Il
racconto di un’esperienza nel carcere per minori negli anni Sessanta
Quando
il carcere minorile era un incubo
La
prima impressione che ebbi arrivando in un posto simile fu di essere finito in
un canile, in quanto le celle, anzi i cubicoli erano così piccoli, che ci
stavano giusto la branda e il vaso da notte
Testimonianza raccolta da Antonio Floris
Sono
Ignazio Cocco e ho scontato fino ad oggi 42 anni di carcere, di cui due li ho
trascorsi presso il carcere di Cagliari, all’interno del quale c’era la
sezione minorile (poi risultata illegale, proprio in quanto si trovava
all’interno della struttura per maggiorenni). Erano gli anni 1965-66 e le
condizioni detentive erano ben diverse dalle attuali. Io entrai nel carcere
minorile all’età di 15 anni, accusato del furto di una vecchia lambretta. La
prima impressione che ebbi arrivando in un posto simile fu di essere finito in
un canile, in quanto le celle, anzi i cubicoli erano così piccoli, che ci
stavano giusto la branda e il vaso da notte. Preciso che tali cubicoli erano
chiusi esclusivamente da un cancello (senza quella porta che oggi viene chiamata
“blindo”), di conseguenza non c’era nessuna privacy. Le nostre giornate
erano di una monotonia spaventosa, in quanto passavamo tutte le 24 ore in uno
spazio non più lungo di 20 metri e largo 4. I passeggi esistevano sì, ma non
era tutti i giorni che ci facevano andare. L’andare o no al passeggio
dipendeva dalla guardia che montava in servizio. Poteva benissimo succedere che
nell’arco di una settimana si andava 2-3 volte così come poteva essere una
volta sola o anche niente. La gentilezza allora non era il punto forte delle
guardie, delle quali posso dire che erano più cattive che altro.
Racconto
solo un piccolo particolare al proposito di come veniva gestita la televisione.
Di televisione ce n’era una sola, posizionata nella sala pranzo, se la guardia
era di umore buono l’accendeva, se no niente. Pertanto la nostra esistenza lì
dentro era condizionata dagli alti e bassi degli agenti che montavano.
Naturalmente non si poteva né reagire, né protestare, perché oltre ad essere
del tutto inutile, qualsiasi protesta ci procurava una severa punizione, che
consisteva nel metterci dentro il cubicolo che era di circa 2 metri di lunghezza
e 1,5 di larghezza, senza poter scambiare parola neanche con i propri compagni.
Se questo succedeva veniva applicata pure a loro la stessa punizione. Si poteva
stare chiusi nel cubicolo anche per parecchi giorni, che potevano andare da uno
a due o anche una settimana!
Quando
si riceveva una punizione da parte del Consiglio di disciplina, si veniva
automaticamente esclusi da tutte le attività ricreative, che in sostanza
consistevano “unicamente” nel giocare a calcio con una palla fatta con le
calze imbottite di giornali, ed era questa una grande concessione, un autentico
privilegio!
Oltre
a ciò la cosa che più ci faceva soffrire era che ci era proibito pure di fare
colloquio con i nostri famigliari. Succedeva in pratica che se i famigliari
venivano a colloquio nei giorni in cui stavamo scontando la punizione, agli
stessi non veniva permesso di entrare: gli dicevano semplicemente che il loro
caro, essendo punito, non poteva vedere nessuno. Non aveva alcuna importanza da
quanto lontano venivano, non potevano entrare e basta!!! E non solo, ma neanche
comunicavano loro in che giorno sarebbero potuti tornare.
A
quei tempi non esisteva il sopravvitto, le uniche cose che ci era permesso di
comprare (sempre a condizione che uno avesse i soldi) erano un francobollo, un
foglio e una busta. Non si poteva infatti scrivere più di una lettera a
settimana, che doveva essere consegnata aperta in quanto la posta era censurata.
Qualsiasi frase che riguardasse il procedimento di cui si era imputati veniva
cancellata e lo stesso succedeva se si scrivevano cose che riguardavano lo
svolgimento della vita all’interno del carcere. Oltre a questo era consentito
di comprare una gazzosa in due e di questo non sono mai riuscito a capire il
perché. Non esistevano sigarette, né biscotti, né dolci, né tanto meno torte
e gelati come oggi. A quei tempi tutto ciò era TABÙ!!!
Parlando
della guardie, la vita in sezione era dettata dallo stato del loro umore. Per
esempio ricordo che c’era uno, il peggiore di tutti, che cercava ogni minimo
pretesto per infliggerci ogni sorta di punizione, e non solo quella di metterci
all’isolamento nel cubicolo, ma spesso e volentieri maltrattava i più deboli
e indifesi così, senza ragione apparente. L’esasperazione nei confronti di
questo soggetto arrivò a un punto tale che un giorno non ci vedetti più dalla
rabbia per come ci trattava e sferrai un pugno al vetro di una finestra (in quei
tempi le finestre erano di vetro e non di plastica come oggi). Dopo aver rotto
il vetro raccolsi da terra un pezzo a forma di pugnale e con quello lo rincorsi
con l’intenzione di fargli male, ma i miei stessi compagni mi bloccarono e
riuscirono a convincermi a mollare il vetro. La cosa però non finì così perché,
anche senza vetro, mi difesi con testate e calci. In seguito a ciò fui mandato
in punizione all’isolamento del reparto maggiorenni. Appena arrivato mi
circondarono e mi lasciarono per terra pieno di lividi e dolorante in ogni parte
del corpo.
In
mezzo a tanta solitudine mi faceva compagnia un ragno
Venni
messo in regime di pane e acqua, il che significa che mi veniva dato soltanto un
filone di pane di circa 300 grammi e una gavetta di minestra a mezzogiorno,
senza latte al mattino o altro pasto serale. La cella era 4 metri di lunghezza x
2,70 di larghezza; il bagno era del tipo “alla turca” e lo scarico era
costituito da un semplice rubinetto posizionato sopra la turca. Con l’acqua di
questo rubinetto ci dovevamo anche lavare le mani, la faccia, i piatti di
alluminio, la gavetta, il boccale da un litro e il boccalino che in pratica era
il bicchiere. Tali stoviglie a lungo andare facevano venire la gastrite a causa
dei residui tossici di alluminio che involontariamente eravamo costretti a
ingerire. In tale cella c’era una branda con il pagliericcio (materasso fatto
di crine) che a causa del continuo uso nel corso degli anni si era deformato
tanto da ridursi a bozze. La coperta era del tipo a strisce. La finestra in
posizione opposta alla porta d’ingresso, di dimensioni di circa un metro per
un metro, era a bocca di lupo. Per chi non lo sapesse le finestre a bocca di
lupo si chiamano così perché dalla parte esterna c’è un muretto che sale
per quasi tutta l’altezza della finestra stessa, togliendo praticamente la
visuale esterna, e di conseguenza impedendo anche la circolazione dell’aria.
In mezzo a tanta solitudine mi fece compagnia un ragno che si era fatta la
ragnatela in un angolino sotto la branda. Mi accorsi della sua presenza mentre
facevo flessioni sia per tenermi in forma che per passare il tempo. Come lo
scorsi mi avvicinai il più possibile per poterlo vedere meglio, e con mio
grandissimo stupore mi accorsi che aveva la fisionomia simile al maresciallo del
carcere che si chiamava Cesaraccio. Il ragno e il maresciallo avevano in comune
gli stessi occhi ravvicinati e un paio di baffetti tipo Hitler. Almeno a me
diede quella impressione. Devo dire che il ragno “Cesaraccio” era comunque
abbastanza educato e rispettoso, tant’è che alle volte io per premiarlo
prendevo qualche mosca o altri insetti e glieli mettevo nella ragnatela.
Così
rispettose non erano invece le pantegane che venivano fuori dalla turca ed ecco
perché: del filone di pane che mi davano io, con sacrificio, mi conservavo un
pezzo per il mattino seguente in quanto escluso dalla colazione. Il primo
mattino che mi misi a cercare il pane non lo trovai e non riuscivo a capire come
mai non c’era. Non ricordavo di averlo mangiato e non era possibile che me lo
avesse preso qualcuno, in quanto stavo in cella da solo. Così successe anche il
secondo mattino e il terzo. Vedendo quello che era successo, mi misi il pane
sotto il cuscino per poterlo proteggere, e quale fu la sorpresa? Durante la
notte mi svegliai di soprassalto perché qualcosa mi strisciò sulla faccia.
Come aprii gli occhi vidi una enorme pantegana che con il mio pane in bocca
cercava di ritornare dentro la turca. Ma quella volta non riuscì
nell’intento, perché io di scatto mi alzai dalla branda e la pantegana
impaurita mollò il pane che io raccolsi immediatamente. Allora, per paura che
riaddormentandomi venisse ancora la pantegana a prenderlo, staccai il pezzo che
presumibilmente aveva addentato e il resto per buona sicurezza me lo mangiai.
Devo dire che il pane lo mettevo sotto il cuscino perché non c’era altro
posto dove poggiarlo, se non per terra. La cella era infatti spoglia di tutto,
non c’erano né armadietti, né sgabelli, né tavolino né niente. Muri lisci
e basta, per di più imbrattati di sangue. Testimonianza questa o di qualcuno
che si era autolesionato o di qualcuno che lì dentro era stato pestato.
In
quanto a prodotti igienici, il corredo consisteva in uno spazzolino da denti,
una saponetta con la quale ci dovevamo anche fare la doccia, che tra parentesi
era una volta ogni 15 giorni in coincidenza col cambio delle lenzuola, e 30
fogli di carta grezza di grandezza 15 cm x 20 da usare come carta igienica. La
doccia funzionava in questa maniera: si presentavano davanti alle docce tante
persone quanti erano i posti; la guardia, appena ci vedeva nudi sotto i getti,
apriva l’acqua e la lasciava scorrere per 30 secondi circa, giusto il tanto di
bagnarci e poi la chiudeva dicendo: “Insaponatevi!”. Dopo 30 secondi di
insaponamento riapriva l’acqua e gridava: “Risciacquatevi!!”. Dopo altri
30 secondi, o risciacquati o no, chiudeva l’acqua e non c’era santo che
gliela faceva riaprire. Per poterci asciugare, come asciugamani ci davano
lenzuola vecchie dell’Amministrazione, ruvide e nere dalla vecchiaia e dal
troppo uso. Ho trascorso in questa cella circa un mese e mezzo, poi quando ho
compiuto 18 anni, lo stesso giorno del compleanno venni trasferito nella sezione
“giovani adulti”, dove si restava fino al compimento dei 25 anni.