in cui ho
creduto e che era il fondamento dell’educazione che avevo ricevuto e
l’obiettivo della mia e della nostra vita, di tutta la mia famiglia.
Tragicamente invece di vita ne ho tolta una e ho troncato così ogni futura
speranza e sogno che mia moglie condivideva con me. Di vita ho cercato di
distruggere anche la mia, ma non ci sono riuscito, e sono qui. Tutto questo mi
ha allontanato fisicamente anche da mio figlio, nel senso che non sono più
presente materialmente al suo fianco e sto perdendo tutto lo sviluppo della sua
vita. Lui non ha più l’assistenza dell’unico famigliare diretto che gli è
rimasto e soprattutto non potrà più pronunciare quella magica, dolce parola,
“mamma”.
Rimangono,
e posso ancora dirmi fortunato, dei brevi contatti telefonici, qualche colloquio
e qualche lettera.
Preso
coscienza di tutto ciò, l’unico cammino che per alcuni anni mi rimane è la
vita in carcere, luogo che non ho mai pensato potesse far parte del mio percorso
di vita.
Con
il molto tempo che mi rimane per riflettere, cercare di capire il perché io sia
arrivato a quell’agire, il reato più grave che un uomo possa compiere, spesso
ripercorro la mia “carriera” di detenuto. Al mio risveglio in sala
rianimazione non ho pensato minimamente al fatto che il mio atto avrebbe
comportato ciò che ora sto vivendo, ma ho solo cercato di dichiarare la mia
inqualificabile azione, “Ho distrutto la mia famiglia”, scrivendo questa
frase su un pezzo di carta, sorretto dai medici, in quanto per i danni che mi
sono procurato non potevo parlare.
Il
pensiero è andato subito ad Alessandra, mia moglie, in quanto non conoscevo
l’esito della mia azione, e ad Andrea, mio figlio, che sapevo essere
seriamente ferito.
Riacquistata
la capacità di parola ed in occasione degli incontri con il Pubblico Ministero,
periti, medici ed il mio avvocato, non ho mai chiesto: quanto carcere devo fare?
Il pensiero esclusivo era mio figlio e, subito dopo, parenti, amici e
conoscenti. Non avevo mai avuto a che fare con tribunali e avvocati,
quantificazioni di pene, non ho neppure pensato a consultare codici penali, ho
solo atteso le diverse fasi processuali. Ho accettato il rito abbreviato in
quanto mi è stato spiegato che mi avrebbe ridotto la pena e quindi meno tempo
di lontananza dai miei restanti affetti.
In
seguito, in attesa del primo processo ho cercato di capire cosa era il rito
abbreviato e soprattutto volevo evitare che mio figlio, già stanco di
interrogatori, fosse ulteriormente assalito e tormentato dal ripetere risposte
già date, rivivendo così il dramma subito e ripercorrendo ancora e ancora
quelle tragiche immagini.
Qualcuno,
dentro il carcere, mi ha detto: sei stato fortunato perché non ti hanno dato
l’ergastolo!
Da
qui, da questa mia “fortuna” vengono le riflessioni su tale pena, quali
effetti possa determinare nel soggetto che ne deve subire le conseguenze e quale
vantaggio ne trae il resto della società.
Certo
il “congelamento” di una persona in un magazzino “disumano” è
rassicurante per la società, a cui, senza alcun diritto, ho tolto una valida
persona – mia moglie Alessandra – con la quale ho vissuto per 35 anni, tra
fidanzamento e matrimonio, una vita insieme che, se fosse possibile, rifarei
subito, cancellando dal calendario il 27 maggio 2007.
Ma
cosa insegna l’ergastolo, quali effetti ha su chi lo riceve come pena?
Mi
sono domandato allora, immaginando di essere stato condannato all’ergastolo,
se davvero l’ergastolano riesca ad essere ancora una persona che può e potrà
rendersi utile alla società e a se stesso, con un percorso graduale di
reinserimento, certo dopo un giusto numero di anni di detenzione e dopo una
adeguata rieducazione. Ma la rieducazione, che qualcuno definisce meglio
“risocializzazione”, però in questi ultimi anni, nelle carceri italiane, a
causa del sovraffollamento, non è purtroppo neppure pensabile che venga
attuata. Non esistono i presupposti, il personale è inadeguato numericamente
per gestire tutte le attività per il reinserimento, il comparto amministrativo
è sovraccaricato, stessa cosa dicasi degli agenti penitenziari, gli stessi
magistrati sono sommersi dall’enorme lavoro necessario per arrivare a prendere
le giuste decisioni che riguardano i detenuti, che attendono risposta alle varie
istanze presentate. Tutto questo si traduce nel mancato rispetto dei diritti che
comunque sono previsti anche per quelli che sono chiamati “gli ultimi”. Lo
Stato si trova ad essere a sua volta fuorilegge, non rispettoso delle Leggi, le
stesse che si utilizzano per condannare il reo.
Penso
sia giusto che chi ha commesso reati che comportano l’ergastolo debba essere
seguito da personale specializzato, per analizzare ogni singolo caso e aiutare a
capire perché una persona possa arrivare a sopprimerne un’altra, confrontare
ogni situazione per trovare i “virus” che hanno armato la mente di chi ha
agito come se fosse una “bestia”, capire quali siano anche i fattori della
vita che possono aver determinato certi fatti.
Ma
la società di oggi ho come l’impressione che non abbia tempo per questo.
Gli
obiettivi sono altri, ritenuti più importanti rispetto al dedicare più tempo
alle persone, e a far capire il rischio che c’è nel vivere la vita in modo
frenetico, trascurando le basi per una convivenza comune. E così ci troviamo a
vivere in una società sempre meno sana e sempre più stressata, guastata anche
dai modelli proposti dai media, quegli stessi che poi ti processano quando
commetti reati, sostituendosi anche ai giudici.
Mi
viene da dire allora: fermiamoci un po’ a ripensare ad una società diversa,
dove le persone siano messe in grado di chiedere e ricevere aiuto.
Non
ti fucilo, ma ti faccio morire lentamente
Già
una pena che ti fa trascorrere più di dieci anni effettivi in carcere, è più
che sufficiente per distruggere qualunque persona e famiglia
di Milan Grgic
Leggendo
le reazioni alla condanna di Michele Fusaro, il falegname di Bassano del Grappa
che nel 2007 sequestrò ed uccise Iole Tassitani, figlia di un notaio di
Castelfranco Veneto, pare in un tentativo di estorcere soldi alla sua famiglia,
da detenuto vorrei dire la mia opinione. Sono d’accordo che in Italia ci sia
la libertà di pensare e di dire quello che si vuole, però questo non può
essere un pretesto per dire qualunque falsità, specialmente sulla giustizia, se
non si conosce bene la materia. Un’altra cosa che penso è che non esiste la
giustizia che può accontentare entrambe le parti in un processo, se succede è
una rarità, allora cosa si fa? si cerca un equilibrato compromesso. Io capisco
il dolore dei genitori di Iole, sono padre anch’io, e proprio pensando a come
la prenderei se fosse successo a me quello che è successo a loro, dico solo una
cosa, che non lo auguro a nessun genitore. Penso però che molti non sappiano
che differenza c’è tra 30 anni e l’ergastolo: morire fucilato di colpo è
diverso che morire passando gli anni nell’attesa di una morte lenta, con poca
speranza di riprendersi una vita normale.
Secondo
me bisogna ragionare in altro modo, capire che il legislatore non può cambiare
la legge ogni volta che qualcuno non è d’accordo con la pena inflitta a un
soggetto, in questo modo si perderebbero la funzionalità e il senso della pena.
Bisogna invece che tutti si chiedano che ruolo e quale effetto ha la pena, se si
vuole recuperare la persona (darle una seconda chance) o si vuole eliminarla
fisicamente. Nella seconda ipotesi si deve ripristinare la pena di morte, se no,
si deve accettare una sentenza che è stata emessa, che piaccia o no, comunque
è stata emessa da giudici che conoscono meglio di chiunque altro il Codice; in
ogni caso, sarebbe meglio lasciare a ogni professione di fare il suo mestiere.
Dalla
mia esperienza personale dico che già una pena che ti fa trascorrere più di
dieci anni effettivi in carcere è più che sufficiente per distruggere
qualunque persona e famiglia, e lascia poco spazio e tempo per il recupero.
Questo lo dico non per chiedere una particolare benevolenza o qualcosa
d’altro, ma perché sia chiaro che, affinché avvengano gli effetti previsti
dalla Costituzione, ci vogliono le condizioni. In molti Paesi europei la
condanna all’ergastolo significa trascorrere in media 15 anni di carcerazione
e nessuno sgrida i giudici o grida allo scandalo sostenendo che “dopo solo 15
anni è già fuori!”.
La
pena di 30 anni inflitta a Fusaro lo farà stare dentro più di 15 anni, perché
la sua condanna è accompagnata dalle aggravanti che lo obbligano a fare minimo
due terzi della pena. Tante persone che non conoscono il sistema di applicazione
della pena danno per scontato che un individuo condannato al carcere avrà tutto
quello che prevede la legge, in realtà tutto è discrezionale e dipende da una
serie di pareri, dell’équipe trattamentale, del direttore del carcere e del
magistrato di Sorveglianza.
“Fine pena mai”, la morte per logoramento
Un
ergastolano nei termini per le misure che fa i conti con le difficoltà concrete
Quando
uno viene condannato all’ergastolo, la cosa che gli viene in mente è di farla
finita subito. Se non lo fa è perché nutre una pur remota speranza di riuscire
un lontano giorno a ritornare libero
testimonianza raccolta da Antonio Floris
Sono
un ergastolano e sono dentro da ormai 19 anni. Tralascio di dire il perché mi
è stata inflitta questa condanna e se sia meritata o meno, ma voglio
semplicemente fare alcune considerazioni su come ci si può sentire con una
condanna simile addosso.
Quando
uno viene condannato alla pena dell’ergastolo sulla sentenza viene scritto
“Fine pena mai” il che significa che uno può uscire dal carcere solo dopo
morto. Se questa regola fosse rigida equivarrebbe a una condanna a morte, solo
che al posto di essere inflitta per sedia elettrica o per iniezione di veleno si
infligge per logoramento continuo, con la differenza che al posto di una
sofferenza breve ne viene somministrata una lunghissima e più crudele.
Nella
realtà però non tutti gli ergastolani escono dal carcere solo dopo morti.
Poiché il principio del fine pena mai stride con la Costituzione, la quale dice
che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, si sono trovate
alcune “scappatoie” per far in modo che qualche ergastolano possa uscire dal
carcere ancora vivo.
Le
“scappatoie” previste sono quella della liberazione condizionale, dei
permessi premio e della semilibertà. In sostanza, qualche volta e non sempre,
l’ergastolano, dopo aver scontato almeno 26 anni di pena, può essere rimesso
in libertà (in libertà condizionale si intende, non libero del tutto).
Da
tenere ben presente che la liberazione condizionale non può essere concessa
quando l’ergastolo è stato inflitto per reati commessi in contesti di
associazioni mafiose, terroristiche o eversive.
La
condizione per essere rimesso in libertà è che il soggetto non sia più
pericoloso e che durante la detenzione abbia tenuto un comportamento tale da far
ritenere sicuro il suo ravvedimento. Il che vale a dire che se i magistrati di
Sorveglianza ritengono che la persona è ancora pericolosa, gli anni necessari
per rimettere piede fuori invece che 26 possono essere 28, 30, 35… o fino a
che uno non muore.
Inoltre,
all’ergastolano che ha tenuto buon comportamento e che non è più socialmente
pericoloso, dopo almeno 10 anni di pena espiata possono essere concessi dei
permessi premio, e dopo almeno 20 anni di pena espiata può essere concessa la
semilibertà.
Quando
uno viene condannato all’ergastolo e vede scritto sulla sentenza “fine pena
mai” e cioè morte per logoramento, la cosa che gli viene in mente è di farla
finita subito. Se non lo fa è perché nutre una pur remota speranza di riuscire
un lontano giorno a ritornare libero attraverso queste, diciamo, scappatoie.
Il
giorno che la mia condanna all’ergastolo è andata definitiva io avrei
preferito che mi avessero detto che ero stato condannato a morte. All’inizio
ho passato dei mesi e degli anni bruttissimi e devo ringraziare la mia famiglia,
gli amici e i compagni di pena per avermi sostenuto e dato la forza di andare
avanti. Così, dopo 15 anni di carcerazione ininterrotta, nei quali ho tenuto un
comportamento esemplare, ho avuto finalmente un permesso premio.
L’impatto
con il mondo esterno è stato tremendo. Ero come un pesce fuor d’acqua, avevo
paura di tutto, degli spazi aperti, della gente, delle macchine, persino delle
biciclette, che mi venivano addosso perché camminavo sulle piste ciclabili
senza sapere che lì non si poteva camminare. Non avendo mai visto l’euro,
ogni volta che dovevo acquistare qualcosa mi trovavo in imbarazzo. Per dirne
una, se andavo dal tabaccaio per comprare le sigarette dovevo aspettare di
vedere qualcun altro come faceva.
Ancora
oggi, dopo sei permessi ho la fobia degli spazi aperti. Appena arrivo a casa
preferisco chiudermi dentro e non uscire, per paura della gente e del mondo in
generale.
In
tutti questi anni di detenzione la mia famiglia mi ha sempre seguito, ma mentre
io stavo dentro non mi rendevo conto se i nostri rapporti abituali erano
cambiati o no, nel senso che prima io rivestivo all’interno della famiglia un
certo ruolo. In pratica io ero quello che pensava al loro sostentamento. Ero il
capo famiglia insomma. Ora mi rendo conto che non è più così. A me cercano di
non farmelo pesare ma io mi rendo conto che non sono più tenuto nella stessa
considerazione di prima; talvolta ho l’impressione di essere considerato come
un estraneo.
Fra
poco io sarò nei termini per chiedere la semilibertà, ma c’è bisogno di una
richiesta di lavoro, e chi è che può prendere a lavorare un ergastolano? Anche
ammettendo che questo lavoro lo trovassi si tratterebbe di una sistemazione
precaria nella quale sono insiti tanti rischi. Per fare un esempio, basta un
piccolo alterco con qualcuno perché la misura venga revocata, e la stessa cosa
si può dire se dovesse succedere qualche ritardo nel rientrare in carcere.
La
Costituzione dice che la pena deve tendere al reinserimento, ma dopo 26 anni di
pena (se tutto va bene) che reinserimento ci può essere? Che futuro può avere
un ex ergastolano? Dopo aver fatto tanti anni di pena lontano dal mondo, quando
esce fuori si trova ad avere un’età in cui non può neanche svolgere attività
lavorative. Si trova solo e abbandonato da tutti, anche dai suoi stessi
familiari per i quali è un peso più che altro.
In
conclusione che differenza c’è tra la condanna all’ergastolo e la condanna
alla pena di morte? Forse è meglio quest’ultima perché così soffre di meno
lui e soffre di meno anche la sua famiglia, perché tutte le condanne non
vengono espiate solo dal reo, ma anche dai suoi familiari.
Dopo
la condanna, mi sarei tolto la vita se non fosse per la mia famiglia
Loro
devono almeno avere la possibilità di vedermi, quando possono venire a
colloquio, e di consolarsi con l’idea che hanno un figlio, che certo ha fatto
un reato grave, ma è vivo
di Bardhyl Ismaili
Io
sono albanese, mi trovo in carcere da 13 anni. La mia condanna è
all’ergastolo perché ho ucciso una persona. Non voglio parlare della mia
colpevolezza o meno oppure se questa sia stata una condanna meritata o meno.
L’omicidio è sicuramente il reato più brutto in assoluto e a ragione la
legge prevede per esso condanne pesanti, solo che penso che l’ergastolo sia
una pena che toglie tutta la voglia di vivere e ti lascia vuoto. Sulla sentenza
che ti condanna all’ergastolo c’è scritto FINE PENA MAI, e sono parole che
ti fanno capire che uno deve uscire dal carcere solo dopo morto.
L’ergastolo
non ha naturalmente paragone con le altre pene, per le altre condanne uno può
vedere un punto d’arrivo, un giorno anche lontanissimo in cui potrà
cominciare a mettere piede fuori. Ad esempio, uno che è condannato a
trent’anni sa che può fare dei calcoli, e quando raggiunge la metà della
pena, e poi i due terzi, è nei termini rispettivamente per chiedere i permessi
o la semilibertà. Questi calcoli un ergastolano non li può fare, perché la
metà del FINE PENA MAI o i due terzi semplicemente non esistono.
Poiché
la Costituzione recita che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato
e al suo reinserimento nella società, l’ergastolo come fa a essere
costituzionale? In che maniera un ergastolano si può reinserire nella società
se non può finire mai la sua condanna? La cosa più logica allora è condannare
alla pena di morte.
E
se un ergastolano identifica la sua condanna come una pena di morte, qual è la
speranza che lo tiene in vita?
I
miei sentimenti, appena ho avuto la condanna, erano di totale disperazione.
Vedevo tutto senza vie di uscita e volevo togliermi la vita. Ci pensavo
continuamente, ma se ho rinunciato a questa idea, è stato solo per la mia
famiglia. Le parole FINE PENA MAI fanno paura solo a pensarci e credo che a
qualsiasi persona, di fronte ad una simile prospettiva, verrebbe l’idea di
farla finita. Quello che mi ha dato la forza di vivere è stato il pensiero dei
miei genitori. Pensavo che, se mi toglievo la vita, mi sarei liberato della
condanna, ma alla mia famiglia sarebbe rimasto per sempre il dolore di un figlio
morto, avrei finito di soffrire io, ma avrei spostato la sofferenza sui miei
famigliari. Allora ho deciso che forse era meglio che soffrissi io per il
carcere a vita, ma loro avranno così la possibilità di vedermi quando possono
venire a colloquio, e di consolarsi con l’idea che almeno ci sono, hanno un
figlio, che ha fatto un reato grave ma è vivo, come è viva la speranza di
potermi abbracciare un giorno fuori di qui.
La
speranza, quella stessa che mi dà la forza di resistere, è che prima o poi
l’ergastolo venga abolito oppure che preveda dei percorsi che rendano
effettiva la possibilità per tutti di ottenere, ad un certo punto della pena,
una misura alternativa al carcere.
Per
uno straniero ergastolano, mettere piede fuori è un’impresa disperata
Sono
sicuro che per me, se non sarà un fine pena mai, sarà un fine pena
infinitamente lontano
di Gentian Belegu
Ho
33 anni, sono albanese e mi trovo in Italia dal 1994. Sono arrivato in Italia
per lavorare con mio fratello che stava a Taranto, e lavorava in un bel
ristorante molto conosciuto in quella città. Sono dovuto emigrare
dall’Albania perché la mia famiglia, come tantissime altre in quel tempo, era
molto povera, eravamo otto figli e la vita era difficile. Chi ne aveva le
possibilità emigrava. Così io ho seguito le orme di mio fratello. Avevo
cominciato a lavorare con lui nel ristorante e mi trovavo molto bene. I
proprietari erano bravissime persone, avevano un figlio adottivo. Io ero molto
giovane, quelle persone si affezionarono subito a me e in poco tempo avevano
preso a trattarmi come un figlio. Solo da mia madre avevo ricevuto tanto affetto
disinteressato. Ero certo di aver trovato la mia sistemazione definitiva in
quella che consideravo la mia seconda famiglia. Finché un giorno dopo un po’
di mesi che stavo lì vennero i carabinieri per un controllo e mi trovarono
senza i documenti. Mi diedero un foglio di via. Così finirono i miei sogni di
realizzare la mia vita futura in Italia.
Sono
dovuto andare via da lì. La mia vita cambiò, perché cominciai a dedicarmi ad
attività illegali a tempo pieno, in un percorso inarrestabile di degrado che mi
ha portato a commettere un omicidio. Mi sono dichiarato colpevole, avevo capito
che dovevo assumermi le mie responsabilità, e sono stato condannato a
trent’anni.
Non
passò molto tempo che mi arrivò un mandato di cattura per un altro omicidio.
Io non pretendo di essere creduto, ma sono del tutto estraneo, e vorrei che
qualcuno mi credesse, o almeno avesse qualche dubbio. Tuttavia, ero il colpevole
perfetto. Avevo già confessato un omicidio… a nulla valse urlare la mia
innocenza... così mi hanno condannato all’ergastolo. Qualcuno in carcere mi
ha detto, “Forse ti conviene che ti assumi la colpa così ti danno le
attenuanti e te la cavi con trent’anni e, visto che trent’anni li avevi già
presi, tutto sommato è sempre meglio dell’ergastolo”. Non me la sono
sentita di accettare un calcolo del genere, però sulla condanna all’ergastolo
voglio dire che è terribile sentirsela addosso, per chiunque, anche per chi è
colpevole. E non tutte le persone condannate riescono a reggere il peso di
un’ingiustizia così grande. L’ergastolo è una pena che non cessa mai, per
anni e anni sta sulla testa come una spada di Damocle, ti ricorda che la società
ti ha bandito e difficilmente una persona sopravvive a quella pena.
Io
sono da pochi anni in carcere e so che per me la vita qui dentro sarà molto
lunga e dura. Qui dentro ho conosciuto diverse persone condannate
all’ergastolo. Tanti sono dentro da più di dieci, quindici o vent’anni, e
solo pochi di loro hanno iniziato ad usufruire dei permessi premio, ma sono
parecchi che continuano a sperare, e a riproporre istanze con l’illusione di
ottenere qualcosa.
Credo
che poi, per uno straniero condannato all’ergastolo, mettere un piede fuori
sia doppiamente difficile, perché naturalmente il giudice pensa che, se manda
in permesso uno straniero condannato all’ergastolo, lui scappa e torna al suo
Paese. E allora so che da straniero dovrò dimostrare di essere una persona
doppiamente affidabile. Ma come si fa a dimostrarlo?
Io
sto cercando di farlo, ma non è facile nelle condizioni in cui è il carcere
oggi. C’è il sovraffollamento, molte persone sono povere e disperate, tanti
devono fare condanne brevi e non hanno la testa come me, che devo per forza
pianificare una permanenza lunghissima qui dentro. Quindi mi devo continuamente
adattare e cercare di mantenere un comportamento corretto e più equilibrato
possibile. Il lavoro non c’è per tutti. Io da un po’ di mesi ho iniziato a
fare il portavitto, è un lavoro che non vuole fare nessuno. Ci sono sempre
discussioni perché spesso le persone vogliono più cibo rispetto a quello che
gli spetta. E io cerco di farlo bastare per tutti, ma non è facile. E l’idea
che forse dovrò fare questo lavoro per il resto della mia vita mi rende molto
triste. Anche perché, parlando con i detenuti più anziani qui, mi hanno detto
che solo pochi detenuti sono riusciti a ottenere la liberazione condizionale,
quella misura che la legge prevede per gli ergastolani che hanno scontato almeno
26 anni di carcere. Perciò, sicuro che per me, se non sarà un fine pena mai,
sarà un fine pena infinitamente lontano.
L’ergastolo
ostativo, quello che ti condanna a morte facendoti restare vivo
Il
racconto di un permesso di necessità per Carmelo Musumeci, l’ergastolano
simbolo della battaglia contro l’ergastolo ostativo ai benefici
di Nadia Bizzotto e Giuseppe Angelici,
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Sembra
un giorno qualunque quando varchiamo la soglia del carcere di Spoleto.
È
un bel mattino di maggio pieno di sole: sembra il ripetersi di quello che
facciamo tutte le settimane, quando entriamo dentro a questo mostro di ferro e
cemento per incontrare decine e decine di ergastolani che da decenni vivono
rinchiusi, senza beneficiare di nessun permesso. Sono uomini che per vari motivi
hanno scelto di non collaborare con la giustizia e quindi secondo la Legge
attualmente in vigore sono esclusi da ogni alternativa al carcere e, se
ergastolani, destinati a stare lì fino alla morte.
Sono
proprio gli ergastolani i detenuti che seguiamo maggiormente nel carcere di
Spoleto, da quando nel 2007 il fondatore della nostra Comunità, Don Oreste
Benzi, qualche mese prima della sua morte, ci ha lasciato il compito di non far
invece morire la speranza di questi fratelli.
Con
loro e per loro portiamo avanti la battaglia contro l’ergastolo, perché noi
non possiamo credere in una pena che escluda la possibilità di dimostrare che
l’uomo possa cambiare e diventare addirittura una risorsa per gli altri.
Abbiamo
scritto insieme a loro:
“Pochi
sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità,
proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno
uno spiraglio; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti
restare vivo, senza nessuna speranza.
Per
meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che
introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio
binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme
sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve
nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi
collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono
godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in
carcere”.
Insomma
l’ergastolo ostativo è stare in carcere per tutta la vita, è una pena che
viene data a chi ha fatto parte di un’associazione a delinquere e ha
partecipato a vario titolo a un omicidio, dall’esecutore materiale
all’ultimo favoreggiatore. Non è invece previsto l’ergastolo ostativo agli
stupratori, ai pedofili e a tutti coloro che ledono una persona fino ad
ucciderla. Ostativo vuol dire che è negato ogni beneficio penitenziario:
permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si
collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone. Chi invece non
collabora, per paura di vendette omicide sulla propria famiglia, per non mettere
un’altra persona in carcere al proprio posto o perché non è in grado di
dimostrare che non può aggiungere altro a quanto già emerso
sull’associazione di cui ha fatto parte, queste persone sono condannate a
restare per tutti i giorni della propria vita in carcere. Si continua a parlare
di “pentiti”, mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente
“collaboratori di giustizia”, perché è evidente che la collaborazione è
una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La
collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il
pentimento interiore della persona. (Tratto dall’introduzione del libro “Gli
Uomini Ombra” di Carmelo Musumeci: Perché questo libro di Giuseppe Angelini e
Nadia Bizzotto)
Noi
incontriamo tanti ragazzi, ora uomini con i capelli quasi grigi, arrestati
appena maggiorenni, ragazzi di 40 anni arrestati a 18 e che ora possono dire di
aver vissuto più tempo in carcere che fuori e che non sono mai usciti, molte
volte neanche per i funerali dei genitori. Potrebbero essere i ragazzi che oggi
accogliamo, molte volte minorenni, nelle nostre case: in effetti sono ragazzi
che non hanno avuto spesso la possibilità di avere un’alternativa alla strada
e al fascino delle bande mafiose che li hanno adescati. E tanti altri che
vediamo sempre lì, settimana dopo settimana, mese dopo mese, per tutti questi
anni, senza che cambi mai nulla per loro, senza che possano detrarre i loro
giorni di pena da un calendario che preveda una data futura di reinserimento
anche per loro. Sono sempre lì: estate, inverno, Natale e Pasqua. Noi vediamo
il tempo scorrere sui loro volti, settimana dopo settimana, e lasciare solchi
profondi. Molti di loro, nella riflessione e nella sofferenza, sono arrivati ad
una revisione interiore sugli errori del passato, ma nonostante questo non
possono usufruire di nessun beneficio penitenziario, perché la loro eventuale
libertà è valutata in base a ciò che non dicono e non a ciò che sono
diventati.
Eppure
stamattina entriamo con il cuore che batte forte… è successo il piccolo
miracolo che aspettavamo da anni: stiamo per portare fuori per 11 ore per un
permesso di necessità Carmelo Musumeci, l’ergastolano simbolo della battaglia
contro “La pena di morte viva”, l’ergastolo ostativo ai benefici. Il
cosiddetto “permesso di necessità”, è l’unico tipo di permesso che può
ottenere anche chi è escluso dai benefici penitenziari, ma si concede raramente
e per eventi gravi, unici e irripetibili.
Carmelo
oggi si laurea, a quasi 56 anni, dopo un percorso esemplare ma pieno di
difficoltà, perché in carcere è un’impresa anche studiare. Anni e anni
passati sui libri, o dentro ai blindati rinchiuso per ore in attesa del
trasferimento per fare un esame, o ad aspettare invano commissioni che si
rifiutano o dimenticano di fare i test scolastici in carcere…
Oggi
è il giorno tanto atteso, ma grazie a questo piccolo grande miracolo quasi
quasi è proprio la Laurea a passare in secondo piano. Carmelo esce con noi, da
uomo libero, per undici ore per laurearsi e stare con la sua famiglia nella
nostra Casa di Bevagna. Tutto questo non era mai successo per lui: Carmelo non
vede il mondo da fuori da oltre 20 anni, non è uscito quando si è sposato suo
figlio o quando si è laureata sua figlia, nemmeno quando è morto suo fratello.
Entriamo
all’ufficio matricola, sembra tutto così normale e invece stiamo firmando un
foglio dove noi, e non la scorta della polizia penitenziaria, prendiamo in
consegna Carmelo. Aspettiamo poco, ma l’attesa è comunque insopportabile; ci
mettiamo sulla porta che dà all’esterno, ad un tratto eccolo che arriva:
Carmelo è vestito a festa e pronto per uscire.
Appena
la guardia lo lascia ci avviamo verso il tanto sospirato cancello. Quante volte
abbiamo sognato questo momento… Come per magia il cancello si apre
immediatamente e mentre lo varchiamo ci si stringe il cuore pensando a quanti no
ci hanno detto prima di arrivare ad oggi, ma ora la gioia e l’emozione sono
troppo forti e non c’è più posto per i brutti ricordi.
Fuori
l’abbraccio con la figlia è di quelli che vale la pena aspettare per una
vita. Un momento di commozione e poi si sale in auto per correre all’Università
a Perugia dove già ci stanno aspettando. Sembra tutto normale, eppure abbiamo
in macchina un ergastolano ostativo che non esce da 20 anni. Ci guardiamo
attorno e ci chiediamo cosa possono vedere gli occhi di chi non vede il mondo da
tanti anni, proviamo a pensare com’era il mondo oltre 20 anni fa… Carmelo
invece continua ad abbracciare la figlia, quella bimba di 9 anni che ha lasciato
tanto tempo fa e che ora è una donna, laureata prima di lui, e che per tanti
anni quand’era in regime di 41 bis non ha potuto neanche toccare perché i
colloqui erano limitati da un vetro divisore.
Questo
splendido sole di maggio e il paesaggio della campagna umbra lo stordiscono: per
tutto il tempo, anche sulla superstrada, non fa altro che dire: “Quanto verde,
quanto verde…”
Un
ergastolano ostativo che abbraccia la moglie, i figli, i nipoti
Lungo
la strada ci fermiamo per unirci con il resto della famiglia di Carmelo,
dovremmo dire di fare presto, che è tardi, che all’Università la commissione
di Laurea non può aspettare, ma ci sono momenti e ci sono emozioni che non si
possono interrompere, né dissacrare con le parole. Guardiamo la scena e
rimaniamo in silenzio, questo asfalto, dove dopo 20 anni una famiglia intera si
riabbraccia, ci sembra uno dei luoghi più sacri che abbiamo mai visto.
L’arrivo
in Facoltà, l’emozione fortissima di Carmelo che neanche si è reso conto di
essere stato catapultato dentro un’aula universitaria davanti ad una
commissione, ci fa improvvisamente ricordare che siamo usciti dal carcere per
discutere la Tesi di Laurea. Per un momento pensiamo che forse Carmelo non può
reggere a tanta emozione, che tutto questo è troppo per chiunque, anche per uno
come lui… Ma forse sente tutto il calore di chi è dietro di lui ed è venuto
da ogni parte d’Italia e da ogni situazione per essergli accanto in questo
momento e così lo vediamo pian piano riprendere un po’ di colore e di lucidità…
Davanti a lui i volti rassicuranti dei prof relatori, Carlo Fiorio e Stefano
Anastasia, compensano bene l’aria formale e severa del resto della
commissione. Carmelo ha pochi minuti per dire cose che conosce a memoria, più
che la legge è il cuore che parla.
Mezz’ora
dopo possono riprendere le strette di mano, gli abbracci, le foto… c’è
persino la corona di alloro. Sembra tutto così normale. Carmelo sta accanto
alla moglie e ai figli, stringe gli amici come se fosse la cosa più normale del
mondo, forse dovrebbe esserlo, ma lui invece prima di oggi non l’ha mai fatto.
Il tempo corre così maledettamente veloce e se ne sono già andate tante ore di
permesso. Di nuovo in macchina, di corsa, verso una delle nostre case, il
convento di Bevagna. Carmelo e noi, Carmelo con i suoi due figli, uno a destra e
uno a sinistra. Lui non fa che abbracciare prima uno poi l’altra, poi tutti e
due insieme, poi parla con noi, ma riprende anche a baciare i suoi figli,
chiede, s’informa, dà loro consigli e ogni tanto butta un occhio sul panorama
e ripete “Quanto verde, quanto verde…”.
Arriviamo
a casa, la festa per lui è nel chiostro del convento: tutta la Comunità
dell’Umbria si è stretta intorno a lui, ognuno ha preparato qualcosa, tutto
è stato preparato nei minimi particolari. Ci sono pure i confetti rossi e il
papiro. Il portico è pieno di tavoli apparecchiati e di persone venute da ogni
parte d’Italia, qualcuno ha fatto otto ore di viaggio per un abbraccio e una
manciata di minuti da passare con Carmelo libero. È uno splendido pomeriggio di
maggio, sembra un giorno qualunque, sembra tutto così normale: l’aria è
quella di una festa in famiglia. Carmelo è circondato d’amore, ma il tempo
corre così maledettamente veloce in questo giorno qualunque e lui guarda in
continuazione l’orologio. Dobbiamo dirgli che è già ora che tutti vadano via
per lasciarlo solo con la famiglia. Ma prima Carmelo si intrattiene con due
giornalisti che in questi ultimi anni hanno raccolto le sue “grida” di
“Uomo Ombra”, come lui definisce gli ergastolani ostativi: né vivi, né
morti, solo ombre. Per parlare con Alberto Laggia di Famiglia Cristiana e
Alessia Gizzi di Rai 3 Carmelo spende quasi due ore delle undici di permesso, ma
ci ripete: “Non dobbiamo pensare solo a noi stessi, dobbiamo pensare anche a
chi è dentro, alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo”. Sarà, ma non
possiamo fare a meno di chiederci se per un giorno ogni 20 anni uno non può
pensare solo per se stesso…
Si
è fatto tardi, è tutto una corsa contro il tempo: Carmelo gioca nel verde con
i nipotini, con questi bimbi che hanno l’età dei suoi figli quando li ha
lasciati l’ultima volta. Poi sale in casa, per vivere gli ultimi momenti in
famiglia, con la sua famiglia. Arriva il momento della cena. Carmelo non cena
con una famiglia, con la sua famiglia da più di 20 anni, con i più piccoli non
l’ha mai fatto… Non mangia con piatti e posate veri da tantissimi anni. Un
ergastolano ostativo a tavola con la sua famiglia che abbraccia la moglie, i
figli, i nipoti, attorno una schiera di amici che gli vogliono bene e che
cercano di immortalare nel cuore e nella mente questo momento.
Sembra
tutto così normale, eppure il tempo sta per finire. Tutti ci rendiamo conto che
tra un po’ tutto sarà finito. Cerchiamo di farci coraggio e cominciamo a dire
che è ora di andare, il permesso sta per scadere… I saluti vogliono essere i
più semplici e normali possibili, ma sono ugualmente strazianti. Per fortuna è
tardi e per strada ci tocca correre, questo aiuta a non pensare. Carmelo si
guarda attorno e per la prima volta dopo tanti anni può vedere un pezzo di luna
senza sbarre. Ci sono anche tante stelle. È buio ma il mondo qui fuori è
sempre tutto illuminato e Carmelo continua a dire “Quante luci, quante
luci…”. Con noi è rimasta la figlia, l’ultima della famiglia a salutare
davanti al carcere il padre. La scena non è di quelle che si vorrebbero vedere,
ma forse è il prezzo da pagare per 11 ore di felicità…
Se
ne sono andati tutti: siamo solo noi e Carmelo. Hanno acceso tutte le luci e
aperto la gabbia di vetro dove si entra per i controlli. Carmelo non ha voglia
di varcare quella soglia, dobbiamo cercare di fargli fretta, è tardi e poi la
guardia sembra aver voglia di chiudere, ma facciamo finta: neanche noi abbiamo
voglia di vederlo entrare. Poi aprono a lui, noi possiamo andare: abbiamo fatto
quello che ci avevano chiesto, ma rimaniamo lì, attoniti. Lui ricompare davanti
a noi dopo aver fatto il giro. Ora tra noi e lui ci sono di nuovo quelle
maledette sbarre, così difficili da aprire. Poi Carmelo si gira e va. Cammina
solo verso la seconda entrata, ormai da lì non può più andare da nessuna
parte e sembra inghiottito dalla notte e dall’Assassino dei Sogni, come lui
chiama il carcere. Quelle luci accese rendono ben visibile la sua sagoma che
cammina, vorremmo che si voltasse, ma non può e non lo fa: Carmelo è di nuovo
un Uomo Ombra. Quelle 11 ore passate così intensamente e velocemente non hanno
cancellato la situazione. Ci chiediamo perché debba tornare in carcere, ci
vengono in mente le parole di Don Oreste: “Quando un uomo ha capito i propri
sbagli, ogni giorno di galera in più è un giorno sprecato per il bene
dell’umanità”. Ci rimane l’amara soddisfazione di credere che almeno oggi
non sia stato un giorno sprecato.
In
Alta Sicurezza il clima che si respirava era di una disumanità schiacciante
Il
racconto della vita in un regime di Alta Sicurezza risale a dieci anni fa, ma
oggi è cambiato qualcosa?
di Elton Kalica
Sono
passati alcuni mesi da quando tre detenuti albanesi sono fuggiti dal carcere di
Voghera. In altri tempi la notizia avrebbe occupato parecchio spazio dei
telegiornali più importanti, e se fosse successo in periodo elettorale, avrebbe
riempito anche i salotti televisivi, animando discussioni politiche dove gli
ospiti si sarebbero lanciati promesse di rendere le galere ancora più
“sicure”.
Ma
visto che i media si occupano d’altro, mi verrebbe da dire: per fortuna che
stavano succedendo cose più importanti, e che questa fuga non ha avuto il
solito seguito mediatico di tipo emergenziale. Tuttavia, la stampa ha continuato
a parlare, insinuando qualche commento sui criminali albanesi che sono
incontenibili, oppure sulle carceri italiane che sono troppo “rilassate”. Il
che mi porta ad alcune riflessioni, che nascono solo dal fatto che sono
albanese, ma soprattutto che ho conosciuto il carcere di Voghera, e i circuiti
di Alta Sicurezza.
Il carcere di Voghera qualche anno fa
Circa
dieci anni fa, ho trascorso sei mesi al carcere di Voghera. Si tratta di un
piccolo carcere, composto sostanzialmente di quattro sezioni detentive. A quei
tempi vi erano una sezione comune e tre sezioni di Alta Sicurezza, delle quali
una di Elevato Indice di Vigilanza (E.I.V.). Adesso invece ho sentito che non ci
sono più i detenuti comuni ed è diventato tutto Alta Sicurezza.
Il
regime interno era fatto con gli stessi orari della maggior parte delle carceri
italiane. Due ore di passeggio alla mattina e due ore di pomeriggio. Alla sera
un’ora di socialità per consumare i pasti insieme, non più di quattro
detenuti per cella. Se qualcuno voleva frequentare qualche corso scolastico, lo
poteva fare nella fascia oraria dei passeggi, rinunciando quindi a uscire
all’aria.
Per
quanto riguarda i colloqui il regime era abbastanza severo, nel senso che veniva
ancora applicata la perquisizione intima sia prima che dopo l’ora del
colloquio. E quando c’ero io, esisteva ancora il bancone divisorio. Telefonare
alla propria famiglia era un problema, perché la direzione voleva che ci fosse
sempre una traduzione simultanea delle conversazioni, e, dato che non c’erano
traduttori, non si telefonava. Dopo parecchie proteste, ci avevano concesso di
effettuare i sei minuti di telefonata alla settimana, a condizione però che
parlassimo in italiano. Ricordo che la prima volta a sentire la voce di mia
madre mi sentivo così appagato, che sembrava un’autentica conquista, ma
presto mi resi conto che era una di quelle vittorie umilianti, che ti lasciano
l’amaro in bocca. Per mio padre era troppo avvilente non potermi parlare nella
nostra lingua, e gli sforzi di mia madre per starmi vicino con il suo italiano
scolastico accentuavano la mia sofferenza. Molti stranieri rinunciarono di fare
queste umilianti telefonate, mentre io facevo solo due minuti per dire “Sto
bene. Non vi preoccupate. Ci sentiamo la prossima settimana... spero nella
nostra lingua. Ciao!”.
Le
celle erano di tre metri per due, con dentro due brande a castello. Vi si poteva
tenere solo un fornellino per riscaldare i pasti e una caffettiera. Mentre tutti
i generi alimentari si dovevano depositare in una specie di magazzino comune, e,
dato che eravamo sempre chiusi in cella, dovevamo chiedere al detenuto lavorante
di volta in volta le cose che ci servivano per cucinare.
In
un angolo della cella, incastrato al muro, un piccolo armadietto di ferro dove
potevamo tenere solo due cambi per ogni capo d’abbigliamento, di scarpe e di
biancheria.
Il
reparto era composto di ventiquattro celle, disposte una di fronte all’altra
lungo un corridoio diviso a metà da una guardiola di vetro blindato, dentro la
quale c’erano sempre due agenti.
I
detenuti erano in maggioranza persone provenienti dal sud dell’Italia,
accusati o condannati per reati gravi come associazione mafiosa, sequestro di
persona a scopo di estorsione o associazione, finalizzato al traffico di
sostanze stupefacenti. Tra loro c’eravamo anche noi, tre albanesi e due
tunisini.
Il clima che si respirava
Si
dice che i detenuti si comportano bene per uscire prima dal carcere, ed è vero.
Infatti, nel carcere dove mi trovo ora ci sono molte persone, anche con condanne
lunghissime, che arrivate ad un certo punto della propria condanna, cominciano
quel percorso di reinserimento che serve per anticipare l’uscita definitiva.
Il mio compagno di cella lo scorso mese ha trascorso due settimane a casa in
permesso premio; quello della cella affianco esce domani mattina in permesso
giornaliero per andare in un liceo e raccontare agli studenti come si finisce in
carcere; ad un altro hanno concesso di andare all’università venerdì
prossimo per sostenere un esame. Siamo sempre in un carcere dove le persone
scontano la pena in condizioni di sovraffollamento, però questi piccoli
benefici di legge, di cui una parte dei detenuti usufruisce, aiutano molti a
fare dei piccoli progetti di vita, inquadrati sempre all’interno della
famiglia, dello studio o dell’ambito lavorativo: i permessi premio,
contribuiscono a creare un clima più umano, nonostante le condizioni di vita in
carcere rimangano disastrose. Mentre ricordo che, nelle sezioni di Alta
Sicurezza, dove ho trascorso circa cinque anni, il clima che si respirava era di
una disumanità schiacciante. Tutti i condannati definitivi ci raccontavano di
essere esclusi da ogni tipo di misura alternativa al carcere, suscitando in noi,
che eravamo in attesa di giudizio, solo rabbia e malcontento. Nessuno andava in
permesso premio. Nessuno cercava un lavoro all’esterno per andare in
semilibertà. Niente che ci proiettasse fuori da quella sezione di cinquanta
persone dove i pensieri, le emozioni e tutte le nostre esistenze si
intrecciavano in una quotidianità che finiva per diventare surreale: c’era
chi diventava maniaco delle pulizie e passava intere giornate a lucidare la
stanza; c’era chi si fissava con la ginnastica ed era perennemente steso sul
pavimento a fare flessioni e addominali; ovviamente i più rimanevano stesi in
branda ad ammazzare il tempo, oppure appoggiati sul cancello in cerca di
qualcuno disponibile a dare vita alla solita conversazione su reati, processi,
condanne e altre storie da galera.
Se
vedere qualcuno uscire in permesso era una cosa impossibile, qualcuno però alla
fine ritornava libero. Ovviamente, perché aveva finito di scontare la pena. Il
che, invece di suscitare gioia, provocava pietà e frustrazione, perché ai
nostri occhi quella che veniva scarcerata non era una persona che riacquistava
la sua libertà, ma uno di noi, verso il quale il sistema era stato spietato.
In
simili momenti ci sentivamo uniti dal senso di impotenza, una strana solidarietà,
visto che molti di noi non avevano nulla in comune.
Io
avevo vent’anni e non avevo mai avuto nulla a che fare con la malavita
organizzata. Ero accusato di aver tenuto una persona sequestrata nel mio
appartamento, ma di mafia, di ‘ndrangheta o di camorra avevo sentito parlare
solo nei film, eppure, con il passare del tempo, stare in una sezione di Alta
Sicurezza mi aveva portato a vivere come se ormai appartenessi in modo
irreversibile ad una categoria di persone, considerate feroci e quindi
irrecuperabili. E c’erano momenti, soprattutto quando ci ritrovavamo a
protestare collettivamente, che ci si calava nella parte a tal punto che si era
convinti che solo il fatto di essere lì, imponesse una certo atteggiamento, una
certa durezza e determinazione, perché noi eravamo quelli dell’Alta
Sicurezza.
Mettere in discussione l’Alta Sicurezza
Tre
albanesi sono fuggiti dal supercarcere di Voghera. Qualcuno vorrebbe sapere chi
erano, cos’avevano fatto, dove saranno andati o cosa si sta facendo per
riacciuffarli. Sono domande comprensibili, se si pensa ai meccanismi psicologici
che muovono la curiosità umana. Ma c’è chi si sta chiedendo cosa fare
affinché nessuno tenti più di scappare? Qualcuno proporrebbe di innalzare le
mura, altri forse suggerirebbero di rimettere la palla di ferro al piede. Se lo
chiedessero a me, inviterei a visitare il reparto in cui mi trovo ora, il Polo
universitario di Padova, dove la metà siamo stranieri, dei quali molti
usufruiscono di permessi premio, vivono in condizioni dignitose e nessuno ha mai
tentato di fuggire. Mentre nella sezione di Alta sicurezza il numero di
stranieri è sempre maggiore, e nessuno di loro usufruisce di misure
alternative: se essere straniero in carcere è già di per sé una pena
aggiuntiva, a trovarsi in una sezione di Alta Sicurezza, diventa quasi
fisiologico cercare in tutti i modi di scappare.
Dopo
questa fuga, c’è chi ha detto che occorre rimettere in discussione il livello
di sicurezza delle carceri italiane, mentre io credo che episodi simili
dovrebbero insegnare una cosa a chi amministra le carceri: forse sarebbe ora di
rimettere in discussione le supercarceri come quello di Voghera, e certi regimi
di carcerazione che poco hanno di umano, dove a volte si mettono anche persone
che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata, dove si respira un
clima di rabbia e frustrazione. L’assenza di una prospettiva diversa non solo
non aiuta la rieducazione e quel cambiamento in meglio che ci si aspetta da chi
ha sbagliato, ma rischia di rendere le persone peggiori di quello che erano
prima di entrarvi, il che certamente non rende i cittadini più sicuri.
Morire di carcere
Finché
ci saranno queste condizioni detentive, ci saranno sempre detenuti che useranno
ogni mezzo per fuggire dalla realtà e, purtroppo, anche dalla vita
di Elton Kalica
La
morte di Walter, un detenuto “sconosciuto”
Una
volta, la Casa di reclusione di Padova era il carcere delle pene lunghe. Persone
con condanne definitive qui trascorrevano abbastanza tempo perché tutti
conoscessero tutti. E quando una persona detenuta moriva, se non era un amico,
era comunque qualcuno che avevi già conosciuto, oppure che avevi visto in giro
per i corridoi.
Pochi
giorni fa è morto Walter, ma non ho ancora trovato uno che lo conoscesse.
Volevo raccogliere delle informazioni, e ho aperto le orecchie, ascoltando i
miei compagni commentare.
È
morto Walter. Chi è Walter? Uno del quarto piano. Cos’era? straniero? No,
italiano, vicentino. Si è suicidato? Non si sa... dicono che ha sniffato il gas
della bomboletta. Era giovane? Boh, non si sa...
Di
fronte a tanti “non si sa” mi assale la stessa rabbia che molti detenuti del
carcere di Padova stanno urlando fuori dalle finestre proprio mentre scrivo.
Sbattono le padelle sulle inferriate delle celle e urlano, protestano contro il
carcere che uccide, contro il carcere intollerabile.
Appena
mi convinco che si tratta di un detenuto sconosciuto, trovo invece uno che ha
sentito parlare di Walter. Mi dice che aveva quarant’anni e che era stato
trasferito da pochi mesi dal carcere di Vicenza. Come molti nuovi giunti, era
stato messo al quarto piano, trasformato in una di quelle zone grigie dove
rimangono impantanati quelli che non possono o non vogliono andare in una
sezione dove si sta meglio. Ed avendo problemi di tossicodipendenza, era stato
messo in cella con altre due persone con lo stesso problema. Comunque, in
sezione erano tranquilli, tutti e tre. Si prendevano la loro terapia – la dose
giornaliera di psicofarmaci – e non davano fastidio. Perché la cosa
importante in galera è non dare fastidio. Non dare fastidio agli altri
detenuti, non dare fastidio agli agenti, non dare fastidio agli operatori e non
dare fastidio ai medici.
Solitamente,
le persone tossicodipendenti sono quelle che danno maggiormente fastidio. E di
fronte alla loro “tranquillità”, potrei allora anche pensare
all’efficacia del trattamento rieducativo e riabilitativo offerto da questo
Istituto. D’altronde il carcere di Padova, con più di cento detenuti che
lavorano per imprese esterne, quasi altrettanti che lavorano per
l’Amministrazione e molti impegnati in attività scolastiche, costituisce un
luogo di detenzione più decente rispetto alla maggioranza delle carceri
italiane. Eppure, qui siamo più di 800 detenuti e Walter era uno di quei 500 e
più che non fanno nulla, se non stare in branda tutto il giorno.
Stare
“tranquilli” in un carcere sovraffollato è sempre difficile, anche qui a
Padova, dove nonostante le persone abbiano qualcosa da perdere o da guadagnare,
c’è comunque un malcontento diffuso, e la tensione si può toccare con mano
ogni giorno di più.
Probabilmente
Walter si illudeva di trovare un po’ di serenità nel gas. Una sniffata di
metano, mi raccontano, significa che una piccola quantità di gas ghiacciato
entra nelle narici e anestetizza il cervello: una botta secca che ti stacca
dalla realtà, perdi aderenza con l’ambiente circostante, ti stendi sulla
branda ed entri in un’altra dimensione. Un effetto che forse dura poco – il
tempo necessario all’organismo per riscaldare il cervello e riportarlo alle
sue funzioni normali – ma funziona abbastanza per far evadere dalla realtà
del carcere, dalla sofferenza di questo luogo. Però, è anche un metodo
pericoloso. Infatti, basta sbagliare la quantità di gas rilasciata nelle
narici, e invece del cervello si ghiacciano i bronchi, causando il blocco di
tutto l’apparato respiratorio. Il meccanismo si ferma e nei polmoni non entra
e non esce più aria, finché non sopraggiunge la morte.
Ora
non so se a Walter sia successo un simile incidente, oppure se abbia
intenzionalmente respirato metano per suicidarsi. Ma questo importa poco a noi
detenuti. Quello che invece questa tragedia dimostra, è la tragica condizione
in cui si trovano le carceri di questo Paese: se anche nella Casa di reclusione
di Padova, che è un “fiore all’occhiello” del sistema penitenziario, in
poco più di un anno ci sono stati otto morti, (quattro suicidi e quattro morti,
sulle quali si sta ancora indagando) forse le carceri stanno diventando davvero
luoghi di morte.
Se
per i detenuti “normali” la mancanza di una prospettiva diventa motivo di un
malessere così grave che porta ad atti di autolesionismo, e a volte anche al
suicidio, per i detenuti tossicodipendenti, tale mancanza produce un malessere
ancora più grande.
Certo,
a monte c’è la responsabilità di alcune leggi che stanno riempiendo le
carceri da anni. Ma se esiste una relazione diretta tra il sovraffollamento e le
morti, questa è imputabile alla mancanza di una presa in carico e
all’abbandono dei detenuti in cella. Che da un lato è sì dovuto
all’insufficienza numerica degli operatori e degli agenti di Polizia
penitenziaria, ma dall’altro dimostra spesso l’incapacità del Servizio
sanitario di prendere seriamente in carico quelle persone che si sa essere a
rischio.
Prima
Walter e ora Alessandro: due morti che indignano
Tra
il caldo e la solitudine di una cella, il tempo non passa mai. Certo, si può
andare due ore all’aria e prendere il sole in una vasca di cemento, chiamata
passeggi, oppure chiedere di andare in doccia e temporeggiare in corridoio
salutando qualcuno. Ma si tratta sempre di due ore alla mattina e due al
pomeriggio, mentre le rimanenti 20 ore della giornata si rimane in cella, a
oziare.
Alessandro
Giordano, salernitano di trentotto anni, solo due settimane fa aveva visto
Walter, il suo compagno di cella, morire: entrambi, con lunghi percorsi di
tossicodipendenza, si imbottivano della solita terapia di psicofarmaci fornita
dall’infermeria del carcere. Che evidentemente non bastava per alleviare il
loro malessere, tanto che forse inalavano il gas del fornellino per fuggire
dalla realtà.
Dopo
la morte di Walter, la loro cella era diventata una scena da analizzare dalla
scientifica che faceva indagini per conto del Tribunale. Pertanto Alessandro e
l’altro compagno di cella erano stati trasferiti in un’altra cella al
secondo piano, a fare le stesse cose che facevano nella cella di prima, e cioè
nulla o quasi.
In
condizioni normali, guardare un amico morire è una cosa che ti segna per il
resto della vita. In galera evidentemente le cose non funzionano così. La
depressione prevale e il malessere ti rende indifferente ai rischi. Al punto
che, solo dopo due settimane, Alessandro ha usato il fornellino nello stesso
modo di Walter, e forse è morto nello stesso modo: un tentativo di staccarsi da
questa realtà che l’ha portato a staccarsi dalla vita, se mai si possa
chiamare vita quella che molte persone fanno qui dentro.
Ora
che la cella di Alessandro diventerà un luogo da analizzare da parte delle
autorità giudiziarie, tutti si chiedono se il terzo ragazzo, dopo aver visto
morire i due amici, sarà aiutato in qualche modo a uscire dall’isolamento e a
trovare qualche motivo di speranza. Le opinioni sono diverse, ma alcune persone
con gli stessi problemi di tossicodipendenza mi dicono che, se la “cura”
continua a essere prendere psicofarmaci e rimanere in branda a guardare il
soffitto, il destino loro è già segnato.
Questi
ragionamenti mi spaventano, ma so che almeno su una cosa hanno ragione: se
quella del “a me non potrà capitare mai” è una leggerezza molto diffusa
nella società di oggi, qui dentro, la convinzione di essere più forti del
destino si mischia alla rassegnazione verso la disumanità del luogo in cui si
è chiusi, formando una miscela che, se non è esplosiva, è a volte disperata,
come queste due morti che ci indignano.
L’impressione
che noi detenuti abbiamo è che il personale medico sia sempre più demotivato,
e anche di fronte a sintomi gravi, alcuni medici si rifiutano di credere alle
nostre sofferenze, accusandoci di simulazione. È stato così in due casi di
suicidi, dove un medico, di fronte a precedenti tentativi falliti, pare avesse
scritto nel diario clinico che la persona simulava; è stato così anche nel
caso di Graziano Scialpi, il vignettista di Ristretti Orizzonti, che per mesi ha
cercato inutilmente di convincere i medici e il personale a portarlo in ospedale
per una risonanza magnetica, finché è rimasto paralizzato per un tumore; è
stato così anche qualche mese fa, quando Federico non è riuscito a dimostrare
che non simulava, che stava male davvero, finché è morto per un infarto, a 37
anni.
Se
Walter e Alessandro sono morti, non è per colpa loro. E tantomeno è stato per
colpa delle bombolette di gas o dei fornelli da campeggio: l’unico mezzo che
abbiamo per riscaldare i pasti e integrare con qualcos’altro il cibo, scarso,
fornito dal carcere. Se persone tossicodipendenti come loro muoiono in galera,
è il carcere che le porta a morire, poiché dare il metadone alle persone
tossicodipendenti e lasciarle in cella senza fargli fare alcuna attività,
fornire quintali di psicofarmaci e lasciarle in branda incapaci di dare un senso
alla giornata, è una vera istigazione al suicidio. Se Walter e Alessandro, come
altre persone con i loro problemi, ricorrevano ad ogni mezzo per evadere da
questa realtà, è colpa di chi non crea in carcere condizioni adeguate per
seguire e curare i detenuti in modo appropriato. È certo che, finché ci
saranno queste condizioni detentive, ci saranno sempre detenuti che useranno
ogni mezzo per fuggire dalla realtà e, purtroppo, anche dalla vita.
Ristrettamente utile
Niente spesa, siamo tutti più poveri
Un
gesto di solidarietà a Marco Pannella, che digiuna proprio per difendere i
diritti delle persone detenute.
In occasione delle iniziative in corso ad
opera del Partito Radicale per denunciare le condizioni disumane delle carceri
sovraffollate, dove dilagano il degrado e la povertà, i detenuti della Casa di
reclusione di Padova, nella stragrande maggioranza, circa ottocento su
ottocentocinquanta presenze, si sono astenuti per due settimane dal fare la
spesa. L’unica cosa che si sono comperati sono gli articoli coperti dal
monopolio delle Stato: sigarette, tabacco e francobolli.
di Elton Kalica
Tutto
è partito dopo che Marco Pannella aveva iniziato lo sciopero della fame per
denunciare le condizioni disumane delle carceri, e chiedere un’amnistia
generale. Tutte le radioline del carcere si sono sintonizzate su Radio Radicale
per ascoltare i discorsi del leader radicale e, dato che c’era una scarsa
attenzione da parte dei giornali e dei telegiornali verso lo sciopero di
Pannella, molti detenuti in diverse carceri d’Italia hanno intrapreso diverse
forme di protesta.
Anche
nella Casa di reclusione di Padova era nata una protesta spontanea: attraverso
il passaparola, si era deciso di rifiutare il vitto per esprimere solidarietà a
Pannella. La sera della protesta ero steso sulla mia branda e stavo scrivendo un
articolo con il portatile appoggiato sulle ginocchia. Il giorno prima era morto
Walter, un giovane tossicodipendente che aveva messo fine alle sofferenze della
galera uccidendosi con il gas dei fornellini. Non lo conoscevo, ma come faccio
spesso quando succedono tragedie in carcere, mi affretto a scrivere per la news
letter quotidiana di Ristretti, e a raccontare qualcosa di più rispetto ad un
lancio d’agenzia di poche righe sull’ennesimo morto in galera.
Mentre
mi sforzavo di riordinare le idee e di trovare le parole adeguate per descrivere
una morte così assurda, all’improvviso tutti i detenuti hanno iniziato a
sbattere le padelle contro le sbarre. Immediatamente il suono metallico di
centinaia di finestre ha cominciato a riecheggiare per tutta la superficie del
carcere, facendo tremare i pochi arredi delle celle. Sapevo che la protesta era
contro le condizioni di vita poco umane causate dal sovraffollamento, ma stavo
scrivendo di un ragazzo morto nell’indifferenza dei mezzi d’informazione, e
allora avevo preferito immaginare che quei rumori si stavano sollevando in
ricordo di un compagno morto.
Il
giorno dopo, della protesta non si è più parlato. Giornali e telegiornali
erano troppo occupati con fatti di cronaca e gossip sulle vite private dei VIP,
mentre di quell’azione collettiva che la sera prima aveva fatto da sfondo al
mio articolo, erano rimasti solo i residui di stracci bruciati buttati giù
dalle finestre.
Due
settimane dopo c’è stata un’altra tragedia: Alessandro, ancora un ragazzo
tossicodipendente morto allo stesso modo di Walter. Con il cuore pieno di
rabbia, ho scritto un articolo che poi abbiamo messo online la mattina stessa.
Era il nono detenuto che moriva in poco più di un anno, e questo ha spinto
l’onorevole Rita Bernardini a venire a Padova per incontrare i medici di
questo carcere e informarsi su un numero così alto di morti.
Una
radicale in redazione
Dopo
la visita nell’infermeria del carcere, la deputata radicale, in ragione di una
amicizia ormai pluriennale con noi di Ristretti, si è fermata in redazione e ci
ha aggiornati sulle condizioni di salute di Marco Pannella. Con lei abbiamo
parlato di sovraffollamento, di condizioni igieniche, di povertà e di malattia.
Da
parte nostra, l’abbiamo informata che ritenevamo straordinariamente coraggioso
e importante lo sciopero della fame del capo dei radicali, ma ci preoccupava il
fatto che qualche altro detenuto stesse facendo lo sciopero, perché vista la
vergognosa indifferenza politica di questi tempi verso una personalità di
spicco come Pannella, per un detenuto anonimo scioperare avrebbe potuto
significare rischiare davvero la vita. Tuttavia abbiamo spiegato anche che nelle
sezioni erano nati dei gruppi di discussione e che si era pensato di mettere in
atto altre forme di adesione, come l’astensione dalla spesa.
Quindi
si è deciso di rinunciare a fare la spesa per due settimane invece di
continuare con quelle iniziative spontanee della battitura delle sbarre; abbiamo
anche escluso altre forme di protesta come il rifiuto del carrello del vitto,
messo in atto in altre carceri, poiché ci siamo accorti che è una forma di
protesta che crea disparità tra le persone che possono cucinarsi i pasti a
proprie spese e le persone che non hanno nulla in cella; al contrario, astenersi
dalla spesa è un gesto di solidarietà che fanno i detenuti con una certa
disponibilità economica, che dimostrano così di essere capaci di trascorrere
due settimane senza spesa, e vivere mangiando ciò che passa il carrello:
insomma vivere come vive solitamente la maggioranza dei detenuti.
Della
presenza dell’onorevole Bernardini abbiamo approfittato per parlare anche del
motivo della sua ispezione in questo carcere: il servizio sanitario e le morti
in carcere. Della nostra preoccupazione per la situazione poco chiara che si è
creata dopo il passaggio di competenze della sanità penitenziaria al Sistema
Sanitario Nazionale, abbiamo scritto diverse volte sui numeri di Ristretti, ma
l’abbiamo ribadito con Rita Bernardini, raccontandole della battaglia che
stiamo facendo per confrontarci con i responsabili della Sanità e chieder loro
di riorganizzare il Servizio Sanitario e di elaborare una Carta dei servizi
sanitari per i detenuti, come prevede la legge.
Come
al solito, la deputata radicale ha portato a Roma intere pagine di appunti e gli
abbracci di decine di detenuti che, dopo averla incontrata, si sono sentiti meno
soli in questa battaglia per la sopravvivenza che attualmente si sta facendo un
po’ in tutte le carceri.
La
protesta
Tanti
la chiamano una protesta, ma in realtà astenersi dalla spesa non è una
protesta. Qui c’è una impresa che ci vende una serie di prodotti che siamo
autorizzati ad acquistare, ma non siamo obbligati a farlo: se uno non ha denaro
o non vuole spendere, è libero di non comperare alcunché. Comunque, spesso,
poter acquistare qualche prodotto dall’impresa è un modo per conquistare un
po’ di dignità nella quotidianità della cella. Comperare il necessario per
preparare una cena decente, oppure l’indispensabile per prendersi cura della
propria igiene, ti permette di acquisire un po’ di quella identità umana di
cui veniamo spogliati sin dal primo momento in cui mettiamo piede qui dentro.
Però, solo una parte dei detenuti può fare questo. I prezzi che l’impresa
impone sono troppo alti, soprattutto perché non ci sono offerte speciali e la
scelta degli articoli messi in vendita è prevalentemente fatta di prodotti di
marca molto costosi. D’altro canto, i tre euro e mezzo che l’amministrazione
penitenziaria paga per i tre pasti forniti ai detenuti, sono del tutto
insufficienti, a tal punto che sarebbe impossibile saziare tutti i detenuti se
le persone non provvedessero con i propri soldi ad acquistare prodotti
alimentari e prodotti per l’igiene.
Protesta
oppure no, ogni azione collettiva richiede tanto lavoro ed energie, perché
bisogna chiamare a partecipare alle discussioni più detenuti possibile, e poi
anche quelli che rimangono in cella hanno diritto ad essere informati su ciò
che viene detto o deciso. Allora abbiamo chiamato in redazione molti detenuti
delle sezioni con i quali abbiamo discusso sui problemi maggiori di questo
carcere.
I
detenuti sono sempre più poveri ed avere la possibilità di usufruire di un
servizio di spesa che tenga in considerazione le necessità di tutti è
fondamentale, ma non è l’unico problema che i detenuti affrontano
quotidianamente. Infatti, dalla discussione è venuto fuori che anche il carcere
è sempre più povero. In seguito ai continui tagli effettuati negli ultimi
anni, la fornitura di prodotti per l’igiene si è progressivamente ridotta. Ad
esempio, attualmente viene fornito, per ogni persona, un rotolo di carta
igienica a settimana; per ogni cella, due sacchetti di spazzatura a settimana e
detersivo in quantità insufficiente. Saponette, spazzolino da denti e
dentifricio sono disponibili solo per chi dimostra di avere meno di 25 euro sul
libretto. Fondi destinati alle telefonate per i nullatenenti non sono previsti
del tutto.
Inoltre,
molto sentito dai detenuti è il fatto che le ore dei lavoranti sono state
ulteriormente ridotte, comportando sia un loro impoverimento, sia una ulteriore
riduzione della capacità di intervenire nella pulizia degli spazi e nella
manutenzione della struttura, che era progettata per ospitare un terzo delle
persone che ci sono attualmente. Il che significa docce che si rompono più
spesso, le tubature che si consumano causando infiltrazioni d’acqua nelle
celle, i muri, le finestre e i pochi arredi che si sporcano e si usurano
maggiormente, mentre gli spazi destinati alle attività e ai colloqui con i
famigliari sono sempre quelli.
Alla
fine della discussione si è deciso di non fare la spesa per due settimane e di
organizzare un incontro con il direttore del carcere per vedere insieme le cose
che si possono migliorare nella Casa di reclusione di Padova. La cosa che ci
preoccupa di più, è che non sappiamo che conclusione avrà lo sciopero di
Marco Pannella, ora che, mentre scrivo queste righe, viene data notizia che il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli ha mandato un messaggio
pubblico pregandolo di interrompere lo sciopero in nome della stima e
dell’amicizia personale.
Se
non ora quando?
Schiacciati
dalla paura di perdere i benefici, divisi dalle diversità culturali,
impoveriti, sia economicamente che culturalmente, noi detenuti in un modello di
carcere che non migliora le persone, ma produce ignoranza e criminalità, per
una volta ci siamo uniti per dare un segnale di preoccupazione ma anche di
rabbia, per reagire a questo senso di impotenza che ci ha invasi.
Protesta
o no, l’impresa del carcere, per due settimane ha dovuto fare a meno dei suoi
850 clienti fissi, che hanno sì stretto la cinghia vivendo solo con il rancio
da galera, ma hanno in questo modo dimostrato di poter fare a meno di chi, anche
in condizioni di sofferenza, cerca di perseguire il massimo profitto
dimenticando di aver a che fare con persone.
Un
presente davvero preoccupante, ma il futuro ci spaventa ancora di più visto
l’atteggiamento che gran parte del mondo politico ha nei confronti delle
carceri. Tuttavia la speranza di una svolta umanitaria c’è ancora, ed è
mantenuta in vita da quei pochi politici donchisciotteschi come i radicali, e da
tutti quei volontari, ricercatori e studiosi che si impegnano ogni giorno a
combattere sul fronte dei diritti delle persone private della libertà.
Sicuramente
nei prossimi giorni non succederà nulla che possa dare la percezione di un
cambiamento, ma siamo convinti che è ora che anche i detenuti inizino a far
sentire il proprio disagio e chiedere condizioni di vita migliori. Se Marco
Pannella ha deciso di cambiare marcia nella sua battaglia per i diritti dei
detenuti, e di mettere ancora di più a rischio la sua vita per denunciare
questa situazione drammatica, è proprio perché la situazione delle carceri sta
peggiorando in modo inaccettabile, e allora, anche noi della Casa di reclusione
di Padova che siamo ancora in condizioni di vita accettabili, ci siamo
domandati: SE NON ORA QUANDO fare sentire la nostra voce? Ed è una domanda che
dovrebbe sorgere spontanea in tutti i detenuti, se non ora, che in quasi tutte
le case circondariali, i detenuti dormono con i materassi per terra, che
l’unica attività sono le poche ore d’aria, che il cibo è insufficiente e
spesso di cattiva qualità, che il servizio sanitario è latitante nei reparti,
che molte famiglie non hanno i soldi necessari per viaggiare e fare i colloqui e
le telefonate sono sempre di soli dieci minuti a settimana, che il carcere non
provvede più alla distribuzione di prodotti per l’igiene, se non ora, quando
far sentire la nostra voce?
Alla
Casa di Reclusione di Padova, un incontro con il Direttore
Dopo
averne discusso in redazione e ragionato con i detenuti delle sezioni, questi
sono in linea di massima alcuni argomenti che abbiamo iniziato ad affrontare con
il direttore, e che riportiamo in quanto sono problemi comuni a quasi tutte le
carceri
Le
attività
Estendere
l’apertura delle celle per tutto l’arco della giornata, dalle 08:45 che è
l’apertura per l’aria, alle 19:45 che è anche l’ora della chiusura dei
reparti. ampliare il programma di attività sportiva che deve prevedere due
volte alla settimana per ogni piano la palestra e due volte il campo.
Evitare
la creazione di sezioni divise per etnie che rischiano di far nascere sezioni
ghetto.
Il
vitto
L’amministrazione
penitenziaria paga poco più di 3 euro al giorno per i tre pasti forniti ai
detenuti. Da questo consegue che la cucina del carcere prepara una quantità di
cibo insufficiente a soddisfare i bisogni dei detenuti, spesso giovani.
Pertanto, chiediamo al direttore di trasmettere le nostre richieste al
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e chiedere che vengano rivisti
i criteri delle tabelle in cui si definiscono le quantità dei generi da
distribuire a ciascun detenuto: a) aumentare le porzioni individuali per la
prima colazione con almeno 200 ml di latte per ciascun detenuto; b) aumentare le
porzioni della pasta e della carne per il pranzo. Inoltre chiediamo che venga
migliorata la qualità della frutta e della verdura, e anche la quantità; che
venga ripristinata l’integrazione del vitto per i giovani adulti, mentre, per
quanto riguarda i controlli, i detenuti dovrebbero avere la possibilità di
confrontarsi con la Commissione cucina per segnalare eventuali disservizi.
Il
sopravvitto
L’impresa
del sopravvitto dovrebbe rispettare le esigenze anche delle persone meno
abbienti, e offrire per ogni prodotto di marca un’alternativa di qualità, ma
dal prezzo contenuto. Chiediamo quindi all’impresa di ampliare la gamma dei
prodotti in vendita al sopravvitto, e che ci sia per ogni articolo, una
possibilità di scelta alternativa.
L’igiene
personale
Si
ritiene opportuno proporre che sia alzata la soglia di accesso al diritto di
ricevere il kit per l’igiene personale. Nella Casa di reclusione di Padova, il
kit viene dato solo a chi possiede sul conto corrente meno di 25 euro. Una
soglia molto bassa se si pensa che quella somma è già insufficente per le
necessità di base come comunicare con le famiglie al telefono o per posta.
Si
chiede il ripristino della fornitura riguardante i detergenti per i sanitari e i
pavimenti per ogni cella, insieme alla sostituzione gratuita della fornitura,
come posate e stracci, giacché la maggior parte dei detenuti non è nelle
condizioni di pagarseli.
Le
ore dei lavoranti sono state ulteriormente ridotte, comportando una riduzione
della capacità di intervenire nella pulizia degli spazi e nella manutenzione
della struttura. Ciononostante la direzione dovrebbe garantite una manutenzione
periodica delle docce, ed altri interventi legati agli spazi vitali dei
detenuti.
Indigenza
e lavoro
È
necessario un sostegno economico ai detenuti meno abbienti per consentirgli la
comunicazione con i famigliari, rendendo più accessibile il fondo messo a
disposizione dai volontari per telefonate e francobolli.
Si
chiede trasparenza nella formazione delle graduatorie di assunzione al lavoro,
considerando che il criterio della condizione economica della persona detenuta e
della sua famiglia è prioritario.
Colloqui
con i parenti
Si
chiede che venga usata regolarmente l’area verde per i colloqui con i
famigliari, e che sia garantito a tutti i detenuti di poterne usufruire durante
il periodo estivo. Inoltre occorre intervenire per la manutenzione delle sale
colloqui, delle sale d’attesa e dei bagni riservati ai parenti in visita.
Cinema e televisione
Un
film sull’attesa “prima della galera”. Le conseguenze dell’abbandono
Intervista a Rodolfo Bisatti, regista di
“La donna e il drago”, a cura di Antonella Barone
Una
giovane donna condannata a scontare sei anni di prigione, si trova a dover
decidere se portare con sé la figlia di diciotto mesi oppure se trovare
qualcuno a cui affidarla. La prima scelta può solo rinviare un po’ nel tempo
il distacco, la seconda le procura delusioni e incognite.
Le
conseguenze di una legge che punisce separando, emergono dalle parole di una
ragazza magra e inquieta, costretta dalla famiglia a degli incontri di
psicoterapia…
Roberto
Bisatti esplora così il dramma dell’attesa e della separazione: il carcere
non si vede, ma fin dalle prime scene proietta la sua ombra spaventosa sulla
protagonista.
Il
film ha ottenuto Il Premio Migliore Film “Rivelazione” alla sesta
edizione di Il Cinema Italiano – Festival a Como.
Lei
ha detto di voler affrontare con questo film il tema dell’abbandono. Perché
ha scelto di parlarne attraverso la separazione, imposta dal carcere, tra una
donna e la sua bambina?
Ci
sono abbandoni istituzionali tradizionalmente legati alla tortura, al rogo di
piazza, piuttosto che all’applicazione della Giustizia. Oggi di fronte alla
torre dantesca del castello di Romena in cui i condannati venivano calati
dall’alto in una botola a diversi livelli a seconda della pena, inorridiamo
senza renderci conto che tale orrore lo abbiamo semplicemente trasferito nelle
azioni psicologiche piu’ feroci come quella di togliere “per diritto”
un figlio a sua madre o a suo padre.
Prima
di iniziare la lavorazione del film lei ha preso contatti con associazioni di
volontariato ed operatori che lavorano in ambienti penitenziari. Ma
il film si ferma alla vigilia dell’ingresso in carcere della protagonista.
Come mai?
L’orrore
inizia prima della galera; è l’attesa, il tentativo di porre rimedio al
dolore cercando una soluzione che non sempre si trova… Ci sono Associazioni
che, grazie al lavoro encomiabile di azione sociale, riescono a lenire la
sofferenza di questo momento drammatico.
Il
loro compito è quello di provvedere a salvare il salvabile, il mio come autore
è quello di mostrare l’orrore della separazione, per me è un dovere civico.
Mi
sono fermato prima delle sbarre perchè non ce l’ho fatta ad andare avanti, mi
sono fermato ai preliminari trovandoli sufficientemente atroci.
La
protagonista cerca la persona a cui lasciare la figlia in primo luogo tra i suoi
parenti con i quali i rapporti sono difficili o inesistenti, poi con l’uomo
con il quale l’ha concepita, ex compagno di lotta politica; sembra che la
rassicuri di più un ambito di consanguineità. Umano, ma un po’ in contrasto
con la figura di una donna che si intuisce avere alle spalle scelte non
convenzionali, non trova?
Spesso
parenti e amici sono quelli disposti a darti una mano quando NON ne hai bisogno.
Una
persona sola, nel caos della disperazione si rifugia negli affetti, per quanto
malati essi siano.
L’uomo
inteso come maschio rappresenta l’ideologia. L’ideologia ha le stesse
rigidità della Legge, ricerca di una presunta coerenza e di un’ ipotetica
organizzazione del diritto. La donna è da sempre legata a un altro concetto, più
complesso di organizzazione del pensiero e dell’agire quotidiano, che è
quello della Democrazia, cioè di una forma di partecipazione responsabile e
condivisa. Io questo l’ho sempre visto fare principalmente dalle donne anche
in modo politicamente trasversale, soprattutto sui diritti fondamentali
dell’essere umano. Il maschio ha il problema della prestazione;
dell’appartenenza a una squadra ideologica e risulta quindi rigido e scontato
in particolar modo quando è alternativo e progressista. Nel mio film la madre
cerca il padre della bambina per affidargliela innanzitutto perché i figli si
fanno in due: quest’uomo carismatico, sicuramente colto e intelligente, nega
il suo aiuto respingendo la donna-madre tra le braccia delle istituzioni, in
modo ideologico: “Lo Stato ti mette in Galera, Lo Stato deve provvedere a Tua
figlia!”
Perché un titolo biblico “La donna e il drago” (che
fa riferimento al Capitolo XII dell’Apocalisse) e i diversi altri riferimenti
al sacro che sembrano anche richiamare il concetto di sacralità della madre?
La
gestione maschile del sacro ha portato a varie catastrofi legate al problema del
controllo sessista del potere religioso che di spirituale non ha nulla; anche il
materialismo, come corrente filosofica, è una di queste derivazioni.
Ma l’archetipo della generatività femminile come mediazione tra
l’umano e il divino è cosa risaputa e antica. Sacro non significa
intoccabile, ma Complesso; Completo; un In-Essere attivo.
Io
vedo nella donna questa sorta di pragmatismo sensibile più vicino al sentimento
spirituale della vita del quotidiano, piuttosto che a una trascendenza
religiosa.
Il
linguaggio del film, dalle riprese al montaggio, è del tutto innovativo: sono i
silenzi, i primi piani, i dettagli su oggetti del quotidiano a rendere
incalzante il pathos del tempo che passa inutilmente, senza portare una
possibile soluzione. Quanto è difficile realizzare un film come questo?
Oggi
il cinema, non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa è sempre più
modaiolo, legato a delle trovate narrative convenzionali e superficiali, un
po’ come i giochi edonistici dell’architettura pubblica.
La
platea dei consumatori d’immagine è addomesticata a sapori artificiali; non
sostanze nutritive ma “aromi naturali”. Io tento di creare un cinema
Biologico, sostanzioso, e non temo smentite nel dire che son praticamente
da solo.
Il
cinema “biologico” sa che la vita è fatta di silenzi rivelatori, silenzi in
cui si dileguano i limiti del linguaggio, della chiacchiera, sa che il dettaglio
è il seme che esprime la potenza della futura pianta.
Pertanto
io sono avvolto da un’aura di mistero, qualcuno pensa che io in fondo non
esista, vengo indicato con un mix di compatimento, timore quasi reverenziale e
paura. Mi sento vicino a quegli spiriti liberi che cercavano di “vivere” nel
Blocco sovietico degli anni 30. Ma oggi il potere non è più esterno, cammina
nelle nostre stesse scarpe, quindi è difficile vederne le tracce.
Donne Dentro
Guardavamo
i ragazzi e nei loro visi vedevamo
Quella
classe del Liceo Curiel che ha incontrato pochi giorni fa, nel carcere della
Giudecca, le donne detenute ha vissuto un’esperienza diversa da quella che
hanno fatto tante scuole di Padova, entrando al Due Palazzi. Perché le donne in
carcere si sentono prima di tutto madri, e in questo incontro hanno manifestato
tutta l’emozione di rivedere negli studenti i loro figli, di rinnovare la
sofferenza e i sensi di colpa, ma anche la gioia di fare qualcosa di buono per
quei ragazzi
Ho
pensato a quando uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli
di Mimoza
Sapevamo
da più di un mese che una classe di una scuola di Padova voleva venire a
parlare con noi, e in un primo momento avevamo detto tutte che non c’erano
problemi e che a noi andava bene, ma una settimana prima dell’incontro ho
cominciato a chiedermi: cosa volevano sapere questi ragazzi? Cosa potevano
imparare da noi donne carcerate? Facendomi queste domande, pensavo a quando
uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli: che domande mi faranno
loro?
Intanto
i giorni passavano ed è arrivato il momento delle risposte. Al primo impatto
con loro ero emozionata, ma ho visto le loro facce che erano un po’ impaurite,
e anche incuriosite. Le loro prime domande non sono neanche riuscita ad
ascoltarle, e mentre Elda rispondeva, io sinceramente guardavo i ragazzi e nel
loro viso vedevo i miei figli.
Quando
uno ci ha chiesto: “In futuro avrete paura di confrontarvi con il mondo
esterno e i pregiudizi della gente?”, abbiamo voluto rispondere tutte. Io
personalmente, per quando uscirò da qui, ho tanta paura. Essendo straniera e
vivendo da più di dieci anni in Italia, in un piccolo paese, ho imparato che
tanti italiani hanno dei pregiudizi. Ma la mia paura più grande è quella di
confrontarmi con i miei figli e soprattutto con mio padre, che non mi perdonerà
mai questa esperienza.
Nel
momento dei saluti ho visto questi ragazzi diversi dal loro ingresso. Ho chiesto
a uno di loro cosa pensava dei carcerati prima di entrare e cosa pensava dopo il
nostro incontro. La sua risposta è stata: pensavamo di trovare delle persone
cattive e maleducate, diverse dalle persone che sono fuori, ma ci siamo accorti
che, seppur carcerate, siete delle brave persone con il cuore e con la testa
sulle spalle, ma soprattutto delle mamme. Vorrei che questo confronto si potesse
approfondire e poi vorrei chiedere se sarà possibile che anche i ragazzi ci
scrivano cosa pensano del nostro incontro.
Mi
auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere
di Alessandra
Erano
ventisei ragazzi dell’età di diciassette o diciott’anni, che frequentano la
quarta di un liceo di Padova e fin qui nulla di strano, solo che al posto di
trovarsi in una scuola, si trovavano dentro ad un istituto penitenziario
femminile, la Giudecca.
All’inizio
di questo incontro mi sentivo abbastanza imbarazzata, per me era la prima
esperienza, mi trovavo di fronte a persone sconosciute, interessate alla mia
storia e a quelle delle mie compagne detenute presenti all’incontro.
Anche
gli studenti erano imbarazzati con noi detenute, molto probabilmente avevano
l’idea di trovarsi in un ambiente ostile, estraneo e sconosciuto, con persone
private della cosa più bella e sacra, la libertà, perché nella vita hanno
fatto delle scelte sbagliate.
Io
ero una di quelle persone che mai nella vita avrebbe pensato di entrare in
carcere e di vivere la quotidianità carceraria. E invece sono qui e la mia
condanna finirà a febbraio 2012. Gli studenti sembravano molto incuriositi da
questa esperienza, loro ci hanno posto tante domande, e noi abbiamo cercato di
rispondere partendo dalla nostra storia.
Ai
tempi in cui io e le mie compagne frequentavamo le scuole superiori, purtroppo
di queste iniziative non c’era ombra. Secondo il mio punto di vista, è
importante che le direzioni degli istituti penitenziari promuovano esperienze
simili perché, anche se il tempo che abbiamo avuto a disposizione con questi
ragazzi era poco, l’incontro è stato davvero costruttivo. Penso però che
dovrebbero essere autorizzati a visitare anche le celle delle sezioni, dove
tocchi con mano la vita quotidiana di noi ristrette e di chi vive con noi anche
per lavoro.
Mi
auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere e che si
rendano conto che un errore può rovinarti la vita.
di Sandra
C’é
tensione nell’aria, tutti questi ragazzi davanti a noi che sembrano a disagio.
Come noi galeotte, del resto. Sono timorosi, curiosi. Ed ecco la prima domanda
del più temerario, quasi banale: “Ho notato che avete carta e penna per
prendere appunti, come mai?” e da lì si è aperto il confronto. Subito hanno
capito che di fronte a loro non ci sono quei personaggi da film, come ci vede
l’opinione pubblica anche per colpa di un certo terrorismo
dell’informazione, ma semplici donne. Come primo approccio per dei ragazzi
diciassettenni in visita in un penitenziario, la Giudecca non è un istituto che
fa l’effetto di una galera vera e propria. Non c’é quella sensazione di
cemento e cancelli che ti si chiudono alle spalle con le fatidiche tre mandate.
Bisogna
spiegargli che a noi è stata tolta la libertà di decisione, decidono gli
uomini della giustizia e quella poca scelta che ci rimane la dobbiamo delegare.
Il tempo è scandito sempre nello stesso spazio, sempre le stesse cose, sai che
la giornata di domani sarà uguale a oggi, a ieri, all’altro ieri, c’è una
sete disperata di novità. Dobbiamo fargli capire che siamo considerate
pericolose, tanto che ci privano anche dei lacci delle scarpe! Si sente che sono
bramosi di sapere perché siamo qui, come passiamo le giornate, così
dimentichiamo chi sono e chi siamo, e parte un confronto sereno: ognuna di noi
accenna alla propria storia perché si rendano conto che c’è un prima, le
scelte sbagliate, per ritrovarsi un dopo, in galera. L’attimo che durante
l’incontro ha creato più sentimento è quando una studentessa è scoppiata in
lacrime, amare, per il padre detenuto. Allo scadere del tempo, vengono portati
tutti a far visita all’’”oasi felice”, l’orto della Giudecca, dove le
donne detenute coltivano erbe per produrre poi creme di bellezza, e verdure, che
vengono vendute ai cittadini “liberi” una volta a settimana.
Ragazzi,
fatevi portare a questi incontri, io penso che vi servirà a capire e a
raccontare una realtà della quale, quando si è in libertà, tanti pensano che
è meglio se non si parla affatto. Sarebbe ora di sfatare tanti luoghi comuni
sul carcere, e i ragazzi per noi sono la speranza, sono i nostri messaggeri per
portare ai liberi il nostro dolore.
Ero
preoccupata di ritrovarmi davanti a dei ragazzi che hanno l’età di mio figlio
di Lella
Prima
dell’incontro con gli studenti l’idea di ritrovarmi davanti a dei ragazzi
che hanno l’età di mio figlio mi metteva in agitazione. Dentro di me pensavo
che effetto avrebbe potuto avere su quei ragazzi trovarsi dentro un carcere e
come si sarebbero comportati davanti a delle detenute e alle loro storie. Ero un
po’ scettica e nello stesso tempo temevo certe domande, o forse per essere più
precisa temevo certe mie risposte. Questo fino al giorno dell’incontro. Quando
siamo scese e abbiamo trovato gli studenti che ci aspettavano nella sala
colloqui, per un attimo il mio cuore si è fermato, tra di loro ho intravisto un
ragazzo che assomigliava molto a mio figlio e in quel momento ho capito che
tutto si sarebbe svolto nella più assoluta normalità, ed è stato così, come
una lunga chiacchierata con i miei ragazzi, anche se loro sanno già il come e
il perché della mia vita. Ricordo ancora il nome di quel ragazzo, Antonio.
Davanti a noi c’erano dei giovani dai visi puliti e desiderosi di capire come
si possa finire dietro le sbarre e come si possa trovare la forza di andare
avanti in un posto del genere, specialmente per delle donne, per delle mamme.
Non è stato difficile far capire che può succedere a tutti di sbagliare, anzi
è stato semplice perché non abbiamo usato parole difficili e tanto meno
abbiamo girato intorno all’argomento.
Hanno
capito che la vita va vissuta e goduta ma con un occhio di riguardo a quello che
si fa e a chi si frequenta, gli errori li puoi commettere tu stesso o trovarti
in mezzo senza rendertene conto, e alla fine ti ritrovi chiuso. Hanno fatto
molte domande su come passiamo il nostro tempo e le opportunità che può
offrirti il carcere. Una cosa mi ha reso orgogliosa di quei ragazzi, hanno
capito che il carcere non è come nei film americani, ma è un luogo fatto di
tristezza di dolore e di tanto sacrificio, hanno capito che dentro un carcere
non ci sono “mostri”, ma persone che hanno cuore, che soffrono, che hanno
dei sentimenti e un cervello. Hanno visto che rinchiuse tra quattro sbarre ci
sono Donne.
Gentian Belegu, Andrea Beltramello, Vincenzo Boscarino, Sandro
Calderoni, Gianluca Cappuzzo, Marco Cavallini, Altin Demiri, Mohamed El Ins,
Filippo Filippi, Antonio Floris, Ulderico Galassini, Gentian Germani, Milan
Grgic, Dritan Iberisha, Bardhyl Ismaili, Pierin Kola, Davor Kovac, Miroslav
Lazarov, Marco Libietti, Enos Malin, Michele Montagnoli, Bruno Monzoni, Halid
Omerovic, Elvin Pupi, Salem Rachid, Oddone Semolin, Walter Sponga, Hasin Taha,
Bruno Turci, Igor Muntenau, Germano Vetturini, Serghej Vitali, Cesk Zefi
Redazione
Giudecca
Alessandra,
Cinzia, Elda, Lella, Luminita, Margareth, Mimoza, Nawal, Sandra, Tamara, Tania,
Vanessa
Direttore
responsabile
Ornella
Favero
Responsabile
della Redazione
Elton
Kalica
Segreteria
Redazionale
Gabriella
Brugliera, Vanna Chiodarelli, Lucia Faggion, Silvia Giralucci
Ufficio
stampa e Centro studi
Francesco
Morelli, Francesca Rapanà, Nicola Sansonna, Paola Marchetti, Ernesto Doni,
Andrea Andriotto, Elisa Nicoletti, Maurizio Bertani
Servizio
abbonamenti
Sandro Calderoni
Sbobinature
Filippo Filippi, Michele Montagnoli,
Bruno Monzoni, Germano Vetturini
Fotografie
Dritan Iberisha
Realizzazione
grafica e Copertina
Elton Kalica
Responsabile
per cinema e spettacolo
Antonella Barone
Direttore
editoriale
Giovanni
Vianello, Associazione di volontariato
penitenziario “Il Granello di Senape”
Collaboratori
Adriana
Bellotti, Angelo Ferrarini, Carlo Lucarelli, Daniele Barosco, Davide Pinardi,
Fernanda Grossele, Giovanni Viafora, Giulia, Patrizia, Marco Rigamo, Mario
Salvati, Paolo Moresco, Tino Ginestri, Roberto Rampanelli Menotti
Stampato
Tipografia
CopyLogos. Via Tommaseo, 96/B - 35129 Padova. tel. 0498073088
Pubblicazione
registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione
in A.P.
art.
2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova
Redazione
di Ristretti Orizzonti: Via Due Palazzi, 35/a - 35136 Padova
Sede
esterna: Via Citolo da Perugia, 35 - 35138 Padova, Tel/fax: 049654233
e-mail:
ornif@iol.it - redazione@ristretti.it