Incontro con Mauro Grimoldi, psicologo che si occupa di devianza minorile

Come liberarsi dalla “retorica del mostro”

È l’idea dominante che i crimini siano commessi da persone strane, diverse, che non sono neanche proprio degli esseri umani, sono l’omicida, lo stupratore, che non hanno un viso, non hanno una storia

 

a cura della Redazione

 

Mauro Grimoldi, psicologo che si occupa di devianza minorile, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, lavora come perito per il tribunale dei minori di Brescia. È autore di Adolescenze estreme, un libro che è particolarmente interessante e indicato per trattare i temi che ci sono più cari, soprattutto in relazione al nostro progetto con le scuole, che ci fa incontrare continuamente ragazzi giovani e ragionare sui reati e su come si arriva a commetterli. È stato uno dei relatori al convegno, organizzato da Ristretti Orizzonti, Prevenire è meglio che imprigionare”, dedicato alla prevenzione dei reati, poi è tornato in redazione per rispondere alle nostre domande.

 

Marino Occhipinti: Cosa succede quando un minore commette un reato e viene affidato al suo intervento?

Mauro Grimoldi: Io lavoro nell’ambito del penale minorile, nello specifico sono il responsabile di un servizio di consulenza psicologica che riguarda in particolare un gruppo di colleghi psicologi che lavorano con i minori che commettono reati nel territorio della Corte di Appello di Brescia. Quando un minore commette un reato in quest’area viene arrestato e fa il percorso previsto in questi casi. Voi sapete che la giurisprudenza penale minorile prevede come sua parte essenziale un passaggio che non esiste invece per gli adulti, ovvero la necessità di raccontare chi è il minore che ha commesso un reato. Se commetti un reato da adulto, la giurisprudenza dice che in qualche modo come persona sei più costruito, cioè hai avuto la possibilità di deciderlo con maggiore consapevolezza. Se lo commetti da minorenne, vieni considerato come una personalità più plastica, si pensa che tu abbia più possibilità di modificarti in un tempo breve, e quindi oltre al peso che comunque ha il reato commesso, vengono considerati altri fattori, fra cui la valutazione della personalità del suo autore.

Io e i colleghi che lavorano in questo settore serviamo a raccontare al magistrato chi è quel ragazzo e quindi abbiamo il compito di rappresentare le ragioni per cui quel ragazzo ha trovato in un certo momento della sua vita conveniente, perché è evidente che in un certo senso il ragazzo deve sentirlo come conveniente, commettere un reato. Anche se fosse solo per un istante, però quello è l’istante in cui viene presa una decisione che poi peserà per sempre nella vita di quel ragazzo.

 

Franco De Simone: Il numero dei minori in carcere sta aumentando, in quale misura pesano fenomeni come il bullismo nella commissione di reati?

Mauro Grimoldi: Il bullismo secondo me è una realtà a cui si è data un po’ troppa importanza, è un fenomeno che esiste e consiste soprattutto nel fatto che noi tutti siamo, quando andiamo a scuola, quando viviamo il nostro periodo evolutivo, quando siamo molto giovani, sottoposti a una sorta di competizione, anche solo per il voto, quel meccanismo per cui ci danno un voto a scuola a seconda della prestazione che eroghiamo, e che determina un clima fondamentalmente competitivo.

C’è chi all’interno di questa competizione si trova a suo agio, si sente vincente, magari è realmente un vincitore, c’è chi invece si sente di poter avere più chance se la competizione avviene con regole diverse da quelle. Se forse in quell’ambito le regole sono quelle per cui io mi ritrovo a non essere uno dei migliori, a non risultare vincitore, allora cercherò di spostare il campo della competizione su un altro territorio e vedere chi è più forte, chi è in grado di sopraffare l’altro, di farsi rispettare. È troppo riduttivo quindi parlare solo di bullismo, occorre ampliare un po’ tutto il discorso e considerare un certo tipo di disagio, ovvero la sensazione di non farcela, di non essere all’altezza, di non avere tutte le carte in regola per potersela giocare alla pari con gli altri, e questo si trasforma nella voglia di cambiare le regole del gioco.

 

Elton Kalica: Chi di noi sta in carcere da parecchi anni ha visto negli ultimi tempi un mutamento nella composizione della popolazione detenuta, nel senso che ci sono sempre più ragazzi giovani. Ci piacerebbe capire chi sono e da dove provengono i minori che hanno a che fare con la giustizia.

Mauro Grimoldi: Un cambiamento c’è ed è assolutamente significativo. Innanzi tutto voi sapete che la carcerazione per quanto riguarda i minorenni è una possibilità assolutamente residuale, in Lombardia esiste un unico carcere minorile, il Beccaria di Milano, dove ci sono una sessantina di ragazzi. Perché un minorenne finisca in carcere occorrono tutta una serie di circostanze concomitanti ed è molto difficile che tutte si realizzino.

La popolazione dei minori che delinquono si sta modificando molto. Nell’immaginario collettivo il ragazzo che commette un reato proviene necessariamente da una situazione di disagio, da una situazione problematica, da una famiglia che ha dato un cattivo esempio o che ha fatto mancare qualcosa, in molti casi si è poi convinti che a commettere i reati siano i minori stranieri. La realtà è diversa. I reati più gravi sono commessi da minorenni italiani, mentre i reati meno gravi vengono commessi in prevalenza da stranieri. Ai minori comunque sono concesse tutta una serie di misure che tendono in qualche modo ad evitare l’esperienza della reclusione. Una di queste, utilizzata molto spesso, si chiama messa alla prova, ed è uno strumento grazie al quale il minore, ad un certo punto del procedimento, può chiedere, attraverso il proprio legale, che il procedimento venga interrotto. Al minore è concesso cioè dire “Io sono responsabile, ho sbagliato, mettetemi alla prova”, chiedendo che il giudice fissi un periodo di tempo durante il quale poter dimostrare il proprio ravvedimento. In questo periodo subentro io, tenendo sotto osservazione il minore che deve rendere conto non soltanto alle persone a cui rende conto di solito, quindi tendenzialmente ai genitori, ma ai servizi sociali. Quindi il minore deve parlare anche con loro, e raccontare che cosa gli succede. La messa alla prova è un atto di reciproca fiducia, dico sempre ai ragazzi con cui lavoro che da quel momento in poi l’aspetto importante è che se commettono uno sbaglio lo vengano subito a raccontare; cioè noi non dobbiamo venire a sapere da altri se sei stato fermato con una certa quantità di sostanza, oppure ubriaco mentre guidi un motorino, no assolutamente, perché se lo veniamo a sapere prima da te la situazione è molto diversa, cambia moltissimo.

Voi capite che le redini sono molto più sciolte rispetto a quello che accade nel mondo dell’adulto, in questo caso è importante che si possa ragionare in termini di reciproca fiducia, se io mi rendo conto che mi posso fidare di un ragazzo, ritengo anche accettabile che possa commettere un piccolo errore durante il suo percorso.

È chiaro però che se uno reitera costantemente il reato, perché in qualche modo sente che quella è la sua scelta di vita, una scelta anche inconsapevole, rispetto alla quale comunque non riesce a fermarsi, allora il discorso va affrontato in un altro modo. La messa alla prova rimane un’opportunità per dare una reale, concreta seconda possibilità, e oltretutto, se ha un esito positivo, c’è la cancellazione del reato dalla fedina penale, quindi uno si ritrova pulito, e può andare in qualche modo avanti a fare un proprio percorso di vita come se nulla fosse accaduto.

 

Marino Occhipinti: Per far fronte al sovraffollamento delle carceri si è cominciato a parlare anche della messa alla prova per gli adulti, che hanno commesso un reato che preveda una pena sotto i tre o quattro anni, non si sa bene ancora. Però ovviamente per gli adulti è un campo tutto da esplorare, quindi una riflessione su questo può essere interessante per chi ci legge.

Mauro Grimoldi: La messa alla prova è uno strumento potentissimo se ben utilizzato, deve infatti partire da un presupposto indispensabile, che io sappia perché una persona ha commesso quel particolare reato. Ma questo non è un passaggio facile, cioè se io lo chiedo a voi che avete avuto magari un tempo significativo, a volte lungo, per fare una riflessione su questo tema, penso che alcuni siano effettivamente in grado di rispondere a queste domande. Ma un ragazzo di quattordici o quindici anni è in grado di spiegami il perché? Di solito no, di solito non ha assolutamente l’idea del perché si è trovato in una certa situazione, di solito dice cose del tipo “mi piace fare questa cosa, guadagno dei soldi, mi trovo meglio, sono meglio inserito nel gruppo”. Però uno step in più tocca farlo dall’esterno, è questo un po’ il compito che abbiamo noi psicologi, quello di individuare le ragioni, quello di dire: questo ragazzo, per esempio, ha un assoluto bisogno di dimostrare le proprie capacità, di far vedere che è in grado di manipolare il proprio ambiente, e quindi il reato gli serve proprio per avere la possibilità di dimostrare queste capacità.

Quanti ragazzi entrano in un gruppo delinquenziale, per esempio, per dimostrare di avere un’abilità, ma un’abilità di qualsiasi tipo, una abilità di riuscire a farla franca, di mostrarsi al gruppo come quello che è capace di fare una determinata cosa? Una situazione di questo genere ti regala un’identità: tu sei quello che fa casino, che crea problemi, tu sei il grande trasgressivo, magari tu sei anche quello che con le ragazze ha un rapporto di un certo tipo, perché vieni considerato un duro, quello più sgamato. Ecco allora che una certa competizione, che magari sul piano delle prestazioni scolastiche e della produttività è perdente, invece può essere vincente in un altro ambito.

Allora noi a un ragazzo di questo tipo dobbiamo dare comunque la possibilità, attraverso la messa alla prova, di sfidare l’ambiente e sfidarlo in un certo modo e sentirsi vincitore. Come lo possiamo fare? Uno dei tanti esempi che si possono portare per spiegare uno dei motivi che potrebbero stare dietro a un qualunque comportamento delinquenziale, è quello di un ragazzo che commette dei furti.

Ne ho conosciuti diversi con questo tipo di dinamica alle spalle, con il bisogno di dimostrare di essere capace di farlo, di essere bravo a mettere in scacco la società attraverso i propri comportamenti e “restaurare” così la propria autostima.

In questo caso una buona messa alla prova non è chiaramente solamente quella di dire “va’ a fare un po’ di attività socialmente utile”, come talvolta si fa, assolutamente no. Dobbiamo trovare qualcosa che abbia lo stesso sapore dell’esperienza trasgressiva, per esempio in questo caso io devo permettere a questo ragazzo di sfidare il proprio ambiente. Come lo posso fare?

Una attività non antisociale che abbia questo sapore può essere costituita dallo sport estremo. Ad un ragazzo che commetteva dei furti proprio con questo tipo di dinamica, quando mi ha chiesto cosa avrebbe potuto fare durante la messa alla prova, ho risposto “Io ti butterei giù da un aeroplano, per quanto mi riguarda, altro che attività socialmente utile”. Non mi credeva, ma io l’ho buttato veramente giù, gli ho fatto fare un corso di paracadutismo, in cui questo ragazzo si è trovato molto bene. Il concetto della messa alla prova è un vestito su misura, non un vestito comprato ai grandi magazzini che è uguale per tutti, ma un vestito fatto apposta su di te in base alle motivazioni per cui tu hai commesso quel reato. Ciò comporta, e questo è il punto difficile, la presenza di qualcuno che lavora con te, con cui si possa parlare e arrivare insieme a dirsi “io ho commesso un reato per questo motivo”.

Allora io devo farmi carico di questo, però devo anche cercare qualche cosa di non socialmente dannoso con cui possa essere sostituito questo tassello, ma che mi dia le stesse soddisfazioni, altrimenti non funziona, perché io non smetto di commettere le stesse azioni se non trovo qualche cosa in cambio che possa essere effettivamente valido. Per questo la messa alla prova è costosa in termini di risorse, cioè io devo trovare della gente competente con cui devo avere la possibilità di lavorare un certo numero di ore e con cui posso arrivare a darmi delle buone risposte.

 

Marino Occhipinti: Se questo si dovesse fare nell’ambito della giustizia per gli adulti, per cui le risorse economiche sono molto ridotte, la possibilità di una buona riuscita della messa alla prova diventa allora remota?

Mauro Grimoldi: Se io come Stato, come società civile, mi metto nell’ottica di lavorare sulla prevenzione di un futuro reato da parte di chi ne ha già commessi in precedenza, allora io dovrei lavorare con strumenti come la messa alla prova in modo diverso, non con le tre ore di volontariato il sabato… Perché così non servirebbe.

Lo Stato dovrebbe entrare nell’ottica che tutto ciò che è prevenzione, rispetto a cui la messa alla prova è uno strumento fondamentale, che si riferisca ad adolescenti o adulti, per funzionare richiede l’investimento di notevoli risorse economiche, che sono comunque inferiori rispetto a quello che viene a costare una persona che commette un reato, ai costi di una recidiva, che comporta l’esigenza di prendere una persona e collocarla all’interno di una struttura carceraria come questa, con costi non solo in termini economici… È frustrante sapere di avere gli strumenti per prevenire la recidiva e non essere nelle condizioni di poterli utilizzare in maniera diffusa. È essenziale tenere presente che punizione e prevenzione sono due ambiti differenziati e che oltre a punire dobbiamo prevenire, se vogliamo ottenere la possibilità che in futuro ci siano un po’ meno problemi.

 

Elton Kalica: Noi facciamo degli incontri con studenti delle scuole superiori, che vengono all’interno della redazione, e spesso ci troviamo di fronte a dei ragazzi che ci chiedono: “Ma scusa, non potevi pensarci prima?”. C’è questo luogo comune, questa idea diffusa tra i ragazzi, che dietro ad ogni atto ci sia una consapevolezza, una scelta razionale, se tu lo hai fatto è perché sei stato tu a volerlo, quindi le condizioni in cui ti trovi adesso sono quelle che meriti.

Mauro Grimoldi: Secondo me i ragazzi che dicono così stanno prendendo le distanze, nel senso che stanno dicendo “a me non può capitare” e questo li rassicura, li fa stare meglio. In realtà assolutamente no, non c’è nessuna razionalità nel comportamento dei minori che commettono reati.

Io talvolta penso che, soprattutto nei reati di gruppo, se io prendessi dei ragazzi che stanno per andare a commettere un reato e avessi la possibilità di metterli in una stanza, non in presenza di un adulto che gli rompe le scatole, del poliziotto o di un’altra figura di controllo, ma da soli a discutere per dieci minuti del reato che stanno andando a compiere, questo reato non si verificherebbe. Questo per spiegare quanto spesso il reato, almeno per i minori, sia nel dominio dell’irrazionale, di quella parte di noi che non conosciamo e che ci fa compiere delle azioni anche orribili.

La settimana scorsa ho visto un ragazzo, che sto seguendo, con un taglio che partiva dalla fronte e arrivava sulla faccia, mi ha spiegato che era uscito una sera, un suo amico si è ubriacato, c’ha provato con una ragazza e poi è andato a provocare gli amici di lei, che erano numerosi, una decina. Questi hanno reagito ed è venuta fuori la classica rissa. Mi ha spiegato di essere intervenuto, mentre gli altri che erano con lui non lo hanno fatto, perché, anche se consapevole che il suo amico aveva torto, non sarebbe mai riuscito la mattina dopo a guardarsi allo specchio e pensare che non l’aveva difeso. “Io dovevo intervenire, perché non sono un vigliacco, non ho paura, non sono una femmina”.

La sera della rissa, in mezzo al caos, in mezzo al frastuono della musica in discoteca, non ha pensato a niente, si è semplicemente buttato, perché sentiva che andava bene così, e dopo mi ha detto che anche se avesse perso un occhio ne valeva la pena. Neppure in un momento successivo, quindi, è riuscito a prospettare un diverso comportamento per la situazione in cui si era trovato coinvolto. Non c’è niente di razionale nel reato minorile, niente: ci si trova a vivere un’esperienza in modo automatico e le spiegazioni si riescono a dare solo in un secondo momento. Raramente c’è una decisione, se può definirsi tale.

 

Franco Garaffoni: Ma se io prendo un territorio del sud, ad esempio Scampia, posso constatare che dietro i reati dei minori in molti casi c’è una scelta ben precisa, razionale. Io non credo che un minorenne che è cresciuto in una famiglia dove ha visto il padre arrestato, dove ha vissuto di pane e criminalità, una volta che gli viene offerto di andare a spacciare per guadagnare di più, non faccia una scelta ben precisa.

Mauro Grimoldi: Da un lato lei dice che in un certo territorio ci può essere un radicamento tale della delinquenza, per cui ci sono più probabilità che possa configurarsi una scelta di tipo criminale anche da parte di un minore, ma poi aggiunge che sono i genitori con le loro scelte delinquenziali ad avere un peso determinante. Attenzione però, oggi non è più come il tempo in cui quasi tutti i minori che commettevano un reato provenivano o da famiglie disgregate, con dei problemi gravi, che in qualche modo avevano dato un esempio che si avvicinava a quello delinquenziale, o che non erano state in grado di prendersi cura dei bambini in maniera adeguata.

Adesso, almeno il cinquanta per cento dei ragazzi che arrivano a delinquere non si trovano in situazioni di quel tipo. Ma anche per quelli che in qualche maniera sono vissuti in un ambiente criminogeno, quindi in un mondo dove “lo fanno quasi tutti”, questo è razionale? Io dico di no, nel senso che se ho dei genitori che fin da quando ero piccolo si comportano in un certo modo e loro diventano degli esempi di una vita possibile, e poi vedo che anche intorno a me le cose funzionano così e quindi ho ulteriormente degli incentivi a pensare che sia l’unico modo di condurre la vita, allora io automaticamente sento che quella roba lì può andar bene.

 

Elisa Nicoletti (volontaria): Io lavoro come educatrice con i ragazzi e dalla mia esperienza vedo che ci sono delle logiche legate all’orgoglio e quindi all’idea di non tornare indietro rispetto alle proprie decisioni, senza porsi mai un limite. È proprio l’orgoglio che induce a continuare a seguire una strada che può sfociare in qualsiasi cosa, pur di non ammettere le proprie difficoltà.

Ornella Favero: A me, quando hai raccontato la storia del ragazzo che è stato sfregiato in una rissa e che ha agito in un certo modo per orgoglio, per senso dell’amicizia o per esaltazione di certi valori, il punto centrale è parso la considerazione che la trasgressione a volte ti regala un’identità, un ruolo dentro al gruppo. Quindi mi interessava capire con quali strumenti si può far leva su un ragazzo, perché questa idea del gruppo e della trasgressione non diventi prioritaria su tutto.

Mauro Grimoldi: Noi tutti abbiamo un pubblico, cioè non siamo mai da soli. Anche quando la decisione di buttarsi in una rissa è automatica, noi comunque ci sentiamo circondati da una serie di persone che ci guardano, magari sono gli amici che in quel momento sono lì presenti e che vedono cosa noi facciamo, magari c’è una ragazza che abbiamo appena conosciuto e con la quale ci teniamo a fare un certo tipo di figura.

Il problema dell’identità è questo, da ragazzi soprattutto si dà grandissimo valore a tutto questo, perché ancora non si sa bene chi si è, si stanno facendo degli esperimenti: il giorno prima uno si presenta a scuola normale, il giorno dopo ha il piercing o si veste in un certo modo, per vedere gli altri che cosa dicono, insomma per guardarsi attraverso lo sguardo dell’altro. Se tu frequenti delle persone che quando tu ti comporti in un certo modo ti rispondono in modo positivo, cioè ti sostengono e ti dicono che se fai così va bene e tu stai bene, non c’è alcun dubbio sul peso che questo può avere sulla tua condotta.

Però attenzione, una cosa importante è da un lato ricordare ai ragazzi che esiste un proprio pubblico, dall’altro che siamo tutti diversi, cioè non è che le reazioni che ci attendiamo dal nostro pubblico sono identiche. Le persone cioè si differenziano proprio in base al comportamento automatico che in certe situazioni viene fuori e che nasce dal fatto che una persona sia più o meno sensibile a determinati stimoli. Quando in una festa una certa ragazza sembra che “ci stia” un po’ di più, all’interno del gruppo che le si avvicina qualcuno diventa un po’ minaccioso, la stringe in un angolo e la porta in un’altra stanza, qualcun altro se ne va, magari imbarazzato da questo comportamento, perché sente che sta per succedere qualcosa che non va bene, che non deve accadere, e prova inquietudine. Si tratta di persone nella stessa identica situazione, rispetto alla quale si pongono in maniera diversa, solo in alcuni casi quindi si è costretti ad interrogarsi sui perché, soprattutto quando una circostanza, come quella descritta, porta al compimento di un reato.

Spesso sopravvalutiamo il fatto di essere in grado di controllare le cose che ci accadono, sopravvalutiamo la razionalità, però poi succede qualcosa, e questo qualcosa è nell’ambito del non razionale, del non prevedibile: ci innamoriamo di una persona che non è prevista nella nostra vita, per esempio. Come mai uno si innamora e perché si innamora di quel tipo di persona? Perché alcune donne si innamorano sempre di uomini violenti e vanno dallo psicologo perché vedono nella loro storia la stessa esperienza che continua a ripetersi? Perché hanno cominciato a capire che dietro questa situazione che ritorna, c’è una decisione che è stata presa inconsapevolmente, ma questo succede a tutti noi, non solo a chi commette dei crimini, o a chi si innamora di uomini violenti.

Se nella nostra vita delle cose continuano a succedere, in qualche modo noi possiamo essere sicuri che lì dietro c’è quella parte di noi stessi che noi non conosciamo, cioè quello che noi psicologi chiamiamo l’inconscio.

 

A. B.: Ma allora se ci si pone il problema della consapevolezza del reato, si dovrebbe arrivare alla conclusione che quando un reato è compiuto da una persona in maniera irrazionale, potrebbe essere considerato “depenalizzato”.

Mauro Grimoldi: Il concetto è un altro: comprendere è obbligatorio, giustificare sempre sbagliato.

È questo il punto: io devo capire il perché e questo mi crea a volte un problema, nel senso che se io mi avvicino a lei e lei mi racconta il reato che ha commesso, i suoi perché, ci conosciamo un po’, a un certo punto a me sembrerà che ciò che è avvenuto abbia il carattere di qualcosa di necessario, cioè qualcosa che è avvenuto perché in quel momento doveva succedere.

Questo è però l’aspetto della comprensione, la giustificazione non può essere ammessa, perché la giustificazione appartiene ad altro, cioè il dire se questa cosa è giusta o no dipende invece da come si pone una sua azione rispetto ai valori fondamentali su cui è fondata la società. Quindi è un altro punto di vista, ecco perché è diverso il lavoro dello psicologo, rispetto a quello del magistrato, del poliziotto, proprio perché serve a capire. Una volta che uno ha capito è in grado di essere in qualche modo per lei, non il suo avvocato, ma quello che traduce i significati dei suoi comportamenti, cioè quello che racconta ad un altro i perché e dice “è successo per questo motivo”. Non ci si deve però confondere tra questi due concetti mai, appunto comprendere è un obbligo, giustificare no.

 

Marino Occhipinti: Lei raccontava prima di quel ragazzo, irrazionale quando si è buttato nella rissa, irrazionale poi a continuare a difendere la sua posizione. Io credo che l’irrazionalità del prima sia una irrazionalità diversa da quella del dopo, perché a volte quella del dopo può essere utile, non dico a rendere giustificabile, ma almeno accettabile per te stesso quello che hai fatto.

Allora, siccome non vuoi ammettere che sei stato un po’ stupido, invece che dire “ho partecipato a questa rissa, ma che cretino sono stato”, sostieni convinto “no rifarei ancora così, ci lascerei pure un occhio io in quella rissa”. Io non ero sicuramente minorenne quando ho commesso i reati, però mi rendo conto che a volte nell’irrazionalità del dopo si scatenano tutta una serie di meccanismi.

Ad esempio io al processo sono “andato negativo” per sei anni, perché in quel momento la mia preoccupazione maggiore era quella di allontanarmi da un certo contesto, allora la mia irrazionalità nel dire “non l’ho fatto” era per difendere, non dico la mia immagine, ma per staccarmi dal quel contesto. Poi ho cominciato a dire “sì è vero”, però lo dicevo con la mia verità, perché ancora quella cosa non era accettabile, quindi c’è anche un percorso nell’irrazionalità del dopo. Mi ricordo anche che ai primi incontri con gli studenti dicevo: no, io non rispondo alla domanda “che cosa hai fatto, perché sei qui?”, poi piano piano ho cominciato a rispondere anche a quello, cioè è una serie di passaggi, l’irrazionalità non sempre è irrazionalità vera, pura, a volte è necessaria proprio per rendere accettabile o comunque per rendere meno doloroso a te stesso quello che hai fatto.

Mauro Grimoldi: Si, ci sono diversi tipi di irrazionalità, il ragazzo che il giorno dopo mi racconta le cose in questi termini “io avrei potuto anche perderci un occhio, ma mi andava bene così”, mi dà una mano, perché mi avvicina a capire le ragioni di un’apparente follia, mi aiuta a capire che lui si gioca un’immagine di forza, di virilità, in un gesto che lui sente come necessario. Quindi, il fatto che lui continui ad essere irrazionale mi aiuta a fare un passo avanti nel cammino della comprensione. Diverso è invece tutto l’edificio che si crea intorno alla fase processuale, dove entrano in gioco anche altre persone, nel caso dei minori prepotentemente entrano in gioco i genitori. I genitori tendono a giustificare sempre, così, quando devo incontrare dei genitori di ragazzi che hanno commesso un reato grave, ho bisogno di parlare prima con i ragazzi, in modo che quando poi i genitori mi dicono “ma sì, non è successo niente, è una stupidata, lui non c’entra nulla”, gli posso ribattere che il figlio ha detto una cosa diversa.

È più facile che il ragazzo ammetta le cose che sono avvenute e si riconosca responsabile, piuttosto che lo faccia il genitore, perché ammettere la responsabilità del figlio mette potentemente in crisi la posizione di genitore, lo fa sentire un cattivo genitore e guasta l’immagine del figlio, quindi in qualche modo ci sono due elementi complessi al posto di uno. Invece il ragazzo sente che quella cosa lì è risultata possibile, lo sa, c’era, è stato testimone di qualcosa di vivo, di vero, sa che è avvenuto in un certo modo e quindi ad un certo punto si tratta soltanto di ammettere quello che ha fatto e, considerato che l’identità da qualche parte gioca in senso positivo, a volte lo ammette anche in maniera quasi spudorata.

Quindi bisogna poi dire “fermati, basta”, perché i ragazzi avrebbero talmente voglia di raccontarti e sono a volte così orgogliosi delle loro trasgressioni… Invece tutto quello che accade durante il processo spesso, soprattutto nei reati gravi, va in direzione di mascherare, di dire “non sono stato io”, e in questo atteggiamento giocano molto i genitori e gli avvocati, perché dopo un po’, a furia di sentirti raccontare una certa versione, credi di più a quello che ti è stato raccontato rispetto a quello che hai vissuto. Comincia ad esserci una realtà diversa, la realtà cosiddetta processuale, che inizia a diventare una tua verità e tu ti dimentichi che quella roba lì l’hai vissuta tu e quindi lo sai come sono andate veramente le cose. Se vai a sentire i ragazzi che hanno commesso un reato grave, magari dopo due, tre anni la loro versione comincia ad essere molto diversa da quella che ti hanno raccontato la prima volta.

 

Lucia Faggion: Certo come genitori si fa fatica ad ammettere la responsabilità rispetto al figlio, perché appunto ci si sente smarriti. Se un genitore arrivasse a capire ed accettare che non deve essere un genitore perfetto, ma che fa quello che può e che è importante il confronto, allora arriverebbe ad essere veramente un genitore che collabora anche con l’istituzione, che sia lo psicologo o che sia altro, senza paura, e quindi mettendo in discussione il proprio ruolo, perché semplicemente avrebbe accettato una relazione con gli altri.

Mauro Grimoldi: Io non lo so che cosa potrebbe accadere se un giorno mia figlia commettesse un reato, forse la difenderei anch’io come ho visto difendere i propri figli da tutti i genitori che ho incontrato, tanto è vero che non ho assolutamente un sentimento negativo nei loro confronti, ormai ho capito che funziona così, li comprendo.

Anche quando la stampa li attacca, a volte succede, magari quando ci sono omicidi, quando ci sono reati molto gravi, i genitori comunque si schierano dalla parte dei figli. Forse questo evento che è una cosa gigantesca, enorme, pazzesca, un cataclisma che capita nella vita di un ragazzo, in qualche modo richiama a sé una funzione primaria, che è quella che rende indispensabile la propria presenza quando le cose vanno male, quando succede un disastro e il figlio implora “Aiuta me adesso, perché sono io che in questo momento non so più che cosa fare, è successa questa cosa, vieni da me e da nessun altro”. Allora lì si ricrea quell’unità che in qualche modo esiste tra genitori e figli, a prescindere da qualunque altra considerazione.

La prossima settimana per esempio, devo andare a fare un incontro con una comunità delle valli del bresciano, un piccolo paese in un piccolo territorio in cui è avvenuto un abuso sessuale commesso da un gruppo di adolescenti, e questa comunità, soprattutto i genitori, ma anche alcuni dei lori amici, è schierata abbastanza dalla parte degli abusanti. Quindi li incontriamo per capire perché si è verificata questa situazione, ma non sarà facile.

 

Elton Kalica: Io vorrei che ci soffermassimo sui reati che hanno a che fare con la violenza sessuale. Quando incontriamo i ragazzi delle scuole a volte è successo che qualcuno di loro dica: va bene tutto, ma io i sex offenders li odio, dovrebbero stare in carcere a vita.

Poi ci siamo accorti che spesso la violenza sessuale accade proprio nel mondo dei giovani, quindi a noi sembra interessante capire quali sono i meccanismi che portano così tanti giovani a commettere questo tipo di reato e portano però gli stessi giovani a considerarlo il peggiore dei crimini.

Mauro Grimoldi: Intanto facciamo una distinzione e diciamo che stiamo parlando di uno dei due tipi di reato sessuale, nel senso che un tipo di reato sessuale è quello “individuale”, cioè quello che uno compie da solo. Di solito avviene in un contesto vicino a quello famigliare, spesso ha per sua vittima un altro componente della famiglia, più giovane, quindi una sorellina, qualcuno che abita vicino, e lì di solito il disordine è di tipo psicologico, relazionale, è da esaminare caso per caso.

Però la stragrande maggioranza dei casi di cui mi stai parlando si riferisce agli abusi di gruppo. Va precisato che dove c’è un abuso di gruppo commesso da minorenni, di solito c’è una vittima che in qualche modo è un po’ una vittima predestinata, nel senso che è una ragazza cha ha avuto un comportamento che fa pensare agli altri che sia a disposizione loro, erroneamente intendiamoci, però una ragazza che ha una certa facilità ad avere molte relazioni. Si tratta di un tipo di persona che usa la propria sessualità per essere presente nell’immaginario del gruppo in un certo modo, che ha sperimentato la potenza pazzesca che ha il corpo femminile rispetto ai propri coetanei di sesso maschile e usa quella forza per sentirsi importante, per sentirsi presente.

I ragazzi del gruppo la pensano come quella, passatemi il termine, che ci sta facilmente e a lei sentono ad un certo punto di non dover più chiedere un permesso, e questo è gravissimo.

Non tutti i ragazzi sono eguali però, faccio l’esempio di una festa, in cui è avvenuto effettivamente che una ragazza si sia parzialmente spogliata ed è rimasta li a ballare insieme agli altri. Qualcuno è andato via, qualcuno è rimasto, un gruppetto si è avvicinato… Chi è che si avvicina? Sono una tipologia molto precisa, di solito quelli più vicini ai 14 anni, chi ha intorno ai diciotto anni non si avvicina alle ragazze che si propongono in questo modo, ha altre modalità, altri canali. Chi si avvicina sono i ragazzi più giovani, di solito ragazzi che hanno una scarsa scolarità, spesso con dei problemi anche di tipo cognitivo, comunque molto giovani e che è una delle prime volte che sperimentano la sessualità. Loro molto probabilmente sono quelli che decidono che quella situazione lì può andar bene per trasformare la sessualità in un gioco, per arrivare più velocemente a questa prima esperienza. Perché ricordiamoci che il sesso, per un ragazzo di quattordici, quindici anni, è soprattutto una questione ancora una volta di identità. Cioè quando tu vai da un ragazzo di sedici anni che non ha ancora fatto sesso e glielo fai notare, lui sta male, perché si sente indietro, deve raggiungere gli altri. Se tu ancora non lo hai fatto e i tuoi amici sì, è un grosso problema.

Il sesso in adolescenza non è un problema libidico, non si tratta di godere di questa esperienza, si tratta di status, si tratta in prima istanza di quello che gli altri sanno di te. I ragazzi che hanno rapporti sessuali in questo modo andrebbero rieducati al piacere.

Se fossero educati alla dimensione del piacere non farebbero esperienze di questo genere, che non hanno nulla a che vedere con il piacere sessuale, nulla, però hanno molto a che vedere con il fatto di dover essere all’altezza, cioè di dover dimostrare che sono capace, che sono competente in queste cose, e quindi io ci devo essere, io devo essere lì e devo dimostrare di essere all’altezza. Però attenzione perché spesso finiscono male queste storie, finiscono male senza che si sia consumato un atto che è puramente sessuale, ma diventa un atto violento, perché l’aspetto principale non è libidico, ma narcisistico. Lì sì che può andare a finire male

Quello che manca è la fiducia di poter affrontare il sesso in tempi e modi normali, cioè se io penso che in fondo in un tempo normale io incontrerò una ragazza, che mi sento abbastanza tranquillo, forte, capace, e con lei potrò avere una esperienza sessuale, io non vado ad affrontare l’esperienza in questo modo. Se io però mi sento molto lontano da quella esperienza di cui ho sentito parlare, la vedo su internet, so che c’è questo mito del sesso, quando ancora siamo molto piccoli il sesso è un mito, io non so che cos’è, però so che chi c’è arrivato è qualcuno che è molto fortunato, è un iniziato, è uno che è arrivato a scalare l’ultimo gradino della scala. Se io la penso così, allora colgo qualsiasi occasione e quando ho la sensazione di non essere capace, di essere molto lontano dall’arrivare lì, penso che in fondo io devo trovare una strada alternativa, perché se cerco il sesso normalmente probabilmente non ci arriverò mai.

Alcuni ragazzi che vengono coinvolti in queste vicende a volte sono fidanzati, hanno una propria compagna, a cui non hanno il coraggio di chiedere nulla che abbia a che fare con la sessualità. Se sei un ragazzo così non chiedi perché ti senti sporco, perché pensi che le ragazze non abbiano gli stessi desideri che hai tu, perché ritieni di non essere abbastanza simpatico, abbastanza bravo, abbastanza competente, non vai bene per arrivare a fare quella esperienza lì.

Allora se trovi una ragazza che sembra disponibile ad una esperienza sessuale utilizzando uno strumento che ti è molto noto, che è quello del gruppo, che è quello della compagnia, che è quello dell’amicizia, tu ti infili dentro al gruppo e dici “mi metto dentro anch’io, così magari riesco a sistemare questa faccenda”. In realtà le cose andranno molto diversamente e tu sei molto a rischio.

 

Franco Garaffoni: A me sembra che le famiglie siano abbastanza lontane dai problemi del sesso, ancora oggi il papà, la mamma difficilmente parlano di sesso con i propri figli, allora se nella scuola se ne occupassero di più, della maturazione della sessualità del ragazzo, forse non sarebbe sbagliato.

Ornella Favero: Io penso che non sia solo un problema di sessualità, ma anche un problema di “educazione ai sentimenti”. Quando infatti i ragazzi delle scuole chiedono a un detenuto “ma perché non ci hai pensato prima”, in loro ancora una volta sui sentimenti prevale questo desiderio di razionalità. La razionalità è rassicurante, invece i sentimenti, gli istinti, quindi poi anche il sesso non sono rassicuranti, perché ti fanno sentire che non sei padrone fino in fondo di te stesso, che anche tu hai un lato oscuro che conosci poco e che ti fa paura.

Mauro Grimoldi: Credo che queste faccende abbiano a che fare con un grande senso di insicurezza, e il senso di insicurezza viene solo in parte attenuato da una corretta informazione.

Il senso di sicurezza o insicurezza viene accentuato o diminuito da un determinato clima di gruppo, perché i ragazzi si confrontano sul discorso del sesso non con i genitori e poco con la scuola, pochissimo con la televisione, moltissimo con gli amici, cioè è nel gruppo che si crea la sensazione di quello che è normale e di quello che non è normale.

Ecco perché i gruppi molto solitari, molto scissi da un gruppo più ampio a volte hanno dei comportamenti sessuali più anormali, più bizzarri. Quello che a noi interessa è che la persona che si sente sicura della propria capacità di vivere in modo naturale, fisiologico, rispondente ai propri desideri, l’esperienza sessuale, non commette reati sessuali di gruppo.

 

Elton Kalica: Di questi tempi, succede spesso che i media danno risalto a episodi di violenza di giovanissimi, e poi magari finisce che fanno una legge che aumenta la pene o tolgono qualche istituto di quelli previsti nel diritto minorile.

Mauro Grimoldi: Sarebbe totalmente sbagliato, sarebbe un provvedimento di chi non sa nulla di questi tipi di reati commessi dai minori e non si avvicina nemmeno lontanamente a comprendere il significato di quello che avviene. Si tratta di reati commessi da minori estremamente giovani, non pericolosi sul piano sociale, che hanno di solito una prognosi del proprio comportamento piuttosto positiva, ragazzi che hanno incontrato quella che per loro rappresentava una sorta di occasione, rispetto alla quale sono andati oltre, un po’ o tanto oltre a quello che gli è consentito.

 

Elton Kalica: Abbiamo visto, per esempio nei Paesi anglosassoni, che c’è stato un crescente abbassamento dell’età di punibilità dei minori. Ma quanto senso ha prevedere delle pene così elevate per i minori, questo fa davvero da deterrente? perché di solito si dice “così gli altri imparano”.

Mauro Grimoldi: Con i minori, ci dicono le regole di Pechino, ci dicono le regole applicate a livello europeo e per noi sicuramente la 448/88, che è la legge italiana che regolamenta la materia, noi dovremmo privilegiare tutti i ragionamenti che riguardano la recuperabilità, rispetto a quelli che riguardano la funzione retributiva della pena.

Se si privilegia la recuperabilità, bisognerebbe dire quanta probabilità c’è da parte di quel ragazzo di commettere nuovamente un reato. Noi per esempio conosciamo l’elemento della reiterazione di alcuni reati magari minori, perché comunque lo spaccio di stupefacenti non è il reato più grave che esista, però è un reato che tende ad essere facilmente ripetuto, come lo sono il furto, la rapina. Ma questo perché dietro ci sono spesso dei ragazzi che in qualche modo hanno “indossato un determinato vestito”, hanno indossato la maglietta del rapinatore e trovano che quella maglietta complessivamente gli sta bene, cioè si sentono piuttosto bene con quella identità lì, e allora se si sentono bene in quella identità, in quel ruolo all’interno del mondo che hanno intorno, diventa difficile togliergliela, convincerli a cambiarla con un’altra. Ecco perché da quel punto di vista loro sono più pericolosi socialmente rispetto ad altri.

Io credo che si possa in qualche modo decidere di essere più severi o meno severi, ma mi viene molto difficile per il mestiere che faccio collegare questa maggiore o minore severità ad elementi predefiniti come il tipo di reato, anche perché una volta che io vado ad applicare la messa alla prova in un numero di casi che è abbastanza vicino al 50 per cento, io non entro neanche nel merito di un concetto, che è quello della punizione. Non è una punizione la messa alla prova, non è previsto che la messa alla prova contenga in sé nulla che debba essere afflittivo, quando io stabilisco cosa deve fare un minore in messa alla prova, io non devo farlo soffrire, non devo mettere dentro degli elementi punitivi, no io devo solo assicurarmi di cambiare le condizioni grazie alle quali tu hai commesso questo reato, in modo che tu non sia più spinto a commetterne degli altri. Devo cambiare la scenografia che stava dietro quando tu hai fatto da attore di questa tua rappresentazione e ti è sembrato di fare bella figura quando hai commesso questo rea­to. Se io cambio il tuo pubblico, cambio le tue condizioni, cambio le cose che stanno dietro, forse non ti verrà più in mente di commettere un reato nel futuro. È questo il concetto di fondo.

 

A. B.: Certo è già punitivo per un ragazzo portarlo a dover ammettere il suo reato.

Mauro Grimoldi: La responsabilità è almeno dire, o meglio poter ammettere che tu in quel luogo anche emotivo c’eri. Quindi in quella posizione li, in quella situazione lì, c’eri ed eri tu e hai deciso di esserci, o meglio “hai deciso” già è troppo, tu però c’eri. Non so se vi ricordate quel caso di un ragazzo che era andato a commettere una rapina in una tabaccheria assieme ad un gruppo di altri tre, e lui doveva stare a fare il palo fuori dal tabaccaio. Anzi in realtà doveva assicurarsi che il tabaccaio non scappasse e per lui era la prima volta, poi questo tabaccaio ha cercato di scappare e lui era lì con un coltello, e si è rischiato un reato gravissimo.

Però vedete non è il fatto che quella fosse alla fine una tentata rapina, quindi un reato non gravissimo, o un omicidio, perché in fondo la cosa è la stessa, cioè lì l’importante sul piano della responsabilità e sul piano della recuperabilità è che il ragazzo ammetta che è arrivato lì, è che lui in quella situazione lì c’era e che quello poteva anche essere un omicidio, non lo è stato ma poteva esserlo.

A quel punto la distinzione tra un reato minore e un reato gravissimo diventa qualcosa di impalpabile, non tutto è così razionale, non tutto è così una decisione che hai preso, perché a volte ti ritrovi in un guaio gigantesco che poteva essere una sciocchezza, quel ragazzo si è ritrovato in una sciocchezza che poteva essere un guaio gigantesco.

Tutto questo è dipeso da un istante, perché se lui fosse stato un po’ più nervoso, un po’ più agitato o lo avessero caricato un po’ con una frase in più detta in macchina mentre lui arrivava lì, magari quel coltello invece di lasciarlo cadere lui lo usava davvero, sapendo che i suoi amici erano lì a guardarlo e che per lui era la prima volta e doveva farsi vedere capace di fare questa cosa.

 

Ornella Favero: Tu hai detto che molti reati dei minori nascono da un senso di insicurezza, che poi il gruppo attutisce, e per questo è più facile che nel gruppo si commettano reati frutto di decisioni prese senza pensare alle conseguenze. Dalle tue considerazioni sono venute fuori due componenti interessanti: il senso d’insicurezza e l’irrazionalità del non pensare prima alle conseguenze.

Quando i ragazzi che incontriamo nelle scuole ci chiedono il senso del nostro progetto, noi diciamo che è un po’ un allenamento a pensarci prima, credo che l’elemento di novità sia che questo progetto interviene sul piano della prevenzione partendo dal racconto diretto di un’esperienza, quella dei detenuti, che li coinvolge sul piano emotivo, che gli arriva allo stomaco. Solitamente a scuola entra un esperto e tratta l’argomento in modo razionale, rivolgendosi quindi alla testa dei ragazzi, cercando di farli ragionare. Ma un conto è spiegare in astratto gli effetti delle droghe, un conto è incontrare una persona che a causa della droga ha commesso un rea­to ed è finita in carcere, misurarsi con la devastazione che la tossicodipendenza ha comportato nella sua vita. La testimonianza mette i ragazzi di fronte al fatto che certi comportamenti si pagano e duramente, quindi uno arriva solo in un secondo momento a riflettere sulla pericolosità di certi percorsi, dopo essere stato prima coinvolto sul piano emotivo.

Mauro Grimoldi: Sicuramente l’esperienza diretta d’incontro con voi mi sembra l’aspetto più interessante, perché permette di uscire da quella che io chiamo “la retorica del mostro”, cioè l’idea che i crimini siano commessi da persone strane, diverse, che non sono neanche proprio degli esseri umani, sono l’omicida, lo stupratore, che non hanno un viso, non hanno una storia. La retorica del mostro semplifica la vita, perché allontana dalla propria persona la possibilità di compiere certi gesti che sembrano molto lontani. Grazie al vostro progetto i ragazzi incontrano delle persone vere, che hanno una storia di vita, spesso sofferta, e raccontano com’è capitato a loro che le cose siano andate in quella maniera lì e li aiutano a capire che a volte le cose possono andare in modo diverso da come ci si aspetta, dal progetto di vita che si era fatto.

L’altro aspetto fondamentale della prevenzione è che siccome noi stiamo parlando di ragazzi che dentro conservano un nucleo di grande fragilità, indipendentemente dal fatto che fuori abbiano vestito la maglietta del trasgressivo, allora noi più li facciamo parlare, raccontare e tirare fuori le loro paure, i loro timori, le loro angosce rispetto al futuro, più stiamo facendo qualche cosa di comunque buono per loro.

Questa generazione è più fragile di quella che è venuta prima e quella di prima era più fragile di quella che era venuta prima ancora, questo perché ci stiamo muovendo verso una cultura educativa più affettiva, che regala delle infanzie meravigliose ai nostri bambini, ma regala delle adolescenze complicate in cui i primi ostacoli, i no da parte dei genitori, i risultati negativi a scuola, una storia d’amore finita male, a volte colgono i nostri ragazzi molto impreparati, le prime frustrazioni li trovano veramente sgomenti ed è di fronte a questo che a volte si armano e vanno in lotta contro il mondo sociale che hanno intorno.