Intervista
a Sandro Libianchi, medico
Direttore Unità Operativa del carcere di Rebibbia, Roma–ASL Roma B
Sempre
più galera per i tossicodipendenti
Il
tossicodipendente deve avere una presenza in carcere il più bassa possibile in
termini di tempo, e deve avere la possibilità di una diagnosi ed una terapia
corretta, entrambe veloci
Intervista a cura di Alessio Guiotti
I
tossicodipendenti in carcere sono sempre di più, ma paradossalmente se ne parla
sempre meno, qualche anno fa nelle carceri si sperimentavano strutture come le
custodie attenuate, c’erano esperienze di gruppi di autoaiuto, si progettavano
percorsi per far restare meno possibile in galera i tossicodipendenti. Oggi, il
vuoto o quasi. Di questi temi abbiamo parlato con Sandro Libianchi, medico per
le tossicodipendenze referente, per la Regione Lazio, al Tavolo Tecnico
interistituzionale della Conferenza Unificata sulla medicina penitenziaria.
La
legge Fini-Giovanardi prevede il possibile prolungamento da 4 a 6 anni
dell’affidamento in comunità terapeutica per tossicodipendenti. Lo ritiene
utile? E viene poi applicato?
Sì,
il limite di legge di sei anni viene utilizzato, il problema è che il tetto di
sei anni non dovrebbe essere mai raggiunto perchè un ricovero di sei anni in
comunità terapeutica è un tempo molto lungo: qualsiasi tipo di esperienza
nazionale o internazionale, soprattutto quella americana, fa notare che il tempo
di permanenza “utile”, dove cioè le persone ricoverate utilizzano questo
tempo in maniera positiva, nel senso che si raggiungono risultati positivi, va
da uno a tre anni. In ogni caso non si può fare di tutta l’erba un fascio,
dipende dal tipo di sostanza usata, dal tipo di personalità, bisogna poi
considerare le eventuali patologie associate, ad esempio la patologia
psichiatrica che influisce sugli esiti finali.
Vorrei
aggiungere che il tetto dei sei anni inizia ad identificare un tipo diverso di
comunità, più una comunità di vita che di tipo terapeutico, anche se i
programmi psicoterapeutici singoli possono avere sicuramente la durata di alcuni
anni, però i casi che sono sottoponibili a questo tipo di terapia sono pochi,
quindi più aumenta la durata del percorso e meno sono le persone che possono
raggiungere favorevolmente questi risultati. Diciamo che i risultati maggiori si
ottengono tra il 1° e il 3° anno per la gran parte di persone, il resto sono
casi particolari o diagnosi sbagliate, in poche parole deve essere sempre
considerata l’”appropriatezza del ricovero”.
Cosa
si potrebbe fare per far stare il meno possibile o per non far stare per niente
i tossicodipendenti in carcere?
Il
tossicodipendente deve avere una presenza in carcere il più bassa possibile in
termini di tempo, deve avere la possibilità di una diagnosi ed una terapia
corretta: entrambe veloci, dato che oggi i tempi sono relativi alle possibilità
che hanno i Sert di intervenire, e dette possibilità sono scarsissime perchè
gli organici sono gli stessi da 10 anni, non è stata applicata in maniera
uniforme la legge n. 45/99 e i tempi sono sempre molto lunghi. Quei pochi che
intervengono sono oberati di lavoro e ovviamente si creano liste di attesa che
sono l’espressione di quanto il sistema non funzioni perchè non è
opportunamente finanziato. Inoltre, purtroppo, le Direzioni Generali delle
aziende sono molto spesso disattente verso questo problema per cui viene
sottovalutato, non viene finanziato, e anche noi – sanitari delle patologie da
dipendenza - siamo le ultime ruote del carro.
Oggi
la situazione qual è?
La
situazione è questa: noi abbiamo dei dati ufficiali che parlano di percentuali
di tossicodipendenti pari a circa il 26/27 per cento di media nazionale. La
diagnosi di Tossicodipendenza però non è un dato di facile rilevazione in
quanto deve risentire necessariamente di una diagnostica specialistica, a
differenza dei dati anagrafici che al confronto sono molto più facili da
rilevare. Per cui, fino ad un recente passato, questa “conta” era fatta da
medici del penitenziario che non avevano strumenti conoscitivi tali da valutare
tutti gli stati patologici del fenomeno del consumo di droga, e così venivano
contate tutte le diagnosi ‘facili’ (evidente stato di astinenza, segni di
iniezione al braccio, conoscenza diretta, ecc.). Per queste ragioni i valori
finali delle diagnosi venivano sistematicamente sottostimati e questo fatto
attualmente viene verificato sempre di più perché, quando le persone
tossicodipendenti oggi vengono “contate” con sistemi epidemiologici
“collaudati” dai servizi specialistici, queste arrivano mediamente al 50 per
cento della popolazione detenuta di un carcere, mentre coi vecchi metodi del
Ministero della Giustizia queste si assestano intorno al 25-30 per cento di
media nazionale. Un altro dato inquietante è
che quando sono calcolate tutte le persone appartenenti alla c.d. “area dei
consumi di sostanze stupefacenti”, includendo quindi sia persone dipendenti
che abusatori, questi valori si attestano su valori che non raramente sfiorano
il 100% della popolazione detenuta di quel singolo carcere.
…una
bella differenza.
La
differenza è enorme e si attesta su valori
doppi rispetto a quelli riportati, e questo incide tantissimo, ovviamente, anche
sulle dotazioni organiche dei servizi. Un conto è avere 1000 detenuti da curare
un conto è averne 2000 censiti, questo è uno dei motivi per cui le “piante
organiche” languono. C’è poi da dire che finalmente questa
grandissima riforma della sanità penitenziaria che coinvolge anche i Ser.T., può
essere un’occasione buona per rimettere in piedi sistemi diagnostici e di
rilevazione dei problemi droga correlati in maniera più compiuta, più
sanitaria e non solo come un dato amministrativo. Questo significa che i Ser.T.
hanno tutte le potenzialità di fare questo percorso diagnostico,
se ovviamente sono messi in condizione di farlo; questo significa altresì
incidere sui mezzi diagnostici, sui modelli operativi, che sono parte delle
competenze sia regionali che aziendali locali.
Parliamo
un attimo della riforma…
L’ultimo
atto della riforma è scaduto il 16 giugno del 2009, quando l’anno di
proroga al transito del personale della giustizia al Servizio Sanitario
Nazionale scadeva e dovevano essere applicati i nuovi contratti. I contratti
nazionali non sono stati ancora ultimati nel loro dettaglio normativo, però una
bella fetta di personale è già transitato, questo è un punto importante che
riguarda il personale. Un punto debole di questa riforma è il fatto che pur se
sono state trasferite alle Regioni tutte le risorse finanziarie, che prima erano
a carico della giustizia ed essendo tali risorse appena sufficienti per fornire
una assistenza sanitaria che persino la Corte dei Conti definiva “mediocre”,
c’è il concreto rischio che non si abbiano a disposizioni risorse tali da
permettere quel salto qualitativo che è stato l’obiettivo della riforma
stessa. Allora, se non ci sono aumenti di budget riguardo a questa questione, le
Regioni si troveranno a dover supplire con le risorse proprie che sono già
ampiamente carenti. In questo momento la paura è che l’assistenza non
migliori, a fronte di uno sforzo economico definibile quale “minimale” perché,
con circa 160 milioni l’anno per tutte le Regioni, basterebbe un incremento
del 10/20 per cento della somma totale per avere un chiarissimo e visibile
effetto migliorativo sulle prestazioni sanitarie in carcere.
E
quali sono i problemi del personale medico che opera in carcere? Avrebbe bisogno
di una formazione più specifica, differente?
Sì,
sicuramente dovrebbe avere una formazione maggiore e differente; l’operatore
penitenziario nella grande maggioranza dei casi ha vissuto la sua esperienza
professionale un po’ in isolamento, e laddove il carcere sia l’unica
esperienza, questo lo ha allontanato da ciò che
è una prospettiva sociale globale di tutto il problema salute. Basti pensare
all’importanza della realizzazione dei percorsi sanitari sul territorio dei
pazienti tossicodipendenti o con problemi di salute mentale, casi in cui
l’integrazione è essenziale per la creazione di un sistema di protezione tale
da non favorire la ricaduta giudiziaria e penitenziaria di soggetti non
altrimenti seguiti. È preoccupante poi costatare che una gran parte del
personale che è stato trasferito dal comparto Giustizia alla Sanità non
conosce nulla del sistema sanitario al quale è andato ad appartenere, e quindi
ha bisogno di una formazione stretta, portando l’esperienza che ha fatto nel
nuovo ambito lavorativo, al quale adattarsi. Riportare tali e quali i modelli
operativi precedenti di un Ente non sanitario (Ministero della Giustizia), in un
altro Ente specificamente sanitario (Azienda Sanitaria Locale), potrebbe
determinare il fallimento completo del progetto. Quindi, la formazione degli
operatori è uno dei primi punti, e le Regioni debbono organizzare iniziative di
formazione tenendo conto sicuramente di quella che è stata l’esperienza
passata, ma soprattutto dando nuovi elementi dei nuovi modelli operativi di cui
debbono tener conto, per essere inseribili in un contesto penale.
So
che lei si è occupato di minori in carcere, com’è la situazione dei minori
in carcere dal punto di vista della tossicodipendenza?
Da
diversi anni il termine che viene utilizzato nelle rilevazioni del Ministero
della Giustizia per indicare il minore che ha problematiche nell’area del
consumo delle droghe è quella di “assuntore di sostanze stupefacenti”.
In molte di queste statistiche non viene neanche citato il fatto che può essere
“assuntore” di sostanze alcoliche. Sono quindi statistiche
metodologicamente molto carenti, che danno purtroppo un dato falsato, che
nasconde una reale incidenza dei problemi drogacorrelati che, nella popolazione
minorenne, dovrebbe essere molto più alta. Ufficilmente si dice che il minore
che viene arrestato ha una problematica alcol o drogacorrelata in circa il 20
per cento dei casi. Se noi invece andiamo a vedere nei Cpa (Centri di Prima
Accoglienza), dove arrivano i minori arrestati, i dati osservazionali che se ne
ricavano, per quasi la totalità dei minori entrati nelle struttura viene
riportato un problema droga o alcolcorrelato, anche se le droghe di cui ricorre
il dato anamnestico non sempre sono relative a eroina o cocaina, ma soprattutto
hashish ed amfetamine/ecstasy. Insieme a questo, separatamente o in aggiunta,
c’è il problema dell’alcol. Quindi, nei minori il problema del sommerso
delle diagnosi non fatte è enormemente più sentito rispetto agli adulti. E
questo ovviamente ha le sue conseguenze.
Che
valutazione darebbe delle esperienze di sezioni a custodia attenuata per
tossicodipendenti?
In
Italia le custodie attenuate per tossicodipendenti sono nate come iniziative
preziose, uniche, e da sostenere in maniera veramente sentita e vissuta;
purtroppo però spesso sono state considerate delle carceri normali e quindi
trattate non in maniera particolare, non distinguibile da quelle che sono le
altre carceri. Purtroppo non sempre i Ser.T. risentono della giusta motivazione
per lavorare in luoghi che oltre ad essere tradizionalmente difficili, risentono
di direzioni non sempre pienamente collaborative.
Mentre
invece si sarebbe dovuta avere una preparazione molto specifica del personale…
La
gestione dovrebbe essere simile a una comunità terapeutica con il controllo
della sicurezza e della disciplina secondo l’Ordinamento penitenziario, ma
distinguendo bene i ruoli, altrimenti si crea una grande confusione, e questo è
stato uno dei motivi più importanti del fallimento di alcune di queste
iniziative, specie laddove non si è avuto un limite chiaro tra intervento
terapeutico e intervento di giustizia. Per cui, i confini sono rimasti
assolutamente indistinti, e quindi l’intervento terapeutico è calato ed è
aumentato quello della sorveglianza. Alla fine le custodie attenuate sono talora
ritornate ad essere carceri normali, sede di persone con problemi di detenzione
più che di salute. Fortunatamente la riforma della sanità penitenziaria,
attraverso uno specifico accordo tra Ministero della Giustizia e Regioni, ha
classificato gli Istituti e le sezioni di custodia attenuata come strutture di
tipo sanitario e questo, a mio avviso, si rivelerà di fondamentale importanza,
perché finalmente per la prima volta abbiamo una classificazione non solo
esclusivamente di giustizia, ma prevalentemente di tipo sanitario. Questo dovrà
comportare necessariamente una formazione strettissima per le persone che ci
lavorano, una gestione completamente diversa da come era in precedenza e quindi
una creazione di strutture di reale riabilitazione e di preavvio in comunità
terapeutica, con una popolazione selezionata dove devono essere assegnate le
persone con problemi di droga che diano le maggiori garanzie possibili di reali
intenzioni di cambiamento. In questo momento in
Italia negli Istituti classificati quali “Custodia Attenuata” ci sono circa
500 persone a fronte di una capienza riconosciuta di circa 1400 posti, quindi le
custodie attenuate oggi a fronte di un sovraffollamento generale, sono
abbastanza poco affollate, questo perché il sistema non funziona.
C’è
un filtro troppo rigido?
La
gente non ci vuole andare più perché si rende conto che sono diventate delle
carceri normali e non sono di tipo terapeutico, e allora il tam tam tra i
detenuti ha funzionato e ci sono pochissime domande. Lo sforzo che devono fare
il sistema sanitario e l’Amministrazione Penitenziaria, ma soprattutto i
direttori, educatori, e polizia penitenziaria, è di identificare aree di
competenza specifiche e ruoli professionali.
A
proposito di salute in carcere, in che modo i detenuti possono essere coinvolti?
Questo
è un fatto fondamentale, che viene sistematicamente dimenticato: il decreto
230/99 prevedeva espressamente che ci fossero delle consultazioni. Consultazioni
con gli utenti detenuti per stabilire i piani terapeutici, piani organizzativi
sono state fatte per i Ser.T. nel 1999-2000 a ridosso del decreto 230, ma da
allora sono rimasti gli unici servizi che lo hanno fatto e di pochissime altre
aziende sanitarie abbiamo notizie di simili consultazioni sistematiche con i
detenuti. A Rebibbia invece sono state fatte in tutti i reparti, sia per il
problema della droga, ma anche per problemi correlati di vita quotidiana. Le
consultazioni furono estese anche alle persone sottoposte ad altissima
sorveglianza (41 bis).
Salute
fisica e salute mentale possono essere separate dentro un carcere?
Assolutamente
no, e addirittura devono essere considerate le strette relazioni ambientali che
accomunano le persone detenute da quelle non detenute (operatori): quando si
vive tutti nello stesso contenitore si subiscono comuni problemi ambientali e se
è pur vero che l’operatore la sera esce e torna a casa, se c’è una
infezione ad esempio di tipo influenzale, in un ambiente chiuso come il carcere
l’operatore è esposto ai medesimi rischi del detenuto. I problemi di stress,
la pressione psicologica ambientale coinvolgono tutti e sicuramente non possono
essere evitati in quanto intrinseci al “contenitore unico”.
I
dati sulla prevalenza della patologia mentale in carcere oggi sono disponibili
solo per la fascia dei tossicodipendenti; sappiamo infatti che la stima di
questa fascia di patologie raggiunge almeno il 53 per cento dei
tossicodipendenti che risultano essere portatori di una patologia psichiatrica
rilevabile, da “importante” a “lieve”, ma sempre rilevabile.
Naturalmente è un dato parziale e di stima, su una popolazione già
selezionata, quindi inferiore a quella che è in realtà. Se noi andassimo, come
dicevo prima, a prendere tutta la popolazione reale dei consumatori, forse
avremmo delle sorprese…
Anche
se l’idea che possa rientrare tutto in ambito psichiatrico lascia perplessi.
Lascia
perplesso anche me. Però in ambito psichiatrico ci si mette pure l’ansia e la
depressione di cui tantissime persone sono portatrici anche solo per reazione
ambientale. Le patologie presenti possono essere anche di grado molto elevato,
come il caso della schizofrenia, che pur non essendo una condizione frequente è
spesso associata all’uso di droga.
È
cambiato il tossicodipendente che entra in carcere?
Sì,
è un po’ cambiato, è aumentata l’età media, sono dati che non stupiscono,
aumento dell’età media significa che c’è una sopravvivenza maggiore
rispetto al passato, fatto questo che testimonia come le cure siano migliori del
passato.
Cioè
prima si moriva di eroina a trent’anni?
Sì,
però oggi in generale si viene curati meglio anche perché si conosce molto di
più circa il fenomeno dei consumi rispetto a solo quindici o venti anni fa. Poi
purtroppo c’è il rischio della recidiva nel crimine e la possibilità di
ritornare in carcere. Per questo motivo si assiste all’innalzamento dell’età
media di persone che purtroppo hanno strutturato il consumo di droga ed il
coinvolgimento nella devianza criminale. Tutto questo testimonia la necessità
di disporre di programmi terapeutici altamente personalizzati e che contemplino
la presa in carico ed il successivo iter terapeutico.
Nel
passato ci sono stati tentativi di favorire l’avvio in Comunità Terapeutica
come nel progetto “Dap prima”, che avrebbe dovuto tenere maggiormente in
considerazione queste combinazioni sociologiche e criminologiche. È difficile
realizzare un programma terapeutico personalizzato in una mezzoretta di
colloquio per giunta in una aula di Tribunale. È certamente necessario un
approfondito esame anamnestico, clinico, psicologico e sociologico della persona
che è il normale percorso di presa in carico che si realizza presso i Ser.T..
Quindi
il “Dap prima” è buono per evitare il carcere lì per lì, ma poi
bisogna…
Assolutamente,
quindi un meccanismo di quel genere è un rattoppo di mancata carcerazione, ma
che può essere addirittura dannoso se non segue una presa in carico seria e
strutturata secondo i canoni normalmente espressi dal SSN. Inoltre si dovrebbe
agire anche sulla modifica del reato di droga, magari prevedendo per legge una
possibilità in più di misure alternative, specialmente se differenziate.
Ma
Ser.T. e carcere riescono a lavorare bene insieme?
È
difficile. Molto difficile. Io ricordo parecchi anni fa, quando il metadone non
si usava a Rebibbia, in quanto veniva sostenuto che “la droga in carcere non
deve entrare, per legge!, il metadone è una sostanza stupefacente, quindi non
può e non deve entrare”. Ovviamente si confondeva la parola
“stupefacente” o “droga” con la parola “farmaco”. Erano anni in cui
non si poteva dare il metadone. All’inizio, fu difficilissimo sostenere
l’introduzione del metadone soprattutto nelle reclusioni, dove c’erano delle
persone, anche se non molte, che avevano bisogno di sostegno farmacologico anche
dopo parecchi mesi che erano entrate, perché il metadone era visto come un
farmaco per chi si era fatto il giorno prima, oppure soltanto quando venivano
rilevate le positività urinarie. Anni fa poi non si poteva parlare di
tossicodipendenti in carcere, perché in carcere non si usa droga quindi non
doveva esserci tossicodipendenza, confondendo ancora una volta
l’identificazione della tossicodipendenza con l’uso attuale di sostanze
stupefacenti.
Un
po’ come, in sentenze dei Tribunali di sorveglianza per l’affidamento, dopo
due anni di carcere non sei più tossicodipendente, come se non venisse tenuta
in conto in alcun modo la dipendenza psicologica.
Il
che fa sollevare un problema di informazione degli operatori penitenziari, della
necessità di una loro formazione specifica, in quanto spesso è confuso il
concetto della tossicodipendenza attiva, con la tossicodipendenza in stato di
remissione.
Quindi
la descrizione Oms è giusta: “Malattia cronica recidivante”?
È
da aggiornare per alcune particolarità, però che sia una malattia non c’è
dubbio, che sia ad andamento cronico neanche. Essa non è paragonabile ad una
polmonite che comincia e finisce, perché in essa si assiste a delle modifiche e
ad adattamenti neuronali permanenti e tali che una volta realizzati non tornano
indietro. La memoria neuronale è una modifica stabile dell’assetto biochimico
cerebrale, ma non per questo le terapie sono inutili, anzi diventano essenziali.