Ergastolo: murati vivi

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Ristretti Orizzonti

(anno 13, numero 3 Maggio - Giugno 2011)

 

Editoriale

Ergastolo ostativo, una pena davvero perpetua di Elton Kalica

Parliamone

“Noi non vogliamo buttare via nessuno” intervista ad Agnese Moro, figlia dell’Onorevole Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse

Un trattamento UMANO può umanizzare chiunque di Ornella Favero

Contro l’ergastolo di Franco Corleone

Ogni giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è fuori di Giovanni Prinari

Condannato all’ergastolo, ma fare il padre è un suo diritto di Veronica Prinari

La morte civile di Maurizio Bertani

E se mi avessero condannato all’ergastolo? di Ulderico Galassini

Non ti fucilo, ma ti faccio morire lentamente di Milan Grgiç

“Fine pena mai”, la morte per logoramento testimonianza raccolta da Antonio Floris

Dopo la condanna, mi sarei tolto la vita se non fosse per la mia famiglia di Bardhyl Ismaili

Per uno straniero ergastolano, mettere piede fuori è un’impresa disperata di Gentian Belegu

L’ergastolo ostativo, quello che ti condanna a morte facendoti restare vivo di Nadia Bizzotto e Giuseppe Angelici

In Alta Sicurezza il clima che si respirava era di una disumanità schiacciante di Elton Kalica

Morire di carcere

Due morti che indignano di Elton Kalica

Ristrettamente utile

Niente spesa, siamo tutti più poveri di Elton Kalica

Cinema e televisione

Le conseguenze dell’abbandono a cura di Antonella Barone

Donne Dentro

Guardavamo i ragazzi e nei loro visi vedevamo i nostri figli

Mi auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere Alessandra

Ho pensato a quando uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli Mimoza

I ragazzi per noi sono la speranza Sandra

Ero preoccupata di ritrovarmi davanti a dei ragazzi che hanno l'età di mio figlio Lella

Redazione

Editoriale

 

Ergastolo ostativo, una pena davvero perpetua

 

di Elton Kalica

 

Solitamente, si sente parlare di ergastolo quando qualche fatto di cronaca, per la sua stessa natura oppure per una costruzione mediatica, fa inorridire l’opinione pubblica a tal punto, che la condanna è accolta con soddisfazione solo se cala sulla testa del colpevole la spada del carcere a vita. E a volte, nemmeno l’ergastolo soddisfa. Perché si ha la convinzione che in Italia ci sia una giustizia che funziona male e in galera non ci rimanga nessuno.

Gli ergastolani in Italia sono più di millequattrocento. Circa la meta si trova nei circuiti differenziati, tra regime di Alta Sicurezza e 41 bis, per cui una buona parte di loro è esclusa dalle misure alternative al carcere. Si tratta dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario che ha la sua manifestazione più crudele nell’ergastolo ostativo.

Nella nostra redazione abbiamo incontrato molti famigliari di vittime e abbiamo ragionato insieme su temi come l’odio, il rancore e la sofferenza, ma nessuna di loro ci ha detto di aver voluto vedere gli assassini dei propri cari morire in galera. Ultimamente abbiamo incontrato Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che ci ha regalato un incontro straordinario, anche perché viviamo in un momento in cui, come ci ha detto lei, “non siamo più abituati ad avere dei posti in cui ragionare insieme di cose importanti, è diventata una cosa rara trovarsi e confrontarsi”.

Era da parecchio tempo che volevamo dedicare un numero di Ristretti all’ergastolo, e l’incontro con Agnese Moro ci ha convinti a farlo. “L’ergastolo è come dire ad una persona ‘ti vogliamo buttare via’, ma io non voglio buttare via nessuno”: sono parole sue, queste, che ci hanno fatto conoscere un’umanità che non siamo più abituati a vedere, soprattutto se guardiamo la realtà attraverso la lente spesso deformante della televisione.

Quando la Corte Suprema brasiliana ha deciso che l’estradizione di Cesare Battisti era illegale, in pochi hanno spiegato che uno degli ostacoli che hanno impedito l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale. Infatti, se Battisti dovesse tornare in Italia, passerebbe il resto della sua vita in carcere, senza la possibilità di usufruire di alcun tipo di misura alternativa al carcere: si tratta, appunto, dell’ergastolo ostativo, che ci spiega bene spiega Luigi Morsello nel suo libro La mia vita dentro. Le memorie di un direttore di carceri: “È un dato di fatto: il condannato all’ergastolo che rifiuta di collaborare con la giustizia non otterrà mai alcun beneficio e per lui davvero la pena è perpetua”.

Allora, parlare dell’ergastolo ostativo ci costringe a sollevare il problema di una legge nata sull’onda emotiva delle stragi mafiose di vent’anni fa. Quella legge forse aveva un senso in quel momento storico, ma se l’emergenza implica la sospensione di alcuni diritti per un limitato periodo di tempo, non vi pare che sia giunta l’ora di considerare l’emergenza conclusa e ripristinare tutti i diritti sospesi? Questo anche in ragione del fatto che quella legge colpisce oggi detenuti che non hanno mai avuto legami con chi ha messo in atto le stragi mafiose. Si tratta spesso di stranieri, ma anche di giovani italiani, che se hanno commesso reati gravi, è stato forse per via di quelle dinamiche che si sviluppano nel mondo degli emarginati, tossicodipendenti compresi, ma che nulla hanno a che fare con le mafie che questa legge voleva combattere. Le sezioni di Alta Sicurezza oggi si stanno riempendo di stranieri e di tossicodipendenti, e anche loro, se non collaborano con la giustizia facendo arrestare qualcuno, sconteranno per intero la condanna, che per molti significa il resto della vita “murati vivi” in carcere.

L’ergastolo è una pena inesorabile. Sentirsi dire dal magistrato di Sorveglianza che la propria condanna all’ergastolo è da considerarsi ostativa significa perdere ogni speranza di iniziare un giorno a dare un po’ di dignità alla propria vita. Una sensazione descritta bene da Dostoevskij per bocca di uno dei personaggi del romanzo “L’Idiota”, riferita alla pena di morte, che in fondo è assolutamente simile all’ergastolo ostativo: “Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si son dati casi, in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dai suoi assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone, e accostatevi con la miccia: chi sa! penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte, e lo vedrete piangere o impazzire.”

 

 

Parliamone

 

Noi non vogliamo buttare via nessuno

Un incontro con Agnese Moro

“L’ergastolo invece mi sembra sia veramente un controsenso, come se dicessimo: Ti vogliamo recuperare, però… ti vogliamo buttare via”: è una riflessione, questa, sul significato della pena, fatta da Agnese Moro, che dal padre ha assorbito la capacità di parlare delle pene con umanità, e questa umanità non l’ha persa nemmeno quando il padre glielo hanno ucciso

 

a cura della Redazione

 

Agnese Moro la conosciamo già, perché è intervenuta al convegno “Spezzare la catena del male”, che abbiamo organizzato nella Casa di reclusione di Padova nel 2010, ma volevamo fare con lei un incontro più raccolto e che affrontasse anche alcuni temi che erano stati cari a suo padre, fra i quali l’ergastolo. Così l’abbiamo invitata in redazione.

 

Elton Kalica: Innanzitutto la ringraziamo per essere venuta, perché è un appuntamento che abbiamo atteso a lungo, dopo che lei è intervenuta al nostro convegno dell’anno scorso. Per iniziare io sarei curioso di sapere le sensazioni che lei ha avuto nel venire qui in carcere a raccontare la sua storia, di fronte a tante persone, di cui molte detenute.

 

Agnese Moro: Diciamo che è stata una cosa importante per me.

Io sto facendo un percorso per riuscire a ritrovare, da parte di coloro che hanno fatto del male a mio padre e agli uomini della sua scorta, gli esseri umani, perché nella mia mente per tanti anni io ho avuto dei mostri, qualcosa di informe, qualcosa che non sapevo nemmeno chi fosse…

E l’incontro con voi lì al convegno debbo dire che è stato per me molto incoraggiante, perché gli interventi erano belli, toccanti, erano appunto pieni di questa umanità che io vado cercando. Quindi mi son sentita un po’ a casa in qualche maniera, non mi sono sentita in un posto estraneo perché mi pareva che stessimo cercando, in fondo, tutti le stesse cose, magari in maniera diversa, ma mi sembrava che cercassimo tutti una strada, per rimuovere quegli ostacoli che ci impediscono di essere di nuovo insieme nei nostri percorsi.

Quindi è stato per me molto… dire interessante sarebbe una cosa fredda, per me è stato coinvolgente, mi son sentita parte della vostra vita insomma.

 

Elton Kalica: Fa piacere sentire queste parole, perché anche per noi è faticoso fare questo percorso, iniziando dalle riflessioni sulle scelte di vita che ci hanno portato a commettere reati.

Lei ha fatto qualche riflessione, qualche pensiero su questa forma di mediazione che stiamo facendo? Cioè su questi particolari tipi di incontri che non sono la mediazione classica tra autori di reati e vittime dirette, ma è un po’ una mediazione ”collettiva”, come è anche l’incontro oggi, come lo è stato il convegno dell’anno scorso?

 

Agnese Moro: Io penso che sia molto importante questa capacità che voi avete di coinvolgere la società (pezzi di società, ovviamente!), che a loro volta sono dei mezzi di trasmissione dei ragionamenti e delle riflessioni che vengono fatte. Mi sembra anzi molto giusto, perché una delle cose su cui ci si scontra è un po’ l’isolamento, no? L’isolamento non è poi solo fisico, è un isolamento comunicativo, di relazione, ma questa è un’esperienza che io posso in qualche maniera, pur lontanamente, capire perché anche la vita di noi che siamo state vittime di un reato come l’omicidio è una situazione che ci isola, perché comunque la tua vita è diversa da quella di un altro.

Tutto è abbastanza complicato e mi sembra che voi abbiate una grande capacità di coinvolgere la società. Con le scuole, per esempio, fate una cosa veramente di una grandissima importanza, perché io penso che noi abbiamo proprio bisogno di ricreare legami, viviamo in un mondo che tende a spezzarceli tutti e farci sentire ognuno da solo e quindi poi dobbiamo difenderci; invece tutto quello che ci rimette insieme, che ci fa riflettere, che ci porta a contatto l’uno con l’altro, mi sembra una cosa veramente importante, e mi pare che voi lo facciate molto bene. C’era un sacco di gente al vostro convegno e non è che era gente venuta così per caso perché era facile e semplice venire. Bisognava anche arrivarci, no? Da tutti i punti di vista bisogna arrivarci: dal punto di vista fisico, dal punto di vista d’apertura mentale, di desiderare, non solo di accettare una situazione, ma di desiderare di viverla, quindi si vede che voi avete seminato molto bene in questo tempo.

 

Elton Kalica: Questa esperienza noi l’abbiamo iniziata un po’ casualmente. Mi sembra fosse il 2008 quando Olga D’Antona è venuta qui e ci ha raccontato la sua storia di sofferenza, di come si è ritrovata da sola tutto ad un tratto, quando le hanno ucciso il marito. E questo ha fatto riflettere molti di noi. Rammento che un ragazzo che era presente all’incontro si è messo addirittura a piangere, e poi ha scritto anche un articolo nel quale diceva che lui in tutti questi anni di carcere non aveva mai pensato alla mamma e ai famigliari della persona che aveva ucciso. Sentendo invece la testimonianza di Olga D’Antona, ha pensato automaticamente alla madre della sua vittima. Questo per far capire che vedere lei che raccontava la sua storia densa di sofferenza, ha toccato tutti. È stata per noi una cosa nuova, perché non avevamo mai fatto prima un’esperienza di questo tipo.

Poi di volta in volta siamo andati avanti con queste importanti iniziative. Ora anche noi cerchiamo di fare la nostra parte, nel senso che raccontiamo, attraverso le cose che scriviamo, la sofferenza che vi è anche da questa parte, perché è un mondo di sofferenza anche questo; sono due mondi di sofferenza che in qualche modo si raccontano, però continuando a trovare le ragioni per cui ha un senso fare tutta questa fatica. Quindi fa anche piacere sentire il ragionamento che ha fatto lei sull’isolamento, su questa necessità di ricreare legami: è un po’ anche quello in cui crediamo noi, la necessità di creare legami e conoscersi, perché la comunicazione è poi quello su cui abbiamo fondato il nostro lavoro e tutto quello in cui crediamo.

Poi anche sull’isolamento mi piacerebbe tornare, dal momento che lei ha parlato, nell’incontro dell’anno scorso, dell’isolamento nel quale si è venuto a trovare Aldo Moro, suo padre, quando è stato rapito e tenuto prigioniero, perché poi vi è stato un abbandono da parte delle istituzioni, che invece lui onorevolmente e umilmente rappresentava. Quindi, seguendo il suo ed il mio ragionamento, c’è il senso del come ti ritrovi da solo tutto d’un tratto con il vuoto attorno.

È ovvio, sono casi e storie diverse perché noi siamo qui per avere commesso qualcosa talvolta di molto grave, però comunque mi è parso di vedere lo stesso tipo di isolamento di quando, nonostante tu sia diventato un’altra persona, non hai più nessuno intorno a te e ti ritrovi solo. Ecco, ci potrebbe essere questa similarità, proprio nel quadro di due mondi, quello delle vittime e quello degli autori di reato, che imparano a conoscersi, e poi forse si riconoscono dei tratti simili.

 

Agnese Moro: A me aveva tanto colpito per esempio, ascoltando i vostri interventi, la lontananza dalle famiglie, la difficoltà d’incontrarsi, il non avere un momento in cui ci sia lo spazio per potersi dire delle cose, per poter stare insieme serenamente, per tutta la confusione che c’è attorno a questi difficilissimi incontri. Io quello un po’ l’ho capito perché a me sarebbe piaciuto tantissimo in quei giorni in qualsiasi modo poter incontrare papà, potergli anche solo parlare per esempio. Addirittura mia mamma diceva: “…ma me lo facessero almeno tenere per mano anche se lo ammazzano, che io potessi essere lì a dargli la mano mentre muore…”. Cioè questo desiderio di poter vedere la persona, di poterle stare vicino. Alla fine non credo che dovrebbe essere così complicato favorire dei colloqui con i famigliari che siano dignitosi, quindi mi son sentita molto partecipe di questa negazione degli affetti più naturali, più vicini. Così ho pensato a voi ed a quanto dovete soffrire per non aver vicini i vostri famigliari, ma anche a quanto loro debbano soffrire di non poter stare con voi il tempo che è necessario e che è utile. Son tutte cose che poi sono rimediabili, sulle quali basterebbe la volontà di fare qualcosa.

 

Elton Kalica: Dal punto di vista tecnico sì, ma son le idee quelle che sono più difficili da cambiare e siccome l’ottica è quella della punizione, qualsiasi altra cosa è vista come un lusso, come un privilegio che non ci spetta, va da sé che allora rimuovere questa visione, cambiare questo modo di pensare è molto difficile.

 

Bruno Turci: Io l’ho ascoltata attentamente e volevo fare una riflessione. Ho una certa età, quindi ricordo benissimo tutto quello che è successo negli anni settanta ed ho avuto modo di apprezzare lei ed anche qualcun altro della sua famiglia, la vostra capacità di non odiare, di cercare di capire, di mediare. Ricordo anche di averla sentita parlare delle persone che hanno agito contro suo padre in termini che hanno fatto si che io la ammirassi. Lei li chiama persone, io non so se li abbia mai incontrati, credo che forse qualcuno della sua famiglia negli anni passati frequentasse il carcere e che abbia avuto modo di incontrare qualcuno di loro.

Lei al convegno dell’anno scorso ha parlato del perdono e lo ha fatto in termini molto schietti, in termini che mi son piaciuti; in poche parole ha detto: “…Ma se io non li conosco, non li ho mai frequentati, non so dire di loro nulla di più di quello che ho letto, cosa significa perdonarli? C’è bisogno che li perdoni io perché possano avere un beneficio? Ma che glielo diano, fanno bene a chiederlo… Il perdono viene da un percorso che poco ha a che fare con l’espiazione della condanna materiale: ad un certo punto uno una mattina si sveglia e decide di perdonare…”.

Io volevo fare a lei una domanda che potrebbe sembrarle indiscreta: “Lei ha perdonato?”.

 

Agnese Moro: Intanto grazie per tutti i complimenti molto gentili. Dunque, io penso di sì. Penso di sì perché mi sento molto serena e quindi penso che quella decisione… (mi sveglio una mattina e decido…) sia potuta divenire qualche cosa di mio, e su quello non vorrei tornare indietro mai, vorrei solo andare avanti. Sull’incontrare le persone… sì qualcuno l’ho incontrato e mi piacerebbe incontrarli tutti perché probabilmente vorrei vedere delle persone, vorrei capire… Penso che siamo come due facce di una stessa medaglia, cioè che le nostre vite sono comunque collegate in una maniera strana, un po’ misteriosa, forse è assurdo dirlo, però credo siano strettamente collegate. Quindi li vorrei veramente conoscere tutti, uno per uno, con il sostegno di persone che possano aiutare a fare comunque di questi incontri una cosa che abbia senso, che sia possibile per me e sia possibile anche per loro, perché in questi incontri che ho fatto ho visto che non è solo difficile per me, è difficile anche per loro, vi è un rimorso grandissimo per quello che è stato fatto, qualcosa che non puoi cancellare, che rimane comunque lì e che loro sentono molto come un peso grandissimo.

Ecco, portare insieme magari questi pesi, secondo me, è una cosa importante e penso che mi faccia molto bene (egoisticamente parlando…), potersi conoscere, poter capire. Poter appunto ritrovare le persone, ritrovare le persone secondo me è fondamentale perché c’è sempre qualche cosa di diverso da come te lo saresti aspettato. Quindi io penso sinceramente di sì, però poi vi devo dire che c’è il passo ulteriore che è quello che mi interessa in questo momento in quanto, essendo un po’ cristiana, nel Vangelo Gesù ci dice: “Amate i vostri nemici”. E stranamente appena li ami non sono più tuoi nemici, però li devi conoscere, e quindi c’è comunque un passo che va fatto, e anche loro hanno fatto un percorso molto importante che li ha condotti a desiderare un incontro, che però non deve portare a niente di pratico, è semplicemente il ricomporre qualche cosa che è stato stracciato.

 

Elton Kalica: Con lei vorremmo anche parlare dell’ergastolo, a partire dalle riflessioni di suo padre su questo tema.

 

Agnese Moro: Mio padre era molto contrario all’ergastolo. Mio padre è stato per moltissimi anni professore di diritto penale, quindi tra l’altro era materia sua! Lui sosteneva questo: che gli esseri umani, la sostanza di cui son fatti gli esseri umani è la libertà. Se tu una persona la privi della speranza di ritornare libera, della certezza di tornare prima o poi libera, tu quella persona è come se l’avessi uccisa. E allora, essendo contrarissimo alla pena di morte, forse è meglio, è meno disumano ucciderla che lasciarla lì per sempre, senza speranza di ritornare mai libera.

Io penso che sia una cosa molto vera, molto saggia, molto umana, cioè mio padre guarda tutto nella prospettiva di una pena che viene data non per una vendetta, ma perché c’è qualche cosa che è stato rotto e questo equilibrio si deve ricomporre e si ricompone attraverso la privazione della libertà, che è una forma di afflizione, di dolore che deve portare ad un ripensamento e a un rientrare nella società. Ed è una afflizione che non va condita con altre afflizioni: io ti tolgo la libertà ma questo togliere la libertà non significa togliere gli affetti, il lavoro, tutti gli strumenti che ci possono essere per una crescita. Quindi per lui la pena serve a ritornare nella società, non è una punizione in senso stretto. È un atto che deve servire per ricomporre qualche cosa.

A me sembra un concetto, quest’idea che tutti debbano avere la possibilità di ritornare liberi, che è fondamentale per coltivare la speranza di noi tutti. Perché veramente è una cosa troppo triste: tu perché dovresti fare uno sforzo, una qualsiasi forma di sforzo per rivedere la tua vita, se non hai la prospettiva di ritornare a viverla? Allora l’ergastolo significa solo che sei un essere pericoloso, ti chiudo dentro una scatola, faccio finta che non esisti, non ti ammazzo perché sono superiore, però come persona non ti voglio più.

Il suo ragionamento invece è tutto di un mondo nel quale le persone sono la cosa più importante. Per la nostra Costituzione le persone sono la cosa che viene al primo posto, in ogni caso c’è un’umanità anche nel gesto di fare il male, perché comunque è un gesto di libertà. Chiaramente non è una cosa bella, ma c’è un essere umano dietro. Mio padre contrappone questo ragionamento a tutto un altro tipo di concezione che dice che è la società che ti porta a compiere certi atti, quindi tu non sei niente: apparentemente è una teoria “più buona”, perché ti toglie una responsabilità, ma togliendoti quella responsabilità, ti toglie pure la tua umanità e la titolarità a fare delle cose.

Mi sembra che sia abbastanza convincente questo fatto, io considero una cosa terribile l’ergastolo, veramente, ma poi non ha senso. Io, che pure dovrei sentirmi molto piena di giustizia perché comunque le persone responsabili della morte di mio padre sono state tutte condannate (qualcuno è scappato), ma il 90% è stato in carcere tutti gli anni che doveva stare, sento che non è che mi dia tanto di più il fatto che loro siano stati presi ed abbiano o stiano scontando la loro sonora condanna, penso lo stesso che mio padre non abbia avuto giustizia perché la giustizia non è fatta dal “…ti punisco”, è fatta dal “ti riporto insieme con noi…”, questo già assomiglia di più all’idea di giustizia. Sento molta più giustizia quando mi trovo in una situazione dove vi sono anche quelle persone che hanno fatto cose sbagliate e che hanno dietro tutto un cammino, e siamo insieme, ne parliamo e ne discutiamo serenamente. Quindi mi sembra che l’ergastolo sia veramente un controsenso, ”…Ti vogliamo recuperare, però… ti vogliamo buttare via”. Noi non vogliamo buttare via nessuno, per me questo è fondamentale, noi siamo un Paese che non deve/vuole buttare via nessuno, noi siamo tutti insieme…

 

Bruno Turci: Io ho letto le riflessioni sull’ergastolo, espresse da suo padre all’Assemblea Costituente, ed anche alle lezioni che lui teneva alla facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma. Lui affermava che è necessario stabilire dei limiti all’afflizione della pena e la stessa deve essere inserita in un quadro di recupero della persona. Però l’ergastolo ha tradito questo principio. Mi permetto di leggere un pezzo di un suo intervento in una lezione “…per quanto riguarda questa richiesta di come debba essere la pena, un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale che istantaneamente e puntualmente elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua. L’ergastolo, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento, appare severo e disumano non meno di quanto lo è la pena di morte. Proprio per il fatto che l’ergastolo impedisce una progettualità alla persona detenuta che ha commesso un reato, impedisce di rivedere, di ricostruire se stesso in prospettiva di un reinserimento sociale, di un recupero”.

Quindi l’ergastolo è contro quello che è il dettato costituzionale, che è l’art. 27. E questo Moro lo afferma in maniera molto forte. La Corte Costituzionale ha poi riconosciuto il problema dell’ergastolo, rispetto all’art. 27 della Costituzione, ma di fatto mi pare che si sia un po’ arresa, non si capisce come mai. E pensare che Giorgio La Pira e Lelio Basso avevano chiesto che non ci fosse l’ergastolo nel nostro Codice penale e fosse stabilito un limite massimo delle pene di 15 anni, oggi siamo arrivati al punto che non siamo riusciti neppure ad abrogare l’ergastolo.

Tra l’altro lei sicuramente saprà che esiste un tipo di ergastolo, che è denominato ostativo, il quale non presuppone alcuna possibilità di permessi premio e questa è una novità che esiste dal 1992, è stato introdotto per i reati cosiddetti di prima fascia del quattro bis: associazione mafiosa, traffico di droga e sequestro di persona e terrorismo internazionale.

 

Agnese Moro: A me sembra, anche ascoltando le persone che incontro (e vado in giro parecchio…), che ci sia una tendenza più emotiva che razionale, che dice: “Bisogna buttare via la chiave!”, oppure si dice che non c’è la certezza della pena, che poi è uno slogan perché non è vero che non ci sia la certezza della pena… La nostra è una società che si sente insicura e cerca un modo per difendersi da cose su cui non dovrebbe arrivare il diritto penale, dovrebbero essere risolte prima! Non so come spiegarmi bene, ma a me sembra una società molto stressata e così cose che erano abbastanza certe fino a vent’anni fa, adesso sembra che siano diventate più aleatorie, tant’è vero che poi abbiamo una vita pubblica-istituzionale non proprio di specchiata onestà o almeno di specchiato buon gusto. E allora però le persone che non sono in grado di affrontare la complessità di questa società e la complessità dei rimedi che andrebbero pensati, si buttano sul fatto di dire che devono essere sicuri che le persone che fanno qualcosa di male non escano più dal carcere. Purtroppo è un sentimento terribile, bisogna prenderne atto, ma c’è, perché poi non siamo più abituati ad avere dei posti in cui ragionare insieme delle cose, è diventata una cosa rara trovarsi e confrontarsi, capita molto di più con i ragazzi nelle scuole che ci siano occasioni di riflessione.

Questa contraddittorietà c’è anche in chi dovrebbe essere tutore della nostra Costituzione. Quindi forse si dovrebbe riaprire una discussione su questo tema in maniera seria, in modo che si possa anche ri-ragionare su questa emotività così forte che c’è in giro. Io la sento molto, spesso sono io che mi dico che sono particolarmente sensibile e recettiva, perché veramente la gente è esasperata, ha paura di tutto e di niente. Non è che poi il nostro Paese sia un Paese così pericoloso, così assediato, ma le persone si sentono sole e, sentendosi sole, in pericolo, reagiscono spesso in modo irrazionale… Bisogna invece tornare a ragionare, questo è importantissimo! Però non abbiamo, come dire, un Ente che “ci fa ragionare”, forse bisognerebbe coinvolgere in questa riflessione anche i non addetti ai lavori, che potrebbero farsi carico di un ragionamento comune.

 

Ornella Favero: Io credo che sia una battaglia culturale che manca prima di tutto nel nostro Paese. Allora noi adesso stiamo parlando dell’ergastolo, però la battaglia in realtà è proprio su quale sia la pena sufficiente per essere ritenuta socialmente accettabile perché, anche nelle bozze di riforma del Codice penale, tutti quanti, di destra e di sinistra, prevedevano l’abolizione dell’ergastolo, però parlavano di pene come 33 anni di pena massima, che è una vita lo stesso. Poi io lo vedo con gli studenti, per loro, gli anni scontati da chi ha commesso un omicidio, di qualsiasi omicidio si tratti, anche in una rissa, o per aver guidato ubriachi, non sono mai abbastanza.

Bisognerebbe fermarsi un attimo a riflettere se davvero sono pochi quindici o vent’anni. Le vittime in questo caso, anche per le persone più aperte, diventano sempre un po’ l’alibi: una pena di quindici anni o vent’anni è troppo poco, non può “soddisfare la vittima”. Questo è un po’ il tema che io vedo collegato all’ergastolo: qual è la pena che può non essere “offensiva” per la vittima.

 

Agnese Moro: Il tema mi sembra sia molto giusto e credo sia uno di quelli centrali, perché poi vi è anche chi non si accontenta mai, allora trent’anni son pochi, 40 anche. Comunque su questo sono d’accordissimo, andrebbe rivisto il criterio, che dovrebbe andare di pari passo con una riflessione su che cosa è la giustizia, se ottenere giustizia è giocato sul numero di anni comminati, cosa significa ottenere giustizia dal punto di vista di una vittima. Che cos’è che mi fa sentire alla fine che quello che è stato fatto ad una persona cara è stato sanato? io ho una mia idea, mi verrebbe da dire: “Tutto il tempo che serve per poter ritornare in se stessi”. Se dovessi seguire il mio personale modo di ragionare, io darei a te che hai commesso un reato una pena che duri il tempo che ti serve per riuscire a fare questo percorso di ritorno, a capire che quella cosa è sbagliata.

 

Filippo Filippi: …E sempre comunque qualcuno dovrebbe stabilire poi se, trascorso un certo tempo, l’autore di reato è riuscito a ritornare in sé… Potrebbe divenire un “fine pena mai” anche questo…

 

Agnese Moro: Certamente, infatti non voglio dire che sia giusto ciò che dico io. Dico solo che dal punto di vista di chi ha ricevuto un torto la cosa più bella è che l’altra persona, quella che il torto l’ha fatto, capisca che ha fatto una cosa sbagliata, secondo me è l’unica cosa che mi può in qualche maniera confortare, consolare mi sembra eccessivo.

 

Elton Kalica: È il principio che sta alla base in quei Paesi, dove vi è una forma di esecuzione della pena per cui dopo alcuni anni la pena stessa viene sottoposta a una verifica ad opera di un collegio di esperti. Arrivati ad un certo punto guardano il percorso che una persona ha fatto all’interno del carcere e, se vedono che la stessa si può considerare recuperata dopo un percorso di rivisitazione del proprio passato criminale, allora sospendono la pena. Come principio mi sembra che abbia molto di positivo se paragonato ad un sistema rigido come quello italiano in cui, quando tu ti prendi la tua condanna definitiva, gli anni che hai preso te li devi fare. Ovviamente ci sono le misure alternative, puoi andare in semilibertà, ma comunque quella pena non viene più messa in discussione.

Ogni tanto poi, qualche ragazzo ci dice che preferirebbe l’ergastolo rispetto alla pena di morte, così uno sta tutta la vita in galera e soffre di più, mentre invece con la pena di morte uno viene ucciso e… via. Ma mentre sulla pena di morte ci sono abbastanza argomenti per dire che dal nostro punto di vista è una cosa sbagliata, sull’ergastolo è ancora, anche tra di noi, un continuo discutere, un continuo confrontarsi.

 

Agnese Moro: Perché, tra di voi non c’è un unico modo di sentire?

 

Elton Kalica: Certo noi in linea di principio siamo abolizionisti. Però quando discutiamo sui casi specifici, entrano in ballo considerazioni personali, e qualcuno inizia a fare eccezioni. Gli studenti per esempio sono bravi a chiederci “E se facessero del male a tua figlia?”, e anche i detenuti sono influenzati da una certa informazione, che ha sempre la necessità di dare risposte all’opinione pubblica sui fatti di cronaca, e l’ergastolo viene considerato per certi reati una risposta completa, esemplare. Non a caso in alcuni processi, se viene comminato l’ergastolo, il giornalista, le vittime o il pubblico, quando sentono che la sentenza è l’ergastolo, dicono che “Giustizia è stata fatta…”, mentre spesso quando la condanna è minore, c’è il giornalista che va con il microfono dalla vittima, la quale dice: ”No, questa non è giustizia, avrebbero dovuto dargli non trent’anni ma l’ergastolo”. Mi ricordo che di questo abbiamo parlato anche con il magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio, pure lui diceva che è giusto mantenere l’ergastolo perché ha un valore simbolico nei confronti dei famigliari delle vittime e dell’opinione pubblica, e poi fa anche da deterrente. Quindi elencava una serie di motivi per i quali, secondo lui, doveva rimanere questa condanna al “fine pena mai”; poi questa durissima condanna veniva equilibrata dal fatto che, sempre secondo lui, in Italia l’ergastolo effettivo non c’è, perché le persone prima o poi escono. Invece noi qui lo sappiamo che vi sono alcune fasce, per le quali il fine pena mai esiste eccome.

 

Ornella Favero: Agnese, quando tu chiedevi se non avessimo un sentire comune, qui naturalmente è chiaro che le persone sono contro l’ergastolo. Però noi siamo oramai talmente abituati a cercare di spiegare le cose ai ragazzi delle scuole, che ci esercitiamo a trovare la strada per farlo nel modo più efficace. Un conto è avere noi la consapevolezza di quanto possano essere un’eternità 15/20 anni di carcere, altra cosa è trovare la strada per farlo capire a delle persone fuori, in particolare a dei giovani studenti. Quando i ragazzi ci dicono: ”Ma se capitasse a voi....”, io rispondo che se capitasse a me, non so come reagirei. So che mi sto allenando, che questo è un po’ un allenamento a cercare di reagire in modo più umano, ma non sono affatto convinta che ne sarei capace.

 

Silvia Giralucci: Io non ho una risposta chiara e semplice. Come il resto della redazione, frequentando le persone che stanno qui dentro mi sono convinta che venti, trent’anni passati tra le sbarre sono un tempo già di per sé lunghissimo. E allo stesso modo, però, se penso ad alcuni casi di cronaca, e viene in mente, tanto per fare un esempio, il rapimento e la morte del piccolo Tommy, ecco per un delitto di quel tipo una pena di 15 anni mi sembra inaccettabile, e anche una di 30. Ci vorrebbe effettivamente una pena stabilita dal giudice, che però dopo un certo numero di anni venga sottoposta a revisione, a seconda di come uno è cambiato e quale percorso di presa di coscienza abbia fatto, perché ci possono essere anche persone che dopo quindici lunghi anni non si sono mosse di un passo. A questo proposito mi viene però anche da dire che, se su una persona 15 anni di detenzione non hanno prodotto alcun effetto, forse neppure altri 15 anni tra le sbarre potrebbero cambiare la situazione… Non ho purtroppo una risposta chiara perché i percorsi sono individuali.

 

Ornella Favero: Ma è giusto così, io non voglio una risposta chiara, voglio una risposta oscura e complicata. Perché quello che continuiamo a dire noi è che non si possono semplificare queste cose, quindi togliamoci dalla testa che vi siano risposte semplici.

 

Silvia Giralucci: Quello che si può comunicare all’esterno è che la pena, intesa come il numero di anni comminati, non può risarcire in alcun modo la vittima e bisogna spostare il discorso dal risarcimento che la persona dà alla vittima al tempo necessario per una rieducazione, per una rielaborazione di quel che è stato commesso.

 

Lorena Orazi (Responsabile dell’area pedagogica C.R. Padova): Io sono un educatore in questo carcere e sento l’intensità di una discussione sull’ergastolo, ma soprattutto sulla domanda che poneva Ornella, se vi sia una pena che possa essere equa sotto tanti punti di vista. Dal punto di vista di chi la subisce, ma anche dal punto di vista della vittima o dei famigliari delle vittime, o delle vittime virtuali che per tanti reati non sono direttamente configurabili in persone fisiche.

Sulla definizione di quale sia una pena equa, è chiaro che chi la subisce normalmente vorrebbe una condanna il più lieve possibile per ciò che concerne la privazione della libertà. Certo l’Ordinamento penitenziario tende a valorizzare il percorso individuale e quindi l’”effetto” che la privazione della libertà può portare in termini di riflessione, in termini di opportunità che la persona non ha potuto conoscere prima. Questo da un punto di vista teorico, poi però c’è il terreno del quale parlava Silvia Giralucci, che appunto gli anni per la vittima non bastano mai. Penso a loro due, Agnese e Silvia, e alla ferita che si portano dentro… Gli autori di quei reati è chiaro che mai potranno risarcire, nemmeno con tutta la loro vita!

È per questo che lo Stato sta in mezzo tra la vittima e l’autore di reato, come un’entità che non deve vendicarsi, che dovrebbe piuttosto porsi come mediatore, mentre è spesso assente, e non riesce a mettere in campo altri strumenti che non siano i magistrati e i processi. È come se l’attenzione prioritaria nella gestione della devianza fosse affidata solo al processo e alle condanne, per questo l’ergastolo o le pene alte diventato il solo modo per gestire i reati, ignorando completamente le difficoltà delle persone che li commettono, e che magari vivono in un determinato contesto sociale, spesso degradato. L’ergastolo quindi diventa strumento per ”accontentare tutti”, per rispondere a questa continua richiesta di durezza, di cattiveria nel punire.

 

Lucia Faggion (volontaria): Io penso che il problema sia a monte. Perché l’unico tipo di pena nei confronti dei comportamenti che ledono la collettività o la singola persona è la carcerazione, e anche di recente sono aumentati i reati per cui c’è il carcere come unica risposta, è un approccio che in un certo senso equipara tutti i comportamenti, meno gravi e più gravi, e a tutti fa conseguire la carcerazione, per cui alla fine si arriva a ritenere legittimo anche l’ergastolo. Del resto siamo fermi a un Codice che è ancora quello fascista.

 

Agnese Moro: Io direi che oggi è molto peggio, perché si tende proprio a vedere il carcere come la soluzione di tutto, da usare per qualunque comportamento che non sai gestire.

Comunque nel nostro diritto penale io penso che le vittime non esistano proprio, le vittime vengono fuori solo quando fanno comodo, allora si tirano in ballo le vittime. Ma noi non abbiamo nessuna voce in capitolo reale, anche se c’è un uso molto strumentale del dolore delle vittime.

 

Ornella Favero: Quando per esempio gli studenti domandano alle persone che hanno commesso un omicidio “Ma hai chiesto perdono alle vittime?”, è molto difficile rispondere. E proprio perché noi siamo abituati da anni a discutere di questi temi con le vittime, con persone come voi, solitamente la risposta dei detenuti è “Il perdono è una cosa che la vittima può concedere, ma io non credo di avere il diritto di chiederlo”, però questa risposta viene spesso interpretata in modo sbagliato, come un atto di orgoglio, come una mancanza di umiltà, per cui domando a voi qual è l’atteggiamento più giusto, più rispettoso.

Anzitutto bisognerebbe, da parte di tutti quelli che non sono vittime, in particolare i giornalisti, cambiare atteggiamento e cercare almeno di capire che cosa potrebbe davvero far star meglio le vittime. Per esempio qualcuno tra noi dice che è diverso chiedere scusa dal chiedere di essere perdonati, perché tu, chiedendo scusa, fai un atto di umiltà, cancelli tutto il tuo orgoglio e dici che sei consapevole di quello che hai fatto e non puoi che chiedere scusa. Invece chiedere perdono è qualcosa di diverso, perché assomiglia più a pretendere qualcosa, vedete come anche rispetto alle parole non sia facile usarle ed intendersi sul loro significato. Ma allora che cosa vorrebbero le vittime? come vorrebbero contare di più? Che attenzione vorrebbero avere?

 

Silvia Giralucci: Quello che io immagino è che con il processo inizi un’attenzione, se vogliamo chiamarla così, nei confronti del reo che dovrebbe portare a un percorso di rieducazione. Che poi questo avvenga o meno, è un altro discorso. Nei confronti delle vittime, invece, tutto questo non c’è, c’è uno strappo, c’è una persona che diventa diversa da quello che era prima e questa situazione se la deve sbrigare completamente da sola…

Penso a casi come i nostri, noi che solo dopo tantissimi anni abbiamo trovato questa forma di aiuto reciproco nella frequentazione, nella condivisione, nella possibilità di parlare delle nostre esperienze, perché, mancando dei luoghi di confronto veri, è appunto difficile trovare un ambito in cui parlarne normalmente. Cioè tu non puoi a una cena con degli amici ”calare l’asso” della tua sofferenza, e lasciare tutti sbigottiti. Quindi sei costretto a viverti questo enorme dolore in solitudine e senza la possibilità di quel confronto, che ti aiuterebbe in qualche modo a uscirne. Mi ricordo che ne avevamo parlato con Elena Valdini, autrice di un libro sulle persone che perdono un congiunto per un incidente stradale. La Valdini sostiene che già nei reparti di Pronto Soccorso dovrebbe esserci un servizio deputato all’aiuto di chi perde un congiunto in maniera violenta. Se questo tipo di supporto nel nostro Paese non è previsto, è naturale che chi si trova colpito rivolga la sua rabbia contro il reo, senza capire che non è da lì che gli arriverà il sollievo di cui ha bisogno. Potrebbe magari arrivargli da un percorso completamente diverso, un percorso che a un certo punto potrebbe anche coinvolgere il reo, ma che sostanzialmente è recupero di sé, accettazione di una vita nuova, superamento della rabbia, riacquisto di una fiducia nel prossimo, perché l’identità violata toglie proprio la fiducia.

Se io oggi esco di casa, penso che tornerò a casa così come sono uscita. Un giorno però ti capita una cosa devastante e tu non sei più sicuro di nulla, non ti rendi nemmeno conto di come sia successo e di quello che pensi, sai solo che è successo e che la tua vita è cambiata e tu sei una persona diversa.

Aiutare a ricomporsi, a ritrovare fiducia nel prossimo, nella società è qualche cosa per la quale ci dovrebbe essere un percorso o perlomeno un luogo in ogni città in cui chi si trova in questa condizione di vittima di reati, anche solo di furto, può trovare un sostegno.

Ricordo il sentimento che ho provato quando, una ventina d’anni fa, ho subito un furto. Ero una ragazzina, e tornando a casa da scuola ho trovato la porta aperta: erano passati i ladri. Nelle settimane successive, ogni volta che aprivo la porta di casa provavo una sensazione di ansia, come un tuffo sgradevole al cuore. Già quando uscivo dalla scuola e mi avviavo alla fermata dell’autobus cominciavo a temere il ritorno a casa, avevo paura di scoprire nuovamente la porta aperta, immaginavo di trovare la casa sottosopra, tutte le mie cose, alle quali ero affettivamente legata, violate di nuovo. Anche per queste situazioni, tutto sommato piccole e comuni, sarebbe importante avere un luogo in cui ci siano professionisti in grado di fornire un aiuto. Come per gli autori di reato ci sono gli educatori, ci vorrebbe una figura del genere anche per le vittime!

 

Agnese Moro: Sono sicuramente d’accordo, penso che molta dell’ostilità si abbasserebbe e poi secondo me ci sono delle assurdità che ti fanno sentire proprio solo. Per esempio mi è capitato l’altro giorno di una persona il cui padre è stato ucciso durante la gravidanza della madre, poi lei è nata e non ha mai saputo che avrebbe diritto ad un beneficio; dovrebbe avvenire una cosa di questo genere, che si presenti qualcuno a casa tua, qualcuno dello Stato voglio dire, e ti dica: ”Guarda, mi dispiace, è successo questo, comunque però ti staremo vicini, ti veniamo incontro perché il tuo congiunto è morto anche a causa mia, è morto per difendere qualche cosa che ci riguarda tutti”, per tante famiglie sarebbe un toccasana ed un riconoscimento, e un sostegno effettivo.

Questo invece non c’è assolutamente e farebbe invece, secondo me, una grandissima differenza, tanto quei soldi arriveranno comunque, però è proprio il modo di concepire il fatto che è diverso, tu hai pagato un prezzo che era nostro, sarebbe dovuto essere anche nostro, e io Stato ti sto vicino.

 

Silvia Giralucci: Sì, questo per le vittime del terrorismo sarebbe rivoluzionario. In Francia addirittura agli orfani danno una medaglia che non è solo una medaglia al valore come quelle che danno da altre parti, ma è la medaglia di orfano della Patria, che sta un po’ a sottintendere che da ora in poi sarà la società a occuparsi di te. Noi vittime del terrorismo rappresentiamo però solo una parte piccola di un problema più generale. Sono convinta che anche una persona che ha avuto un congiunto morto in un incidente stradale provocato magari da un ubriaco nutra sentimenti dello stesso tipo.

 

Agnese Moro: Sono perfettamente d’accordo, e infatti, secondo me, visto che non sono milioni di persone, sarebbe uno sforzo molto piccolo che si potrebbe fare e gioverebbe molto a far sì che le persone fossero meno arrabbiate e rancorose.

 

Silvia Giralucci: Ma soprattutto non vadano cercando nella detenzione degli autori di reati risposte che la detenzione non può dare…

 

Agnese Moro: Per quel che riguarda il perdono, secondo me, come fai sbagli. Perché intanto devi essere creduto quando lo chiedi, dato che purtroppo si è inserito questo inquinatore che è il fatto che i tribunali di Sorveglianza vogliono sapere da te vittima se quella persona l’hai perdonata, e poi arrivano queste lettere che, diciamoci la verità, sono simili, sono copie conformi come i modelli prestampati. A quel punto tu per che cosa mi stai chiedendo scusa, perché è un tuo sentimento o perché devi avere un beneficio? Legittimo chiedere un beneficio, ma il Magistrato non deve mandare a chiedere a me se lo perdono, come se il perdono della vittima ”valesse dei punti”.

Per me questo rende tutto meno credibile, poi tu la persona la devi conoscere, devi capire che ha una intenzione seria, che davvero è toccata, che davvero vuole chiederti scusa. Però purtroppo si è creato questo meccanismo che, secondo me, rende molto difficile credere alle intenzioni serie di un ravvedimento, chiamiamolo così.

 

Silvia Giralucci: A me personalmente la richiesta di perdono darebbe solo più fastidio, però penso che il perdono, chiamiamolo così, vada meritato nel corso di tutta la detenzione e anche del periodo successivo, con quell’atteggiamento di cui parlavo all’inizio del mio rapporto con la redazione di Ristretti: la consapevolezza che anche quando finisce la pena la responsabilità rimane, e quindi chi ha commesso un reato ogni mattina deve cercare di comportarsi in maniera da non infliggere ulteriore dolore alla vittima. Mi torna alla mente quella volta che siamo stati invitati come redazione di Ristretti al Quirinale per il premio ”Testimone di Pace”. Ho pensato che sarebbe stato bello se fosse venuto anche Andrea, che la sua pena l’ha scontata, però poi mi sono detta: ”Se io fossi la famiglia della vittima di Andrea, forse non vorrei vederlo premiato al Quirinale”, quindi si tratta anche di rinunciare a tante cose perché tu ti porti quella responsabilità dietro. Quello secondo me è un modo di chiedere perdono.

 

Agnese Moro: Io però ho dei dubbi, tra l’altro ci fu proprio a casa mia una discussione, una delle poche volte che abbiamo parlato di queste questioni, e c’erano pareri molto, molto discordanti. Penso che se la persona ha fatto il suo percorso, poi ha diritto di fare onestamente quello che vuole, di fare lo scrittore per esempio, perché non dovrebbe poterlo fare? Allora tu quella pena gliela fai proseguire. Altra cosa è che lui senta la responsabilità, senta il peso della coscienza, quello lo sentirà sempre, secondo me non potrà liberarsene mai. Allora: lo Stato ti ha condannato, tu hai scontato quello che dovevi scontare, punto e basta. Altrimenti è inutile, allora diamogli la condanna all’ergastolo, e facciamo prima, è più onesto dire: ”Non ti permetto più di ritornare nella società”.

Già non puoi votare, e ci sono una serie di cose che non puoi fare comunque. A meno che tu non faccia quella cosa che si chiama riabilitazione, che però è un percorso lunghissimo.

 

Silvia Giralucci: Persona con la ”P” maiuscola, secondo me non lo torni più ad essere, dopo che hai ammazzato.

 

Agnese Moro: Ecco questo è il punto, e invece secondo me devi poter tornare ad esserlo, dopo che hai scontato la tua condanna, è la nostra vittoria, intesa come la vittoria della vita democratica, che tu torni ad esserlo. Ti porterai un peso che è senz’altro grande, almeno per quello che ho potuto vedere io, grande almeno quanto quello della persona che ha ricevuto il tuo torto, forse in un certo senso è anche peggio, però non ti possono chiedere di non esistere più.

 

Silvia Giralucci: Secondo me si possono fare tante cose senza però cercare una visibilità mediatica, si tratta di non andare a casa della vittima, o fisicamente o in altri modi. Anche la televisione è un modo di andare a casa della vittima.

 

Ornella Favero: Tu Agnese dici che il dover rinunciare a delle cose importanti è come dire “allora gli diamo l’ergastolo perché non è vita”, in realtà ci sono moltissime persone che fanno tante cose importanti, in modo molto discreto, in modo silenzioso.

 

Agnese Moro: Ci sono delle contraddizioni in questo modo di pensare secondo me, innanzitutto non è detto che i riflettori li accendi tu, magari te li accendono gli altri perché devono occupare una pagina, devono fare uno scoop. Che poi la persona nella sua coscienza faccia un percorso, io me lo auguro, sono contenta se lo fa, sono contenta per lui prima che per me, perché è un modo per ritornare più pienamente ad essere umani, rendersi conto di quello che uno ha fatto. Ma in realtà qualsiasi cosa loro facciano, appena si viene a sapere, c’è chi dice che è indegno e non lo dovrebbero fare, se lavorano in un servizio sociale di un Comune non va bene, se fanno quello no, se fanno quell’altro no, cioè guardateli con occhio sereno, loro non hanno il diritto di fare nulla salvo qualcosa che proprio sia nascosto nella maniera più assoluta. Allora diciamo che tutto il percorso della giustizia non serve a niente, perché non ti riabilita, non ti fa ritornare alla vita civile mai. Io capisco che emotivamente uno possa dire: ”Tu dovresti muoverti in punta di piedi”, ma bisognerebbe anche andare a vedere serenamente qual è la vita di queste persone, che cosa gli è consentito fare, fino a dove possono arrivare prima che scattino tutte queste reazioni.

 

Silvia Giralucci: I casi che finiscono sui giornali intanto sono pochi e riguardano sempre gli stessi ex terroristi , rispetto ad un numero di ex terroristi molto più vasto, e poi le persone che protestano tra di noi sono anche quelle sempre le stesse, questa cosa è un gioco mediatico tra poche persone.

 

Sandro Calderoni: Mi ha colpito molto una cosa che ha detto la signora Moro, il fatto che “come ti muovi sbagli”. Perché è vero, quando parlavamo del perdono, e si diceva che magari uno che ha commesso un reato non è il caso che lo chieda, qualcuno interpretava come una forma di orgoglio o presunzione non chiederlo, mentre magari l’idea è quella di dire: “Io non voglio creare altri problemi”. E allora, quando uno esce dal carcere, come si deve muovere? Deve camminare in punta di piedi? È vero, devi creare meno scalpore possibile, ma è vero anche che forse non sei tu che vuoi creare scalpore, è che tu rappresenti il tuo reato, non la persona che sei diventato, e a quel punto, qualsiasi cosa tu faccia, sarai sempre sotto i riflettori! Penso, per fare un esempio, a Elton che è un buon scrittore, e se scrivesse un best-seller e magari vendesse un milione di copie…

 

Silvia Giralucci: C’è Massimo Carlotto, che è stato in carcere, non credo che a Massimo Carlotto nessuno faccia una colpa per essere un bravo scrittore perché non ha sfruttato il suo nome e la sua storia per avere successo. Altre persone invece utilizzano il fatto di essere stati ex terroristi per avere successo, tanti ex terroristi utilizzano il fascino del male, di quello che hanno fatto, per costruirsi un personaggio, per andare alla televisione.

 

Ornella Favero: Tanti anni di galera non ti fanno ragionare su quello che hai fatto proprio per niente, io credo che servano meno anni di galera, però un ragionamento serio sulla responsabilità, sul male fatto, e vorrei anche che una persona si ponesse il problema di dire: “Ma se io adesso con una intervista so che “entro in casa” di questa persona a cui ho fatto del male, e riapro una ferita, non posso farne a meno, rinunciare ad apparire?” Quindi io non sto parlando di grandi cose, sto parlando di dare pene più miti e nello stesso tempo invitare le persone a fare una riflessione proprio sul male fatto, una piccola riflessione: se io voglio essere riconosciuta come persona, devo riconoscere anche la vittima come persona, e non solo il debito che ho pagato allo Stato. Io penso che la responsabilità sia ricordarsi reciprocamente di essere persone.

 

Cinzia Sattin (funzionario della Professionalità giuridico/pedagogico): Io parlo come vittima, mia madre è morta in un incidente d’auto insieme a mio zio per colpa di un ragazzo tossicodipendente che entrava e usciva dal carcere. Dopo quel pugno che io ho avvertito molto forte quando ho visto mia mamma per terra sotto il lenzuolo, io poi però non sono entrata per nulla nella fase successiva. Dove siamo finiti noi famigliari delle vittime? Io ho un grande bisogno invece di richiesta di perdono, su questo mi distacco molto da Silvia. Ho un grande bisogno di incontrare questa persona, di sapere che fine ha fatto questo ragazzo, se la vita di due persone è valsa almeno il suo recupero. Personalmente ho un grande bisogno di un perdono chiesto e quindi concesso. Deve essere chiesto non solo a parole, ma questo ragazzo potrebbe dirmi: “…Guarda, io ho ammazzato quattro persone, ma mi son rimesso in piedi, mi sono rifatto una vita nonostante che, guidando strafatto, abbia fatto cose gravissime”. Questo nel mio immaginario potrebbe sanare quel residuo di dolore che mi è rimasto, la ferita ancora aperta dal 2004. Perché dico questo? Perché la durata della pena scontata da questo ragazzo è stata di 10 mesi, poi è stato scarcerato e, due anni dopo, ha riavuto la patente, anche se a 27 anni aveva già ucciso quattro persone…

In realtà succede che la persona sposta la sua responsabilità, i suoi rimorsi, sullo Stato, in un “conto” che sta pagando allo Stato, e la vittima non esiste più, il suo vissuto non esiste più. Questo è il paradosso di una giustizia che non è riparativa, è una violenza inaudita che subiscono le persone ed è anche il grande fallimento per chi ha compiuto il reato, perché non ha pagato un bel nulla, cioè ha pagato un conto che la giustizia ha deciso, ma la sua coscienza spesso è rimasta uguale a prima. Se non è in grado di chiedere, di ricevere un perdono, che per me è l’unica cosa liberatoria, non i tre anni, i dieci o i diciassette di pena, o l’ergastolo, il suo conto non è mai davvero pareggiato.

Questo è quello che vivo io, anche ascoltando le testimonianze in veste di funzionario della Professionalità giuridico/pedagogica (educatore), raccogliendo le esperienze e confidenze delle 110 persone a me affidate. Quindi quando io faccio quella famosa domanda retorica: “Qual è il tuo ravvedimento? se tu tornassi indietro cosa non rifaresti…?”, il detenuto mi dice: “Ma io ho pagato il conto, basta…!”. Sì, ha pagato il conto, ma non ha chiuso niente con la sua coscienza, perché effettivamente il danno è stato fatto alle persone, non tanto o non solo allo Stato. Questo è terribile, e io lavorerei proprio sul perdono, la questione del perdono per me è fondamentale.

 

Silvia Giralucci: C’è una cosa della quale io mi sono resa conto solo mentre tu parlavi. Forse per me è così, perché io queste persone le ho incontrate al processo che è iniziato 12 anni dopo la morte di mio padre e si è concluso 17 anni dopo. Era già trascorso un tempo così lungo, che incontrarle in quel momento non è stato come incontrarle nell’immediatezza. Tra l’altro loro erano già stati quasi tutti in galera, meno uno, per altri omicidi compiuti successivamente all’omicidio di mio papà, quindi al momento del processo c’è stato quest’incontro e già lì ho visto che non vi era proprio nulla da dirsi, anzi ho percepito quell’incontro come qualcosa di offensivo, nel senso che io ho visto che noi portavamo le nostre esistenze distrutte, devastate e loro arrivavano tranquilli con la loro macchina… Uno ha detto: “Preferirei essere condannato, perché almeno così avrei una condanna definitiva, invece con questo processo in corso io son costretto a restare in carcere perché non posso fare il cumulo della pena…”. Tutta una questione di calcoli giuridici che nulla avevano a che fare con la nostra esistenza devastata. Ecco da questo, secondo me, nasce il mio desiderio di non avere più ulteriori rapporti con loro.

Quanto al perdono, anche lì la classica letterina stereotipata fa solo infastidire, riaccende il lutto mai rielaborato veramente. Questo tema riguarda i percorsi individuali, perché è difficile dire come nasca un perdono, sono sempre due individualità una diversa dall’altra che, in qualche modo, si devono, si possono incontrare, però…

 

Cinzia Sattin: Io ho una cosa da aggiungere, a proposito di questi colloqui sul ravvedimento. Ho visto che quando si toccano le persone sul danaro, sui beni, ecco lì è la “cartina di tornasole”, nel senso che chiedere perdono con la lettera stereotipata è facilissimo, però quando si tratta di mettere a disposizione dei beni propri (acquisiti più o meno legalmente, non importa tanto il danno è già stato fatto…), per dare un risarcimento, lì vedi se la coscienza è stata toccata o no. Ho visto che, se il cuore ha la ferita aperta, il reo mette mano anche al denaro, a me è capitato, in alcuni casi a me affidati, che la persona avrebbe dato via tutto pur di risarcire le persone alle quali ha fatto del male.

 

Ornella Favero: Io non vedo solo il risarcimento economico, mi viene da dire che quando noi per esempio facciamo gli incontri con le scuole, ecco lì penso che un detenuto che racconta la sua esperienza ci metta tanto di “suo”, perché in fondo è una fatica immane mettere a disposizione degli altri il peggio della propria vita. Delle volte lo dico a me stessa e lo dico anche alle persone detenute che non mi interessa se le storie raccontate sono “vere” fino in fondo, o se vi è un tentativo di giustificarsi, perché è umano, chiunque di noi si giustifica del peggio ed anche del meno peggio della sua vita, però quando ci sono gli studenti io i detenuti li vedo tutti quanti attenti a come parlano, a come spiegano perché i ragazzi possano capire. Questo è già un grandissimo passo avanti nella consapevolezza, perché ti sei reso conto che non sei tu al centro di tutto, ma che devi finalmente pensare agli altri, mettere la tua esperienza al loro servizio, darle un senso perché diventi utile a qualcuno.

 

 

Un trattamento UMANO può umanizzare chiunque

Quanto più la pena è mite, tanto più costringe ad una assunzione di responsabilità. L’ergastolo invece è la pena che di umano non ha nulla

di Ornella Favero

 

Qualche giorno fa alcuni studenti hanno chiesto ad un detenuto, che è in carcere da quindici anni e sta per essere scarcerato, “ma non hai paura all’idea di uscire?”. Lui ha usato un’espressione che mi ha colpito, ha detto “Certo che ho paura, sono stato via dal mondo per quindici anni”. Voglio partire da questa frase perché secondo me è importante per far capire, anzi, per far proprio “sentire” cosa vuol dire il carcere, “stare via dal mondo”, una non vita insomma.

Io ultimamente parto spesso dall’esperienza che facciamo ogni giorno con le scuole: quando andiamo nelle scuole con alcuni detenuti, e poi le classi vengono in carcere, e non è una cosa limitata a un paio di classi, è una cosa enorme, tutti noi, detenuti e volontari, in questi ultimi anni stiamo imparando molto di più da questa esperienza che da anni di volontariato.

Intanto vorrei partire da una riflessione: credo che per parlare di temi delicati come l’ergastolo non si dovrebbe più dire “non è il momento, la situazione è difficile…”. È tutto vero, però sono troppi anni che non è mai il momento, rispetto all’ergastolo e alle pene dobbiamo riprendere invece con coraggio una battaglia culturale, e per una battaglia culturale è sempre il momento, e forse l’abbiamo rimandata troppo, abbiamo avuto troppa paura di affrontarla. E ribadisco che si tratta di una battaglia culturale, perché io non voglio più limitarmi a parlare di sovraffollamento, di carcere, di quanto male si sta, no, io vorrei portare avanti una battaglia culturale sul senso della pena.

Non credo poi che si debba parlare solo dell’ergastolo, si deve parlare di qual è la quantità di pena e la qualità di pena che noi vogliamo, perché se io devo pensare all’abolizione dell’ergastolo per sostituirlo con un massimo di pena di trentacinque o quarant’anni, mi pare che non cambi molto.

Allora prima di tutto bisogna riuscire a far comprendere davvero che cosa vogliono dire anni di carcere. Per esempio, spesso partecipa agli incontri con le scuole una persona che ha commesso un omicidio sotto effetto della droga, per cui ha scontato quindici anni, perché poi ci sono stati l’indulto e la liberazione anticipata che gli hanno ridotto la pena. Parte degli studenti spesso reagisce dicendo in pratica “Sì, abbiamo capito, lui oggi è inserito, è recuperato, però per un omicidio ha scontato solo 15 anni…”.

Per questo dico che la battaglia sulla “quantità” di pena è appassionante, abbiamo cercato tanti modi per spiegare che quindici anni non sono pochi, poi a qualcuno è venuta un’idea semplicissima, dire “ma scusate, quanti anni avete voi? quindici, sedici… allora tutta la vostra vita fino ad oggi è così poco? cioè tutta la vostra vita, immaginata ad esempio come se l’aveste vissuta chiusa in una stanza, magari con la persona che più vi è antipatica, con cui non avete voglia di condividere niente, una stanza da cui per uscire, anche solo per andare a fare la doccia, dovete bussare e aspettare che vi aprano, tutto questo è davvero niente?”.

Ecco che un ragionamento così semplice, la durata di tutta la loro vita fino a quel momento, in qualche modo scardina un po’ tutte queste certezze, che poi sono le certezze dettate da un certo tipo di informazione, e questo lo dico da giornalista. “Gli hanno dato solo trent’anni…”, questi sono i titoli dei giornali e dei programmi televisivi.

Bisogna anche sgombrare il campo da un’altra certezza che di solito ha la gente fuori: che qualsiasi desiderio di pene pesanti sia giustificato perché significa un risarcimento delle vittime. Noi viviamo in un mondo in cui ci sentiamo tutti potenziali vittime, io in tutti questi anni in cui ho incontrato migliaia di persone, ragazzi, genitori, non ho mai trovato qualcuno che pensasse di poter commettere un reato o che potesse capitare a sua madre, a suo fratello di farlo, nessuno. Solo con un ragionamento lungo, difficile, faticoso siamo arrivati a far capire quanto sia illusorio che tutti ci sentiamo potenziali vittime, e nessuno si senta potenziale padre, fratello, madre di una persona che ha commesso un reato. E naturalmente quando la pena è lontana dalla tua vita è molto facile rincarare la dose, è molto facile chiederne sempre di più.

Noi abbiamo fatto un percorso con le vittime proprio per smontare queste certezze, un percorso difficile, abbiamo incontrato nella nostra redazione in carcere persone come Olga D’Antona, come Benedetta Tobagi, come Silvia Giralucci, e devo dire che, prima di tutto, sono stati confronti sconvolgenti. Io per esempio ho visto piangere dei detenuti di fronte alle lacrime dei familiari delle vittime, perché si pensa sempre che dopo tanti anni un lutto si rielabori, bene o male, “si accetti” in qualche modo, invece vedere delle persone che hanno perso un familiare, morto di una morte che non ha niente di naturale, come l’omicidio, fa capire a chi ha commesso reati di sangue che ci sono lutti che non si rielaborano mai.

Vedere così da vicino la sofferenza ha avuto maggiori effetti su tanti detenuti di quello che hanno fatto anni di galera, perché in realtà la persona che entra nel meccanismo perverso del processo prima e del carcere poi, non vede mai in faccia il dolore, e anzi mette in moto questo meccanismo inverso, per cui inizia a sentirsi lui stesso la vittima. La lotta per la sopravvivenza in carcere diventa la cosa fondamentale, quindi il confronto vero con il dolore provocato non c’è.

Io ho visto persone capire di più in quei momenti che non in anni di galera, allora anche lì la quantità della galera scontata è davvero poco significativa. In questo percorso con le vittime che stiamo facendo in carcere ho sentito parole che secondo me bisognerebbe far conoscere anche alla società fuori, dove a me piacerebbe si allargasse questo dibattito. Agnese Moro ad esempio, sull’ergastolo dice: “L’ergastolo è come dire ad una persona ‘ti vogliamo buttare via’, ma io non voglio buttare via nessuno”. E poi, quando le hanno chiesto “Qual è la pena dalla quale lei in qualche modo si sentirebbe risarcita della sofferenza di tutti questi anni?“, lei ha risposto: “Mi verrebbe da dire, il tempo che uno rientri in se stesso, il tempo che chi ha commesso quell’atto rientri in se stesso”. Anche questo è un bel modo di affrontare “la quantità e la qualità della pena”: una pena che faccia rientrare la persona in se stessa.

È un concetto importante perché in realtà, bersagliati come siamo da un certo tipo di informazione, non siamo più abituati alla complessità, e la creazione dei mostri ci semplifica molto la vita, ci fa pensare appunto che quelli che commettono reati sono diversi, che sono dei mostri; invece la pena dovrebbe essere questo, dare modo alle persone di rientrare in se stesse, perché sono comunque persone. Gli esseri umani sono in grado di fare cose orribili.

Ho sentito poi, sempre all’interno di questo percorso, Benedetta Tobagi dire: “Io sono entrata in carcere, dove incontro persone che hanno commesso reati analoghi a quello che ho subito io, cioè autori di omicidio, perché non voglio contribuire con la mia sofferenza, con il mio rancore, a creare altro odio e altro rancore, voglio spezzare la catena del male”. Noi viviamo in un mondo dove l’informazione, la politica, fanno di tutto per rafforzare questa catena, non per spezzarla. Ecco perché il dialogo con le vittime dovrebbe essere meno ipocrita e forse più centrato sul senso che deve avere la pena.

 

La pena come sofferenza fisica diventa una specie di anestetico

 

L’idea della pena che c’è oggi è sempre ed esclusivamente l’idea che la pena deve fare soffrire, e la sofferenza deve essere prima di tutto fisica, nonostante la Costituzione dica che la pena non può consistere in un trattamento inumano e degradante. Quindi nessuno si pone nemmeno il problema di un altro tipo di dolore, di una sofferenza che può arrivare dalla consapevolezza. Paradossalmente in fondo la pena come sofferenza fisica diventa, per la persona detenuta, una specie di anestetico: mi fanno stare talmente male che io non penso neanche più a quello che ho fatto, sto semplicemente male. Quindi quanto più la pena è cattiva ed è fisica, tanto più agisce come un anestetico; quanto più invece la pena è mite da questo punto di vista, tanto più costringe ad una assunzione di responsabilità.

Io ho visto nella mia redazione un detenuto che ha commesso un duplice omicidio per vendetta: avevano ucciso due persone nella sua famiglia e lui ha girato mezza Europa finché ha trovato gli assassini e li ha uccisi ed è finito in carcere, è stato processato, hanno chiesto per lui l’ergastolo, ha avuto una condanna a trent’anni. Quando io l’ho conosciuto in redazione era già in carcere da più di dieci anni e ad un certo punto ci ha raccontato la sua esperienza. Per anni questa persona ha vissuto con l’idea di avere fatto una cosa giusta, non buona, perché nessuno pensa che uccidere sia una cosa buona, ma giusta sì. Ad un certo punto ha raccontato agli studenti: “Quando il padre di uno di questi ragazzi uccisi mi ha fatto sapere che mi aveva perdonato, cioè ha chiuso la faida, ha davvero spezzato la catena del male. Io lì mi sono sentito crollare un mondo che mi ero costruito, io lì ho capito che c’era qualcuno che aveva più coraggio di me, che era stato capace di mostrarsi più uomo di me… perché spesso dietro la vendetta c’è anche una questione di orgoglio, quindi lui è stato più uomo di me spezzando questa catena del male”.

Smettiamola allora di dire che adesso è un momento difficile, che questo tema nella società non è sentito: all’inizio nei nostri incontri con le scuole è pieno di ragazzi, di genitori, di insegnanti che pensano che la pena deve essere pesante e quantitativamente significativa; poi però alla fine, solamente perché sono passati per un confronto culturale, duro, serio, non ne trovo tantissimi che non abbiano in qualche modo cambiato questa prospettiva.

Quindi nessuna battaglia è perduta, per questo dobbiamo smetterla di rimandare le grandi battaglie ad un momento futuro dove ci sarà un clima meno avvelenato, non succederà mai se noi questa battaglia non la iniziamo da subito.

Fedor Dostoevskij, uno dei più grandi scrittori russi, che la vita da galera l’ha conosciuta per dieci lunghi anni, scriveva più di centocinquant’anni fa, in “Memorie di una casa morta”: “Ogni uomo, chiunque egli sia e per quanto avvilito, purtuttavia, anche se istintivamente, anche se inconsapevolmente, pretende che si rispetti la sua dignità umana. Il detenuto medesimo sa di essere un detenuto, un reietto, e conosce il suo posto di fronte ai superiori; ma con nessun marchio, con nessuna catena potrai fargli dimenticare che è un uomo. E poiché egli è in realtà un uomo, di conseguenza bisogna anche trattarlo umanamente. Dio mio! Un trattamento UMANO può umanizzare perfino qualcuno su cui l’immagine di Dio si è da gran tempo offuscata. Appunto questi “disgraziati” sono da trattare nel modo più umano”.-

(Relazione al Convegno organizzato a Bologna dalle Camere penali il 12 maggio 2011, “Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona”)

 

 

Contro l’ergastolo

Quando i padri costituenti hanno scritto l’articolo 27 della Costituzione, scegliendo di non rompere per sempre il rapporto fra l’individuo che ha commesso il reato e il consorzio civile, hanno pensato proprio a chi ha compiuto delitti gravi

 

di Franco Corleone

 

Ringrazio per questa occasione di ragionare insieme a partire da questo volumetto che ho curato con Stefano Anastasia dell’associazione Antigone. Nel libro trovate un intervento del professor Fortuna, che è stato allievo di Aldo Moro, sul dibattito in Assemblea costituente sull’ergastolo e sulla pena; poi vi è un contributo importante di Alessandro Margara sulla costituzionalità dell’ergastolo e un esame delle diverse sentenze costituzionali su questo tema. Poi vi sono interventi dell’avvocato Guido Calvi che ora è componente del CSM, che sostiene la necessità di tornare alla consulta per affrontare le difficoltà legate al superamento di questa pena. Ancora, ci sono contributi di Patrizio Gonnella, di Maria Luisa Boccia, che è stata il punto di riferimento per quello che qualche anno fa è stato un vero movimento nel carcere da parte degli ergastolani, e una riproposizione della relazione al Senato di molti anni fa di Salvatore Senese per l’abolizione dell’ergastolo. Infine, vi è un saggio teorico di Giuseppe Mosconi dell’Università di Padova.

La cosa che a me ha intrigato di più costruendo questo volumetto è stata l’appendice, che è costituita dalle lezioni di Aldo Moro sulla funzione della pena, sulla pena di morte e sulla pena dell’ergastolo e due riflessioni su quel testo, una di Mino Martinazzoli e una di Adriano Sofri. Mi pare che non si possa non partire dall’articolo 27 e da quello che è il senso della pena che viene indicato dalla nostra Costituzione. La pena non solo deve consistere in un rifiuto della tortura, ma deve anche prevedere un superamento della funzione di risarcimento, di pagamento del reato compiuto, e tendere piuttosto al reinserimento sociale della persona che ha compiuto un delitto.

Io penso che quando i padri costituenti hanno scritto quell’articolo, scegliendo di non rompere per sempre il rapporto fra l’individuo che ha commesso il reato e il consorzio civile, pensassero proprio a chi ha compiuto delitti gravi. Non credo cioè che un articolo così denso fosse costruito per le persone che affollano le carceri di oggi, tossicodipendenti, immigrati, poveri e ammalati, individui che disturbano la quiete delle persone “per bene”, che minacciano il decoro delle città. Credo che pensare a una norma così pregnante per persone che in carcere non dovrebbero nemmeno entrare sarebbe stato uno sforzo eccessivo, quindi penso che questo articolo vale perché deve mettere in gioco la capacità della società di confrontarsi con le persone che sono in carcere per avere commesso rea­ti particolarmente gravi.

Ecco, io partirei da qui, dal fatto che la sfida culturale che noi dobbiamo affrontare è proprio quella di andare sul terreno delle cose difficili, cose da cui spesso si rifugge. Ripeto spesso che io mi occupo di carcere non perché sia particolarmente buono o di animo sensibile, ma perché questi temi ci danno la misura di come noi siamo di fronte a una giustizia che definirei di classe, cioè una giustizia che funziona molto bene quando si tratta di colpire i soggetti deboli, ed altrettanto bene quando bisogna salvaguardare i soggetti forti. Purtroppo la politica nel nostro Paese utilizza la giustizia come un oggetto contundente senza un progetto per cambiare le cose che non vanno. Su questi temi si gioca il livello di civiltà di un Paese; certo i cinici ci potrebbero dire che le condanne all’ergastolo riguardano piccoli numeri, e quindi è una cosa trascurabile e si può guardare oltre. La verità è che i numeri delle persone condannate all’ergastolo, delle persone internate negli OPG e anche nelle case lavoro, in questi ultimi anni sono aumentati notevolmente. Nel silenzio, questi contenitori stanno aumentando e il loro significato non è più solo simbolico, ma anche quantitativo e questo deve essere una spinta a continuare nella nostra riflessione. Dobbiamo anche fare i conti come l’ipocrisia di chi dice che l’ergastolo nei fatti non c’è più, perché arrivati ad un certo livello di esecuzione della pena se si ha un buon comportamento si può godere di una delle misure premiali, e che dopo 26 anni si può pensare di ottenere la liberazione condizionale.

Devo dire che questo non è affatto vero, non era vero prima e ancora di più non lo è adesso, perché siamo in presenza di una serie di inasprimenti di leggi per cui l’ergastolo ostativo è diventato sempre più diffuso. Per cui non solo l’ergastolo esiste, non solo sta aumentando il ricorso a questa pena, ma sta diventando davvero un ergastolo senza fine, con un reale “fine pena mai”.

Io penso che di fronte a questo vi è la necessità di una riforma della giustizia, che non può essere quella di pensare di avere due CSM invece di uno, ma che deve partire dalla riforma del Codice penale. La repubblica italiana non ha messo all’ordine del giorno questa priorità, come invece hanno fatto molti Paesi usciti dalle dittature. Purtroppo ci si è fermati all’elaborazione di progetti, ricordo quello delle Commissioni Grosso, Nordio, e Pisapia, ma non si è giunti alla conclusione positiva.

In questi anni abbiamo assistito ad un incattivimento della società e la cosa più grave, che deve far riflettere, è che questo incattivimento della società si è originato da una paura che in certi casi è anche giustificata. Perché c’è una criminalità non più professionale, un po’ allo sbando, che ha provocato una paura determinata ad esempio dal non sapere se un furto può precipitare in qualcosa di peggio. Quindi noi abbiamo una società impaurita e incattivita in cui l’idea della pena è molto legata a sentimenti primordiali piuttosto che ad una concezione che abbia un fondamento di civiltà.

Voi mi insegnate che quando si parla di diritto la parola che l’accompagna sempre è quella di civiltà, la civiltà del diritto. Noi invece rischiamo di scivolare nella semplificazione e di creare strumenti che sono quelli della legge del taglione.

 

La pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati

 

Ora voglio dire due parole su Aldo Moro, che ormai forse viene evocato solo nelle celebrazioni per le date per le vittime del terrorismo. Aldo Moro è stato un uomo potente del partito che ha governato l’Italia per tanti decenni, era la persona sicuramente più intelligente del suo partito, quindi ha rappresentato per molti un punto di riferimento e per tanti altri un avversario.

Però io preparando questo libro, quando ho scoperto le lezioni agli studenti che aveva tenuto due anni prima che fosse sequestrato, rapito, sottoposto ad un farsesco processo popolare, senza difesa, senza avvocato e condannato a morte, (pena infine crudelmente eseguita), sono andato a leggere appunto queste sue lezioni dove con una chiarezza straordinaria, (altro che linguaggio moroteo!) con parole di incisiva lingua italiana, si esprime contro la pena di morte, ma ancora di più contro la pena dell’ergastolo.

Allora ho pensato: ma perché quando si parla di Moro e delle vittime del terrorismo, non si leggono queste sue pagine, che permetterebbero di capire qualcosa di più di lui e dell’ignoranza di chi senza conoscere, ha compiuto ciò che ha compiuto, contro una persona così sensibile su questi temi? Moro fu anche Ministro della Giustizia, non credo per lungo tempo, però la cosa più incredibile che viene ricordata è che si occupava di poche cose, ma molto del carcere che visitava spesso. Anche come professore universitario, portava i suoi studenti a visitare le carceri, affittando un pullman. Poi è finito in un carcere anche lui, definito in maniera offensiva “del popolo”.

Devo dire che è una parabola assai interessante quella che porta Moro a riflettere lungo molti anni, dalla Costituente al suo assassinio, sul senso della pena arrivando nel 1976 a queste posizioni così intransigenti per poi subire la pena di morte nel 1978.

Quindi voglio solo leggere due sue righe sul senso della pena: “Non deve essere però neppure quantitativamente troppo pesante, sì da rappresentare un carico che per la sua eccessività diventa per se stesso esso pure crudele e disumano, quindi non dà la pena quella risposta pacata, giusta, appassionata che è propria della pena”; infine si rivolge ai suoi studenti e afferma: “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati, è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e quindi ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta”.

Questo insistere sul fatto che non deve essere vendetta e non deve essere affidata ai privati significa anche che il problema del coinvolgimento delle vittime non si può risolvere in un peso che viene dato per caricarle ulteriormente anche emotivamente, spingendole spesso a una richiesta di vendetta. La giustizia è altra cosa, penso che in questi anni si è affrontato questo tema ma credo che Moro ci dia delle indicazioni molto rigorose e le parole sull’ergastolo sono moralmente straordinarie.

Dice Moro: “Il nostro ordinamento conosce ancora la pena dell’ergastolo, anche se non riconosce più la pena di morte, occorre una riforma che tenda a sostituire questo fatto agghiacciante della pena perpetua (non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena) una lunga detenzione, lunghissima detenzione può essere ammissibile ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà, questo capite quanto sia psicologicamente crudele e disumano”.

Chiudo con quest’ultima osservazione che Aldo Moro aveva scritto nel suo primo saggio giovanile, parlando del rapporto tra il diritto e la libera vita morale, e diceva “che la più alta forma di libertà è per ciò appunto la liberazione dal diritto”. Ecco dunque un’affermazione che voi potete capire, molto azzardata se vogliamo, ma che fa comprendere la complessità di un ragionamento ricco di suggestioni.

Io mi fermo qui per dire che noi abbiamo una situazione del carcere che è terribile: 67-68.000 detenuti, 80-90.000 ingressi all’anno. I dati del Ministero dell’Interno dicono che nel 2010 sono state segnalate all’autorità giudiziaria per violazione della legge sulla droga, 39.000 persone e di queste sono entrate in carcere 30.000, che rappresentano un terzo degli ingressi in galera, una realtà brutale con cui dobbiamo fare i conti.

Nel 1998 il Senato della Repubblica approvò l’abolizione dell’ergastolo. Io credo che oggi, se si rivotasse nel Parlamento italiano questa riforma, i voti favorevoli all’abrogazione sarebbero veramente pochi; questo vuol dire che dobbiamo avere la consapevolezza che stiamo lavorando in un deserto, lo stiamo attraversando tutto e dobbiamo cercare di uscire dalle sabbie mobili, o non mobili, ma comunque molto estese.-

(Relazione al Convegno organizzato a Bologna dalle Camere penali il 12 maggio 2011, “Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona”)

 

 

Ogni giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è fuori

I miei figli in tutti questi anni hanno rappresentato la mia ancora di salvezza, la mia forza interiore per affrontare una vita che vita non è, perché l’ergastolo ti fa morire dentro un poco ogni giorno

 

di Giovanni Prinari

 

Ergastolo = fine pena: mai

Ergastolo = fine pena: 31/12/9999

Ergastolo = fine pena: morte biologica

 

Mi chiamo Giovanni Prinari e sono di Lecce. Ho 48 anni e da diciotto sono detenuto. Ho una condanna definitiva all’ergastolo perché ritenuto responsabile di concorso in alcuni omicidi.

Tengo a precisare che in vita mia non sono mai stato condannato per reati di natura associativa mafiosa, né contraddistinti da tale finalità perché non ho mai fatto parte di un’associazione. Su questo fa fede non la mia parola, ma il mio certificato parziale del casellario giudiziale.

Eppure da 18 anni sono ristretto ininterrottamente e, per di più, in una sezione di Alta Sicurezza (A.S.). In realtà credo che dovrei essere in una sezione di Media Sicurezza (Comune), secondo quanto stabilito dalla Legge penitenziaria riguardo ai miei reati.

L’essere in una sezione di Alta Sicurezza preclude tutta una serie di opportunità in tema di trattamento penitenziario. Una tra le più importanti è quella di poter essere detenuto nella propria città o regione, e quindi vicino alla propria famiglia.

Essere trasferiti nel circuito penitenziario non rispondente ai reati che si stanno scontando, crea una sofferenza nella sofferenza. Perché se la privazione della libertà trova la sua giustificazione nella sentenza di condanna definitiva, la privazione degli affetti non è stabilita da nessuna sentenza.

In questo numero della vostra rivista il tema è l’ergastolo e riportare quello che viene scritto sulla posizione giuridica dii chi ha una condanna del genere (ovviamente la terza definizione, fine pena: morte biologica, è per me sinonimo delle prime due che sono quelle ufficiali), deve far riflettere chi si affatica tanto a parlare di questo tema senza averne cognizione.

Spesso si sente dire, in televisione e sui giornali, che l’ergastolo non esiste, che l’ergastolo è virtuale, che l’ergastolo non lo sconta nessuno, che l’ergastolo non è effettivo.

Pagare per i propri errori è giusto e sacrosanto. Pagare un surplus non lo è più. Quel surplus è gli affetti. Quei rapporti con la famiglia che s’interrompono, che il tempo e la distanza sgretolano, affievoliscono, inaridiscono e non solo. Il cuore diventa un pezzo di ghiaccio, ma il dialogo stesso si interrompe perché ogni giorno che passa ci si sente sempre più estranei nelle vite di chi è fuori.

Già è difficile e dura mantenere vivo l’affetto attraverso i colloqui settimanali quando si è detenuti nella propria città, se solo si pensa che sei ore mensili corrispondono a un quarto di un giorno e per gli altri 29 e tre quarti del mese non puoi avere i tuoi cari vicino. Ma puoi non vederli per mesi o anni interi, come succede a me: il periodo più lungo senza poter fare un colloquio è stato di diciotto mesi. Fino a quando sono stato detenuto a Lecce per motivi di giustizia e, successivamente, grazie alla Direzione dei Detenuti e del trattamento del DAP, per motivi di studio ho potuto veder crescere i miei due figli cercando di fargli sentire quanto più possibile la mia presenza, consapevole dei miei errori e del dolore che gli avevo procurato e gli stavo procurando e che, ancora oggi, gli procura questa mia condizione.

Vederli tutte le settimane, poterli toccare, accarezzare, stringerli forte tra le braccia, dargli dei baci, tenergli le mani era come fare il carico di ossigeno, sia per me sia per loro. Era un farsi forza reciprocamente, un non voler perdere la speranza che un giorno sarebbe stato diverso, che ci sarebbe stato un futuro un tantino migliore, che… non è facile per chi ha l’ergastolo sperare che tutto ciò si possa realizzare.

Oggi i miei figli sono grandi. Il maschio, Manuel, ha 24 anni. La femmina, Veronica, ne ha 28.

Loro in tutti questi anni hanno rappresentato la mia ancora di salvezza, la mia forza interiore per affrontare una vita che vita non è, perché l’ergastolo ti fa morire dentro un poco ogni giorno e non solo per il peso della condanna in sé che si porta via il tempo, e quello che ti lascia è sempre meno, ma per quelli che sono i rimorsi che uno si porta dentro per tutto il male che ha fatto.

 

Ma un detenuto è destinato a perdere anche la famiglia e gli affetti, oltre alla libertà?

 

Oggi mi ritrovo ad essere nonno di due nipotini bellissimi, figli di mia figlia, Marco di tre anni ed Andrea di uno. Dalla prima gravidanza non ho avuto la possibilità di vedere mia figlia, perché per tutti e nove i mesi la sua gravidanza è stata a rischio.

Non ho potuto condividere con lei quella gioia né quello stato di grazia, che solitamente ha una donna quando è in attesa di una nuova vita nel suo grembo. Questa è stata una sofferenza durissima per tutti e due. Durante la seconda gravidanza, malgrado anche questa fosse a rischio, lei ha deciso di venire a farsi vedere. Era di appena 4 mesi, ma era radiosa, ed è stata un’emozione indescrivibile poterle posare la mano sul grembo. Da cinque anni e mezzo sono detenuto nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta perché sono stato mandato via da Lecce a seguito di una rissa avvenuta tra detenuti dove io non c’entravo nulla. Ma come si suol dire, posto sbagliato al momento sbagliato.

Il fatto che non fossi responsabile di quell’episodio l’ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Napoli a seguito di un mio reclamo.

Da quando sono a Carinola avrò fatto si e no dieci colloqui circa.

Il mio nipotino Marco l’ho visto quattro o cinque volte. Andrea, invece, solo una volta. Ovviamente, non avendo incontri frequenti, Marco in quelle poche volte piangeva perché non sapeva chi ero e voleva andare via, ho fatto molte volte istanza al DAP chiedendo un trasferimento a Lecce, oppure un avvicinamento per colloqui. Mi sono state sempre rigettate per motivi di sicurezza e perché appartengo alla mafia pugliese. Ovviamente per la sicurezza presumo sia dovuto al fatto di essere in una sezione di A.S., anche se lo ero pure a Lecce, mentre ritengo che vi è stata confusione nel dire che appartengo alla mafia pugliese, considerato che non sono mai stato condannato per un simile rea­to.

Tramite l’avvocato ho chiesto la declassificazione, ma attendo la risposta definitiva, visto che ad aprile 2010 il DAP mi ha risposto che è in corso una verifica sulla mia posizione giuridica.

È chiaro che la mia speranza più grande sarebbe quella di poter tornare a Lecce e vivermi i miei nipotini come mi sono potuto vivere i miei figli. Tuttavia ho presentato l’istanza per venire li a Padova, dal momento che ho mia sorella che vi risiede, così avrei un famigliare con cui fare i colloqui. Inoltre i miei figli, i miei nipotini e mia madre, venendo con il treno, avrebbero un posto dove stare e fare diversi colloqui.

Non è facile per una famiglia che vive di uno stipendio esiguo e con due figli, spendere dei soldi per venire al colloquio. Né può farlo mia madre che è anziana, sofferente e vive di pensione minima.

Si parla molto, tanto, del rapporto detenuto - famiglia. L’Amministrazione Penitenziaria su questo è sempre stata molto attenta in passato, ma oggi non riesce a dare una risposta alla domanda: se un detenuto non può mantenere quei rapporti, è destinato a perdere anche la famiglia e gli affetti oltre alla libertà?

Venire a Padova mi darebbe anche la possibilità di entrare nella vostra redazione di Ristretti, considerato che sono in contatto con voi dal 2006 e che apprezzo e condivido tutto il lavoro che fate. Avrei anche l’opportunità di riprendere gli studi universitari in giurisprudenza, visto che c’è il polo universitario e inserirmi nell’ambito lavorativo per aiutare economicamente i miei figli e sostenere me stesso. Sarebbe per me una grande opportunità.

Da ultimo vorrei dire una cosa: ho maturato 25 anni di pena, tra i 18 effettivamente scontati e 4 di liberazione anticipata e 3 di indulto. Beh! Non ho mai avuto un permesso premio. Se qualcuno osa ancora avere dei dubbi circa l’effettività dell’ergastolo o della certezza della pena, credo che il dubbio potrà toglierselo.

Grazie per avermi concesso questo spazio e per avermi letto.

 

 

Condannato all’ergastolo, ma fare il padre è un suo diritto

“Ho due figli, ma non mi sono ancora sposata per aspettare che ci sia papà a portarmi all’altare”

 

di Veronica Prinari

 

Mi chiamo Veronica Prinari, ho 27 anni e sono di Lecce. Sono figlia di Giovanni Prinari, detenuto dal 5 gennaio 1993. Ho due bambini piccoli, Marco di poco più di tre anni, ed Andrea di un anno, li ho appena messi a letto e ne approfitto per scrivere.

È giusto che chi sbaglia deve pagare, ma non tutti i detenuti sono uguali. C’è anche la gente come mio padre che sta scontando la sua pena in modo ineccepibile, studiando, lavorando, non avendo in 18 anni di detenzione un rapporto disciplinare, nulla a suo sfavore; anzi ha tutte le relazioni positive, studia Legge ma non gli viene data la possibilità di frequentare l’Università. A quest’ora avrebbe già preso 100 lauree. È a Carinola dal 2005 e da quando è arrivato li è un inferno, la sua vita e anche la nostra. Facciamo colloquio una volta all’anno, massimo due. Adesso l’ultima volta sono andata il 6 aprile 2010 per fargli conoscere il mio secondo figlio e poi basta. Non so più se e quando potrò andare.

Ho avuto due gravidanze a rischio e con l’avvocato abbiamo presentato varie istanze di avvicinamento ai colloqui, ma come sempre siamo stati ignorati. Abbiamo chiesto la declassificazione, sono passati mesi e mesi ormai, ma di risposte neanche l’ombra.

Abbiamo chiesto il trasferimento a Padova, se proprio a Lecce non fosse possibile, di modo che, essendoci lì mia zia, sorella di mio padre, potrei essere ospitata da lei ogni tanto per fare qualche colloquio consecutivo.

Ma mi dite che rapporto c’è fra me e mio padre, che ci vediamo una volta all’anno?

È vero, ci scriviamo tutte le settimane e ci sentiamo al telefono, ma quei dieci minuti lasciano dopo un sapore così amaro in bocca, a volte cade la linea e non faccio neanche in tempo a dirgli quanto lo amo, e aspetto le telefonate successive come l’aria che respiro, perché per me mio padre è l’aria che respiro, nonostante mi abbia provocato tante sofferenze.

Oggi sono madre e si dice che una donna, a questo punto, è completa. Ma io non mi sento così perché mi è sempre mancato qualcosa, una parte di me, e nessuno potrà mai restituirmi gli anni della mia infanzia e poi dell’adolescenza senza mio padre.

Quando papà era a Lecce era tutto più bello, poterlo vedere e tenergli la mano, oppure stringerlo ed abbracciarlo per tutto il colloquio, e questo mi riempiva di gioia. 18 anni sono lunghi, però sono passati ormai. Ma quante lacrime ho versato e anche adesso, mentre scrivo, scendono da sole e non rie­sco a controllarle.

Vorrei tanto poter dare adesso ai miei figli l’opportunità di conoscere il nonno, ma mi viene negato pure questo.

Poi penso anche che non fa niente se non è possibile un avvicinamento, sarei felice lo stesso se lui andasse a Padova dove potrebbe avere l’opportunità di studiare, lavorare presso la rivista Ristretti Orizzonti, e al Call-center che c’è all’interno del carcere.

Io vorrei che mio padre avesse l’opportunità di scontare la sua pena con dignità, essendo trattato con rispetto e non subendo continue ingiustizie. Io trovo che sia un’ingiustizia anche il fatto che, se mio padre riceve telefonate una volta al mese da parte di mio fratello, (che purtroppo è detenuto da pochi mesi a Lecce), in automatico non può effettuare le sue telefonate a me figlia. E io e la nonna stiamo ore ad aspettare questa telefonata che non arriva mai.

La nonna ormai, la mamma di papà, sì, ha 70 anni, il dolore che ha per questo figlio la consuma nell’anima ogni giorno di più. Poi vede anche tante ingiustizie ed è peggio, perché già non facciamo colloqui, ci tolgono pure le telefonate per me senza motivo.

 

Come può un uomo reinserirsi in società se non ha il buon esempio da chi lo tiene in custodia?

 

Mio padre chiede solo i suoi diritti di essere umano prima di tutto e poi di detenuto, io spesso lo sgrido, gli dico anche di subire, di lasciar perdere, di non denunciare per evitare che tutto gli si giri contro, ma lui a volte mi dà retta ed altre volte invece mi risponde che se lasci sempre perdere ti mettono sotto i piedi, e ha ragione.

Parto sempre dal presupposto che chi sbaglia deve pagare, ma i detenuti sono comunque persone e non bestie. Dovrebbero essere trattati con dignità e rispetto, dovrebbero fare un percorso di rieducazione e di reinserimento sociale.

Questo è l’altro punto sul quale si predica bene e spesso si razzola male. Ma come può un uomo rie­ducarsi e reinserirsi in società se non ha il buon esempio da chi lo tiene in custodia? Se a volte sbagliano e infrangono le regole le “divise” stesse, come e cosa si può pretendere di insegnare a queste persone?

Ultimamente non sto molto bene neanche in salute, il dottore mi ha detto che ho un inizio di forte depressione, ed io ho due figli piccoli e non me lo posso permettere. Non deve succedere! Vorrei allora che mio padre fosse avvicinato a Lecce, o mandato a Padova o da qualsiasi altra parte purché lontano da Carinola. Vorrei la serenità di saperlo felice, o meglio un po’ sereno, tranquillo. Non sto chiedendo che venga liberato, non mi azzardo a chiedere neanche che gli venga dato un permesso (per cui comunque già sarebbe nei termini a conti fatti e tra l’altro i suoi coimputati con gli stessi reati escono in permesso già da alcuni anni). Ma spero che prima o poi potrà iniziare ad uscire anche lui, così potrei sposarmi, visto che non l’ho fatto per aspettare che ci sia papà a portarmi all’altare.

Non credo che è entrato a 29 anni e me lo faranno uscire con la bara da lì dentro!?! Almeno lo spero!

La morte civile

Io, che ho già scontato più di trent’anni di galera e so bene cosa vuol dire stare rinchiusi senza vedere uno spiraglio per tornare a vivere, penso che la pena dell’ergastolo vada abolita perché non permette di fare nessun progetto di vita

 

di Maurizio Bertani

 

La cartella personale di un detenuto che si trova in carcere condannato all’ergastolo porta scritto “Fine pena mai”, quindi stiamo parlando di una vera e propria morte civile, una morte che toglie alle persone condannate all’ergastolo ogni sorta di capacità di fare progetti, ogni sorta di desiderio di riscatto e di riappacificazione, non con se stessi, cosa che credo non avverrà mai, ma con la società, proprio perché la parola ergastolo e la condizione di ergastolano ti relegano ai confini di una vita che non è e non può più essere vita.

Non è facile parlare di ergastolo, perché dietro la richiesta di un ergastolo, da parte di un giudice, c’è sempre comunque un delitto irreparabile come la morte di una persona. Con la sofferenza infinita di chi quella persona amava, madre, padre, marito, moglie, figli e tutti coloro che la conoscevano direttamente, insomma, una perdita che crea fratture, dolori, paure e smarrimento. Quindi è comprensibile che all’interno di questo dolore ci sia un desiderio di vendetta, desiderio che la nostra società, che a parole ripudia la pena di morte, accetta, accentua e condivide, mantenendo in vita una pena di morte sociale che nulla ha da invidiare alla morte fisica e nulla a che vedere con il senso di giustizia.

Riesco ad accettare la rabbia e il dolore dei famigliari delle vittime, come riesco ad accettare il loro sentimento di vendetta. Perché non so quale potrebbe essere la mia reazione di fronte ad una così immane tragedia. Ma non riesco ad accettare questo da parte della società, perché l’identificarsi con le vittime è facile, tutti ci sentiamo potenziali vittime, nessuno riesce a identificarsi come possibile carnefice, e invece può succedere a tutti di ritrovarsi o ritrovare un proprio famigliare in carcere con una imputazione per reati gravissimi che distrugge la propria esistenza e l’esistenza di un’altra famiglia.

Molti giudici ritengono che il mantenimento della pena dell’ergastolo abbia valore come deterrente per la commissione di gravi reati, alcuni affermano che lo spauracchio dell’ergastolo, specialmente nei reati associativi di mafia, ndrangheta, camorra, spinga molti ad intrattenere un rapporto di “pentimento” con le autorità giudiziarie. Ma accettando questo rapporto di convenienza, si rischia di calpestare i diritti delle vittime per mero opportunismo giudiziario. Così che un autore di vari omicidi si ritrova a scontare pene miti con il beneplacito sociale, purché permetta l’arresto dei suoi correi. Non sono molto credente quindi non credo in Dio e neppure nel suo antagonista, ma se esistessero credo che questo sia proprio un patto con il diavolo.

Conoscendo la galera e le persone che ci finiscono temo che per ora nessuna società possa fare a meno del carcere come istituzione, per coloro che rompono il patto sociale, commettendo reati. Soprattutto reati gravi. Un luogo però in cui la società e le istituzioni dovrebbero lottare per far sì che le persone rinchiuse raggiungano una consapevolezza e una responsabilizzazione vera, che poi sarebbe una forma di reale retribuzione alle vittime che hanno subito un danno, ma anche alla società, e che vengano reinserite nel contesto sociale con gli strumenti idonei ad assumersi la responsabilità di una convivenza civile. Convivenza civile che non hanno saputo rispettare nel momento della commissione del reato stesso.

Questa credo che sia la funzione del carcere, sancita dall’Articolo 27 della nostra Costituzione, che vale sempre la pena di ricordare: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

Allora se si toglie il principio di umanizzazione della pena e di recupero del soggetto detenuto condannandolo alla pena dell’ergastolo, quindi del fine pena mai, in tanti crediamo che questo vada contro il dettato costituzionale.

Vero è che varie sentenze della Corte costituzionale dichiarano legittima l’applicazione dell’ergastolo in virtù del fatto che ogni ergastolano ha diritto a richiedere la sospensione condizionale della pena dopo 26 anni di carcere, quindi non sarebbe incompatibile l’applicazione dell’ergastolo con l’articolo 27 della Costituzione.

Ci si dimentica poi di dire che in Italia le richieste di concessione della liberazione condizionale, che vengono inoltrate ai vari tribunali di Sorveglianza, vengono accolte per il 3 per cento circa, e spesso viene messo in gioco, nella valutazione per tale concessione, anche il parere o il perdono da parte delle vittime. Ancora una volta riscontriamo allora che l’ergastolo è molto più vicino alla morte civile di quanto si possa pensare.

Sono convinto che le vittime abbiano bisogno di sentirsi attorno una società che gli crei uno scudo di protezione e di autentico calore umano dentro le proprie sofferenze, in modo da non sentirsi sole nel loro dolore, ma soprattutto abbandonate a coltivare quell’odio che è quasi fisiologico. Questo credo sia un compito civile e umano che ci si deve aspettare da parte di una società nei confronti di un proprio componente, così come i famigliari del carnefici non devono sentirsi additati e umiliati per colpe che non hanno. E questo credo che renderebbe una società migliore e più umana.

Allora io, che ho già scontato più di trent’anni di galera e so bene cosa vuol dire stare rinchiusi senza vedere uno spiraglio per tornare a vivere, penso che la pena dell’ergastolo vada abolita perché non lascia progettualità per il futuro ed è una autentica morte civile. Come sono convinto che bisogna che questa società la smetta di chiedere vendetta e di coltivare odio su odio. Ma lotti per far si che ogni suo componente, che si perde nell’irresponsabilità della commissione di un reato, trovi nella pena la possibilità di ricostruire la sua responsabilità sociale. E tutti si dovrebbero attivare per controllare che questo percorso all’interno delle nostre carceri venga veramente effettuato.

Rinchiudere un componente di questa società in carcere e chiedere di buttare la chiave non ha un senso sociale, ma neppure pratico, perché le pene finiscono, a volte anche l’ergastolo può finire, e sarebbe molto rischioso non fare nessun tentativo per riportare chi ha scontato una pena, anche la più lunga e la più pesante, a far parte della società a pieno titolo.

 

E se mi avessero condannato all’ergastolo?

Il “congelamento” di una persona in un magazzino “disumano” come sono oggi le carceri è rassicurante per la società, che oggi ha sempre meno voglia di fermarsi a riflettere

 

di Ulderico Galassini

 

Sono ormai tre anni e mezzo che mi trovo in stato di detenzione, il “mondo oscuro” del carcere si è aperto per me dopo un lungo passaggio in due ospedali.

È stato l’epilogo e la conseguenza di un atto a dir poco incredibile che ha interessato e stravolto il mio nucleo familiare; distrutto tutto ciò in cui ho creduto e che era il fondamento dell’educazione che avevo ricevuto e l’obiettivo della mia e della nostra vita, di tutta la mia famiglia. Tragicamente invece di vita ne ho tolta una e ho troncato così ogni futura speranza e sogno che mia moglie condivideva con me. Di vita ho cercato di distruggere anche la mia, ma non ci sono riuscito, e sono qui. Tutto questo mi ha allontanato fisicamente anche da mio figlio, nel senso che non sono più presente materialmente al suo fianco e sto perdendo tutto lo sviluppo della sua vita. Lui non ha più l’assistenza dell’unico famigliare diretto che gli è rimasto e soprattutto non potrà più pronunciare quella magica, dolce parola, “mamma”.

Rimangono, e posso ancora dirmi fortunato, dei brevi contatti telefonici, qualche colloquio e qualche lettera.

Preso coscienza di tutto ciò, l’unico cammino che per alcuni anni mi rimane è la vita in carcere, luogo che non ho mai pensato potesse far parte del mio percorso di vita.

Con il molto tempo che mi rimane per riflettere, cercare di capire il perché io sia arrivato a quell’agire, il reato più grave che un uomo possa compiere, spesso ripercorro la mia “carriera” di detenuto. Al mio risveglio in sala rianimazione non ho pensato minimamente al fatto che il mio atto avrebbe comportato ciò che ora sto vivendo, ma ho solo cercato di dichiarare la mia inqualificabile azione, “Ho distrutto la mia famiglia”, scrivendo questa frase su un pezzo di carta, sorretto dai medici, in quanto per i danni che mi sono procurato non potevo parlare.

Il pensiero è andato subito ad Alessandra, mia moglie, in quanto non conoscevo l’esito della mia azione, e ad Andrea, mio figlio, che sapevo essere seriamente ferito.

Riacquistata la capacità di parola ed in occasione degli incontri con il Pubblico Ministero, periti, medici ed il mio avvocato, non ho mai chiesto: quanto carcere devo fare? Il pensiero esclusivo era mio figlio e, subito dopo, parenti, amici e conoscenti. Non avevo mai avuto a che fare con tribunali e avvocati, quantificazioni di pene, non ho neppure pensato a consultare codici penali, ho solo atteso le diverse fasi processuali. Ho accettato il rito abbreviato in quanto mi è stato spiegato che mi avrebbe ridotto la pena e quindi meno tempo di lontananza dai miei restanti affetti.

In seguito, in attesa del primo processo ho cercato di capire cosa era il rito abbreviato e soprattutto volevo evitare che mio figlio, già stanco di interrogatori, fosse ulteriormente assalito e tormentato dal ripetere risposte già date, rivivendo così il dramma subito e ripercorrendo ancora e ancora quelle tragiche immagini.

Qualcuno, dentro il carcere, mi ha detto: sei stato fortunato perché non ti hanno dato l’ergastolo!

Da qui, da questa mia “fortuna” vengono le riflessioni su tale pena, quali effetti possa determinare nel soggetto che ne deve subire le conseguenze e quale vantaggio ne trae il resto della società.

Certo il “congelamento” di una persona in un magazzino “disumano” è rassicurante per la società, a cui, senza alcun diritto, ho tolto una valida persona – mia moglie Alessandra – con la quale ho vissuto per 35 anni, tra fidanzamento e matrimonio, una vita insieme che, se fosse possibile, rifarei subito, cancellando dal calendario il 27 maggio 2007.

 

Ma cosa insegna l’ergastolo, quali effetti ha su chi lo riceve come pena?

 

Mi sono domandato allora, immaginando di essere stato condannato all’ergastolo, se davvero l’ergastolano riesca ad essere ancora una persona che può e potrà rendersi utile alla società e a se stesso, con un percorso graduale di reinserimento, certo dopo un giusto numero di anni di detenzione e dopo una adeguata rieducazione. Ma la rieducazione, che qualcuno definisce meglio “risocializzazione”, però in questi ultimi anni, nelle carceri italiane, a causa del sovraffollamento, non è purtroppo neppure pensabile che venga attuata. Non esistono i presupposti, il personale è inadeguato numericamente per gestire tutte le attività per il reinserimento, il comparto amministrativo è sovraccaricato, stessa cosa dicasi degli agenti penitenziari, gli stessi magistrati sono sommersi dall’enorme lavoro necessario per arrivare a prendere le giuste decisioni che riguardano i detenuti, che attendono risposta alle varie istanze presentate. Tutto questo si traduce nel mancato rispetto dei diritti che comunque sono previsti anche per quelli che sono chiamati “gli ultimi”. Lo Stato si trova ad essere a sua volta fuorilegge, non rispettoso delle Leggi, le stesse che si utilizzano per condannare il reo.

Penso sia giusto che chi ha commesso reati che comportano l’ergastolo debba essere seguito da personale specializzato, per analizzare ogni singolo caso e aiutare a capire perché una persona possa arrivare a sopprimerne un’altra, confrontare ogni situazione per trovare i “virus” che hanno armato la mente di chi ha agito come se fosse una “bestia”, capire quali siano anche i fattori della vita che possono aver determinato certi fatti.

Ma la società di oggi ho come l’impressione che non abbia tempo per questo.

Gli obiettivi sono altri, ritenuti più importanti rispetto al dedicare più tempo alle persone, e a far capire il rischio che c’è nel vivere la vita in modo frenetico, trascurando le basi per una convivenza comune. E così ci troviamo a vivere in una società sempre meno sana e sempre più stressata, guastata anche dai modelli proposti dai media, quegli stessi che poi ti processano quando commetti reati, sostituendosi anche ai giudici.

Mi viene da dire allora: fermiamoci un po’ a ripensare ad una società diversa, dove le persone siano messe in grado di chiedere e ricevere aiuto.

 

Non ti fucilo, ma ti faccio morire lentamente

Già una pena che ti fa trascorrere più di dieci anni effettivi in carcere, è più che sufficiente per distruggere qualunque persona e famiglia

 

di Milan Grgic

 

Leggendo le reazioni alla condanna di Michele Fusaro, il falegname di Bassano del Grappa che nel 2007 sequestrò ed uccise Iole Tassitani, figlia di un notaio di Castelfranco Veneto, pare in un tentativo di estorcere soldi alla sua famiglia, da detenuto vorrei dire la mia opinione. Sono d’acco­rdo che in Italia ci sia la libertà di pensare e di dire quello che si vuole, però questo non può essere un pretesto per dire qualunque falsità, specialmente sulla giustizia, se non si conosce bene la materia. Un’altra cosa che penso è che non esiste la giustizia che può accontentare entrambe le parti in un processo, se succede è una rarità, allora cosa si fa? si cerca un equilibrato compromesso. Io capisco il dolore dei genitori di Iole, sono padre anch’io, e proprio pensando a come la prenderei se fosse successo a me quello che è successo a loro, dico solo una cosa, che non lo auguro a nessun genitore. Penso però che molti non sappiano che differenza c’è tra 30 anni e l’ergastolo: morire fucilato di colpo è diverso che morire passando gli anni nell’attesa di una morte lenta, con poca speranza di riprendersi una vita normale.

Secondo me bisogna ragionare in altro modo, capire che il legislatore non può cambiare la legge ogni volta che qualcuno non è d’accordo con la pena inflitta a un soggetto, in questo modo si perderebbero la funzionalità e il senso della pena. Bisogna invece che tutti si chiedano che ruolo e quale effetto ha la pena, se si vuole recuperare la persona (darle una seconda chance) o si vuole eliminarla fisicamente. Nella seconda ipotesi si deve ripristinare la pena di morte, se no, si deve accettare una sentenza che è stata emessa, che piaccia o no, comunque è stata emessa da giudici che conoscono meglio di chiunque altro il Codice; in ogni caso, sarebbe meglio lasciare a ogni professione di fare il suo mestiere.

Dalla mia esperienza personale dico che già una pena che ti fa trascorrere più di dieci anni effettivi in carcere è più che sufficiente per distruggere qualunque persona e famiglia, e lascia poco spazio e tempo per il recupero. Questo lo dico non per chiedere una particolare benevolenza o qualcosa d’altro, ma perché sia chiaro che, affinché avvengano gli effetti previsti dalla Costituzione, ci vogliono le condizioni. In molti Paesi europei la condanna all’ergastolo significa trascorrere in media 15 anni di carcerazione e nessuno sgrida i giudici o grida allo scandalo sostenendo che “dopo solo 15 anni è già fuori!”.

La pena di 30 anni inflitta a Fusaro lo farà stare dentro più di 15 anni, perché la sua condanna è accompagnata dalle aggravanti che lo obbligano a fare minimo due terzi della pena. Tante persone che non conoscono il sistema di applicazione della pena danno per scontato che un individuo condannato al carcere avrà tutto quello che prevede la legge, in realtà tutto è discrezionale e dipende da una serie di pareri, dell’équipe trattamentale, del direttore del carcere e del magistrato di Sorveglianza.

 

“Fine pena mai”, la morte per logoramento

Un ergastolano nei termini per le misure che fa i conti con le difficoltà concrete

Quando uno viene condannato all’ergastolo, la cosa che gli viene in mente è di farla finita subito. Se non lo fa è perché nutre una pur remota speranza di riuscire un lontano giorno a ritornare libero

testimonianza raccolta da Antonio Floris

 

Sono un ergastolano e sono dentro da ormai 19 anni. Tralascio di dire il perché mi è stata inflitta questa condanna e se sia meritata o meno, ma voglio semplicemente fare alcune considerazioni su come ci si può sentire con una condanna simile addosso.

Quando uno viene condannato alla pena dell’ergastolo sulla sentenza viene scritto “Fine pena mai” il che significa che uno può uscire dal carcere solo dopo morto. Se questa regola fosse rigida equivarrebbe a una condanna a morte, solo che al posto di essere inflitta per sedia elettrica o per iniezione di veleno si infligge per logoramento continuo, con la differenza che al posto di una sofferenza breve ne viene somministrata una lunghissima e più crudele.

Nella realtà però non tutti gli ergastolani escono dal carcere solo dopo morti. Poiché il principio del fine pena mai stride con la Costituzione, la quale dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, si sono trovate alcune “scappatoie” per far in modo che qualche ergastolano possa uscire dal carcere ancora vivo.

Le “scappatoie” previste sono quella della liberazione condizionale, dei permessi premio e della semilibertà. In sostanza, qualche volta e non sempre, l’ergastolano, dopo aver scontato almeno 26 anni di pena, può essere rimesso in libertà (in libertà condizionale si intende, non libero del tutto).

Da tenere ben presente che la liberazione condizionale non può essere concessa quando l’ergastolo è stato inflitto per reati commessi in contesti di associazioni mafiose, terroristiche o eversive.

La condizione per essere rimesso in libertà è che il soggetto non sia più pericoloso e che durante la detenzione abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Il che vale a dire che se i magistrati di Sorveglianza ritengono che la persona è ancora pericolosa, gli anni necessari per rimettere piede fuori invece che 26 possono essere 28, 30, 35… o fino a che uno non muore.

Inoltre, all’ergastolano che ha tenuto buon comportamento e che non è più socialmente pericoloso, dopo almeno 10 anni di pena espiata possono essere concessi dei permessi premio, e dopo almeno 20 anni di pena espiata può essere concessa la semilibertà.

Quando uno viene condannato all’ergastolo e vede scritto sulla sentenza “fine pena mai” e cioè morte per logoramento, la cosa che gli viene in mente è di farla finita subito. Se non lo fa è perché nutre una pur remota speranza di riuscire un lontano giorno a ritornare libero attraverso queste, diciamo, scappatoie.

Il giorno che la mia condanna all’ergastolo è andata definitiva io avrei preferito che mi avessero detto che ero stato condannato a morte. All’inizio ho passato dei mesi e degli anni bruttissimi e devo ringraziare la mia famiglia, gli amici e i compagni di pena per avermi sostenuto e dato la forza di andare avanti. Così, dopo 15 anni di carcerazione ininterrotta, nei quali ho tenuto un comportamento esemplare, ho avuto finalmente un permesso premio.

L’impatto con il mondo esterno è stato tremendo. Ero come un pesce fuor d’acqua, avevo paura di tutto, degli spazi aperti, della gente, delle macchine, persino delle biciclette, che mi venivano addosso perché camminavo sulle piste ciclabili senza sapere che lì non si poteva camminare. Non avendo mai visto l’euro, ogni volta che dovevo acquistare qualcosa mi trovavo in imbarazzo. Per dirne una, se andavo dal tabaccaio per comprare le sigarette dovevo aspettare di vedere qualcun altro come faceva.

Ancora oggi, dopo sei permessi ho la fobia degli spazi aperti. Appena arrivo a casa preferisco chiudermi dentro e non uscire, per paura della gente e del mondo in generale.

In tutti questi anni di detenzione la mia famiglia mi ha sempre seguito, ma mentre io stavo dentro non mi rendevo conto se i nostri rapporti abituali erano cambiati o no, nel senso che prima io rivestivo all’interno della famiglia un certo ruolo. In pratica io ero quello che pensava al loro sostentamento. Ero il capo famiglia insomma. Ora mi rendo conto che non è più così. A me cercano di non farmelo pesare ma io mi rendo conto che non sono più tenuto nella stessa considerazione di prima; talvolta ho l’impressione di essere considerato come un estraneo.

Fra poco io sarò nei termini per chiedere la semilibertà, ma c’è bisogno di una richiesta di lavoro, e chi è che può prendere a lavorare un ergastolano? Anche ammettendo che questo lavoro lo trovassi si tratterebbe di una sistemazione precaria nella quale sono insiti tanti rischi. Per fare un esempio, basta un piccolo alterco con qualcuno perché la misura venga revocata, e la stessa cosa si può dire se dovesse succedere qualche ritardo nel rientrare in carcere.

La Costituzione dice che la pena deve tendere al reinserimento, ma dopo 26 anni di pena (se tutto va bene) che reinserimento ci può essere? Che futuro può avere un ex ergastolano? Dopo aver fatto tanti anni di pena lontano dal mondo, quando esce fuori si trova ad avere un’età in cui non può neanche svolgere attività lavorative. Si trova solo e abbandonato da tutti, anche dai suoi stessi familiari per i quali è un peso più che altro.

In conclusione che differenza c’è tra la condanna all’ergastolo e la condanna alla pena di morte? Forse è meglio quest’ultima perché così soffre di meno lui e soffre di meno anche la sua famiglia, perché tutte le condanne non vengono espiate solo dal reo, ma anche dai suoi familiari.

 

Dopo la condanna, mi sarei tolto la vita se non fosse per la mia famiglia

Loro devono almeno avere la possibilità di vedermi, quando possono venire a colloquio, e di consolarsi con l’idea che hanno un figlio, che certo ha fatto un reato grave, ma è vivo

 

di Bardhyl Ismaili

 

Io sono albanese, mi trovo in carcere da 13 anni. La mia condanna è all’ergastolo perché ho ucciso una persona. Non voglio parlare della mia colpevolezza o meno oppure se questa sia stata una condanna meritata o meno. L’omicidio è sicuramente il reato più brutto in assoluto e a ragione la legge prevede per esso condanne pesanti, solo che penso che l’ergastolo sia una pena che toglie tutta la voglia di vivere e ti lascia vuoto. Sulla sentenza che ti condanna all’ergastolo c’è scritto FINE PENA MAI, e sono parole che ti fanno capire che uno deve uscire dal carcere solo dopo morto.

L’ergastolo non ha naturalmente paragone con le altre pene, per le altre condanne uno può vedere un punto d’arrivo, un giorno anche lontanissimo in cui potrà cominciare a mettere piede fuori. Ad esempio, uno che è condannato a trent’anni sa che può fare dei calcoli, e quando raggiunge la metà della pena, e poi i due terzi, è nei termini rispettivamente per chiedere i permessi o la semilibertà. Questi calcoli un ergastolano non li può fare, perché la metà del FINE PENA MAI o i due terzi semplicemente non esistono.

Poiché la Costituzione recita che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società, l’ergastolo come fa a essere costituzionale? In che maniera un ergastolano si può reinserire nella società se non può finire mai la sua condanna? La cosa più logica allora è condannare alla pena di morte.

E se un ergastolano identifica la sua condanna come una pena di morte, qual è la speranza che lo tiene in vita?

I miei sentimenti, appena ho avuto la condanna, erano di totale disperazione. Vedevo tutto senza vie di uscita e volevo togliermi la vita. Ci pensavo continuamente, ma se ho rinunciato a questa idea, è stato solo per la mia famiglia. Le parole FINE PENA MAI fanno paura solo a pensarci e credo che a qualsiasi persona, di fronte ad una simile prospettiva, verrebbe l’idea di farla finita. Quello che mi ha dato la forza di vivere è stato il pensiero dei miei genitori. Pensavo che, se mi toglievo la vita, mi sarei liberato della condanna, ma alla mia famiglia sarebbe rimasto per sempre il dolore di un figlio morto, avrei finito di soffrire io, ma avrei spostato la sofferenza sui miei famigliari. Allora ho deciso che forse era meglio che soffrissi io per il carcere a vita, ma loro avranno così la possibilità di vedermi quando possono venire a colloquio, e di consolarsi con l’idea che almeno ci sono, hanno un figlio, che ha fatto un rea­to grave ma è vivo, come è viva la speranza di potermi abbracciare un giorno fuori di qui.

La speranza, quella stessa che mi dà la forza di resistere, è che prima o poi l’ergastolo venga abolito oppure che preveda dei percorsi che rendano effettiva la possibilità per tutti di ottenere, ad un certo punto della pena, una misura alternativa al carcere.

Per uno straniero ergastolano, mettere piede fuori è un’impresa disperata

Sono sicuro che per me, se non sarà un fine pena mai, sarà un fine pena infinitamente lontano

 

di Gentian Belegu

 

Ho 33 anni, sono albanese e mi trovo in Italia dal 1994. Sono arrivato in Italia per lavorare con mio fratello che stava a Taranto, e lavorava in un bel ristorante molto conosciuto in quella città. Sono dovuto emigrare dall’Albania perché la mia famiglia, come tantissime altre in quel tempo, era molto povera, eravamo otto figli e la vita era difficile. Chi ne aveva le possibilità emigrava. Così io ho seguito le orme di mio fratello. Avevo cominciato a lavorare con lui nel ristorante e mi trovavo molto bene. I proprietari erano bravissime persone, avevano un figlio adottivo. Io ero molto giovane, quelle persone si affezionarono subito a me e in poco tempo avevano preso a trattarmi come un figlio. Solo da mia madre avevo ricevuto tanto affetto disinteressato. Ero certo di aver trovato la mia sistemazione definitiva in quella che consideravo la mia seconda famiglia. Finché un giorno dopo un po’ di mesi che stavo lì vennero i carabinieri per un controllo e mi trovarono senza i documenti. Mi diedero un foglio di via. Così finirono i miei sogni di realizzare la mia vita futura in Italia.

Sono dovuto andare via da lì. La mia vita cambiò, perché cominciai a dedicarmi ad attività illegali a tempo pieno, in un percorso inarrestabile di degrado che mi ha portato a commettere un omicidio. Mi sono dichiarato colpevole, avevo capito che dovevo assumermi le mie responsabilità, e sono stato condannato a trent’anni.

Non passò molto tempo che mi arrivò un mandato di cattura per un altro omicidio. Io non pretendo di essere creduto, ma sono del tutto estraneo, e vorrei che qualcuno mi credesse, o almeno avesse qualche dubbio. Tuttavia, ero il colpevole perfetto. Avevo già confessato un omicidio… a nulla valse urlare la mia innocenza... così mi hanno condannato all’ergastolo. Qualcuno in carcere mi ha detto, “Forse ti conviene che ti assumi la colpa così ti danno le attenuanti e te la cavi con trent’anni e, visto che trent’anni li avevi già presi, tutto sommato è sempre meglio dell’ergastolo”. Non me la sono sentita di accettare un calcolo del genere, però sulla condanna all’ergastolo voglio dire che è terribile sentirsela addosso, per chiunque, anche per chi è colpevole. E non tutte le persone condannate riescono a reggere il peso di un’ingiustizia così grande. L’ergastolo è una pena che non cessa mai, per anni e anni sta sulla testa come una spada di Damocle, ti ricorda che la società ti ha bandito e difficilmente una persona sopravvive a quella pena.

Io sono da pochi anni in carcere e so che per me la vita qui dentro sarà molto lunga e dura. Qui dentro ho conosciuto diverse persone condannate all’ergastolo. Tanti sono dentro da più di dieci, quindici o vent’anni, e solo pochi di loro hanno iniziato ad usufruire dei permessi premio, ma sono parecchi che continuano a sperare, e a riproporre istanze con l’illusione di ottenere qualcosa.

Credo che poi, per uno straniero condannato all’ergastolo, mettere un piede fuori sia doppiamente difficile, perché naturalmente il giudice pensa che, se manda in permesso uno straniero condannato all’ergastolo, lui scappa e torna al suo Paese. E allora so che da straniero dovrò dimostrare di essere una persona doppiamente affidabile. Ma come si fa a dimostrarlo?

Io sto cercando di farlo, ma non è facile nelle condizioni in cui è il carcere oggi. C’è il sovraffollamento, molte persone sono povere e disperate, tanti devono fare condanne brevi e non hanno la testa come me, che devo per forza pianificare una permanenza lunghissima qui dentro. Quindi mi devo continuamente adattare e cercare di mantenere un comportamento corretto e più equilibrato possibile. Il lavoro non c’è per tutti. Io da un po’ di mesi ho iniziato a fare il portavitto, è un lavoro che non vuole fare nessuno. Ci sono sempre discussioni perché spesso le persone vogliono più cibo rispetto a quello che gli spetta. E io cerco di farlo bastare per tutti, ma non è facile. E l’idea che forse dovrò fare questo lavoro per il resto della mia vita mi rende molto triste. Anche perché, parlando con i detenuti più anziani qui, mi hanno detto che solo pochi detenuti sono riusciti a ottenere la liberazione condizionale, quella misura che la legge prevede per gli ergastolani che hanno scontato almeno 26 anni di carcere. Perciò, sicuro che per me, se non sarà un fine pena mai, sarà un fine pena infinitamente lontano.

L’ergastolo ostativo, quello che ti condanna a morte facendoti restare vivo

Il racconto di un permesso di necessità per Carmelo Musumeci, l’ergastolano simbolo della battaglia contro l’ergastolo ostativo ai benefici

 

di Nadia Bizzotto e Giuseppe Angelici, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

 

Sembra un giorno qualunque quando varchiamo la soglia del carcere di Spoleto.

È un bel mattino di maggio pieno di sole: sembra il ripetersi di quello che facciamo tutte le settimane, quando entriamo dentro a questo mostro di ferro e cemento per incontrare decine e decine di ergastolani che da decenni vivono rinchiusi, senza beneficiare di nessun permesso. Sono uomini che per vari motivi hanno scelto di non collaborare con la giustizia e quindi secondo la Legge attualmente in vigore sono esclusi da ogni alternativa al carcere e, se ergastolani, destinati a stare lì fino alla morte.

Sono proprio gli ergastolani i detenuti che seguiamo maggiormente nel carcere di Spoleto, da quando nel 2007 il fondatore della nostra Comunità, Don Oreste Benzi, qualche mese prima della sua morte, ci ha lasciato il compito di non far invece morire la speranza di questi fratelli.

Con loro e per loro portiamo avanti la battaglia contro l’ergastolo, perché noi non possiamo credere in una pena che escluda la possibilità di dimostrare che l’uomo possa cambiare e diventare addirittura una risorsa per gli altri.

Abbiamo scritto insieme a loro:

“Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza.

Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere”.

Insomma l’ergastolo ostativo è stare in carcere per tutta la vita, è una pena che viene data a chi ha fatto parte di un’associazione a delinquere e ha partecipato a vario titolo a un omicidio, dall’esecutore materiale all’ultimo favoreggiatore. Non è invece previsto l’ergastolo ostativo agli stupratori, ai pedofili e a tutti coloro che ledono una persona fino ad ucciderla. Ostativo vuol dire che è negato ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone. Chi invece non collabora, per paura di vendette omicide sulla propria famiglia, per non mettere un’altra persona in carcere al proprio posto o perché non è in grado di dimostrare che non può aggiungere altro a quanto già emerso sull’associazione di cui ha fatto parte, queste persone sono condannate a restare per tutti i giorni della propria vita in carcere. Si continua a parlare di “pentiti”, mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente “collaboratori di giustizia”, perché è evidente che la collaborazione è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il pentimento interiore della persona. (Tratto dall’introduzione del libro “Gli Uomini Ombra” di Carmelo Musumeci: Perché questo libro di Giuseppe Angelini e Nadia Bizzotto)

Noi incontriamo tanti ragazzi, ora uomini con i capelli quasi grigi, arrestati appena maggiorenni, ragazzi di 40 anni arrestati a 18 e che ora possono dire di aver vissuto più tempo in carcere che fuori e che non sono mai usciti, molte volte neanche per i funerali dei genitori. Potrebbero essere i ragazzi che oggi accogliamo, molte volte minorenni, nelle nostre case: in effetti sono ragazzi che non hanno avuto spesso la possibilità di avere un’alternativa alla strada e al fascino delle bande mafiose che li hanno adescati. E tanti altri che vediamo sempre lì, settimana dopo settimana, mese dopo mese, per tutti questi anni, senza che cambi mai nulla per loro, senza che possano detrarre i loro giorni di pena da un calendario che preveda una data futura di reinserimento anche per loro. Sono sempre lì: estate, inverno, Natale e Pasqua. Noi vediamo il tempo scorrere sui loro volti, settimana dopo settimana, e lasciare solchi profondi. Molti di loro, nella riflessione e nella sofferenza, sono arrivati ad una revisione interiore sugli errori del passato, ma nonostante questo non possono usufruire di nessun beneficio penitenziario, perché la loro eventuale libertà è valutata in base a ciò che non dicono e non a ciò che sono diventati.

Eppure stamattina entriamo con il cuore che batte forte… è successo il piccolo miracolo che aspettavamo da anni: stiamo per portare fuori per 11 ore per un permesso di necessità Carmelo Musumeci, l’ergastolano simbolo della battaglia contro “La pena di morte viva”, l’ergastolo ostativo ai benefici. Il cosiddetto “permesso di necessità”, è l’unico tipo di permesso che può ottenere anche chi è escluso dai benefici penitenziari, ma si concede raramente e per eventi gravi, unici e irripetibili.

Carmelo oggi si laurea, a quasi 56 anni, dopo un percorso esemplare ma pieno di difficoltà, perché in carcere è un’impresa anche studiare. Anni e anni passati sui libri, o dentro ai blindati rinchiuso per ore in attesa del trasferimento per fare un esame, o ad aspettare invano commissioni che si rifiutano o dimenticano di fare i test scolastici in carcere…

Oggi è il giorno tanto atteso, ma grazie a questo piccolo grande miracolo quasi quasi è proprio la Laurea a passare in secondo piano. Carmelo esce con noi, da uomo libero, per undici ore per laurearsi e stare con la sua famiglia nella nostra Casa di Bevagna. Tutto questo non era mai successo per lui: Carmelo non vede il mondo da fuori da oltre 20 anni, non è uscito quando si è sposato suo figlio o quando si è laureata sua figlia, nemmeno quando è morto suo fratello.

Entriamo all’ufficio matricola, sembra tutto così normale e invece stiamo firmando un foglio dove noi, e non la scorta della polizia penitenziaria, prendiamo in consegna Carmelo. Aspettiamo poco, ma l’attesa è comunque insopportabile; ci mettiamo sulla porta che dà all’esterno, ad un tratto eccolo che arriva: Carmelo è vestito a festa e pronto per uscire.

Appena la guardia lo lascia ci avviamo verso il tanto sospirato cancello. Quante volte abbiamo sognato questo momento… Come per magia il cancello si apre immediatamente e mentre lo varchiamo ci si stringe il cuore pensando a quanti no ci hanno detto prima di arrivare ad oggi, ma ora la gioia e l’emozione sono troppo forti e non c’è più posto per i brutti ricordi.

Fuori l’abbraccio con la figlia è di quelli che vale la pena aspettare per una vita. Un momento di commozione e poi si sale in auto per correre all’Università a Perugia dove già ci stanno aspettando. Sembra tutto normale, eppure abbiamo in macchina un ergastolano ostativo che non esce da 20 anni. Ci guardiamo attorno e ci chiediamo cosa possono vedere gli occhi di chi non vede il mondo da tanti anni, proviamo a pensare com’era il mondo oltre 20 anni fa… Carmelo invece continua ad abbracciare la figlia, quella bimba di 9 anni che ha lasciato tanto tempo fa e che ora è una donna, laureata prima di lui, e che per tanti anni quand’era in regime di 41 bis non ha potuto neanche toccare perché i colloqui erano limitati da un vetro divisore.

Questo splendido sole di maggio e il paesaggio della campagna umbra lo stordiscono: per tutto il tempo, anche sulla superstrada, non fa altro che dire: “Quanto verde, quanto verde…”

 

Un ergastolano ostativo che abbraccia la moglie, i figli, i nipoti

 

Lungo la strada ci fermiamo per unirci con il resto della famiglia di Carmelo, dovremmo dire di fare presto, che è tardi, che all’Università la commissione di Laurea non può aspettare, ma ci sono momenti e ci sono emozioni che non si possono interrompere, né dissacrare con le parole. Guardiamo la scena e rimaniamo in silenzio, questo asfalto, dove dopo 20 anni una famiglia intera si riabbraccia, ci sembra uno dei luoghi più sacri che abbiamo mai visto. 

L’arrivo in Facoltà, l’emozione fortissima di Carmelo che neanche si è reso conto di essere stato catapultato dentro un’aula universitaria davanti ad una commissione, ci fa improvvisamente ricordare che siamo usciti dal carcere per discutere la Tesi di Laurea. Per un momento pensiamo che forse Carmelo non può reggere a tanta emozione, che tutto questo è troppo per chiunque, anche per uno come lui… Ma forse sente tutto il calore di chi è dietro di lui ed è venuto da ogni parte d’Italia e da ogni situazione per essergli accanto in questo momento e così lo vediamo pian piano riprendere un po’ di colore e di lucidità… Davanti a lui i volti rassicuranti dei prof relatori, Carlo Fiorio e Stefano Anastasia, compensano bene l’aria formale e severa del resto della commissione. Carmelo ha pochi minuti per dire cose che conosce a memoria, più che la legge è il cuore che parla.

Mezz’ora dopo possono riprendere le strette di mano, gli abbracci, le foto… c’è persino la corona di alloro. Sembra tutto così normale. Carmelo sta accanto alla moglie e ai figli, stringe gli amici come se fosse la cosa più normale del mondo, forse dovrebbe esserlo, ma lui invece prima di oggi non l’ha mai fatto. Il tempo corre così maledettamente veloce e se ne sono già andate tante ore di permesso. Di nuovo in macchina, di corsa, verso una delle nostre case, il convento di Bevagna. Carmelo e noi, Carmelo con i suoi due figli, uno a destra e uno a sinistra. Lui non fa che abbracciare prima uno poi l’altra, poi tutti e due insieme, poi parla con noi, ma riprende anche a baciare i suoi figli, chiede, s’informa, dà loro consigli e ogni tanto butta un occhio sul panorama e ripete “Quanto verde, quanto verde…”.

Arriviamo a casa, la festa per lui è nel chiostro del convento: tutta la Comunità dell’Umbria si è stretta intorno a lui, ognuno ha preparato qualcosa, tutto è stato preparato nei minimi particolari. Ci sono pure i confetti rossi e il papiro. Il portico è pieno di tavoli apparecchiati e di persone venute da ogni parte d’Italia, qualcuno ha fatto otto ore di viaggio per un abbraccio e una manciata di minuti da passare con Carmelo libero. È uno splendido pomeriggio di maggio, sembra un giorno qualunque, sembra tutto così normale: l’aria è quella di una festa in famiglia. Carmelo è circondato d’amore, ma il tempo corre così maledettamente veloce in questo giorno qualunque e lui guarda in continuazione l’orologio. Dobbiamo dirgli che è già ora che tutti vadano via per lasciarlo solo con la famiglia. Ma prima Carmelo si intrattiene con due giornalisti che in questi ultimi anni hanno raccolto le sue “grida” di “Uomo Ombra”, come lui definisce gli ergastolani ostativi: né vivi, né morti, solo ombre. Per parlare con Alberto Laggia di Famiglia Cristiana e Alessia Gizzi di Rai 3 Carmelo spende quasi due ore delle undici di permesso, ma ci ripete: “Non dobbiamo pensare solo a noi stessi, dobbiamo pensare anche a chi è dentro, alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo”. Sarà, ma non possiamo fare a meno di chiederci se per un giorno ogni 20 anni uno non può pensare solo per se stesso…

Si è fatto tardi, è tutto una corsa contro il tempo: Carmelo gioca nel verde con i nipotini, con questi bimbi che hanno l’età dei suoi figli quando li ha lasciati l’ultima volta. Poi sale in casa, per vivere gli ultimi momenti in famiglia, con la sua famiglia. Arriva il momento della cena. Carmelo non cena con una famiglia, con la sua famiglia da più di 20 anni, con i più piccoli non l’ha mai fatto… Non mangia con piatti e posate veri da tantissimi anni. Un ergastolano ostativo a tavola con la sua famiglia che abbraccia la moglie, i figli, i nipoti, attorno una schiera di amici che gli vogliono bene e che cercano di immortalare nel cuore e nella mente questo momento.

Sembra tutto così normale, eppure il tempo sta per finire. Tutti ci rendiamo conto che tra un po’ tutto sarà finito. Cerchiamo di farci coraggio e cominciamo a dire che è ora di andare, il permesso sta per scadere… I saluti vogliono essere i più semplici e normali possibili, ma sono ugualmente strazianti. Per fortuna è tardi e per strada ci tocca correre, questo aiuta a non pensare. Carmelo si guarda attorno e per la prima volta dopo tanti anni può vedere un pezzo di luna senza sbarre. Ci sono anche tante stelle. È buio ma il mondo qui fuori è sempre tutto illuminato e Carmelo continua a dire “Quante luci, quante luci…”. Con noi è rimasta la figlia, l’ultima della famiglia a salutare davanti al carcere il padre. La scena non è di quelle che si vorrebbero vedere, ma forse è il prezzo da pagare per 11 ore di felicità…

Se ne sono andati tutti: siamo solo noi e Carmelo. Hanno acceso tutte le luci e aperto la gabbia di vetro dove si entra per i controlli. Carmelo non ha voglia di varcare quella soglia, dobbiamo cercare di fargli fretta, è tardi e poi la guardia sembra aver voglia di chiudere, ma facciamo finta: neanche noi abbiamo voglia di vederlo entrare. Poi aprono a lui, noi possiamo andare: abbiamo fatto quello che ci avevano chiesto, ma rimaniamo lì, attoniti. Lui ricompare davanti a noi dopo aver fatto il giro. Ora tra noi e lui ci sono di nuovo quelle maledette sbarre, così difficili da aprire. Poi Carmelo si gira e va. Cammina solo verso la seconda entrata, ormai da lì non può più andare da nessuna parte e sembra inghiottito dalla notte e dall’Assassino dei Sogni, come lui chiama il carcere. Quelle luci accese rendono ben visibile la sua sagoma che cammina, vorremmo che si voltasse, ma non può e non lo fa: Carmelo è di nuovo un Uomo Ombra. Quelle 11 ore passate così intensamente e velocemente non hanno cancellato la situazione. Ci chiediamo perché debba tornare in carcere, ci vengono in mente le parole di Don Oreste: “Quando un uomo ha capito i propri sbagli, ogni giorno di galera in più è un giorno sprecato per il bene dell’umanità”. Ci rimane l’amara soddisfazione di credere che almeno oggi non sia stato un giorno sprecato.

 

In Alta Sicurezza il clima che si respirava era di una disumanità schiacciante

Il racconto della vita in un regime di Alta Sicurezza risale a dieci anni fa, ma oggi è cambiato qualcosa?

 

di Elton Kalica

 

Sono passati alcuni mesi da quando tre detenuti albanesi sono fuggiti dal carcere di Voghera. In altri tempi la notizia avrebbe occupato parecchio spazio dei telegiornali più importanti, e se fosse successo in periodo elettorale, avrebbe riempito anche i salotti televisivi, animando discussioni politiche dove gli ospiti si sarebbero lanciati promesse di rendere le galere ancora più “sicure”.

Ma visto che i media si occupano d’altro, mi verrebbe da dire: per fortuna che stavano succedendo cose più importanti, e che questa fuga non ha avuto il solito seguito mediatico di tipo emergenziale. Tuttavia, la stampa ha continuato a parlare, insinuando qualche commento sui criminali albanesi che sono incontenibili, oppure sulle carceri italiane che sono troppo “rilassate”. Il che mi porta ad alcune riflessioni, che nascono solo dal fatto che sono albanese, ma soprattutto che ho conosciuto il carcere di Voghera, e i circuiti di Alta Sicurezza.

 

Il carcere di Voghera qualche anno fa

 

Circa dieci anni fa, ho trascorso sei mesi al carcere di Voghera. Si tratta di un piccolo carcere, composto sostanzialmente di quattro sezioni detentive. A quei tempi vi erano una sezione comune e tre sezioni di Alta Sicurezza, delle quali una di Elevato Indice di Vigilanza (E.I.V.). Adesso invece ho sentito che non ci sono più i detenuti comuni ed è diventato tutto Alta Sicurezza.

Il regime interno era fatto con gli stessi orari della maggior parte delle carceri italiane. Due ore di passeggio alla mattina e due ore di pomeriggio. Alla sera un’ora di socialità per consumare i pasti insieme, non più di quattro detenuti per cella. Se qualcuno voleva frequentare qualche corso scolastico, lo poteva fare nella fascia oraria dei passeggi, rinunciando quindi a uscire all’aria.

Per quanto riguarda i colloqui il regime era abbastanza severo, nel senso che veniva ancora applicata la perquisizione intima sia prima che dopo l’ora del colloquio. E quando c’ero io, esisteva ancora il bancone divisorio. Telefonare alla propria famiglia era un problema, perché la direzione voleva che ci fosse sempre una traduzione simultanea delle conversazioni, e, dato che non c’erano traduttori, non si telefonava. Dopo parecchie proteste, ci avevano concesso di effettuare i sei minuti di telefonata alla settimana, a condizione però che parlassimo in italiano. Ricordo che la prima volta a sentire la voce di mia madre mi sentivo così appagato, che sembrava un’autentica conquista, ma presto mi resi conto che era una di quelle vittorie umilianti, che ti lasciano l’amaro in bocca. Per mio padre era troppo avvilente non potermi parlare nella nostra lingua, e gli sforzi di mia madre per starmi vicino con il suo italiano scolastico accentuavano la mia sofferenza. Molti stranieri rinunciarono di fare queste umilianti telefonate, mentre io facevo solo due minuti per dire “Sto bene. Non vi preoccupate. Ci sentiamo la prossima settimana... spero nella nostra lingua. Ciao!”.

Le celle erano di tre metri per due, con dentro due brande a castello. Vi si poteva tenere solo un fornellino per riscaldare i pasti e una caffettiera. Mentre tutti i generi alimentari si dovevano depositare in una specie di magazzino comune, e, dato che eravamo sempre chiusi in cella, dovevamo chiedere al detenuto lavorante di volta in volta le cose che ci servivano per cucinare.

In un angolo della cella, incastrato al muro, un piccolo armadietto di ferro dove potevamo tenere solo due cambi per ogni capo d’abbigliamento, di scarpe e di biancheria.

Il reparto era composto di ventiquattro celle, disposte una di fronte all’altra lungo un corridoio diviso a metà da una guardiola di vetro blindato, dentro la quale c’erano sempre due agenti.

I detenuti erano in maggioranza persone provenienti dal sud dell’Italia, accusati o condannati per reati gravi come associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione o associazione, finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti. Tra loro c’eravamo anche noi, tre albanesi e due tunisini.

 

Il clima che si respirava

 

Si dice che i detenuti si comportano bene per uscire prima dal carcere, ed è vero. Infatti, nel carcere dove mi trovo ora ci sono molte persone, anche con condanne lunghissime, che arrivate ad un certo punto della propria condanna, cominciano quel percorso di reinserimento che serve per anticipare l’uscita definitiva. Il mio compagno di cella lo scorso mese ha trascorso due settimane a casa in permesso premio; quello della cella affianco esce domani mattina in permesso giornaliero per andare in un liceo e raccontare agli studenti come si finisce in carcere; ad un altro hanno concesso di andare all’università venerdì prossimo per sostenere un esame. Siamo sempre in un carcere dove le persone scontano la pena in condizioni di sovraffollamento, però questi piccoli benefici di legge, di cui una parte dei detenuti usufruisce, aiutano molti a fare dei piccoli progetti di vita, inquadrati sempre all’interno della famiglia, dello studio o dell’ambito lavorativo: i permessi premio, contribuiscono a creare un clima più umano, nonostante le condizioni di vita in carcere rimangano disastrose. Mentre ricordo che, nelle sezioni di Alta Sicurezza, dove ho trascorso circa cinque anni, il clima che si respirava era di una disumanità schiacciante. Tutti i condannati definitivi ci raccontavano di essere esclusi da ogni tipo di misura alternativa al carcere, suscitando in noi, che eravamo in attesa di giudizio, solo rabbia e malcontento. Nessuno andava in permesso premio. Nessuno cercava un lavoro all’esterno per andare in semilibertà. Niente che ci proiettasse fuori da quella sezione di cinquanta persone dove i pensieri, le emozioni e tutte le nostre esistenze si intrecciavano in una quotidianità che finiva per diventare surreale: c’era chi diventava maniaco delle pulizie e passava intere giornate a lucidare la stanza; c’era chi si fissava con la ginnastica ed era perennemente steso sul pavimento a fare flessioni e addominali; ovviamente i più rimanevano stesi in branda ad ammazzare il tempo, oppure appoggiati sul cancello in cerca di qualcuno disponibile a dare vita alla solita conversazione su reati, processi, condanne e altre storie da galera.

Se vedere qualcuno uscire in permesso era una cosa impossibile, qualcuno però alla fine ritornava libero. Ovviamente, perché aveva finito di scontare la pena. Il che, invece di suscitare gioia, provocava pietà e frustrazione, perché ai nostri occhi quella che veniva scarcerata non era una persona che riacquistava la sua libertà, ma uno di noi, verso il quale il sistema era stato spietato.

In simili momenti ci sentivamo uniti dal senso di impotenza, una strana solidarietà, visto che molti di noi non avevano nulla in comune.

Io avevo vent’anni e non avevo mai avuto nulla a che fare con la malavita organizzata. Ero accusato di aver tenuto una persona sequestrata nel mio appartamento, ma di mafia, di ‘ndrangheta o di camorra avevo sentito parlare solo nei film, eppure, con il passare del tempo, stare in una sezione di Alta Sicurezza mi aveva portato a vivere come se ormai appartenessi in modo irreversibile ad una categoria di persone, considerate feroci e quindi irrecuperabili. E c’erano momenti, soprattutto quando ci ritrovavamo a protestare collettivamente, che ci si calava nella parte a tal punto che si era convinti che solo il fatto di essere lì, imponesse una certo atteggiamento, una certa durezza e determinazione, perché noi eravamo quelli dell’Alta Sicurezza.

 

Mettere in discussione l’Alta Sicurezza

 

Tre albanesi sono fuggiti dal supercarcere di Voghera. Qualcuno vorrebbe sapere chi erano, cos’avevano fatto, dove saranno andati o cosa si sta facendo per riacciuffarli. Sono domande comprensibili, se si pensa ai meccanismi psicologici che muovono la curiosità umana. Ma c’è chi si sta chiedendo cosa fare affinché nessuno tenti più di scappare? Qualcuno proporrebbe di innalzare le mura, altri forse suggerirebbero di rimettere la palla di ferro al piede. Se lo chiedessero a me, inviterei a visitare il reparto in cui mi trovo ora, il Polo universitario di Padova, dove la metà siamo stranieri, dei quali molti usufruiscono di permessi premio, vivono in condizioni dignitose e nessuno ha mai tentato di fuggire. Mentre nella sezione di Alta sicurezza il numero di stranieri è sempre maggiore, e nessuno di loro usufruisce di misure alternative: se essere straniero in carcere è già di per sé una pena aggiuntiva, a trovarsi in una sezione di Alta Sicurezza, diventa quasi fisiologico cercare in tutti i modi di scappare.

Dopo questa fuga, c’è chi ha detto che occorre rimettere in discussione il livello di sicurezza delle carceri italiane, mentre io credo che episodi simili dovrebbero insegnare una cosa a chi amministra le carceri: forse sarebbe ora di rimettere in discussione le supercarceri come quello di Voghera, e certi regimi di carcerazione che poco hanno di umano, dove a volte si mettono anche persone che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata, dove si respira un clima di rabbia e frustrazione. L’assenza di una prospettiva diversa non solo non aiuta la rieducazione e quel cambiamento in meglio che ci si aspetta da chi ha sbagliato, ma rischia di rendere le persone peggiori di quello che erano prima di entrarvi, il che certamente non rende i cittadini più sicuri.

   

Morire di carcere

 

Due morti che indignano

Finché ci saranno queste condizioni detentive, ci saranno sempre detenuti che useranno ogni mezzo per fuggire dalla realtà e, purtroppo, anche dalla vita

 

di Elton Kalica

 

La morte di Walter, un detenuto “sconosciuto”

Una volta, la Casa di reclusione di Padova era il carcere delle pene lunghe. Persone con condanne definitive qui trascorrevano abbastanza tempo perché tutti conoscessero tutti. E quando una persona detenuta moriva, se non era un amico, era comunque qualcuno che avevi già conosciuto, oppure che avevi visto in giro per i corridoi.

Pochi giorni fa è morto Walter, ma non ho ancora trovato uno che lo conoscesse. Volevo raccogliere delle informazioni, e ho aperto le orecchie, ascoltando i miei compagni commentare.

È morto Walter. Chi è Walter? Uno del quarto piano. Cos’era? straniero? No, italiano, vicentino. Si è suicidato? Non si sa... dicono che ha sniffato il gas della bomboletta. Era giovane? Boh, non si sa...

Di fronte a tanti “non si sa” mi assale la stessa rabbia che molti detenuti del carcere di Padova stanno urlando fuori dalle finestre proprio mentre scrivo. Sbattono le padelle sulle inferriate delle celle e urlano, protestano contro il carcere che uccide, contro il carcere intollerabile.

Appena mi convinco che si tratta di un detenuto sconosciuto, trovo invece uno che ha sentito parlare di Walter. Mi dice che aveva quarant’anni e che era stato trasferito da pochi mesi dal carcere di Vicenza. Come molti nuovi giunti, era stato messo al quarto piano, trasformato in una di quelle zone grigie dove rimangono impantanati quelli che non possono o non vogliono andare in una sezione dove si sta meglio. Ed avendo problemi di tossicodipendenza, era stato messo in cella con altre due persone con lo stesso problema. Comunque, in sezione erano tranquilli, tutti e tre. Si prendevano la loro terapia – la dose giornaliera di psicofarmaci – e non davano fastidio. Perché la cosa importante in galera è non dare fastidio. Non dare fastidio agli altri detenuti, non dare fastidio agli agenti, non dare fastidio agli operatori e non dare fastidio ai medici.

Solitamente, le persone tossicodipendenti sono quelle che danno maggiormente fastidio. E di fronte alla loro “tranquillità”, potrei allora anche pensare all’efficacia del trattamento rieducativo e riabilitativo offerto da questo Istituto. D’altronde il carcere di Padova, con più di cento detenuti che lavorano per imprese esterne, quasi altrettanti che lavorano per l’Amministrazione e molti impegnati in attività scolastiche, costituisce un luogo di detenzione più decente rispetto alla maggioranza delle carceri italiane. Eppure, qui siamo più di 800 detenuti e Walter era uno di quei 500 e più che non fanno nulla, se non stare in branda tutto il giorno.

Stare “tranquilli” in un carcere sovraffollato è sempre difficile, anche qui a Padova, dove nonostante le persone abbiano qualcosa da perdere o da guadagnare, c’è comunque un malcontento diffuso, e la tensione si può toccare con mano ogni giorno di più.

Probabilmente Walter si illudeva di trovare un po’ di serenità nel gas. Una sniffata di metano, mi raccontano, significa che una piccola quantità di gas ghiacciato entra nelle narici e anestetizza il cervello: una botta secca che ti stacca dalla realtà, perdi aderenza con l’ambiente circostante, ti stendi sulla branda ed entri in un’altra dimensione. Un effetto che forse dura poco – il tempo necessario all’organismo per riscaldare il cervello e riportarlo alle sue funzioni normali – ma funziona abbastanza per far evadere dalla realtà del carcere, dalla sofferenza di questo luogo. Però, è anche un metodo pericoloso. Infatti, basta sbagliare la quantità di gas rilasciata nelle narici, e invece del cervello si ghiacciano i bronchi, causando il blocco di tutto l’apparato respiratorio. Il meccanismo si ferma e nei polmoni non entra e non esce più aria, finché non sopraggiunge la morte.

Ora non so se a Walter sia successo un simile incidente, oppure se abbia intenzionalmente respirato metano per suicidarsi. Ma questo importa poco a noi detenuti. Quello che invece questa tragedia dimostra, è la tragica condizione in cui si trovano le carceri di questo Paese: se anche nella Casa di reclusione di Padova, che è un “fiore all’occhiello” del sistema penitenziario, in poco più di un anno ci sono stati otto morti, (quattro suicidi e quattro morti, sulle quali si sta ancora indagando) forse le carceri stanno diventando davvero luoghi di morte.

Se per i detenuti “normali” la mancanza di una prospettiva diventa motivo di un malessere così grave che porta ad atti di autolesionismo, e a volte anche al suicidio, per i detenuti tossicodipendenti, tale mancanza produce un malessere ancora più grande.

Certo, a monte c’è la responsabilità di alcune leggi che stanno riem­piendo le carceri da anni. Ma se esiste una relazione diretta tra il sovraffollamento e le morti, questa è imputabile alla mancanza di una presa in carico e all’abbandono dei detenuti in cella. Che da un lato è sì dovuto all’insufficienza numerica degli operatori e degli agenti di Polizia penitenziaria, ma dall’altro dimostra spesso l’incapacità del Servizio sanitario di prendere seriamente in carico quelle persone che si sa essere a rischio.

 

Prima Walter e ora Alessandro: due morti che indignano

 

Tra il caldo e la solitudine di una cella, il tempo non passa mai. Certo, si può andare due ore all’aria e prendere il sole in una vasca di cemento, chiamata passeggi, oppure chiedere di andare in doccia e temporeggiare in corridoio salutando qualcuno. Ma si tratta sempre di due ore alla mattina e due al pomeriggio, mentre le rimanenti 20 ore della giornata si rimane in cella, a oziare.

Alessandro Giordano, salernitano di trentotto anni, solo due settimane fa aveva visto Walter, il suo compagno di cella, morire: entrambi, con lunghi percorsi di tossicodipendenza, si imbottivano della solita terapia di psicofarmaci fornita dall’infermeria del carcere. Che evidentemente non bastava per alleviare il loro malessere, tanto che forse inalavano il gas del fornellino per fuggire dalla realtà.

Dopo la morte di Walter, la loro cella era diventata una scena da analizzare dalla scientifica che faceva indagini per conto del Tribunale. Pertanto Alessandro e l’altro compagno di cella erano stati trasferiti in un’altra cella al secondo piano, a fare le stesse cose che facevano nella cella di prima, e cioè nulla o quasi.

In condizioni normali, guardare un amico morire è una cosa che ti segna per il resto della vita. In galera evidentemente le cose non funzionano così. La depressione prevale e il malessere ti rende indifferente ai rischi. Al punto che, solo dopo due settimane, Alessandro ha usato il fornellino nello stesso modo di Walter, e forse è morto nello stesso modo: un tentativo di staccarsi da questa realtà che l’ha portato a staccarsi dalla vita, se mai si possa chiamare vita quella che molte persone fanno qui dentro.

Ora che la cella di Alessandro diventerà un luogo da analizzare da parte delle autorità giudiziarie, tutti si chiedono se il terzo ragazzo, dopo aver visto morire i due amici, sarà aiutato in qualche modo a uscire dall’isolamento e a trovare qualche motivo di speranza. Le opinioni sono diverse, ma alcune persone con gli stessi problemi di tossicodipendenza mi dicono che, se la “cura” continua a essere prendere psicofarmaci e rimanere in branda a guardare il soffitto, il destino loro è già segnato.

Questi ragionamenti mi spaventano, ma so che almeno su una cosa hanno ragione: se quella del “a me non potrà capitare mai” è una leggerezza molto diffusa nella società di oggi, qui dentro, la convinzione di essere più forti del destino si mischia alla rassegnazione verso la disumanità del luogo in cui si è chiusi, formando una miscela che, se non è esplosiva, è a volte disperata, come queste due morti che ci indignano.

L’impressione che noi detenuti abbiamo è che il personale medico sia sempre più demotivato, e anche di fronte a sintomi gravi, alcuni medici si rifiutano di credere alle nostre sofferenze, accusandoci di simulazione. È stato così in due casi di suicidi, dove un medico, di fronte a precedenti tentativi falliti, pare avesse scritto nel diario clinico che la persona simulava; è stato così anche nel caso di Graziano Scialpi, il vignettista di Ristretti Orizzonti, che per mesi ha cercato inutilmente di convincere i medici e il personale a portarlo in ospedale per una risonanza magnetica, finché è rimasto paralizzato per un tumore; è stato così anche qualche mese fa, quando Federico non è riuscito a dimostrare che non simulava, che stava male davvero, finché è morto per un infarto, a 37 anni.

Se Walter e Alessandro sono morti, non è per colpa loro. E tantomeno è stato per colpa delle bombolette di gas o dei fornelli da campeggio: l’unico mezzo che abbiamo per riscaldare i pasti e integrare con qualcos’altro il cibo, scarso, fornito dal carcere. Se persone tossicodipendenti come loro muoiono in galera, è il carcere che le porta a morire, poiché dare il metadone alle persone tossicodipendenti e lasciarle in cella senza fargli fare alcuna attività, fornire quintali di psicofarmaci e lasciarle in branda incapaci di dare un senso alla giornata, è una vera istigazione al suicidio. Se Walter e Alessandro, come altre persone con i loro problemi, ricorrevano ad ogni mezzo per evadere da questa realtà, è colpa di chi non crea in carcere condizioni adeguate per seguire e curare i detenuti in modo appropriato. È certo che, finché ci saranno queste condizioni detentive, ci saranno sempre detenuti che useranno ogni mezzo per fuggire dalla realtà e, purtroppo, anche dalla vita.

 

 

Ristrettamente utile

 

Niente spesa, siamo tutti più poveri

Un gesto di solidarietà a Marco Pannella, che digiuna proprio per difendere i diritti delle persone detenute.  

In occasione delle iniziative in corso ad opera del Partito Radicale per denunciare le condizioni disumane delle carceri sovraffollate, dove dilagano il degrado e la povertà, i detenuti della Casa di reclusione di Padova, nella stragrande maggioranza, circa ottocento su ottocentocinquanta presenze, si sono astenuti per due settimane dal fare la spesa. L’unica cosa che si sono comperati sono gli articoli coperti dal monopolio delle Stato: sigarette, tabacco e francobolli.

 

di Elton Kalica

 

Tutto è partito dopo che Marco Pannella aveva iniziato lo sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane delle carceri, e chiedere un’amnistia generale. Tutte le radioline del carcere si sono sintonizzate su Radio Radicale per ascoltare i discorsi del leader radicale e, dato che c’era una scarsa attenzione da parte dei giornali e dei telegiornali verso lo sciopero di Pannella, molti detenuti in diverse carceri d’Italia hanno intrapreso diverse forme di protesta.

Anche nella Casa di reclusione di Padova era nata una protesta spontanea: attraverso il passaparola, si era deciso di rifiutare il vitto per esprimere solidarietà a Pannella. La sera della protesta ero steso sulla mia branda e stavo scrivendo un articolo con il portatile appoggiato sulle ginocchia. Il giorno prima era morto Walter, un giovane tossicodipendente che aveva messo fine alle sofferenze della galera uccidendosi con il gas dei fornellini. Non lo conoscevo, ma come faccio spesso quando succedono tragedie in carcere, mi affretto a scrivere per la news letter quotidiana di Ristretti, e a raccontare qualcosa di più rispetto ad un lancio d’agenzia di poche righe sull’ennesimo morto in galera.

Mentre mi sforzavo di riordinare le idee e di trovare le parole adeguate per descrivere una morte così assurda, all’improvviso tutti i detenuti hanno iniziato a sbattere le padelle contro le sbarre. Immediatamente il suono metallico di centinaia di finestre ha cominciato a riecheggiare per tutta la superficie del carcere, facendo tremare i pochi arredi delle celle. Sapevo che la protesta era contro le condizioni di vita poco umane causate dal sovraffollamento, ma stavo scrivendo di un ragazzo morto nell’indifferenza dei mezzi d’informazione, e allora avevo preferito immaginare che quei rumori si stavano sollevando in ricordo di un compagno morto.

Il giorno dopo, della protesta non si è più parlato. Giornali e telegiornali erano troppo occupati con fatti di cronaca e gossip sulle vite private dei VIP, mentre di quell’azione collettiva che la sera prima aveva fatto da sfondo al mio articolo, erano rimasti solo i residui di stracci bruciati buttati giù dalle finestre.

Due settimane dopo c’è stata un’altra tragedia: Alessandro, ancora un ragazzo tossicodipendente morto allo stesso modo di Walter. Con il cuore pieno di rabbia, ho scritto un articolo che poi abbiamo messo online la mattina stessa. Era il nono detenuto che moriva in poco più di un anno, e questo ha spinto l’onorevole Rita Bernardini a venire a Padova per incontrare i medici di questo carcere e informarsi su un numero così alto di morti.

 

Una radicale in redazione

Dopo la visita nell’infermeria del carcere, la deputata radicale, in ragione di una amicizia ormai pluriennale con noi di Ristretti, si è fermata in redazione e ci ha aggiornati sulle condizioni di salute di Marco Pannella. Con lei abbiamo parlato di sovraffollamento, di condizioni igieniche, di povertà e di malattia.

Da parte nostra, l’abbiamo informata che ritenevamo straordinariamente coraggioso e importante lo sciopero della fame del capo dei radicali, ma ci preoccupava il fatto che qualche altro detenuto stesse facendo lo sciopero, perché vista la vergognosa indifferenza politica di questi tempi verso una personalità di spicco come Pannella, per un detenuto anonimo scioperare avrebbe potuto significare rischiare davvero la vita. Tuttavia abbiamo spiegato anche che nelle sezioni erano nati dei gruppi di discussione e che si era pensato di mettere in atto altre forme di adesione, come l’astensione dalla spesa.

Quindi si è deciso di rinunciare a fare la spesa per due settimane invece di continuare con quelle iniziative spontanee della battitura delle sbarre; abbiamo anche escluso altre forme di protesta come il rifiuto del carrello del vitto, messo in atto in altre carceri, poiché ci siamo accorti che è una forma di protesta che crea disparità tra le persone che possono cucinarsi i pasti a proprie spese e le persone che non hanno nulla in cella; al contrario, astenersi dalla spesa è un gesto di solidarietà che fanno i detenuti con una certa disponibilità economica, che dimostrano così di essere capaci di trascorrere due settimane senza spesa, e vivere mangiando ciò che passa il carrello: insomma vivere come vive solitamente la maggioranza dei detenuti.

Della presenza dell’onorevole Bernardini abbiamo approfittato per parlare anche del motivo della sua ispezione in questo carcere: il servizio sanitario e le morti in carcere. Della nostra preoccupazione per la situazione poco chiara che si è creata dopo il passaggio di competenze della sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale, abbiamo scritto diverse volte sui numeri di Ristretti, ma l’abbiamo ribadito con Rita Bernardini, raccontandole della battaglia che stiamo facendo per confrontarci con i responsabili della Sanità e chieder loro di riorganizzare il Servizio Sanitario e di elaborare una Carta dei servizi sanitari per i detenuti, come prevede la legge.

Come al solito, la deputata radicale ha portato a Roma intere pagine di appunti e gli abbracci di decine di detenuti che, dopo averla incontrata, si sono sentiti meno soli in questa battaglia per la sopravvivenza che attualmente si sta facendo un po’ in tutte le carceri.

 

La protesta

Tanti la chiamano una protesta, ma in realtà astenersi dalla spesa non è una protesta. Qui c’è una impresa che ci vende una serie di prodotti che siamo autorizzati ad acquistare, ma non siamo obbligati a farlo: se uno non ha denaro o non vuole spendere, è libero di non comperare alcunché. Comunque, spesso, poter acquistare qualche prodotto dall’impresa è un modo per conquistare un po’ di dignità nella quotidianità della cella. Comperare il necessario per preparare una cena decente, oppure l’indispensabile per prendersi cura della propria igiene, ti permette di acquisire un po’ di quella identità umana di cui veniamo spogliati sin dal primo momento in cui mettiamo piede qui dentro. Però, solo una parte dei detenuti può fare questo. I prezzi che l’impresa impone sono troppo alti, soprattutto perché non ci sono offerte speciali e la scelta degli articoli messi in vendita è prevalentemente fatta di prodotti di marca molto costosi. D’altro canto, i tre euro e mezzo che l’amministrazione penitenziaria paga per i tre pasti forniti ai detenuti, sono del tutto insufficienti, a tal punto che sarebbe impossibile saziare tutti i detenuti se le persone non provvedessero con i propri soldi ad acquistare prodotti alimentari e prodotti per l’igiene.

Protesta oppure no, ogni azione collettiva richiede tanto lavoro ed energie, perché bisogna chiamare a partecipare alle discussioni più detenuti possibile, e poi anche quelli che rimangono in cella hanno diritto ad essere informati su ciò che viene detto o deciso. Allora abbiamo chiamato in redazione molti detenuti delle sezioni con i quali abbiamo discusso sui problemi maggiori di questo carcere.

I detenuti sono sempre più poveri ed avere la possibilità di usufruire di un servizio di spesa che tenga in considerazione le necessità di tutti è fondamentale, ma non è l’unico problema che i detenuti affrontano quotidianamente. Infatti, dalla discussione è venuto fuori che anche il carcere è sempre più povero. In seguito ai continui tagli effettuati negli ultimi anni, la fornitura di prodotti per l’igiene si è progressivamente ridotta. Ad esempio, attualmente viene fornito, per ogni persona, un rotolo di carta igienica a settimana; per ogni cella, due sacchetti di spazzatura a settimana e detersivo in quantità insufficiente. Saponette, spazzolino da denti e dentifricio sono disponibili solo per chi dimostra di avere meno di 25 euro sul libretto. Fondi destinati alle telefonate per i nullatenenti non sono previsti del tutto.

Inoltre, molto sentito dai detenuti è il fatto che le ore dei lavoranti sono state ulteriormente ridotte, comportando sia un loro impoverimento, sia una ulteriore riduzione della capacità di intervenire nella pulizia degli spazi e nella manutenzione della struttura, che era progettata per ospitare un terzo delle persone che ci sono attualmente. Il che significa docce che si rompono più spesso, le tubature che si consumano causando infiltrazioni d’acqua nelle celle, i muri, le finestre e i pochi arredi che si sporcano e si usurano maggiormente, mentre gli spazi destinati alle attività e ai colloqui con i famigliari sono sempre quelli.

Alla fine della discussione si è deciso di non fare la spesa per due settimane e di organizzare un incontro con il direttore del carcere per vedere insieme le cose che si possono migliorare nella Casa di reclusione di Padova. La cosa che ci preoccupa di più, è che non sappiamo che conclusione avrà lo sciopero di Marco Pannella, ora che, mentre scrivo queste righe, viene data notizia che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli ha mandato un messaggio pubblico pregandolo di interrompere lo sciopero in nome della stima e dell’amicizia personale.

 

Se non ora quando?

Schiacciati dalla paura di perdere i benefici, divisi dalle diversità culturali, impoveriti, sia economicamente che culturalmente, noi detenuti in un modello di carcere che non migliora le persone, ma produce ignoranza e criminalità, per una volta ci siamo uniti per dare un segnale di preoccupazione ma anche di rabbia, per reagire a questo senso di impotenza che ci ha invasi.

Protesta o no, l’impresa del carcere, per due settimane ha dovuto fare a meno dei suoi 850 clienti fissi, che hanno sì stretto la cinghia vivendo solo con il rancio da galera, ma hanno in questo modo dimostrato di poter fare a meno di chi, anche in condizioni di sofferenza, cerca di perseguire il massimo profitto dimenticando di aver a che fare con persone.

Un presente davvero preoccupante, ma il futuro ci spaventa ancora di più visto l’atteggiamento che gran parte del mondo politico ha nei confronti delle carceri. Tuttavia la speranza di una svolta umanitaria c’è ancora, ed è mantenuta in vita da quei pochi politici donchisciotteschi come i radicali, e da tutti quei volontari, ricercatori e studiosi che si impegnano ogni giorno a combattere sul fronte dei diritti delle persone private della libertà.

Sicuramente nei prossimi giorni non succederà nulla che possa dare la percezione di un cambiamento, ma siamo convinti che è ora che anche i detenuti inizino a far sentire il proprio disagio e chiedere condizioni di vita migliori. Se Marco Pannella ha deciso di cambiare marcia nella sua battaglia per i diritti dei detenuti, e di mettere ancora di più a rischio la sua vita per denunciare questa situazione drammatica, è proprio perché la situazione delle carceri sta peggiorando in modo inaccettabile, e allora, anche noi della Casa di reclusione di Padova che siamo ancora in condizioni di vita accettabili, ci siamo domandati: SE NON ORA QUANDO fare sentire la nostra voce? Ed è una domanda che dovrebbe sorgere spontanea in tutti i detenuti, se non ora, che in quasi tutte le case circondariali, i detenuti dormono con i materassi per terra, che l’unica attività sono le poche ore d’aria, che il cibo è insufficiente e spesso di cattiva qualità, che il servizio sanitario è latitante nei reparti, che molte famiglie non hanno i soldi necessari per viaggiare e fare i colloqui e le telefonate sono sempre di soli dieci minuti a settimana, che il carcere non provvede più alla distribuzione di prodotti per l’igiene, se non ora, quando far sentire la nostra voce?

 

Alla Casa di Reclusione di Padova, un incontro con il Direttore

Dopo averne discusso in redazione e ragionato con i detenuti delle sezioni, questi sono in linea di massima alcuni argomenti che abbiamo iniziato ad affrontare con il direttore, e che riportiamo in quanto sono problemi comuni a quasi tutte le carceri

 

Le attività

Estendere l’apertura delle celle per tutto l’arco della giornata, dalle 08:45 che è l’apertura per l’aria, alle 19:45 che è anche l’ora della chiusura dei reparti. ampliare il programma di attività sportiva che deve prevedere due volte alla settimana per ogni piano la palestra e due volte il campo.

Evitare la creazione di sezioni divise per etnie che rischiano di far nascere sezioni ghetto.

 

Il vitto

L’amministrazione penitenziaria paga poco più di 3 euro al giorno per i tre pasti forniti ai detenuti. Da questo consegue che la cucina del carcere prepara una quantità di cibo insufficiente a soddisfare i bisogni dei detenuti, spesso giovani. Pertanto, chiediamo al direttore di trasmettere le nostre richieste al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e chiedere che vengano rivisti i criteri delle tabelle in cui si definiscono le quantità dei generi da distribuire a ciascun detenuto: a) aumentare le porzioni individuali per la prima colazione con almeno 200 ml di latte per ciascun detenuto; b) aumentare le porzioni della pasta e della carne per il pranzo. Inoltre chiediamo che venga migliorata la qualità della frutta e della verdura, e anche la quantità; che venga ripristinata l’integrazione del vitto per i giovani adulti, mentre, per quanto riguarda i controlli, i detenuti dovrebbero avere la possibilità di confrontarsi con la Commissione cucina per segnalare eventuali disservizi.

 

Il sopravvitto

L’impresa del sopravvitto dovrebbe rispettare le esigenze anche delle persone meno abbienti, e offrire per ogni prodotto di marca un’alternativa di qualità, ma dal prezzo contenuto. Chiediamo quindi all’impresa di ampliare la gamma dei prodotti in vendita al sopravvitto, e che ci sia per ogni articolo, una possibilità di scelta alternativa.

 

L’igiene personale

Si ritiene opportuno proporre che sia alzata la soglia di accesso al diritto di ricevere il kit per l’igiene personale. Nella Casa di reclusione di Padova, il kit viene dato solo a chi possiede sul conto corrente meno di 25 euro. Una soglia molto bassa se si pensa che quella somma è già insufficente per le necessità di base come comunicare con le famiglie al telefono o per posta.

Si chiede il ripristino della fornitura riguardante i detergenti per i sanitari e i pavimenti per ogni cella, insieme alla sostituzione gratuita della fornitura, come posate e stracci, giacché la maggior parte dei detenuti non è nelle condizioni di pagarseli.

Le ore dei lavoranti sono state ulteriormente ridotte, comportando una riduzione della capacità di intervenire nella pulizia degli spazi e nella manutenzione della struttura. Ciononostante la direzione dovrebbe garantite una manutenzione periodica delle docce, ed altri interventi legati agli spazi vitali dei detenuti.

 

Indigenza e lavoro

È necessario un sostegno economico ai detenuti meno abbienti per consentirgli la comunicazione con i famigliari, rendendo più accessibile il fondo messo a disposizione dai volontari per telefonate e francobolli.

Si chiede trasparenza nella formazione delle graduatorie di assunzione al lavoro, considerando che il criterio della condizione economica della persona detenuta e della sua famiglia è prioritario.

 

Colloqui con i parenti

Si chiede che venga usata regolarmente l’area verde per i colloqui con i famigliari, e che sia garantito a tutti i detenuti di poterne usufruire durante il periodo estivo. Inoltre occorre intervenire per la manutenzione delle sale colloqui, delle sale d’attesa e dei bagni riservati ai parenti in visita.

 

 

Cinema e televisione

 

Un film sull’attesa “prima della galera”. Le conseguenze dell’abbandono

 

Intervista a Rodolfo Bisatti, regista di “La donna e il drago”, a cura di Antonella Barone

 

Una giovane donna condannata a scontare sei anni di prigione, si trova a dover decidere se portare con sé la figlia di diciotto mesi oppure se trovare qualcuno a cui affidarla. La prima scelta può solo rinviare un po’ nel tempo il distacco, la seconda le procura delusioni e incognite.

Le conseguenze di una legge che punisce separando, emergono dalle parole di una ragazza magra e inquieta, costretta dalla famiglia a degli incontri di psicoterapia…

Roberto Bisatti esplora così il dramma dell’attesa e della separazione: il carcere non si vede, ma fin dalle prime scene proietta la sua ombra spaventosa sulla protagonista.

Il film ha ottenuto Il Premio Migliore Film “Rivelazione” alla sesta edizione di Il Cinema Italiano – Festival a Como.

 

Lei ha detto di voler affrontare con questo film il tema dell’abbandono. Perché ha scelto di parlarne attraverso la separazione, imposta dal carcere, tra una donna e la sua bambina?

Ci sono abbandoni istituzionali tradizionalmente legati alla tortura, al rogo di piazza, piuttosto che all’applicazione della Giustizia. Oggi di fronte alla torre dantesca del castello di Romena in cui i condannati venivano calati dall’alto in una botola a diversi livelli a seconda della pena, inorridiamo senza renderci conto che tale orrore lo abbiamo semplicemente trasferito nelle azioni psicologiche piu’ feroci come quella di togliere “per  diritto” un figlio a sua madre o a suo padre. 

 

Prima di iniziare la lavorazione del film lei ha preso contatti con associazioni di volontariato  ed operatori che lavorano in ambienti penitenziari. Ma il film si ferma alla vigilia dell’ingresso in carcere della protagonista. Come mai?

L’orrore inizia prima della galera; è l’attesa, il tentativo di porre rimedio al dolore cercando una soluzione che non sempre si trova… Ci sono Associazioni che, grazie al lavoro encomiabile di azione sociale, riescono a lenire la sofferenza di questo momento drammatico.

Il loro compito è quello di provvedere a salvare il salvabile, il mio come autore è quello di mostrare l’orrore della separazione, per me è un dovere civico. 

Mi sono fermato prima delle sbarre perchè non ce l’ho fatta ad andare avanti, mi sono fermato ai preliminari trovandoli sufficientemente atroci. 

 

La protagonista cerca la persona a cui lasciare la figlia in primo luogo tra i suoi parenti con i quali i rapporti sono difficili o inesistenti, poi con l’uomo con il quale l’ha concepita, ex compagno di lotta politica; sembra che la rassicuri di più un ambito di consanguineità. Umano, ma un po’ in contrasto con la figura di una donna che si intuisce avere alle spalle scelte non convenzionali, non trova?

Spesso parenti e amici sono quelli disposti a darti una mano quando NON ne hai bisogno.

Una persona sola, nel caos della disperazione si rifugia negli affetti, per quanto malati essi siano.

L’uomo inteso come maschio rappresenta l’ideologia. L’ideologia ha le stesse rigidità della Legge, ricerca di una presunta coerenza e di un’ ipotetica organizzazione del diritto. La donna è da sempre legata a un altro concetto, più complesso di organizzazione del pensiero e dell’agire quotidiano,  che è quello della Democrazia, cioè di una forma di partecipazione responsabile e condivisa. Io questo l’ho sempre visto fare principalmente dalle donne anche in modo politicamente trasversale, soprattutto sui diritti fondamentali dell’essere umano. Il maschio ha il problema della prestazione; dell’appartenenza a una squadra ideologica e risulta quindi rigido e scontato in particolar modo quando è alternativo e progressista. Nel mio film la madre cerca il padre della bambina per affidargliela innanzitutto perché i figli si fanno in due: quest’uomo carismatico, sicuramente colto e intelligente, nega il suo aiuto respingendo la donna-madre tra le braccia delle istituzioni, in modo ideologico: “Lo Stato ti mette in Galera, Lo Stato deve provvedere a Tua figlia!”


Perché  un titolo biblico  “La donna e il drago” (che fa riferimento al Capitolo XII dell’Apocalisse) e i diversi altri riferimenti al sacro che sembrano anche richiamare il concetto di sacralità della madre?

La gestione maschile del sacro ha portato a varie catastrofi legate al problema del controllo sessista del potere religioso che di spirituale non ha nulla; anche il materialismo, come corrente filosofica,  è una di queste derivazioni.  Ma l’archetipo della generatività femminile come mediazione tra l’umano e il divino è cosa risaputa e antica. Sacro non significa intoccabile, ma Complesso; Completo; un In-Essere attivo.

Io vedo nella donna questa sorta di pragmatismo sensibile più vicino al sentimento spirituale della vita del quotidiano, piuttosto che a una trascendenza religiosa.

 

Il linguaggio del film, dalle riprese al montaggio, è del tutto innovativo: sono i silenzi, i primi piani, i dettagli su oggetti del quotidiano a rendere incalzante il pathos del tempo che passa inutilmente, senza portare una possibile soluzione. Quanto è difficile realizzare un film come questo?

Oggi il cinema, non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa è sempre più modaiolo, legato a delle trovate narrative convenzionali e superficiali, un po’ come i giochi edonistici dell’architettura pubblica.

La platea dei consumatori d’immagine è addomesticata a sapori artificiali; non sostanze nutritive  ma “aromi naturali”. Io tento di creare un cinema Biologico, sostanzioso, e non temo smentite nel dire che son praticamente da solo.

Il cinema “biologico” sa che la vita è fatta di silenzi rivelatori, silenzi in cui si dileguano i limiti del linguaggio, della chiacchiera, sa che il dettaglio è il seme che esprime la potenza della futura pianta.

Pertanto io sono avvolto da un’aura di mistero, qualcuno pensa che io in fondo non esista, vengo indicato con un mix di compatimento, timore quasi reverenziale e paura. Mi sento vicino a quegli spiriti liberi che cercavano di “vivere” nel Blocco sovietico degli anni 30. Ma oggi il potere non è più esterno, cammina nelle nostre stesse scarpe, quindi è difficile vederne le tracce.

 

Donne Dentro

 

Guardavamo i ragazzi e nei loro visi vedevamo

 

Quella classe del Liceo Curiel che ha incontrato pochi giorni fa, nel carcere della Giudecca, le donne detenute ha vissuto un’esperienza diversa da quella che hanno fatto tante scuole di Padova, entrando al Due Palazzi. Perché le donne in carcere si sentono prima di tutto madri, e in questo incontro hanno manifestato tutta l’emozione di rivedere negli studenti i loro figli, di rinnovare la sofferenza e i sensi di colpa, ma anche la gioia di fare qualcosa di buono per quei ragazzi

 

Ho pensato a quando uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli

 

di Mimoza

 

Sapevamo da più di un mese che una classe di una scuola di Padova voleva venire a parlare con noi, e in un primo momento avevamo detto tutte che non c’erano problemi e che a noi andava bene, ma una settimana prima dell’incontro ho cominciato a chiedermi: cosa volevano sapere questi ragazzi? Cosa potevano imparare da noi donne carcerate? Facendomi queste domande, pensavo a quando uscirò dal carcere e mi troverò davanti ai miei figli: che domande mi faranno loro?

Intanto i giorni passavano ed è arrivato il momento delle risposte. Al primo impatto con loro ero emozionata, ma ho visto le loro facce che erano un po’ impaurite, e anche incuriosite. Le loro prime domande non sono neanche riuscita ad ascoltarle, e mentre Elda rispondeva, io sinceramente guardavo i ragazzi e nel loro viso vedevo i miei figli.

Quando uno ci ha chiesto: “In futuro avrete paura di confrontarvi con il mondo esterno e i pregiudizi della gente?”, abbiamo voluto rispondere tutte. Io personalmente, per quando uscirò da qui, ho tanta paura. Essendo straniera e vivendo da più di dieci anni in Italia, in un piccolo paese, ho imparato che tanti italiani hanno dei pregiudizi. Ma la mia paura più grande è quella di confrontarmi con i miei figli e soprattutto con mio padre, che non mi perdonerà mai questa esperienza.

Nel momento dei saluti ho visto questi ragazzi diversi dal loro ingresso. Ho chiesto a uno di loro cosa pensava dei carcerati prima di entrare e cosa pensava dopo il nostro incontro. La sua risposta è stata: pensavamo di trovare delle persone cattive e maleducate, diverse dalle persone che sono fuori, ma ci siamo accorti che, seppur carcerate, siete delle brave persone con il cuore e con la testa sulle spalle, ma soprattutto delle mamme. Vorrei che questo confronto si potesse approfondire e poi vorrei chiedere se sarà possibile che anche i ragazzi ci scrivano cosa pensano del nostro incontro.

 

Mi auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere

 

di Alessandra

 

Erano ventisei ragazzi dell’età di diciassette o diciott’anni, che frequentano la quarta di un liceo di Padova e fin qui nulla di strano, solo che al posto di trovarsi in una scuola, si trovavano dentro ad un istituto penitenziario femminile, la Giudecca.

All’inizio di questo incontro mi sentivo abbastanza imbarazzata, per me era la prima esperienza, mi trovavo di fronte a persone sconosciute, interessate alla mia storia e a quelle delle mie compagne detenute presenti all’incontro.

Anche gli studenti erano imbarazzati con noi detenute, molto probabilmente avevano l’idea di trovarsi in un ambiente ostile, estraneo e sconosciuto, con persone private della cosa più bella e sacra, la libertà, perché nella vita hanno fatto delle scelte sbagliate.

Io ero una di quelle persone che mai nella vita avrebbe pensato di entrare in carcere e di vivere la quotidianità carceraria. E invece sono qui e la mia condanna finirà a febbraio 2012. Gli studenti sembravano molto incuriositi da questa esperienza, loro ci hanno posto tante domande, e noi abbiamo cercato di rispondere partendo dalla nostra storia.

Ai tempi in cui io e le mie compagne frequentavamo le scuole superiori, purtroppo di queste iniziative non c’era ombra. Secondo il mio punto di vista, è importante che le direzioni degli istituti penitenziari promuovano esperienze simili perché, anche se il tempo che abbiamo avuto a disposizione con questi ragazzi era poco, l’incontro è stato davvero costruttivo. Penso però che dovrebbero essere autorizzati a visitare anche le celle delle sezioni, dove tocchi con mano la vita quotidiana di noi ristrette e di chi vive con noi anche per lavoro.

Mi auguro con tutto il cuore che abbiano capito le sofferenze del carcere e che si rendano conto che un errore può rovinarti la vita.

 

I ragazzi per noi sono la speranza

 

di Sandra

 

C’é tensione nell’aria, tutti questi ragazzi davanti a noi che sembrano a disagio. Come noi galeotte, del resto. Sono timorosi, curiosi. Ed ecco la prima domanda del più temerario, quasi banale: “Ho notato che avete carta e penna per prendere appunti, come mai?” e da lì si è aperto il confronto. Subito hanno capito che di fronte a loro non ci sono quei personaggi da film, come ci vede l’opinione pubblica anche per colpa di un certo terrorismo dell’informazione, ma semplici donne. Come primo approccio per dei ragazzi diciassettenni in visita in un penitenziario, la Giudecca non è un istituto che fa l’effetto di una galera vera e propria. Non c’é quella sensazione di cemento e cancelli che ti si chiudono alle spalle con le fatidiche tre mandate.

Bisogna spiegargli che a noi è stata tolta la libertà di decisione, decidono gli uomini della giustizia e quella poca scelta che ci rimane la dobbiamo delegare. Il tempo è scandito sempre nello stesso spazio, sempre le stesse cose, sai che la giornata di domani sarà uguale a oggi, a ieri, all’altro ieri, c’è una sete disperata di novità. Dobbiamo fargli capire che siamo considerate pericolose, tanto che ci privano anche dei lacci delle scarpe! Si sente che sono bramosi di sapere perché siamo qui, come passiamo le giornate, così dimentichiamo chi sono e chi siamo, e parte un confronto sereno: ognuna di noi accenna alla propria storia perché si rendano conto che c’è un prima, le scelte sbagliate, per ritrovarsi un dopo, in galera. L’attimo che durante l’incontro ha creato più sentimento è quando una studentessa è scoppiata in lacrime, amare, per il padre detenuto. Allo scadere del tempo, vengono portati tutti a far visita all’’”oasi felice”, l’orto della Giudecca, dove le donne detenute coltivano erbe per produrre poi creme di bellezza, e verdure, che vengono vendute ai cittadini “liberi” una volta a settimana.

Ragazzi, fatevi portare a questi incontri, io penso che vi servirà a capire e a raccontare una realtà della quale, quando si è in libertà, tanti pensano che è meglio se non si parla affatto. Sarebbe ora di sfatare tanti luoghi comuni sul carcere, e i ragazzi per noi sono la speranza, sono i nostri messaggeri per portare ai liberi il nostro dolore.

Ero preoccupata di ritrovarmi davanti a dei ragazzi che hanno l’età di mio figlio

 

di Lella

 

Prima dell’incontro con gli studenti l’idea di ritrovarmi davanti a dei ragazzi che hanno l’età di mio figlio mi metteva in agitazione. Dentro di me pensavo che effetto avrebbe potuto avere su quei ragazzi trovarsi dentro un carcere e come si sarebbero comportati davanti a delle detenute e alle loro storie. Ero un po’ scettica e nello stesso tempo temevo certe domande, o forse per essere più precisa temevo certe mie risposte. Questo fino al giorno dell’incontro. Quando siamo scese e abbiamo trovato gli studenti che ci aspettavano nella sala colloqui, per un attimo il mio cuore si è fermato, tra di loro ho intravisto un ragazzo che assomigliava molto a mio figlio e in quel momento ho capito che tutto si sarebbe svolto nella più assoluta normalità, ed è stato così, come una lunga chiacchierata con i miei ragazzi, anche se loro sanno già il come e il perché della mia vita. Ricordo ancora il nome di quel ragazzo, Antonio. Davanti a noi c’erano dei giovani dai visi puliti e desiderosi di capire come si possa finire dietro le sbarre e come si possa trovare la forza di andare avanti in un posto del genere, specialmente per delle donne, per delle mamme. Non è stato difficile far capire che può succedere a tutti di sbagliare, anzi è stato semplice perché non abbiamo usato parole difficili e tanto meno abbiamo girato intorno all’argomento.

Hanno capito che la vita va vissuta e goduta ma con un occhio di riguardo a quello che si fa e a chi si frequenta, gli errori li puoi commettere tu stesso o trovarti in mezzo senza rendertene conto, e alla fine ti ritrovi chiuso. Hanno fatto molte domande su come passiamo il nostro tempo e le opportunità che può offrirti il carcere. Una cosa mi ha reso orgogliosa di quei ragazzi, hanno capito che il carcere non è come nei film americani, ma è un luogo fatto di tristezza di dolore e di tanto sacrificio, hanno capito che dentro un carcere non ci sono “mostri”, ma persone che hanno cuore, che soffrono, che hanno dei sentimenti e un cervello. Hanno visto che rinchiuse tra quattro sbarre ci sono Donne.

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