Incontro
con Mauro Grimoldi, psicologo che si occupa di devianza minorile
Come
liberarsi dalla “retorica del mostro”
È
l’idea dominante che i crimini siano commessi da persone strane, diverse, che
non sono neanche proprio degli esseri umani, sono l’omicida, lo stupratore,
che non hanno un viso, non hanno una storia
a cura della Redazione
Mauro
Grimoldi, psicologo che si occupa di devianza minorile, presidente dell’Ordine
degli Psicologi della Lombardia, lavora come perito per il tribunale dei minori
di Brescia. È autore di Adolescenze estreme, un libro che è
particolarmente interessante e indicato per trattare i temi che ci sono più
cari, soprattutto in relazione al nostro progetto con le scuole, che ci fa
incontrare continuamente ragazzi giovani e ragionare sui reati e su come si
arriva a commetterli. È stato uno dei relatori al convegno, organizzato da
Ristretti Orizzonti, “Prevenire è meglio che
imprigionare”, dedicato alla prevenzione dei reati, poi è tornato
in redazione per rispondere alle nostre domande.
Marino
Occhipinti: Cosa succede quando un minore commette un reato e viene
affidato al suo intervento?
Mauro
Grimoldi: Io lavoro nell’ambito del penale
minorile, nello specifico sono il responsabile di un servizio di consulenza
psicologica che riguarda in particolare un gruppo di colleghi psicologi che
lavorano con i minori che commettono reati nel territorio della Corte di Appello
di Brescia. Quando un minore commette un reato in quest’area viene arrestato e
fa il percorso previsto in questi casi. Voi sapete che la giurisprudenza penale
minorile prevede come sua parte essenziale un passaggio che non esiste invece
per gli adulti, ovvero la necessità di raccontare chi è il minore che ha
commesso un reato. Se commetti un reato da adulto, la giurisprudenza dice che in
qualche modo come persona sei più costruito, cioè hai avuto la possibilità di
deciderlo con maggiore consapevolezza. Se lo commetti da minorenne, vieni
considerato come una personalità più plastica, si pensa che tu abbia più
possibilità di modificarti in un tempo breve, e quindi oltre al peso che
comunque ha il reato commesso, vengono considerati altri fattori, fra cui la
valutazione della personalità del suo autore.
Io
e i colleghi che lavorano in questo settore serviamo a raccontare al magistrato
chi è quel ragazzo e quindi abbiamo il compito di rappresentare le ragioni per
cui quel ragazzo ha trovato in un certo momento della sua vita conveniente,
perché è evidente che in un certo senso il ragazzo deve sentirlo come
conveniente, commettere un reato. Anche se fosse solo per un istante, però
quello è l’istante in cui viene presa una decisione che poi peserà per
sempre nella vita di quel ragazzo.
Franco
De Simone: Il numero dei minori in carcere sta aumentando, in
quale misura pesano fenomeni come il bullismo nella commissione di reati?
Mauro
Grimoldi: Il bullismo secondo me è una realtà
a cui si è data un po’ troppa importanza, è un fenomeno che esiste e
consiste soprattutto nel fatto che noi tutti siamo, quando andiamo a scuola,
quando viviamo il nostro periodo evolutivo, quando siamo molto giovani,
sottoposti a una sorta di competizione, anche solo per il voto, quel meccanismo
per cui ci danno un voto a scuola a seconda della prestazione che eroghiamo, e
che determina un clima fondamentalmente competitivo.
C’è
chi all’interno di questa competizione si trova a suo agio, si sente vincente,
magari è realmente un vincitore, c’è chi invece si sente di poter avere più
chance se la competizione avviene con regole diverse da quelle. Se forse in
quell’ambito le regole sono quelle per cui io mi ritrovo a non essere uno dei
migliori, a non risultare vincitore, allora cercherò di spostare il campo della
competizione su un altro territorio e vedere chi è più forte, chi è in grado
di sopraffare l’altro, di farsi rispettare. È troppo riduttivo quindi
parlare solo di bullismo, occorre ampliare un po’ tutto il discorso e
considerare un certo tipo di disagio, ovvero la sensazione di non farcela, di
non essere all’altezza, di non avere tutte le carte in regola per potersela
giocare alla pari con gli altri, e questo si trasforma nella voglia di cambiare
le regole del gioco.
Elton
Kalica: Chi di noi sta in carcere da parecchi anni ha visto negli ultimi
tempi un mutamento nella composizione della popolazione detenuta, nel senso che
ci sono sempre più ragazzi giovani. Ci piacerebbe capire chi sono e da dove
provengono i minori che hanno a che fare con la giustizia.
Mauro
Grimoldi: Un cambiamento c’è ed è
assolutamente significativo. Innanzi tutto voi sapete che la carcerazione per
quanto riguarda i minorenni è una possibilità assolutamente residuale, in
Lombardia esiste un unico carcere minorile, il Beccaria di Milano, dove ci sono
una sessantina di ragazzi. Perché un minorenne finisca in carcere occorrono
tutta una serie di circostanze concomitanti ed è molto difficile che tutte si
realizzino.
La
popolazione dei minori che delinquono si sta modificando molto.
Nell’immaginario collettivo il ragazzo che commette un reato proviene
necessariamente da una situazione di disagio, da una situazione problematica, da
una famiglia che ha dato un cattivo esempio o che ha fatto mancare qualcosa, in
molti casi si è poi convinti che a commettere i reati siano i minori stranieri.
La realtà è diversa. I reati più gravi sono commessi da minorenni italiani,
mentre i reati meno gravi vengono commessi in prevalenza da stranieri. Ai minori
comunque sono concesse tutta una serie di misure che tendono in qualche modo ad
evitare l’esperienza della reclusione. Una di queste, utilizzata molto spesso,
si chiama messa alla prova, ed è uno strumento grazie al quale il
minore, ad un certo punto del procedimento, può chiedere, attraverso il proprio
legale, che il procedimento venga interrotto. Al minore è concesso cioè dire “Io
sono responsabile, ho sbagliato, mettetemi alla prova”, chiedendo che il
giudice fissi un periodo di tempo durante il quale poter dimostrare il proprio
ravvedimento. In questo periodo subentro io, tenendo sotto osservazione il
minore che deve rendere conto non soltanto alle persone a cui rende conto di
solito, quindi tendenzialmente ai genitori, ma ai servizi sociali. Quindi il
minore deve parlare anche con loro, e raccontare che cosa gli succede. La messa
alla prova è un atto di reciproca fiducia, dico sempre ai ragazzi con cui
lavoro che da quel momento in poi l’aspetto importante è che se commettono
uno sbaglio lo vengano subito a raccontare; cioè noi non dobbiamo venire a
sapere da altri se sei stato fermato con una certa quantità di sostanza, oppure
ubriaco mentre guidi un motorino, no assolutamente, perché se lo veniamo a
sapere prima da te la situazione è molto diversa, cambia moltissimo.
Voi
capite che le redini sono molto più sciolte rispetto a quello che accade nel
mondo dell’adulto, in questo caso è importante che si possa ragionare in
termini di reciproca fiducia, se io mi rendo conto che mi posso fidare di un
ragazzo, ritengo anche accettabile che possa commettere un piccolo errore
durante il suo percorso.
È
chiaro però che se uno reitera costantemente il reato, perché in qualche modo
sente che quella è la sua scelta di vita, una scelta anche inconsapevole,
rispetto alla quale comunque non riesce a fermarsi, allora il discorso va
affrontato in un altro modo. La messa alla prova rimane un’opportunità per
dare una reale, concreta seconda possibilità, e oltretutto, se ha un esito
positivo, c’è la cancellazione del reato dalla fedina penale, quindi uno si
ritrova pulito, e può andare in qualche modo avanti a fare un proprio percorso
di vita come se nulla fosse accaduto.
Marino
Occhipinti: Per far fronte al sovraffollamento delle carceri si è
cominciato a parlare anche della messa alla prova per gli adulti, che hanno
commesso un reato che preveda una pena sotto i tre o quattro anni, non si sa
bene ancora. Però ovviamente per gli adulti è un campo tutto da esplorare,
quindi una riflessione su questo può essere interessante per chi ci legge.
Mauro
Grimoldi: La messa alla prova è uno strumento potentissimo se ben
utilizzato, deve infatti partire da un presupposto indispensabile, che io sappia
perché una persona ha commesso quel particolare reato. Ma questo non è un
passaggio facile, cioè se io lo chiedo a voi che avete avuto magari un tempo
significativo, a volte lungo, per fare una riflessione su questo tema, penso che
alcuni siano effettivamente in grado di rispondere a queste domande. Ma un
ragazzo di quattordici o quindici anni è in grado di spiegami il perché? Di
solito no, di solito non ha assolutamente l’idea del perché si è trovato in
una certa situazione, di solito dice cose del tipo “mi piace fare questa cosa,
guadagno dei soldi, mi trovo meglio, sono meglio inserito nel gruppo”. Però
uno step in più tocca farlo dall’esterno, è questo un po’ il compito che
abbiamo noi psicologi, quello di individuare le ragioni, quello di dire: questo
ragazzo, per esempio, ha un assoluto bisogno di dimostrare le proprie capacità,
di far vedere che è in grado di manipolare il proprio ambiente, e quindi il
reato gli serve proprio per avere la possibilità di dimostrare queste capacità.
Quanti
ragazzi entrano in un gruppo delinquenziale, per esempio, per dimostrare di
avere un’abilità, ma un’abilità di qualsiasi tipo, una abilità di
riuscire a farla franca, di mostrarsi al gruppo come quello che è capace di
fare una determinata cosa? Una situazione di questo genere ti regala
un’identità: tu sei quello che fa casino, che crea problemi, tu sei il grande
trasgressivo, magari tu sei anche quello che con le ragazze ha un rapporto di un
certo tipo, perché vieni considerato un duro, quello più sgamato. Ecco allora
che una certa competizione, che magari sul piano delle prestazioni scolastiche e
della produttività è perdente, invece può essere vincente in un altro ambito.
Allora
noi a un ragazzo di questo tipo dobbiamo dare comunque la possibilità,
attraverso la messa alla prova, di sfidare l’ambiente e sfidarlo in un certo
modo e sentirsi vincitore. Come lo possiamo fare? Uno dei tanti esempi che si
possono portare per spiegare uno dei motivi che potrebbero stare dietro a un
qualunque comportamento delinquenziale, è quello di un ragazzo che commette dei
furti.
Ne
ho conosciuti diversi con questo tipo di dinamica alle spalle, con il bisogno di
dimostrare di essere capace di farlo, di essere bravo a mettere in scacco la
società attraverso i propri comportamenti e “restaurare” così la propria
autostima.
In
questo caso una buona messa alla prova non è chiaramente solamente quella di
dire “va’ a fare un po’ di attività socialmente utile”, come
talvolta si fa, assolutamente no. Dobbiamo trovare qualcosa che abbia lo stesso
sapore dell’esperienza trasgressiva, per esempio in questo caso io devo
permettere a questo ragazzo di sfidare il proprio ambiente. Come lo posso fare?
Una
attività non antisociale che abbia questo sapore può essere costituita dallo
sport estremo. Ad un ragazzo che commetteva dei furti proprio con questo tipo di
dinamica, quando mi ha chiesto cosa avrebbe potuto fare durante la messa alla
prova, ho risposto “Io ti butterei giù da un aeroplano, per quanto mi
riguarda, altro che attività socialmente utile”. Non mi credeva, ma io
l’ho buttato veramente giù, gli ho fatto fare un corso di paracadutismo, in
cui questo ragazzo si è trovato molto bene. Il concetto della messa alla prova
è un vestito su misura, non un vestito comprato ai grandi magazzini che è
uguale per tutti, ma un vestito fatto apposta su di te in base alle motivazioni
per cui tu hai commesso quel reato. Ciò comporta, e questo è il punto
difficile, la presenza di qualcuno che lavora con te, con cui si possa parlare e
arrivare insieme a dirsi “io ho commesso un reato per questo motivo”.
Allora
io devo farmi carico di questo, però devo anche cercare qualche cosa di non
socialmente dannoso con cui possa essere sostituito questo tassello, ma che mi
dia le stesse soddisfazioni, altrimenti non funziona, perché io non smetto di
commettere le stesse azioni se non trovo qualche cosa in cambio che possa essere
effettivamente valido. Per questo la messa alla prova è costosa in termini di
risorse, cioè io devo trovare della gente competente con cui devo avere la
possibilità di lavorare un certo numero di ore e con cui posso arrivare a darmi
delle buone risposte.
Marino
Occhipinti: Se questo si dovesse fare nell’ambito della giustizia per
gli adulti, per cui le risorse economiche sono molto ridotte, la possibilità di
una buona riuscita della messa alla prova diventa allora remota?
Mauro
Grimoldi: Se io come Stato, come società civile, mi metto nell’ottica
di lavorare sulla prevenzione di un futuro reato da parte di chi ne ha già
commessi in precedenza, allora io dovrei lavorare con strumenti come la messa
alla prova in modo diverso, non con le tre ore di volontariato il sabato…
Perché così non servirebbe.
Lo
Stato dovrebbe entrare nell’ottica che tutto ciò che è prevenzione, rispetto
a cui la messa alla prova è uno strumento fondamentale, che si riferisca ad
adolescenti o adulti, per funzionare richiede l’investimento di notevoli
risorse economiche, che sono comunque inferiori rispetto a quello che viene a
costare una persona che commette un reato, ai costi di una recidiva, che
comporta l’esigenza di prendere una persona e collocarla all’interno di una
struttura carceraria come questa, con costi non solo in termini economici… È
frustrante sapere di avere gli strumenti per prevenire la recidiva e non essere
nelle condizioni di poterli utilizzare in maniera diffusa. È essenziale tenere
presente che punizione e prevenzione sono due ambiti differenziati e che oltre a
punire dobbiamo prevenire, se vogliamo ottenere la possibilità che in futuro ci
siano un po’ meno problemi.
Elton
Kalica: Noi facciamo degli incontri con studenti delle scuole superiori,
che vengono all’interno della redazione, e spesso ci troviamo di fronte a dei
ragazzi che ci chiedono: “Ma scusa, non potevi pensarci prima?”. C’è
questo luogo comune, questa idea diffusa tra i ragazzi, che dietro ad ogni atto
ci sia una consapevolezza, una scelta razionale, se tu lo hai fatto è perché
sei stato tu a volerlo, quindi le condizioni in cui ti trovi adesso sono quelle
che meriti.
Mauro
Grimoldi: Secondo me i ragazzi che dicono così stanno prendendo le
distanze, nel senso che stanno dicendo “a me non può capitare” e
questo li rassicura, li fa stare meglio. In realtà assolutamente no, non c’è
nessuna razionalità nel comportamento dei minori che commettono reati.
Io
talvolta penso che, soprattutto nei reati di gruppo, se io prendessi dei ragazzi
che stanno per andare a commettere un reato e avessi la possibilità di metterli
in una stanza, non in presenza di un adulto che gli rompe le scatole, del
poliziotto o di un’altra figura di controllo, ma da soli a discutere per dieci
minuti del reato che stanno andando a compiere, questo reato non si
verificherebbe. Questo per spiegare quanto spesso il reato, almeno per i minori,
sia nel dominio dell’irrazionale, di quella parte di noi che non conosciamo e
che ci fa compiere delle azioni anche orribili.
La
settimana scorsa ho visto un ragazzo, che sto seguendo, con un taglio che
partiva dalla fronte e arrivava sulla faccia, mi ha spiegato che era uscito una
sera, un suo amico si è ubriacato, c’ha provato con una ragazza e poi è
andato a provocare gli amici di lei, che erano numerosi, una decina. Questi
hanno reagito ed è venuta fuori la classica rissa. Mi ha spiegato di essere
intervenuto, mentre gli altri che erano con lui non lo hanno fatto, perché,
anche se consapevole che il suo amico aveva torto, non sarebbe mai riuscito la
mattina dopo a guardarsi allo specchio e pensare che non l’aveva difeso. “Io
dovevo intervenire, perché non sono un vigliacco, non ho paura, non sono una
femmina”.
La
sera della rissa, in mezzo al caos, in mezzo al frastuono della musica in
discoteca, non ha pensato a niente, si è semplicemente buttato, perché sentiva
che andava bene così, e dopo mi ha detto che anche se avesse perso un occhio ne
valeva la pena. Neppure in un momento successivo, quindi, è riuscito a
prospettare un diverso comportamento per la situazione in cui si era trovato
coinvolto. Non c’è niente di razionale nel reato minorile, niente: ci si
trova a vivere un’esperienza in modo automatico e le spiegazioni si riescono a
dare solo in un secondo momento. Raramente c’è una decisione, se può
definirsi tale.
Franco
Garaffoni: Ma se io prendo un territorio del sud, ad esempio Scampia,
posso constatare che dietro i reati dei minori in molti casi c’è una scelta
ben precisa, razionale. Io non credo che un minorenne che è cresciuto in una
famiglia dove ha visto il padre arrestato, dove ha vissuto di pane e criminalità,
una volta che gli viene offerto di andare a spacciare per guadagnare di più,
non faccia una scelta ben precisa.
Mauro
Grimoldi: Da un lato lei dice che in un certo territorio ci può essere
un radicamento tale della delinquenza, per cui ci sono più probabilità che
possa configurarsi una scelta di tipo criminale anche da parte di un minore, ma
poi aggiunge che sono i genitori con le loro scelte delinquenziali ad avere un
peso determinante. Attenzione però, oggi non è più come il tempo in cui quasi
tutti i minori che commettevano un reato provenivano o da famiglie disgregate,
con dei problemi gravi, che in qualche modo avevano dato un esempio che si
avvicinava a quello delinquenziale, o che non erano state in grado di prendersi
cura dei bambini in maniera adeguata.
Adesso,
almeno il cinquanta per cento dei ragazzi che arrivano a delinquere non si
trovano in situazioni di quel tipo. Ma anche per quelli che in qualche maniera
sono vissuti in un ambiente criminogeno, quindi in un mondo dove “lo fanno
quasi tutti”, questo è razionale? Io dico di no, nel senso che se ho dei
genitori che fin da quando ero piccolo si comportano in un certo modo e loro
diventano degli esempi di una vita possibile, e poi vedo che anche intorno a me
le cose funzionano così e quindi ho ulteriormente degli incentivi a pensare che
sia l’unico modo di condurre la vita, allora io automaticamente sento che
quella roba lì può andar bene.
Elisa
Nicoletti (volontaria): Io lavoro come
educatrice con i ragazzi e dalla mia esperienza vedo che ci sono delle logiche
legate all’orgoglio e quindi all’idea di non tornare indietro rispetto alle
proprie decisioni, senza porsi mai un limite. È proprio l’orgoglio che induce
a continuare a seguire una strada che può sfociare in qualsiasi cosa, pur di
non ammettere le proprie difficoltà.
Ornella
Favero: A me, quando hai raccontato la storia del ragazzo che è stato
sfregiato in una rissa e che ha agito in un certo modo per orgoglio, per senso
dell’amicizia o per esaltazione di certi valori, il punto centrale è parso la
considerazione che la trasgressione a volte ti regala un’identità, un ruolo
dentro al gruppo. Quindi mi interessava capire con quali strumenti si può far
leva su un ragazzo, perché questa idea del gruppo e della trasgressione non
diventi prioritaria su tutto.
Mauro
Grimoldi: Noi tutti abbiamo un pubblico, cioè
non siamo mai da soli. Anche quando la decisione di buttarsi in una rissa è
automatica, noi comunque ci sentiamo circondati da una serie di persone che ci
guardano, magari sono gli amici che in quel momento sono lì presenti e che
vedono cosa noi facciamo, magari c’è una ragazza che abbiamo appena
conosciuto e con la quale ci teniamo a fare un certo tipo di figura.
Il
problema dell’identità è questo, da ragazzi soprattutto si dà grandissimo
valore a tutto questo, perché ancora non si sa bene chi si è, si stanno
facendo degli esperimenti: il giorno prima uno si presenta a scuola normale, il
giorno dopo ha il piercing o si veste in un certo modo, per vedere gli altri che
cosa dicono, insomma per guardarsi attraverso lo sguardo dell’altro. Se tu
frequenti delle persone che quando tu ti comporti in un certo modo ti rispondono
in modo positivo, cioè ti sostengono e ti dicono che se fai così va bene e tu
stai bene, non c’è alcun dubbio sul peso che questo può avere sulla tua
condotta.
Però
attenzione, una cosa importante è da un lato ricordare ai ragazzi che esiste un
proprio pubblico, dall’altro che siamo tutti diversi, cioè non è che le
reazioni che ci attendiamo dal nostro pubblico sono identiche. Le persone cioè
si differenziano proprio in base al comportamento automatico che in certe
situazioni viene fuori e che nasce dal fatto che una persona sia più o meno
sensibile a determinati stimoli. Quando in una festa una certa ragazza sembra
che “ci stia” un po’ di più, all’interno del gruppo che le si avvicina
qualcuno diventa un po’ minaccioso, la stringe in un angolo e la porta in
un’altra stanza, qualcun altro se ne va, magari imbarazzato da questo
comportamento, perché sente che sta per succedere qualcosa che non va bene, che
non deve accadere, e prova inquietudine. Si tratta di persone nella stessa
identica situazione, rispetto alla quale si pongono in maniera diversa, solo in
alcuni casi quindi si è costretti ad interrogarsi sui perché, soprattutto
quando una circostanza, come quella descritta, porta al compimento di un reato.
Spesso
sopravvalutiamo il fatto di essere in grado di controllare le cose che ci
accadono, sopravvalutiamo la razionalità, però poi succede qualcosa, e questo
qualcosa è nell’ambito del non razionale, del non prevedibile: ci innamoriamo
di una persona che non è prevista nella nostra vita, per esempio. Come mai uno
si innamora e perché si innamora di quel tipo di persona? Perché alcune donne
si innamorano sempre di uomini violenti e vanno dallo psicologo perché vedono
nella loro storia la stessa esperienza che continua a ripetersi? Perché hanno
cominciato a capire che dietro questa situazione che ritorna, c’è una
decisione che è stata presa inconsapevolmente, ma questo succede a tutti noi,
non solo a chi commette dei crimini, o a chi si innamora di uomini violenti.
Se
nella nostra vita delle cose continuano a succedere, in qualche modo noi
possiamo essere sicuri che lì dietro c’è quella parte di noi stessi che noi
non conosciamo, cioè quello che noi psicologi chiamiamo l’inconscio.
A.
B.: Ma allora se ci si pone il
problema della consapevolezza del reato, si dovrebbe arrivare alla conclusione
che quando un reato è compiuto da una persona in maniera irrazionale, potrebbe
essere considerato “depenalizzato”.
Mauro
Grimoldi: Il concetto è un altro: comprendere è obbligatorio,
giustificare sempre sbagliato.
È
questo il punto: io devo capire il perché e questo mi crea a volte un problema,
nel senso che se io mi avvicino a lei e lei mi racconta il reato che ha
commesso, i suoi perché, ci conosciamo un po’, a un certo punto a me sembrerà
che ciò che è avvenuto abbia il carattere di qualcosa di necessario, cioè
qualcosa che è avvenuto perché in quel momento doveva succedere.
Questo
è però l’aspetto della comprensione, la giustificazione non può essere
ammessa, perché la giustificazione appartiene ad altro, cioè il dire se questa
cosa è giusta o no dipende invece da come si pone una sua azione rispetto ai
valori fondamentali su cui è fondata la società. Quindi è un altro punto di
vista, ecco perché è diverso il lavoro dello psicologo, rispetto a quello del
magistrato, del poliziotto, proprio perché serve a capire. Una volta che uno ha
capito è in grado di essere in qualche modo per lei, non il suo avvocato, ma
quello che traduce i significati dei suoi comportamenti, cioè quello che
racconta ad un altro i perché e dice “è successo per questo motivo”. Non
ci si deve però confondere tra questi due concetti mai, appunto comprendere è
un obbligo, giustificare no.
Marino
Occhipinti: Lei raccontava prima di quel ragazzo, irrazionale quando si
è buttato nella rissa, irrazionale poi a continuare a difendere la sua
posizione. Io credo che l’irrazionalità del prima sia una irrazionalità
diversa da quella del dopo, perché a volte quella del dopo può essere utile,
non dico a rendere giustificabile, ma almeno accettabile per te stesso quello
che hai fatto.
Allora,
siccome non vuoi ammettere che sei stato un po’ stupido, invece che dire “ho
partecipato a questa rissa, ma che cretino sono stato”, sostieni convinto “no
rifarei ancora così, ci lascerei pure un occhio io in quella rissa”. Io
non ero sicuramente minorenne quando ho commesso i reati, però mi rendo conto
che a volte nell’irrazionalità del dopo si scatenano tutta una serie di
meccanismi.
Ad
esempio io al processo sono “andato negativo” per sei anni, perché
in quel momento la mia preoccupazione maggiore era quella di allontanarmi da un
certo contesto, allora la mia irrazionalità nel dire “non l’ho fatto” era
per difendere, non dico la mia immagine, ma per staccarmi dal quel contesto. Poi
ho cominciato a dire “sì è vero”, però lo dicevo con la mia verità,
perché ancora quella cosa non era accettabile, quindi c’è anche un percorso
nell’irrazionalità del dopo. Mi ricordo anche che ai primi incontri con gli
studenti dicevo: no, io non rispondo alla domanda “che cosa hai fatto, perché
sei qui?”, poi piano piano ho cominciato a rispondere anche a quello, cioè è
una serie di passaggi, l’irrazionalità non sempre è irrazionalità vera,
pura, a volte è necessaria proprio per rendere accettabile o comunque per
rendere meno doloroso a te stesso quello che hai fatto.
Mauro
Grimoldi: Si, ci sono diversi tipi di irrazionalità, il ragazzo che il
giorno dopo mi racconta le cose in questi termini “io avrei potuto anche
perderci un occhio, ma mi andava bene così”, mi dà una mano, perché mi
avvicina a capire le ragioni di un’apparente follia, mi aiuta a capire che lui
si gioca un’immagine di forza, di virilità, in un gesto che lui sente come
necessario. Quindi, il fatto che lui continui ad essere irrazionale mi aiuta a
fare un passo avanti nel cammino della comprensione. Diverso è invece tutto
l’edificio che si crea intorno alla fase processuale, dove entrano in gioco
anche altre persone, nel caso dei minori prepotentemente entrano in gioco i
genitori. I genitori tendono a giustificare sempre, così, quando devo
incontrare dei genitori di ragazzi che hanno commesso un reato grave, ho bisogno
di parlare prima con i ragazzi, in modo che quando poi i genitori mi dicono “ma
sì, non è successo niente, è una stupidata, lui non c’entra nulla”,
gli posso ribattere che il figlio ha detto una cosa diversa.
È
più facile che il ragazzo ammetta le cose che sono avvenute e si riconosca
responsabile, piuttosto che lo faccia il genitore, perché ammettere la
responsabilità del figlio mette potentemente in crisi la posizione di genitore,
lo fa sentire un cattivo genitore e guasta l’immagine del figlio, quindi in
qualche modo ci sono due elementi complessi al posto di uno. Invece il ragazzo
sente che quella cosa lì è risultata possibile, lo sa, c’era, è stato
testimone di qualcosa di vivo, di vero, sa che è avvenuto in un certo modo e
quindi ad un certo punto si tratta soltanto di ammettere quello che ha fatto e,
considerato che l’identità da qualche parte gioca in senso positivo, a volte
lo ammette anche in maniera quasi spudorata.
Quindi
bisogna poi dire “fermati, basta”, perché i ragazzi avrebbero
talmente voglia di raccontarti e sono a volte così orgogliosi delle loro
trasgressioni… Invece tutto quello che accade durante il processo spesso,
soprattutto nei reati gravi, va in direzione di mascherare, di dire “non
sono stato io”, e in questo atteggiamento giocano molto i genitori e gli
avvocati, perché dopo un po’, a furia di sentirti raccontare una certa
versione, credi di più a quello che ti è stato raccontato rispetto a quello
che hai vissuto. Comincia ad esserci una realtà diversa, la realtà cosiddetta
processuale, che inizia a diventare una tua verità e tu ti dimentichi che
quella roba lì l’hai vissuta tu e quindi lo sai come sono andate veramente le
cose. Se vai a sentire i ragazzi che hanno commesso un reato grave, magari dopo
due, tre anni la loro versione comincia ad essere molto diversa da quella che ti
hanno raccontato la prima volta.
Lucia
Faggion: Certo come genitori si fa fatica ad ammettere la responsabilità
rispetto al figlio, perché appunto ci si sente smarriti. Se un genitore
arrivasse a capire ed accettare che non deve essere un genitore perfetto, ma che
fa quello che può e che è importante il confronto, allora arriverebbe ad
essere veramente un genitore che collabora anche con l’istituzione, che sia lo
psicologo o che sia altro, senza paura, e quindi mettendo in discussione il
proprio ruolo, perché semplicemente avrebbe accettato una relazione con gli
altri.
Mauro
Grimoldi: Io non lo so che cosa potrebbe accadere se un giorno mia figlia
commettesse un reato, forse la difenderei anch’io come ho visto difendere i
propri figli da tutti i genitori che ho incontrato, tanto è vero che non ho
assolutamente un sentimento negativo nei loro confronti, ormai ho capito che
funziona così, li comprendo.
Anche
quando la stampa li attacca, a volte succede, magari quando ci sono omicidi,
quando ci sono reati molto gravi, i genitori comunque si schierano dalla parte
dei figli. Forse questo evento che è una cosa gigantesca, enorme, pazzesca, un
cataclisma che capita nella vita di un ragazzo, in qualche modo richiama a sé
una funzione primaria, che è quella che rende indispensabile la propria
presenza quando le cose vanno male, quando succede un disastro e il figlio
implora “Aiuta me adesso, perché sono io che in questo momento non so più
che cosa fare, è successa questa cosa, vieni da me e da nessun altro”.
Allora lì si ricrea quell’unità che in qualche modo esiste tra genitori e
figli, a prescindere da qualunque altra considerazione.
La
prossima settimana per esempio, devo andare a fare un incontro con una comunità
delle valli del bresciano, un piccolo paese in un piccolo territorio in cui è
avvenuto un abuso sessuale commesso da un gruppo di adolescenti, e questa
comunità, soprattutto i genitori, ma anche alcuni dei lori amici, è schierata
abbastanza dalla parte degli abusanti. Quindi li incontriamo per capire perché
si è verificata questa situazione, ma non sarà facile.
Elton
Kalica: Io vorrei che ci soffermassimo sui reati che hanno a che fare con
la violenza sessuale. Quando incontriamo i ragazzi delle scuole a volte è
successo che qualcuno di loro dica: va bene tutto, ma io i sex offenders li
odio, dovrebbero stare in carcere a vita.
Poi
ci siamo accorti che spesso la violenza sessuale accade proprio nel mondo dei
giovani, quindi a noi sembra interessante capire quali sono i meccanismi che
portano così tanti giovani a commettere questo tipo di reato e portano però
gli stessi giovani a considerarlo il peggiore dei crimini.
Mauro
Grimoldi: Intanto facciamo una distinzione e diciamo che stiamo parlando
di uno dei due tipi di reato sessuale, nel senso che un tipo di reato sessuale
è quello “individuale”, cioè quello che uno compie da solo. Di solito
avviene in un contesto vicino a quello famigliare, spesso ha per sua vittima un
altro componente della famiglia, più giovane, quindi una sorellina, qualcuno
che abita vicino, e lì di solito il disordine è di tipo psicologico,
relazionale, è da esaminare caso per caso.
Però
la stragrande maggioranza dei casi di cui mi stai parlando si riferisce agli
abusi di gruppo. Va precisato che dove c’è un abuso di gruppo commesso da
minorenni, di solito c’è una vittima che in qualche modo è un po’ una
vittima predestinata, nel senso che è una ragazza cha ha avuto un comportamento
che fa pensare agli altri che sia a disposizione loro, erroneamente
intendiamoci, però una ragazza che ha una certa facilità ad avere molte
relazioni. Si tratta di un tipo di persona che usa la propria sessualità per
essere presente nell’immaginario del gruppo in un certo modo, che ha
sperimentato la potenza pazzesca che ha il corpo femminile rispetto ai propri
coetanei di sesso maschile e usa quella forza per sentirsi importante, per
sentirsi presente.
I
ragazzi del gruppo la pensano come quella, passatemi il termine, che ci sta
facilmente e a lei sentono ad un certo punto di non dover più chiedere un
permesso, e questo è gravissimo.
Non
tutti i ragazzi sono eguali però, faccio l’esempio di una festa, in cui è
avvenuto effettivamente che una ragazza si sia parzialmente spogliata ed è
rimasta li a ballare insieme agli altri. Qualcuno è andato via, qualcuno è
rimasto, un gruppetto si è avvicinato… Chi è che si avvicina? Sono una
tipologia molto precisa, di solito quelli più vicini ai 14 anni, chi ha intorno
ai diciotto anni non si avvicina alle ragazze che si propongono in questo modo,
ha altre modalità, altri canali. Chi si avvicina sono i ragazzi più giovani,
di solito ragazzi che hanno una scarsa scolarità, spesso con dei problemi anche
di tipo cognitivo, comunque molto giovani e che è una delle prime volte che
sperimentano la sessualità. Loro molto probabilmente sono quelli che decidono
che quella situazione lì può andar bene per trasformare la sessualità in un
gioco, per arrivare più velocemente a questa prima esperienza. Perché
ricordiamoci che il sesso, per un ragazzo di quattordici, quindici anni, è
soprattutto una questione ancora una volta di identità. Cioè quando tu vai da
un ragazzo di sedici anni che non ha ancora fatto sesso e glielo fai notare, lui
sta male, perché si sente indietro, deve raggiungere gli altri. Se tu ancora
non lo hai fatto e i tuoi amici sì, è un grosso problema.
Il
sesso in adolescenza non è un problema libidico, non si tratta di godere di
questa esperienza, si tratta di status, si tratta in prima istanza di quello che
gli altri sanno di te. I ragazzi che hanno rapporti sessuali in questo modo
andrebbero rieducati al piacere.
Se
fossero educati alla dimensione del piacere non farebbero esperienze di questo
genere, che non hanno nulla a che vedere con il piacere sessuale, nulla, però
hanno molto a che vedere con il fatto di dover essere all’altezza, cioè di
dover dimostrare che sono capace, che sono competente in queste cose, e quindi
io ci devo essere, io devo essere lì e devo dimostrare di essere all’altezza.
Però attenzione perché spesso finiscono male queste storie, finiscono male
senza che si sia consumato un atto che è puramente sessuale, ma diventa un atto
violento, perché l’aspetto principale non è libidico, ma narcisistico. Lì sì
che può andare a finire male
Quello
che manca è la fiducia di poter affrontare il sesso in tempi e modi normali,
cioè se io penso che in fondo in un tempo normale io incontrerò una ragazza,
che mi sento abbastanza tranquillo, forte, capace, e con lei potrò avere una
esperienza sessuale, io non vado ad affrontare l’esperienza in questo modo. Se
io però mi sento molto lontano da quella esperienza di cui ho sentito parlare,
la vedo su internet, so che c’è questo mito del sesso, quando ancora siamo
molto piccoli il sesso è un mito, io non so che cos’è, però so che chi c’è
arrivato è qualcuno che è molto fortunato, è un iniziato, è uno che è
arrivato a scalare l’ultimo gradino della scala. Se io la penso così, allora
colgo qualsiasi occasione e quando ho la sensazione di non essere capace, di
essere molto lontano dall’arrivare lì, penso che in fondo io devo trovare una
strada alternativa, perché se cerco il sesso normalmente probabilmente non ci
arriverò mai.
Alcuni
ragazzi che vengono coinvolti in queste vicende a volte sono fidanzati, hanno
una propria compagna, a cui non hanno il coraggio di chiedere nulla che abbia a
che fare con la sessualità. Se sei un ragazzo così non chiedi perché ti senti
sporco, perché pensi che le ragazze non abbiano gli stessi desideri che hai tu,
perché ritieni di non essere abbastanza simpatico, abbastanza bravo, abbastanza
competente, non vai bene per arrivare a fare quella esperienza lì.
Allora
se trovi una ragazza che sembra disponibile ad una esperienza sessuale
utilizzando uno strumento che ti è molto noto, che è quello del gruppo, che è
quello della compagnia, che è quello dell’amicizia, tu ti infili dentro al
gruppo e dici “mi metto dentro anch’io, così magari riesco a sistemare
questa faccenda”. In realtà le cose andranno molto diversamente e tu sei
molto a rischio.
Franco
Garaffoni: A me sembra che le famiglie siano abbastanza lontane dai
problemi del sesso, ancora oggi il papà, la mamma difficilmente parlano di
sesso con i propri figli, allora se nella scuola se ne occupassero di più,
della maturazione della sessualità del ragazzo, forse non sarebbe sbagliato.
Ornella
Favero: Io penso che non sia solo un problema di sessualità, ma anche un
problema di “educazione ai sentimenti”. Quando infatti i ragazzi delle
scuole chiedono a un detenuto “ma perché non ci hai pensato prima”, in loro
ancora una volta sui sentimenti prevale questo desiderio di razionalità. La
razionalità è rassicurante, invece i sentimenti, gli istinti, quindi poi anche
il sesso non sono rassicuranti, perché ti fanno sentire che non sei padrone
fino in fondo di te stesso, che anche tu hai un lato oscuro che conosci poco e
che ti fa paura.
Mauro
Grimoldi: Credo che queste faccende abbiano a che fare con un grande
senso di insicurezza, e il senso di insicurezza viene solo in parte attenuato da
una corretta informazione.
Il
senso di sicurezza o insicurezza viene accentuato o diminuito da un determinato
clima di gruppo, perché i ragazzi si confrontano sul discorso del sesso non con
i genitori e poco con la scuola, pochissimo con la televisione, moltissimo con
gli amici, cioè è nel gruppo che si crea la sensazione di quello che è
normale e di quello che non è normale.
Ecco
perché i gruppi molto solitari, molto scissi da un gruppo più ampio a volte
hanno dei comportamenti sessuali più anormali, più bizzarri. Quello che a noi
interessa è che la persona che si sente sicura della propria capacità di
vivere in modo naturale, fisiologico, rispondente ai propri desideri,
l’esperienza sessuale, non commette reati sessuali di gruppo.
Elton
Kalica: Di questi tempi, succede spesso che i media danno risalto a
episodi di violenza di giovanissimi, e poi magari finisce che fanno una legge
che aumenta la pene o tolgono qualche istituto di quelli previsti nel diritto
minorile.
Mauro
Grimoldi: Sarebbe totalmente sbagliato, sarebbe un provvedimento di chi
non sa nulla di questi tipi di reati commessi dai minori e non si avvicina
nemmeno lontanamente a comprendere il significato di quello che avviene. Si
tratta di reati commessi da minori estremamente giovani, non pericolosi sul
piano sociale, che hanno di solito una prognosi del proprio comportamento
piuttosto positiva, ragazzi che hanno incontrato quella che per loro
rappresentava una sorta di occasione, rispetto alla quale sono andati oltre, un
po’ o tanto oltre a quello che gli è consentito.
Elton
Kalica: Abbiamo visto, per esempio nei Paesi anglosassoni, che c’è
stato un crescente abbassamento dell’età di punibilità dei minori. Ma quanto
senso ha prevedere delle pene così elevate per i minori, questo fa davvero da
deterrente? perché di solito si dice “così gli altri imparano”.
Mauro
Grimoldi: Con i minori, ci dicono le regole di Pechino, ci dicono le
regole applicate a livello europeo e per noi sicuramente la 448/88, che è la
legge italiana che regolamenta la materia, noi dovremmo privilegiare tutti i
ragionamenti che riguardano la recuperabilità, rispetto a quelli che riguardano
la funzione retributiva della pena.
Se
si privilegia la recuperabilità, bisognerebbe dire quanta probabilità c’è
da parte di quel ragazzo di commettere nuovamente un reato. Noi per esempio
conosciamo l’elemento della reiterazione di alcuni reati magari minori, perché
comunque lo spaccio di stupefacenti non è il reato più grave che esista, però
è un reato che tende ad essere facilmente ripetuto, come lo sono il furto, la
rapina. Ma questo perché dietro ci sono spesso dei ragazzi che in qualche modo
hanno “indossato un determinato vestito”, hanno indossato la maglietta del
rapinatore e trovano che quella maglietta complessivamente gli sta bene, cioè
si sentono piuttosto bene con quella identità lì, e allora se si sentono bene
in quella identità, in quel ruolo all’interno del mondo che hanno intorno,
diventa difficile togliergliela, convincerli a cambiarla con un’altra. Ecco
perché da quel punto di vista loro sono più pericolosi socialmente rispetto ad
altri.
Io
credo che si possa in qualche modo decidere di essere più severi o meno severi,
ma mi viene molto difficile per il mestiere che faccio collegare questa maggiore
o minore severità ad elementi predefiniti come il tipo di reato, anche perché
una volta che io vado ad applicare la messa alla prova in un numero di casi che
è abbastanza vicino al 50 per cento, io non entro neanche nel merito di un
concetto, che è quello della punizione. Non è una punizione la messa alla
prova, non è previsto che la messa alla prova contenga in sé nulla che debba
essere afflittivo, quando io stabilisco cosa deve fare un minore in messa alla
prova, io non devo farlo soffrire, non devo mettere dentro degli elementi
punitivi, no io devo solo assicurarmi di cambiare le condizioni grazie alle
quali tu hai commesso questo reato, in modo che tu non sia più spinto a
commetterne degli altri. Devo cambiare la scenografia che stava dietro quando tu
hai fatto da attore di questa tua rappresentazione e ti è sembrato di fare
bella figura quando hai commesso questo reato. Se io cambio il tuo pubblico,
cambio le tue condizioni, cambio le cose che stanno dietro, forse non ti verrà
più in mente di commettere un reato nel futuro. È questo il concetto di fondo.
A.
B.: Certo è già punitivo per
un ragazzo portarlo a dover ammettere il suo reato.
Mauro
Grimoldi: La responsabilità è almeno dire, o meglio poter ammettere che
tu in quel luogo anche emotivo c’eri. Quindi in quella posizione li, in quella
situazione lì, c’eri ed eri tu e hai deciso di esserci, o meglio “hai
deciso” già è troppo, tu però c’eri. Non so se vi ricordate quel caso di
un ragazzo che era andato a commettere una rapina in una tabaccheria assieme ad
un gruppo di altri tre, e lui doveva stare a fare il palo fuori dal tabaccaio.
Anzi in realtà doveva assicurarsi che il tabaccaio non scappasse e per lui era
la prima volta, poi questo tabaccaio ha cercato di scappare e lui era lì con un
coltello, e si è rischiato un reato gravissimo.
Però
vedete non è il fatto che quella fosse alla fine una tentata rapina, quindi un
reato non gravissimo, o un omicidio, perché in fondo la cosa è la stessa, cioè
lì l’importante sul piano della responsabilità e sul piano della
recuperabilità è che il ragazzo ammetta che è arrivato lì, è che lui in
quella situazione lì c’era e che quello poteva anche essere un omicidio, non
lo è stato ma poteva esserlo.
A
quel punto la distinzione tra un reato minore e un reato gravissimo diventa
qualcosa di impalpabile, non tutto è così razionale, non tutto è così una
decisione che hai preso, perché a volte ti ritrovi in un guaio gigantesco che
poteva essere una sciocchezza, quel ragazzo si è ritrovato in una sciocchezza
che poteva essere un guaio gigantesco.
Tutto
questo è dipeso da un istante, perché se lui fosse stato un po’ più
nervoso, un po’ più agitato o lo avessero caricato un po’ con una frase in
più detta in macchina mentre lui arrivava lì, magari quel coltello invece di
lasciarlo cadere lui lo usava davvero, sapendo che i suoi amici erano lì a
guardarlo e che per lui era la prima volta e doveva farsi vedere capace di fare
questa cosa.
Ornella
Favero: Tu hai detto che molti reati dei minori nascono da un senso di
insicurezza, che poi il gruppo attutisce, e per questo è più facile che nel
gruppo si commettano reati frutto di decisioni prese senza pensare alle
conseguenze. Dalle tue considerazioni sono venute fuori due componenti
interessanti: il senso d’insicurezza e l’irrazionalità del non pensare
prima alle conseguenze.
Quando
i ragazzi che incontriamo nelle scuole ci chiedono il senso del nostro progetto,
noi diciamo che è un po’ un allenamento a pensarci prima, credo che
l’elemento di novità sia che questo progetto interviene sul piano della
prevenzione partendo dal racconto diretto di un’esperienza, quella dei
detenuti, che li coinvolge sul piano emotivo, che gli arriva allo stomaco.
Solitamente a scuola entra un esperto e tratta l’argomento in modo razionale,
rivolgendosi quindi alla testa dei ragazzi, cercando di farli ragionare. Ma un
conto è spiegare in astratto gli effetti delle droghe, un conto è incontrare
una persona che a causa della droga ha commesso un reato ed è finita in
carcere, misurarsi con la devastazione che la tossicodipendenza ha comportato
nella sua vita. La testimonianza mette i ragazzi di fronte al fatto che certi
comportamenti si pagano e duramente, quindi uno arriva solo in un secondo
momento a riflettere sulla pericolosità di certi percorsi, dopo essere stato
prima coinvolto sul piano emotivo.
Mauro
Grimoldi: Sicuramente l’esperienza diretta d’incontro con voi mi
sembra l’aspetto più interessante, perché permette di uscire da quella che
io chiamo “la retorica del mostro”, cioè l’idea che i crimini siano
commessi da persone strane, diverse, che non sono neanche proprio degli esseri
umani, sono l’omicida, lo stupratore, che non hanno un viso, non hanno una
storia. La retorica del mostro semplifica la vita, perché allontana dalla
propria persona la possibilità di compiere certi gesti che sembrano molto
lontani. Grazie al vostro progetto i ragazzi incontrano delle persone vere, che
hanno una storia di vita, spesso sofferta, e raccontano com’è capitato a loro
che le cose siano andate in quella maniera lì e li aiutano a capire che a volte
le cose possono andare in modo diverso da come ci si aspetta, dal progetto di
vita che si era fatto.
L’altro
aspetto fondamentale della prevenzione è che siccome noi stiamo parlando di
ragazzi che dentro conservano un nucleo di grande fragilità, indipendentemente
dal fatto che fuori abbiano vestito la maglietta del trasgressivo, allora noi più
li facciamo parlare, raccontare e tirare fuori le loro paure, i loro timori, le
loro angosce rispetto al futuro, più stiamo facendo qualche cosa di comunque
buono per loro.
Questa
generazione è più fragile di quella che è venuta prima e quella di prima era
più fragile di quella che era venuta prima ancora, questo perché ci stiamo
muovendo verso una cultura educativa più affettiva, che regala delle infanzie
meravigliose ai nostri bambini, ma regala delle adolescenze complicate in cui i
primi ostacoli, i no da parte dei genitori, i risultati negativi a
scuola, una storia d’amore finita male, a volte colgono i nostri ragazzi molto
impreparati, le prime frustrazioni li trovano veramente sgomenti ed è di fronte
a questo che a volte si armano e vanno
in lotta contro il mondo sociale che hanno intorno.