Quando
la scrittura può essere “ortopedica”
Se
ti spacchi una gamba con il gesso la rimetti assieme, se hai avuto una ferita,
hai avuto un trauma, puoi rimettere insieme i pezzi attraverso una scrittura che
dà il senso di quello che tu hai fatto, gli dà un valore
a cura della Redazione
È
un libro che abbiamo letto con passione, La Città dei Ragazzi, perché racconta
storie di giovanissime vite migranti, di perdita delle radici, di ferite e
traumi, di fatica di trovare nel nostro Paese un’accoglienza decente.
L’autore, Eraldo Affinati, che è scrittore, giornalista e insegnante proprio
alla Città dei Ragazzi, una struttura di accoglienza organizzata come una vera
città, compie un viaggio a ritroso, dall’Italia al Marocco, per accompagnare
due suoi studenti e capirne di più di quei ragazzini che se ne sono andati per
cercare una vita migliore e di quei genitori che li hanno lasciati andare.
Eraldo Affinati è stato ospite nella nostra redazione, in carcere.
Eraldo
Affinati: Io ho scritto questo libro,
La Città dei Ragazzi, basandomi su una mia esperienza, perché alla Città dei
Ragazzi insegno italiano e storia.
Immaginate
una città governata dai ragazzi, dove c’è un sindaco, un parlamento, una
banca, c’è una moneta locale, lo scudo, c’è una scuola statale, il
“Carlo Cattaneo” di Roma.
Io
perché sono andato alla Città dei ragazzi? Io sono un normale insegnante di
lettere, e però quando ho scoperto tutta questa città che assolutamente non
avrei pensato potesse esistere, mi sono appassionato a questa comunità
educativa, e ho chiesto al mio Preside di assegnarmi li, di andare ad insegnare
li. Ricordo la sua reazione perché fu particolare, lui mi disse: “Lei è il
primo insegnante che mi fa questa richiesta, perché quasi tutti gli altri
temevano di andare ad insegnare lì perché avevano un po’ paura del rapporto
con questi ragazzi”.
Questi
ragazzi sono in gran parte stranieri, sono minori non accompagnati, hanno dai 14
ai 18 anni e vengono da tutto il mondo. Per esempio ci sono dei ragazzi afgani
che praticamente sono venuti a piedi dall’Afganistan, perché lì c’è la
guerra, e molti di loro vedono morire i loro genitori e si trovano da soli,
quindi sono costretti ad andare via, non è che scelgano. La stessa cosa avviene
per molti ragazzi africani che vengono da guerre terribili e magari attraversano
il deserto cercando di raggiungere l’Europa. In Italia vengono identificati e
vengono subito portati nei Centri di pronta accoglienza, dove stanno due o tre
mesi, e poi vengono destinati o alla Città dei ragazzi o nelle Case Famiglia
fino ai 18 anni.
Andare
a insegnare alla Città dei Ragazzi devo dire che per me è stata una grande
avventura, sono diventato amico di molti di loro, è nato un rapporto profondo
che andava al di là della scuola. In particolare a due ragazzi del Marocco,
Omar e Faris, io spesso chiedevo: “Ma perché siete andati via dal Marocco,
cosa è successo, chi erano i vostri genitori?” E loro mi raccontavano che a
12 anni avevano già varcato lo stretto di Gibilterra da Tangeri fino in Spagna,
poi avevano attraversato tutta la Spagna e la Francia, e io mi chiedevo cosa
avrei fatto se fossi stato il padre di questi ragazzi.
Allora
loro ad un certo punto mi hanno un po’ sfidato, dicendomi: “Ma perché non
vieni tu da noi?”. Loro erano partiti a 12 anni e non erano mai più tornati a
casa fino a quel momento, che ne avevano 18. Io ho accettato, abbiamo preso un
aereo e siamo andati a Casablanca, e io ho potuto capire che cosa era successo,
perché ho visto la casa, il padre, la madre, la famiglia, ho fatto un viaggio a
ritroso, ho risalito il fiume per così dire, un viaggio controcorrente per
arrivare alla sorgente, perché io avevo di fronte la foce del fiume, cioè
quello che era successo, e volevo andare a vedere da dove era partito tutto. Le
risposte erano sotto i miei occhi quando sono arrivato: innanzitutto non c’era
il paese perché c’era una casa nel deserto a circa 300 km da Casablanca verso
l’interno del Marocco. Questo viaggio è stato per me straordinario perché
vedevo la condizione della vita delle persone che stavano li, è una condizione
davvero misera, non c’è l’acqua corrente e le donne vanno a prendere
l’acqua nel pozzo, non c’è la luce elettrica, si dorme per terra, insomma
una povertà molto forte.
Ho
chiesto ai miei studenti “Ma voi dove andavate a scuola?”, e loro mi
indicavano una specie di roulotte scalcinata in un promontorio secco e arido,
“quella, professore, era la nostra scuola elementare”. Il mio primo istinto
quando sono arrivato lì è stato quello di dire che anch’io al posto loro
avrei fatto la stessa scelta, avrei cercato di andare via per trovare una
condizione migliore.
Naturalmente
ho conosciuto entrambi i padri, ho conosciuto le madri, le sorelle, ho vissuto
dieci giorni con loro nel deserto e ho visto in azione quello che accadeva
dentro la testa dei miei scolari. Vedevo che loro erano lacerati, perché si
sentivano mezzi italiani e mezzi arabi, nel senso che avevano perso ormai la
loro famiglia, certo volevano bene ai loro genitori, però non si sentivano più
legati a quel luogo, si sentivano stranieri quasi più di me, al punto tale che
nemmeno volevano disfare i bagagli, per esempio lo zaino restava sempre lì
chiuso pronto ad andare via.
Insomma
per me è stata un’esperienza molto forte ed è stata anche un’esperienza
dentro me stesso, un viaggio interiore, perché io sono figlio di un bambino
abbandonato, mio padre non ha mai conosciuto suo padre e vide morire sua madre
quando lui aveva circa 12 anni, quindi era un figlio illegittimo, il nome che io
porto, Affinati, era il nome della mamma.
Quando
ero piccolo non mi rendevo conto dell’importanza di questo fatto, essere
figlio di un bambino abbandonato significa che tuo padre ti consegna una sorta
di nodo da sciogliere, forse è questa la ragione per cui io insegno a questi
orfani di oggi. È come se io volessi risarcire mio padre di quello che lui non
ebbe la fortuna di avere, lui certamente fu un padre affettuoso per me, fu un
padre importante, però non ebbe forse le parole per riuscire a raccontarmi
quello che aveva vissuto, perché lui ha vissuto una vita simile a quella che
vivono oggi i miei scolari che vengono da tutto il mondo. Quindi io ad un certo
punto è come se avessi parlato idealmente con mio padre durante il mio viaggio
in Marocco, é come se l’avessi rivisto nei miei studenti, come se attraverso
l’insegnamento io cercassi di guarire una ferita, che lui mi aveva
implicitamente consegnato, è come se avessi cercato di trovare le parole, che
lui non era riuscito a dire neppure a se stesso.
Questo
meccanismo di cercare le parole è una cosa che alla Città dei Ragazzi è molto
importante. Io vedo molti ragazzi che cominciano a raccontare la loro storia, la
raccontano prima al poliziotto che li va a prendere sotto i ponti di Roma dove
dormono per terra, poi la raccontano all’assistente sociale, allo psicologo,
all’educatore. Ad un certo punto questa storia finisce per essere una sorta di
crosta che non è più la verità, allora nel momento in cui tu insegnante
riesci a trovare un rapporto d’amicizia con questi ragazzi, loro possono
riuscire a dirti, o a scriverti nel tema, quello che non hanno mai detto neppure
a se stessi, e questo momento è un momento importantissimo.
Loro
capiscono quello che hanno fatto quando cominciano a scrivere, però lo fanno in
una lingua che non è la loro, lo fanno nella lingua italiana, non nel Moldavo,
nel Rumeno, nell’Arabo, no, lo fanno nella lingua italiana. E molti di loro
sono analfabeti nella lingua madre, quindi che cosa significa tutto questo? che
io, scrittore ed insegnante di lingua italiana, vedo che la mia lingua diventa
una lingua d’accoglienza, una lingua capace di mettere assieme i cocci
sbriciolati della vita di questi ragazzi. E in fondo è quello che è successo
anche a me, in fondo è questa la ragione della letteratura, riuscire a trovare
le parole per raccontare l’esperienza, senza parole la nostra vita forse non
avrebbe senso, senza parole l’esperienza sarebbe muta, cieca e sorda. Che
senso avrebbe la vita che noi facciamo se non riusciamo a trovare le parole e i
significati di questa esperienza?
Ed
ecco quindi le ragioni per cui in me si sono sempre intrecciate queste due
attività, l’insegnamento e la scrittura: credo che sia l’insegnante che lo
scrittore siano i responsabili della parola, la responsabilità scritta e la
responsabilità orale. Per questo non ho mai visto una contraddizione tra queste
due attività, le ho sempre svolte assieme e di pari passo, ed ogni mio libro
nasce da un’esperienza che spesso, molto spesso è legata all’insegnamento.
Elton
Kalica: Una cosa che a me ha
incuriosito è questa visione che hai del rapporto da istaurare con i ragazzi,
in gran parte stranieri, che è basata sull’essere credibili. Mi pare di
capire che avere una credibilità significa poter avere poi anche il titolo per
trasmettere dei messaggi e dei valori e comunque essere un modello in qualche
modo positivo.
Eraldo
Affinati: Chi è l’adulto credibile? Me lo
sono chiesto molte volte anch’io, chi può conquistare la fiducia di questi
ragazzi, in che modo si può essere credibili. Bisogna sempre considerare che
questi sono ragazzi che sono stati ingannati molto spesso dagli adulti. Sono
stati a volte traditi e attaccati, quindi non è facile riuscire a trovare una
credibilità, e allora come bisogna fare, chi è l’adulto credibile?
Allora
io mi sono dato una risposta ma non so se è quella giusta: secondo me
l’adulto credibile è quello che mostra al ragazzo, alla persona che ha di
fronte di aver compiuto una scelta nella sua vita. Quando uno fa una scelta
sacrifica qualcosa di se stesso, nel senso che un giovane per esempio può fare
cento strade come può diventare cento cose, l’adulto è quello che tra cento
strade possibili ne sceglie una e dice “io voglio fare questa cosa qui e
basta, non voglio fare un’altra cosa”.
Per
fare questo tu devi anche sacrificare qualcosa dentro di te, cioè devi
sacrificare non i rami secchi, quelli è ovvio, ma anche i rami fioriti, cioè
qualcosa di bello che tu potevi fare ma che rinunci a fare perché decidi di
applicare la tua energia su di una cosa. Allora questa condizione è come se tu
riuscissi a trasmetterla al ragazzo in modo implicito, senza dirlo, e lui si
fida di te, perché vede in te una persona salda, che ha compiuto questa scelta
e ha deciso di farlo perché crede in alcuni valori, e questi valori sono stati
talmente importanti da indurla a diventare una persona di un certo tipo
piuttosto che un’altra persona.
Se
invece l’adulto replica la condizione della gioventù, può a volte suscitare
l’interesse del giovane, certo può diventare affascinante anche, però a
lungo andare secondo me il giovane non si affida a lui con fiducia, perché lo
vede fragile.
Questa
risposta teorica in realtà poi è molto pratica nel momento in cui tu, quando
stai in aula, quando stai li di fronte a loro devi fare due cose insieme, devi
essere da una parte amico e dall’altra maestro. L’amico è quello che sta
spalla a spalla con il ragazzo e condivide i suoi entusiasmi, quindi magari
gioca a pallone insieme a lui, il maestro è quello che si mette davanti e
incarna il limite nei confronti del ragazzo. Questi sono ragazzi che hanno
superato tutti i limiti, nel senso che hanno avuto delle esperienze incredibili,
molti di loro mi hanno raccontato delle esperienze che a quell’età sembra
quasi impossibile che loro possano aver fatto, si sono nascosti in una betoniera
per passare le frontiere dall’Iran alla Turchia, sono stati in un carcere
turco in ottanta persone dentro una stanza come questa, si sono nascosti nella
stiva di un aereo a Lagos in Nigeria e senza la pressurizzazione sono arrivati a
Malpensa. Quindi questi ragazzi, ad un certo punto, dopo queste esperienze così
tragiche e così terribili, hanno bisogno di una persona che possa per loro
rappresentare il limite. Il limite da non valicare fuori e dentro se stessi, e
in quel momento, nel momento in cui loro accettano il limite, il limite
interiore, diventano liberi, veramente liberi.
Pietro
Pollizzi: Mi ha colpito molto la storia
del rapporto che avevi con tuo padre, che è rimasto orfano da piccolo,
anch’io da poco ho perso mio padre e anche lui aveva una storia molto simile a
quella di tuo padre. Mio padre è rimasto orfano quando aveva solo due anni,
fino a sei anni è stato allevato dai nonni, lui era bambino durante la guerra,
in una realtà durissima come la Calabria, dove vivevano in una stanzetta che
non aveva neanche il pavimento, con un maiale che tenevano dentro casa per paura
che glielo rubassero.
Poi
i suoi nonni morirono e lui venne allevato da una famiglia che in sostanza gli
dava solo da mangiare, non lo mandavano neppure a scuola, quindi crebbe senza
frequentare le scuole dell’obbligo. Il rapporto tra me e lui fu molto
conflittuale, perché io non riuscivo a capire cosa c’era dietro alla corazza
che lui aveva, e che sembrava quasi impenetrabile. Lui era emigrato in Svizzera
che per antonomasia è un Paese ricco, ma quando l’ho raggiunto ho scoperto
che non viveva così bene come credevo, stava in una specie di baracca assieme
ad altre otto persone.
Io
di questa cosa avevo vergogna, anche il rapporto che ho avuto con i miei
coetanei che erano immigrati come me, però di seconda generazione, è stato
difficilissimo, io ero completamente diverso, loro erano già integrati invece
io facevo fatica a ragionare con loro, a capirli. Quindi preferivo frequentare
gli emarginati come me, con loro ho incominciato fin da subito a commettere
reati, e a soli 17 anni ho avuto la mia prima esperienza con il carcere. Con mio
padre invece non riuscivo proprio a parlare, anche se lui cercava in tutte le
maniere di farmi capire che stavo facendo qualcosa di sbagliato. Però non me lo
diceva con le parole giuste, ovviamente la colpa era mia, perché io non
riuscivo a capire che lui non aveva gli strumenti adatti per comunicare quel
bene che provava nei miei confronti.
Eraldo
Affinati: Devo dire che vedo degli elementi nel
rapporto con tuo padre che riconosco miei, perché questo senso di
incomunicabilità anch’io da bambino lo percepivo.
Considera
che a casa mia non c’erano libri, perché anche mio padre ha fatto soltanto la
quinta elementare, così come mia madre. Tante volte ho pensato che se non ci
fosse stata la letteratura che da bambino mi appassionò subito, se non avessi
avuto questa attitudine, non so che fine avrei fatto nemmeno io, nel senso che
la mia infanzia la ricordo molto solitaria, non avevo amici, sono stato
anch’io un ragazzo difficile. Credo che il rapporto con i genitori possa a
volte essere uno scoglio insormontabile, se non riesci appunto a spiegartelo
dentro te stesso.
Gian
Luca Cappuzzo: Il racconto di Pietro mi
ha fatto venire in mente un problema che penso incontrerai spesso, ero curioso
di capire come lo gestite, come riuscite a risolverlo: l’educazione e
l’affettività di questi ragazzini abbandonati. Un bambino sviluppa
l’affettività nei primi anni di vita, quindi trovarsi a 14/18 anni
completamente sradicati da un nido famigliare, da un senso di protezione forte,
fa sviluppare delle difese che poi è difficile gestire.
Eraldo
Affinati: Questo è un punto decisivo, perché
in effetti sono tutti ragazzi fragili, hanno avuto esperienze difficili e quindi
reagiscono in modi diversi. Ci può essere la reazione di violenza e di
aggressività, ci può essere una reazione di introversione, di chiusura e di
solitudine, sono due reazioni che io vedo spesso all’opera.
Quello
che posso dire è che nella Città dei Ragazzi è molto utile il sistema di
regole, che in qualche modo determina la vita di tutta la comunità. Già questa
educazione alla democrazia vedo che può essere terapeutica in molti casi nel
momento in cui il ragazzo deve in qualche modo canalizzare la sua energia e
metterla dentro quel compito da svolgere, quella regola da rispettare.
L’importante comunque è che loro vedano che tu stai facendo sul serio.
Infatti loro ti mettono anche alla prova, nel senso che sono ragazzi che quando
tu poi entri in aula non è che stanno tutti seduti sui banchi, te li devi
conquistare giorno per giorno, ora per ora, anche esponendoti, nel senso che ti
devi mettere un po’ in gioco, allora ti chiedono “ma tu chi sei, perché sei
venuto qui?”. Questo elemento rompe quella che io chiamo la finzione
pedagogica, cioè la finzione pedagogica è quando il professore “fa finta”
di insegnare e lo studente “fa finta” di ascoltare, un elemento di tipo
teatrale che in qualche modo è inevitabile in ogni scuola, ma che alla Città
dei Ragazzi non ti puoi permettere. Devi rompere questa finzione pedagogica e
devi affermare una presenza in aula, questo è positivo per questi ragazzi
“sfregiati”, colpiti, perché si accorgono che c’è un’autenticità nel
rapporto umano.
A
18 anni nel momento in cui devono uscire dalla Città dei Ragazzi, li è il vero
problema, perché fino a che sono dentro la struttura protetta, anche se il
pomeriggio vanno all’esterno a lavorare, fanno dei corsi professionali,
comunque poi tornano e sono protetti.
Rispetto
al loro passato vedo che per parecchi la ferita c’è sempre, tante volte ho
chiesto ad alcuni miei ragazzi “ma voi come vi sentite, italiani o arabi?” e
Mohamed una volta mi disse “io mi sento arabo dentro e italiano fuori”.
Questa lacerazione spesso se la portano dietro, questo però li rende anche
persone speciali, diverse in senso positivo, perché hanno comunque delle
risorse particolari, soltanto loro possono attingere a due culture, a due
sensibilità, a due modi di essere diversi.
Questo
io l’ho visto al mio ritorno in Marocco con loro, quando vedevo che a volte si
sentivano stranieri nella loro casa, ecco che quindi capivo che questa è la
condizione di tutte le prime generazioni di immigrati, che devono sentire dentro
di sé questo conflitto. Sarebbe sbagliato credere che possano superarlo
facilmente, quindi c’è sempre, di fronte al trauma che hanno subito da
bambini, una fragilità, poi c’è chi riesce a metterla a frutto, questa
fragilità interiore, e chi invece, più debole, in qualche modo ne resta
succube.
Bruno
Turci: Mi è piaciuto molto quando nel
tuo libro hai spiegato del colloquio che hai avuto in Marocco con il papà di
uno dei ragazzi, il quale quando gli hai chiesto “ma perché l’hai lasciato
andare via?” ti ha risposto che se non avesse permesso al figlio di andarsene,
lui se ne sarebbe andato lo stesso, “con il rischio che non l’avrei più
rivisto”. Invece accordandogli questa responsabilità, trasmettendogli questa
fiducia e questo compito di crescere per conto suo, ecco che il ragazzo
sicuramente non l’ha perso. Questo mi ha colpito molto perché rivela una
capacità, una saggezza che va oltre quell’egoismo, che è tipico di tante
famiglie occidentali, quelle che vivono nel benessere, magari tenendosi i figli
in casa all’infinito e proteggendoli in una maniera esagerata. Questo perché
un uomo si misura nel mondo, non si misura in quella, per quanto adorata possa
essere, nicchia in cui è cresciuto e dove è stato sempre protetto dall’amore
della famiglia.
Eraldo
Affinati: Quando mi diede quella risposta quel
padre mi colpì tantissimo perché era un uomo che non aveva studiato, e tante
volte ho pensato che io non sarei stato capace da padre di avere questa sua
disponibilità e saggezza.
In
quel viaggio in Marocco io infatti ho avuto un buon rapporto con i padri, è
stata un’amicizia senza parole perché io non parlo l’arabo, stavamo di
fronte io e loro senza dirci niente e lì ho riscoperto la qualità del silenzio
che noi abbiamo perso. Noi parliamo sempre, invece lì c’è questa qualità
del silenzio, l’ho molto apprezzata quella dimensione spirituale.
Alì
Mel: Io non ho letto il libro, ma
capisco tante cose perché buona parte della mia vita l’ho vissuta in una
tenda, in Tunisia, e fino a 20 anni non sapevo neanche che cosa fosse uno
spazzolino da denti o un dentifricio o un giocattolo, ed oggi mi sento molto
fiero di avere vissuto in quel modo li, perché mi ha dato tantissimo quel
silenzio di cui parlavi tu.
Io
vorrei chiederti come affrontate la crisi d’identità e il conflitto che
vivono, quando arrivano in Italia, questi ragazzi, e se la scrittura, perché
vedo che tanti di loro scrivono la loro storia, se la scrittura è il mezzo che
porta alla consapevolezza di se stessi.
Eraldo
Affinati: Nella mia esperienza, la
scrittura è molto importante, anche se sono ragazzi che stanno imparando
l’italiano, quindi ancora non riescono ad esprimersi bene. Però nel mio libro
io riporto alcune lettere che loro mi hanno scritto e non le ho corrette, le ho
lasciate così come erano arrivate con tutti gli errori, ma con la potenza che
quegli errori rappresentano. Con la scrittura effettivamente loro incominciano a
rendersi conto bene di quello che hanno vissuto.
Vorrei
riuscire a farvi capire un concetto che non è facile, però ci provo un attimo.
Quando
noi pensiamo, noi pensiamo in base al sistema linguistico che abbiamo in testa.
I miei ragazzi hanno due lingue, una è passata e rischia di essere un relitto a
volte, l’altra è in costruzione ma non è ancora pronta. Allora anche il loro
pensiero, anche la loro personalità è frammentata, e quindi in costruzione,
questo da una parte è negativo e da un’altra è positivo. È negativo perché
non c’è una stabilità, però è positivo perché hai tante possibilità
espressive, allora questa condizione ti fa capire che l’educazione alla
scrittura, la scuola sono fondamentali.
Sono
fondamentali perché tu capisci tutto nel momento in cui la lingua diventa la
casa del tuo pensiero, per cui se questa lingua è dissestata, anche il tuo
pensiero è frammentato. L’indecisione è un tratto caratteristico della
fragilità di quei ragazzi, perché sono in costruzione, del resto alla loro età,
ed hanno tutti 17/18 anni, è normale che siano così, anzi io a volte mi
stupisco della loro maturità. Quindi è tutto un lavoro da fare tra alti e
bassi, però direi che l’elemento del racconto di sé è una delle tappe che
io nella mia esperienza di insegnante vedo più importanti.
Oddone
Semolin: Lei nel suo libro prima di
partire per il Marocco si fa molte domande sui genitori dei ragazzi, poi nel
momento in cui arriva si accorge dell’estremo calore con cui vengono accolti
Omar e Faris dalle famiglie. Io pensavo adesso alla nostra condizione in
carcere, io sono genitore, per cui la lontananza dai figli, anche se ovviamente
ogni tanto li vedo, comporta una profonda preoccupazione .
Ho
un figlio di 15 anni e l’altro più grande, però insomma è un’età molto
particolare, lei racconta che probabilmente questi genitori accettano quasi di
buon grado che i loro figli partano.
Ma
secondo lei loro non provano un senso, come dire? di smarrimento per il fatto di
non aver potuto stare vicini ai loro figli? Lei parla molto spesso sia di
fragilità che di radici. Io non credo che per un bambino che va via a 10/11
anni si possa parlare di radici in maniera compiuta, per cui la fragilità è
una conseguenza inevitabile. Ma questa fragilità, questa conseguenza
inevitabile non si protrae per tutta la vita? Io non credo che si possa in
qualche maniera riempire questi vuoti.
Eraldo
Affinati: Prima di fare il viaggio io mi
chiedevo “Chi saranno mai questi genitori, chi sarà questo padre, questa
madre, ma esisteranno davvero?”. Erano tante le domande che mi facevo.
Poi
li ho conosciuti, ho visto personalmente queste persone, ho visto l’affetto
che c’è stato quando a Casablanca si sono riabbracciati di fronte a me, sono
venuti a prenderci i due padri, la nonna e le due sorelline piccole, eravamo in
dieci tutti dentro una sola macchina.
Però
lì ho visto questa famiglia che si ricomponeva dopo cinque anni di assenza, lì,
guardandoli poi nei giorni successivi, ho visto che era come una ricomposizione,
però quei 4/5 anni che loro avevano perso, mentre io ero stato una sorta di
supplente di queste paternità e maternità mancate, quegli anni non glieli
ridava più nessuno.
Quei
padri e quelle madri purtroppo quegli anni non li riavranno più, e quindi
rimane questo senso lancinante di dolore, la ferita di questi bambini che vanno
via.
Filippo
Filippi: Che cosa significa che la Città
dei Ragazzi è tutta gestita dai ragazzi stessi? Chi sono le persone adulte che
stanno con loro?
Eraldo
Affinati: Ci sono degli educatori, uno psicologo
che viene due volte a settimana, per ogni ragazzo c’è un progetto di studio,
di lavoro, di inserimento, di acquisizione delle competenze linguistiche.
Naturalmente poi loro si gestiscono, nel senso che ogni giorno c’è
l’assemblea, dove fanno un bilancio della giornata, e poi ci sono delle
cariche elettive che sono quelle del Sindaco, poi il Sindaco elegge gli
assessori e quindi ogni ragazzo ha una mansione da svolgere. Per cui si
autogovernano: un ragazzo che arriva qui da un’esperienza forte ha bisogno di
capire come deve fare per gestirsi da solo, non dobbiamo essere noi a dire a lui
quello che deve fare. Deve nascere dentro di loro questo sistema di
responsabilizzazione, che però va controllato e monitorato dall’adulto,
quindi c’è un processo graduale in cui tu ad un certo punto “metti in
acqua” il ragazzo, però poi lui deve riuscire a nuotare da solo.
Davor
Kovac: Io provengo dall’ex Jugoslavia
e sono venuto in Italia all’età di 26 anni, dopo cinque anni sono tornato per
la prima volta nel mio Paese e mi sono sentito proprio come uno straniero, ecco
perché posso capire come si sentono questi ragazzi. Noi spesso qui parliamo di
questa questione che ci riguarda molto da vicino, in particolare proprio
all’interno del carcere, perché gli stranieri vengono espulsi dopo
l’espiazione della condanna, e finiscono per sentirsi stranieri sia in Italia
che nel proprio Paese.
Eraldo
Affinati: Qui ti potrei raccontare tante cose,
un giorno eravamo a Marrakech e io volevo andare a mangiare il couscous, invece
loro mi hanno detto “No professore, andiamo a mangiare in una pizzeria
italiana”. Perché loro sentivano ormai già la nostalgia dell’Italia.
Dritan
Iberisha: Volevo tornare un po’ sulla
responsabilità dei genitori, perché secondo me i genitori c’entrano poco con
l’immigrazione dei minorenni, io sto parlando per noi albanesi, io sono di
Durazzo. Prendiamo per esempio un ragazzino albanese di 12/13 anni, secondo me
è pari a uno di 18/19 anni qui in Europa, perché noi siamo cresciuti per
strada, rubando le scarpe al fratello per uscire. Quando alcuni di loro hanno
deciso di immigrare, non è che sono andati a casa e hanno detto al padre che
sarebbero venuti in Italia, no loro hanno seguito i ragazzi più grandi della
zona, i genitori non sapevano proprio niente di dove stava andando il figlio.
Secondo
me influisce più la televisione che un genitore nell’immigrazione dei
ragazzini.
Eraldo
Affinati: In Albania sicuramente è vero, lo so
anche perché me lo dicono i ragazzi albanesi, tra l’altro loro quando
arrivano già parlano italiano a differenza degli altri, perché lo imparano
davanti alla televisione, e arrivano con questo mondo inventato della
televisione in testa.
Elton
Kalica: Tu hai parlato di una lingua
ortopedica, ovvero costringersi a scrivere l’italiano, imparare l’italiano,
soprattutto quando si parla di ragazzi che magari nella propria lingua sono
analfabeti o semianalfabeti, credo che sia una forma di terapia per crescere.
Anche qui in carcere se qualcuno riesce a riscoprire l’interesse per la
scuola, o appassionarsi alla letteratura, vive in modo diverso la galera,
rispetto a chi sta in branda ad aspettare che passi il tempo.
Eraldo
Affinati: La cosa importante è la lettura prima
ancora della scrittura, io cerco di cominciare a far leggere a questi ragazzi
dei testi facili, alcune poesie semplici ad esempio, alcuni racconti. È
importante riuscire ad appassionarli alla letteratura intesa come storia umana,
come esperienza di storie vere e concrete, riuscire a trovare una passione
dentro di loro e fare in modo che scatti un interesse non scolastico, non
semplicemente per il dovere di conseguire un titolo di studio, che questi
ragazzi si possano sentire veramente toccati in modo profondo. Ecco, se
l’insegnante è capace di trasmettere questa passione per la letteratura, per
la lettura in modo personale e dando ad ognuno il libro giusto per lui, non un
libro che valga per tutti, solo quello che tu ritieni che possa funzionare per
quella personalità lì piuttosto che per un’altra, a quel punto dalla lettura
scatta l’elemento dell’espressione, riuscire ad esprimere se stessi. Un
conto è l’azione della vita, e un conto è l’espressione, che è la
condizione dello scrittore. Lo scrittore è un uomo espressivo che cerca di dare
un segno della sua presenza nel mondo attraverso la scrittura, ecco questo
elemento può diventare ortopedico, è come se tu ti fossi spaccato una gamba e
con il gesso la rimettessi assieme, così la scrittura può diventare ortopedica
perché dentro di te hai avuto una ferita, hai avuto un trauma, e puoi rimettere
insieme i pezzi attraverso una scrittura che dà il senso anche di quello che tu
hai fatto, gli dà un valore, perché anche il dolore può avere un valore.
Ornella
Favero: Tu hai detto che la letteratura
per te ha avuto un ruolo importante e in un certo senso ti ha salvato la vita,
ci spieghi come?
Eraldo
Affinati: Io, avendo avuto un’infanzia
difficile, appunto per questo rapporto conflittuale o comunque “di mancate
parole” con i miei genitori, perché anche mia madre ha una storia difficile
che ho raccontato in un altro libro, “Campo del Sangue”, io sono nato con
gli scrittori, e leggendo questi scrittori che cominciavo a scoprire da solo,
leggendo e scoprendo Hemingway, Parise, Fenoglio, Tolstoj, Dostoevskij, è come
se trovassi in quei libri, in quegli scrittori, in quelle storie quello che non
riuscivo a trovare nella vita.
Quindi
la letteratura è stata anche per me terapeutica e formativa, perché mi faceva
entrare in mondi che io veramente non avrei mai potuto sospettare che
esistessero e quindi mi identificavo di volta in volta in questo o in quel
personaggio, mi innamoravo, viaggiavo con la mente. La letteratura per me è
stata veramente una sorta di schermo ideale sul quale io proiettavo tutte le mie
ansie, tutte le mie difficoltà, poi certo avevo anche un’attitudine
espressiva che negli anni ho capito e che mi ha portato a praticare la
letteratura.
Gian
Luca Cappuzzo: Ascoltando le risposte
che hai dato qui, mi viene da pensare come questo non dovrebbe essere solamente
un metodo di frontiera o di trincea, ma dovrebbe essere un metodo applicato
all’insegnamento in generale con i ragazzi. Questo perché ciò che tu hai
definito finzione pedagogica, in realtà è un po’ quello che succede
continuamente nelle nostre scuole, questa finzione pedagogica la vedo proprio
come qualcosa che è un male della scuola d’oggi.
Eraldo
Affinati: La penso esattamente così, al punto
tale che io vado nelle scuole e quindi molti di questi miei ragazzi me li porto
in qualche occasione a fare degli incontri, li ho portati in diversi licei
romani e li ho fatti raccontare la loro esperienza ai loro coetanei italiani. È
stato straordinario perché tu vedevi che loro per la prima volta si sentivano
legittimati a parlare e felici di essere accettati, non il timbro della questura
sul foglio di soggiorno, ma un’accettazione vera e profonda che vedevano negli
occhi dei ragazzi che li ascoltavano. E i ragazzi italiani viceversa sentivano
anche il privilegio che avevano nel momento in cui ascoltavano queste storie.
Ma
io insegno italiano agli stranieri anche in un’altra struttura che sto creando
a Roma, una specie di scuola di italiano per stranieri, allora ho portato anche
alcune studentesse di uno dei licei più importanti di Roma ad insegnare il
verbo essere ed avere ai loro coetanei provenienti dall’Africa o dall’Asia.
Per me è stato uno spettacolo straordinario vedere Elisa o Maria che stavano
insieme a Silvester o Alì, avevano la stessa età e loro erano studentesse
italiane che insegnavano la lingua italiana in modo volontario a questi loro
coetanei meno fortunati.
Lì
ho capito che la finzione pedagogica è distruttiva, perché queste stesse
ragazze che sono venute da me in quella scuola di volontariato, magari quando
stanno in aula hanno un rapporto tutto più istituzionale, più togato, meno
libero, meno creativo, meno vitalistico di quello che hanno dimostrato con me lì.
Quindi penso che se io tornerò in una scuola tradizionale, in una scuola
“normale”, cercherò di portare anche questa esperienza, ma so che sarà più
difficile, perché c’è tutto quel meccanismo della valutazione: vi faccio un
esempio, se un ragazzo mio ad un certo punto è indisciplinato e quindi non
riesce a stare in aula, a quel punto io non è che posso mettere una nota, perché
lui già sta “all’ultima spiaggia”, quindi io devo riuscire per forza a
coinvolgerlo a livello umano, non ho l’arma del voto, della nota o della
sospensione, devo per forza mettermelo davanti a mani nude, e questo è positivo
perché sviluppa dentro di me docente delle potenzialità che altrimenti io,
affidandomi alla valutazione del voto, non troverei, perché io lo sospenderei e
basta.
Sara
M. (studentessa): Mi ha colpito
che ai ragazzi che disturbano in classe o che rendono difficile la lezione, lei
non dà note e comunque non li penalizza con i voti, ma cerca di interagire a
livello umano. Come fa? Perché a dirlo sembra facile, ma nelle piccole cose in
pratica deve essere difficilissimo.
Eraldo
Affinati: Nel libro io racconto per esempio
quando due incominciarono a picchiarsi, un afgano e un arabo. A dividerli mi
aiutò Mohamed, che poi è diventato mediatore culturale, e che allora mi disse:
“Se tu vedi fare questo a tuo padre, se tu fin da piccolo sei vissuto con
l’esempio della faida, della vendetta, della lotta, dell’occhio per occhio
dente per dente, è chiaro che poi assorbi quella condizione e la ripeti”. Così
alla fine quello scontro ha avuto davvero un valore educativo.
Oppure
racconto la storia di Emanuele, un ragazzo italiano che fumava in classe, dava
fastidio, tante volte i professori cercavano di frenarlo, ma non ci riuscivano.
Un giorno l’ho rincorso al bagno e l’ho affrontato in un modo non più da
professore ad allievo, in quell’attimo ho visto che era scattato un momento di
verità tra me e lui e dopo mi ha raccontato tutta la sua storia, una storia
terribile di un padre morto in un incidente, lui che è rimasto da solo… Ho
capito allora che quella tensione che lui mostrava in aula, quell’arroganza,
quella violenza non erano altro che delle reazioni ad un ostacolo che non era
riuscito a superare.
Quindi
io, nella mia esperienza di insegnante, vedo che anche il peggiore dei miei
studenti fa sempre un passo in avanti rispetto alla situazione da cui proviene.
Bisogna riuscire a trovare in ognuno qual è la storia che c’è dietro, allora
ti accorgi che se ti metti a tu per tu da solo con lui, riesci a trovarlo,
questo sentiero da percorrere insieme, a quel punto lui cambia totalmente, perché
si accorge che tu lo hai visto per quello che veramente è.
Ornella
Favero: Tu hai un’idea della
scrittura molto vincolata all’esperienza. Mi pare di averti sentito dire che
la scrittura è stata per te il termometro della tua vita, ci puoi raccontare la
tua idea di scrittura e di letteratura?
Eraldo
Affinati: Io sono uno “scrittore
autobiografico” che parte sempre da un’esperienza, per cui ogni mio libro è
legato ad una mia esperienza di vita. “Campo del sangue” è la storia di mia
madre. Mio nonno materno durante la seconda guerra mondiale fu fucilato dai
nazisti perché era un partigiano, mia madre fu arrestata e posta su un treno
che l’avrebbe probabilmente deportata in Germania, ma riuscì a scappare alla
stazione di Udine il 2 Agosto del ‘44 ed io ho rifatto il viaggio che lei
avrebbe dovuto fare se non fosse riuscita a fuggire, da Venezia ad Auschwitz,
nel campo di concentramento. “Campo del sangue” è in qualche modo il diario
di quel mio viaggio nella Shoa. Ogni mio libro nasce da un percorso che ho
fatto, perché non riuscirei mai ad inventare una storia a tavolino, non
riuscirei mai ad inventare dal niente, devo sempre partire da un’esperienza,
però poi questa esperienza è trasfigurata dalla scrittura, l’elemento della
scrittura è molto importante. È come fare un viaggio e poi l’ultima stazione
è la scrittura, e li è il momento in cui io capisco, o a volte smentisco,
quello che ho fatto. Quindi è una sorta di momento di conoscenza finale,
decisivo. Nel momento in cui uno scrive la sua storia, c’è una
formalizzazione inevitabile che è positiva, perché la scrittura ti illumina
degli angoli bui, c’è una concentrazione nella scrittura, c’è
un’intensità, e una conoscenza, che nell’oralità non emergono.
Qui
però con la vostra rivista devo dire che avete proprio uno strumento per fare
questo, una palestra perfetta per fare un lavoro come quello di cui stiamo
adesso parlando. Questo è il luogo dove si possono raccogliere le storie, e mi
sembra che questo sia il vero percorso importante da fare.
Elton
Kalica: Io volevo capire che cosa
rappresenta per lei il viaggio, perché mi pare che sia il filo conduttore di
ognuno dei suoi.
Eraldo
Affinati: Io viaggio non per perdermi, per
smarrirmi, ma per trovare le ragioni del ritorno.
Mi
spiego meglio: io viaggio per scoprire quali sono le mie radici, perché in
fondo sono andato ad Auschwitz seguendo la storia di mio nonno e di mia madre e
sono andato in Marocco seguendo la storia di mio padre. Il viaggio mi porta
anche a riflettere sul tema del limite della libertà, e questa idea me l’ha
data Dietrich Bonhoeffer, su cui ho scritto un libro intitolato “Un
teologo contro Hitler”. Bonhoeffer è stato un grande teologo che fu
fatto impiccare da Hitler poco prima della fine della seconda guerra mondiale.
Leggendo
le sue opere mi ha colpito il riferimento che lui ha fatto proprio a questo
concetto, che tutta la cultura del ‘900 ci ha spinto a superare i limiti,
tutti i filosofi e gli scrittori del ‘900 ci hanno spiegato che la vera libertà
è andare oltre. Invece Bonhoeffer era contro questa idea e ci ha detto che la
vera libertà è proprio l’accettazione del limite. Io divento libero quando
scelgo una cosa piuttosto che un’altra, quando delimito il mio campo
d’azione e non quando lo estendo. Se io lo estendo mi perdo, se invece lo
concentro e trovo un obiettivo da realizzare divento veramente libero. Non
illudiamoci, diceva Bonhoeffer, che la libertà possa essere andare chissà
dove, dobbiamo credere che la libertà possa essere ritrovare qualcosa di noi
stessi che forse non conoscevamo. Questa per me è stata una intuizione
formidabile, perché mi ha fatto rileggere la cultura novecentesca in modo
assolutamente diverso da come avevo fatto prima. Mi ha fatto capire che non
dobbiamo illuderci di essere qualcosa di diverso da quello che siamo, ma
dobbiamo imparare ad accettare la nostra personalità, il nostro carattere,
certo calibrandoli a seconda delle occasioni della nostra vita.
Ornella
Favero: Tu hai detto che la vera libertà
è l’accettazione del limite, ma come glielo insegni ai ragazzi un concetto
così complesso?
Eraldo
Affinati: Non è una cosa che si può dire così
a livello teorico, però fare bene il proprio lavoro è già un passo
importante. Se loro vedono che non sei in ritardo quando entri in aula, che ci
stai mettendo molto di te stesso nel lavoro che fai, che ci stai mettendo
passione, loro apprezzano il fatto che tu hai trovato il tuo limite come
insegnante e quindi il modello che tu offri è di uno che si è concentrato in
un obiettivo da conseguire. Questo vale più di mille parole. In questo
caso parlo di limite perché io in teoria potrei fare altre cose, oltre a stare
lì potrei diventare altre persone. Questa condizione di estrema potenzialità
può paralizzare, può diventare una zavorra invece che facilitare la scelte. Se
questa condizione si protrae rischia di diventare un ostacolo, nel momento in
cui invece tu scegli di fare una cosa piuttosto che tenere in piedi mille
possibilità, una scelta che può essere anche una forma di “amputazione
spirituale”, tu hai tagliato qualcosa dentro di te, a quel punto tu ti metti
in una dimensione di limite, in qualche modo ti dai una dimensione, circoscrivi,
però ottieni tanto facendo così, perché tutta la tua energia la metti
solo su quel punto lì senza disperderla.
La
Città dei ragazzi è nata dopo
la seconda guerra mondiale, se l’è inventata un sacerdote irlandese, Carroll
Abbing, il quale voleva raccogliere ragazzi italiani rimasti senza i genitori
dopo la guerra. Oggi i ragazzi sono per lo più stranieri, hanno dai 14 ai 18
anni. Vengono dall’Afganistan, dal Maghreb, dal mondo slavo, da Paesi da cui
scappano soprattutto perché vogliono sopravvivere alle guerre che hanno visto
coi loro occhi, alla povertà e alla miseria che hanno vissuto. Raggiungono
l’Italia da soli, abbandonati, senza famiglia, vengono collocati dalla Caritas
o dalla Polizia in apposite strutture di accoglienza come la Città dei ragazzi,
che però è una città nella città, perché in essa esiste un sindaco, degli
assessori alla sanità e all’igiene e perfino una moneta locale, lo scudo, con
cui i ragazzi comprano le merendine al Bazar. L’idea di Carroll Abbing era
quella di responsabilizzare i ragazzi, e ancora oggi questo messaggio pedagogico
è giusto perché in fondo sono tutti ragazzi che vivono lì, che non hanno più
bisogno di una famiglia ma vogliono diventare adulti e per questo devono
imparare l’italiano, studiare e trovare un lavoro, perché questo è il loro
obiettivo.
Come
si arriva a commettere reati da ragazzini
I
giovani e le cose “che sarebbe meglio non fare”
Una
vita vissuta con la “cultura” dello stravolgersi, spesso fino a non capire
più nulla, del continuo concentrarsi sul bisogno di nuove esperienze non
importa come e a che prezzi
di Filippo Filippi
Le
persone che si occupano appassionatamente ed in modo approfondito di giovani e
devianza minorile è necessario comprendano che quella che segue è stata la mia
esperienza, nella quale io cerco di individuare tratti in comune con quella dei
ragazzi di oggi. Chiaramente lo scenario, sotto alcuni aspetti, è modificato in
modo sostanziale, inoltre oggi vi è più informazione, ma solo per chi ha la
paziente attenzione di sfuggire a certi “bombardamenti mediatici”. Perché
sono in tanti oggi (fra chi fa informazione, televisione, intrattenimento) a non
tenere veramente conto che le generazioni future saranno… il domani, e a
preoccuparsi quasi esclusivamente di riuscire a vendere e indirizzare i gusti e
le opinioni, studiando in modo approfondito per riuscire ad ammaliare ragazzini
e grandi. E privilegiando la cultura dell’apparire piuttosto che quella molto
più “costosa”(in termini di sacrificio), dell’essere ciò che si è,
accettandosi e cercando magari di migliorarsi in modo graduale e rispettoso dei
propri ritmi naturali. Mi ricordo, per fare un piccolo esempio, che a dodici o
tredici anni, ero grassottello e questo mi pesava molto, ma principalmente mi
sentivo inadeguato, non in “accordo” con le altre persone.
Raccontare
per me dei reati commessi da ragazzino e di come ci sono arrivato, attraverso
quali “passaggi”, e di come indirettamente ne sto ancora pagando lo scotto,
è un disastro emotivo ed affettivo, che rivivo ogni volta che lo rievoco. Ma ciò
che è stato non torna più, ed anche se è difficile rimettere assieme i cocci
scriverò faticosamente qualcosa, alla faccia dell’autobiografia
”indolore”!.
Mi
verrebbe da dire: quanto stolto, sciocco, testardo, ribelle e soprattutto
ignorante ero (con il senno del poi) e sono a tutt’oggi, ma se questo rivedere
il passato può essere utile, proverò a farlo, con semplicità e schiettezza.
Raccontare
dei reati commessi quando ero adolescente implica parlare di un legame quasi
indissolubile, per me (qualche volta sembra che lo sia solo per me, spesso tanti
miei compagni non ne appaiono consapevoli o non lo vogliono riconoscere), con la
subcultura dello stravolgersi con l’alcool e le droghe inizialmente
cosiddette” leggere”, ma più generalmente sulla cultura dello stravolgersi,
spesso fino a non capire più nulla, del continuo concentrarsi sul bisogno di
nuove esperienze non importa come e a che prezzi. Del non accettarsi per quel
che si è tendendo ad un miglioramento con equilibrio, per ritrovarsi piuttosto
con un’insopprimibile necessità di sballo. Quindi spostando sempre di più il
limite, salvo poi ritrovarsi in galera per cose che un ragazzo mai si sarebbe
sognato di fare solo qualche tempo prima, da lucido. Sballo iniziale ed euforico
che poi presenterà il suo conto, conto salatissimo e che si dovrà solo pagare!
Questa
subcultura dell’uso di qualcosa che favorisse la socializzazione con i miei
coetanei con problemi analoghi più o meno accentuati da quattordicenne, mi ha
dato una impronta che ha caratterizzato il resto della mia vita, spesa davvero
male.
Comunque,
la prima volta che sono finito in questura e denunciato a piede libero per
rissa, più o meno a sedici anni), io e la mia compagnia frequentavamo un grande
giardino di una zona ”bene” di Verona ed avemmo uno scontro con altri
ragazzi che in quel quartiere vivevano. Io mi ritrovai in questura sanguinante,
con un buco in testa.
Poi
venni arrestato a 17 anni con altri tre coetanei (due minori e due appena
divenuti maggiorenni), per una lunga serie di scippi e motorini rubati. Eravamo
tutti tossici, cioè già molto dentro il vortice della droga ma anche di un
potente psicofarmaco che all’epoca era ancora prodotto. Noi due minori venimmo
tenuti in attesa del processo, isolati nel carcere dei maggiorenni, poi dopo il
processo io solo venni trasferito nel carcere minorile di Treviso, ed il mio
coimputato minore venne scarcerato.
Del
carcere di Treviso ho ricordi molto sfocati perché, anche se ero detenuto,
pensavo solo a fuori e alla droga che mi mancava fortemente. Ricordo però
agenti in borghese che non avevano nulla a che fare con gli sgherri che mi
avevano arrestato, ricordo un clima tutto sommato ”famigliare”, ma che
allora non sortiva su di me nessun effetto. Rammento inoltre il mio stupore
quando il mio compagno di cella mi disse che era in carcere perché aveva ucciso
a martellate suo padre con la complicità di sua madre.
Io
non stavo bene con me stesso
Non
ho ricordi di prepotenze subite, forse perché allora ero più inselvatichito e
rabbioso di oggi, la gente mi girava alla larga se voleva attaccar briga. Poi,
dopo tre o quattro mesi, uscii con l’ordine del giudice di frequentare una
comunità diurna, cosa che feci per una settimana, forse due, dopodiché smisi
di andarci e tornai con la compagnia dove girava di tutto ma principalmente
hashish, e per un periodo scappai di casa.
Come
al solito è complicato stabilire una verità giuridica e raccontare invece, dal
mio punto di vista, ciò che avvenne ma soprattutto perché avvenne. Tutto
andrebbe sempre inserito nel contesto di tempo e luogo dove si crearono i
presupposti delle mie scelte, di cui comunque sono io principalmente il
responsabile, per capire perché io abbia preso quella piega a testa bassa. Dopo
anni di girovagare tra carcere, comunità e vita improntata alla trasgressione,
mi sono comunque convinto che non esiste una spiegazione semplice, tutto era per
me così mescolato, confuso, valori rovesciati e la logica, la razionalità, i
sentimenti, anche solo ciò che sarebbe stato meglio per me, erano allora
completamente ininfluenti. Nessuno aveva un ascendente su di me, infatti non
ascoltavo nessuno che non mi parlasse con la lingua del cuore, ed anche lo
stesso, ciò che mi veniva detto entrava da un orecchio per uscire
istantaneamente dall’altro. Il dialogo, il confronto era zero, non si parlava
mai tra compagni di cose che ci avrebbero potuto toccare veramente dentro e che
forse erano quelle che ci creavano tutto quel malessere e la conseguente
ribellione.
Io
non stavo bene con me stesso, quindi stavo molto male dentro e con gli altri e
l’esperienza del carcere minorile praticamente non aveva neanche scalfito
questa corazza di malessere, per me la detenzione era vissuta come una vendetta
della gente perché avevo rubato e mi ero fatto beccare, ed allo stesso tempo ciò
per cui rubavo o commettevo reati, la droga, era per me di insostituibile
necessità!
Invece,
la mia famiglia quella sì, venne colpita come da un fulmine a ciel sereno,
quando si ritrovò il figlio/fratello in carcere per giunta quasi bambino e già
drogato, con i parenti e i conoscenti che fecero il vuoto intorno.
Ecco
io andavo semplicemente CONTRO e sotto l’effetto delle sostanze stupefacenti
la cosa era ancora più semplice. Anche i successivi arresti furono attutiti,
attenuati dall’uso delle sostanze, almeno fino a qualche anno fa. Non mi
sentivo mai a mio agio con i miei marosi adolescenziali e i passaggi di crescita
mai affrontati. Contro tutte le cose fatte per benino, io e la compagnia che
frequentavo ci creavamo spazi “virtuali” e drogati che potessero far sentire
anche noi, così diversi, vivi, protagonisti di noi stessi.
Dal
canto mio io ero il cucciolo del gruppo, forse quello che stava più male
dentro, ed è chiaro che in quel gruppo si trafficava di tutto e di più, le
cose che sarebbe stato meglio non fare erano divenute cose che bisognava
assolutamente fare.
Per
me poi, era una realtà completamente sconosciuta, la società, le persone erano
dei rompiscatole che passavano dai giardini e vedendoci in cerchio ci guardavano
passarci il cylum o il bottiglione di vino, incuriositi ma anche preoccupati
della nostra precoce età. Dal mio punto di vista di allora gli altri, le
persone “normali” non facevano altro che sgobbare dalla mattina alla sera o
studiare, tutte prospettive che non mi piacevano.
Ripensando
ai passaggi che mi hanno portato più volte in carcere, c’era comunque una
vita “stravolta”, e spesso nessuna consapevolezza della portata di ciò che
sempre più andava delineandosi come una vita da “vuoto a perdere”, e che mi
ha portato a ciò che definirei la guerra dei trent’anni principalmente con me
stesso, e contro di me, che mi sembra non avere mai fine.